"Il Governo ha due doveri, quello di mantenere l'ordine pubblico a qualunque costo ed in qualunque occasione, e quello di garantire nel modo il piu' assoluto la liberta' di lavoro."
Il Municipio di Cavour
"Le leggi devono tener conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un paese. Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all'abito."
Tomba della Famiglia Giolitti
"Nessuno si puo' illudere di potere impedire che le classi popolari conquistino la loro parte di influenza economica e di influenza politica. Gli amici delle istituzioni hanno un dovere soprattutto, quello di persuadere queste classi, e di persuaderle con i fatti, che dalle istituzioni attuali esse possono sperare assai piu' che dai sogni dell'avvenire."
Il busto di Giolitti
"Agli uomini politici che passano dalla critica all'azione, assumendo le responsabilita' del governo, si muove spesso l'accusa di mutare le loro idee; ma in verita' cio' che accade, non e' che essi le mutino, ma le limitano adattandole alla realta' e alle possibilità dell'azione nelle condizioni in cui si deve svolgere necessariamente."
Cavour, la rocca e le Alpi
"Agli uomini politici che passano dalla critica all'azione, assumendo le responsabilita' del governo, si muove spesso l'accusa di mutare le loro idee; ma in verita' cio' che accade, non e' che essi le mutino, ma le limitano adattandole alla realta' e alle possibilità dell'azione nelle condizioni in cui si deve svolgere necessariamente."
Proposte
In questa sezione segnaliamo editoriali, articoli, note, recensioni e saggi brevi di interesse.
162 ANNI DI CAPI DELLO STATO NELL'OPERA DI TITO LUCREZIO RIZZO
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 19 marzo023 pagg. 1 e 6.
DidascaliaSommo Sacerdote Il Capo dello Stato? Solitudine e immersione nel corpo vivo della cittadinanza. Ne abbiamo in memoria visioni icastiche. Il presidente Sergio Mattarella fermo dinnanzi alle bare dei migranti a Cutro o abbracciato dalla folla nelle centinaia di visite alle città d’Italia. Il Presidente che sale la gradinata dell'Altare della Patria cammina sulle orme di Vittorio Emanuele III che il 2 novembre 1921 seguì a piedi la salma del Soldato Ignoto dalla Stazione Termini alla Basilica di Santa Maria degli Angeli. Il Capo dello Stato è Sommo Sacerdote del rito nel quale quotidianamente si riconoscono moltitudini di cittadini che vedono, ricordano e sentono la Patria come “religione”: legame che è entusiasmo e cordiglio. All'insediamento egli giura, come facevano i Re, presenti la Casa e il Parlamento. Fedeltà allo Statuto albertino un tempo. Alla Costituzione repubblicana poi. La complessità e, al tempo stesso, la genuina “semplicità” del Presidente della Repubblica sono illustrate da Tito Lucrezio Rizzo in “Il Capo dello Stato dalla monarchia alla repubblica, 1848-1922” (Herald Editore). Opus magnum, il volume è punto di arrivo di ventennale elaborazione che unisce dottrina giuridica, chiarezza espositiva in lingua italiana purissima (pregio ormai raro) e cognizione personale conseguita nei decenni di servizio al Quirinale che lo hanno veduto infine Consigliere Caposervizio per la Sicurezza della Presidenza della Repubblica. L'opera inanella i profili dei presidenti (una tantum merita ricordarli nella loro sequenza: Enrico De Nicola, Luigi Einaudi, Giovanni Gronchi, Antonio Segni, Giuseppe Saragat, Giovanni Leone, Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella) non attraverso aneddoti da rotocalco ma individuando il filo conduttore che ne ha ispirato e retto l'azione di magistrati supremi dello Stato. Risalire la china Un obiettivo, questo, tutt’altro che agevole da conseguire all'indomani della seconda guerra mondiale, della lacerazione del Paese in regimi contrapposti per alleanze diplomatico-militari e ideologiche e del referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946. I voti a favore della monarchia non furono molto inferiori a quelli favorevoli al cambio istituzionale: circa 10.700.000 contro 12.700.000, con un milione e mezzo di schede bianche e un altro milione e mezzo di cittadini esclusi dal voto: Venezia Giulia e Istria, Bolzano, i militari ancora prigionieri di guerra, quelli privati del diritto di voto politico per motivi politici o non raggiunti dagli uffici elettorali operanti in condizioni oggettive oggi inimmaginabili. Toccò dunque proprio ai primi Presidenti riannodare i fili dell'Unità. Un compito improbo. Non tutti scommettevano fosse possibile in un mondo dal febbraio 1946 avviato alla “guerra fredda”. Eppure ce la fecero. Dal 1869, regnante Vittorio Emanuele II di Savoia (1820-1878), l'Italia ebbe il principe di Napoli (poi Vittorio Emanuele III), che poi conferì al figlio Umberto (1904-1983) il titolo di principe di Piemonte. La Repubblica esordì con il napoletano Enrico De Nicola, già presidente della Camera dei deputati all'ascesa di Benito Mussolini a capo del governo, e con il piemontese Luigi Einaudi, già ministro e governatore della Banca d'Italia. Sud e Nord. Liberali, monarchici e senatori del regno, entrambi si spesero per assicurare la continuità dello Stato a prosecuzione dell'opera svolta dai Re d'Italia dall'origine sino al tempestoso dopoguerra. Come bene spiega il prof. Rizzo, si valsero di Uffici che, malgrado la povertà dei tempi, mostrarono fedeltà alla missione e orgoglio di servire la Patria nei suoi “corpi” (diplomazia, forze armate, magistratura, amministrazione pubblica statale e locale...) per la ricostruzione del Paese. Il “miracolo italiano” degli anni seguenti non cadde dal cielo. Fu opera quotidiana di una dirigenza niente affatto improvvisata e di italiani, molti dei quali migrarono verso regioni più organizzate o cercarono all'estero, sino nell'America meridionale, il lavoro che in Italia ancora non c'era. Cultura e Uffici Tra i perni della vita pubblica, come argomenta l'Autore, vi fu l'attenzione dedicata dai Presidenti a istruzione e ricerca scientifica. Nel 1946 l'Italia contava ancora una massa impressionante di analfabeti. L'esercizio del diritto di voto come libera scelta e partecipazione civile comportava cognizione personale. Di lì l'appello martellante dei capi dello Stato a promuovere l'istruzione primaria, protrarre l'obbligo scolastico effettivo (conquista assai tardiva), espandere la secondaria superiore e le Università nella fiducia (non sempre assecondata nei fatti) di conciliare la moltiplicazione degli Atenei con qualità e indipendenza della docenza da condizionamenti partitici e clientelari. Ai profili dei Presidenti effettivi il prof. Rizzo accompagna l’illustrazione di due figure di pregio: Cesare Merzagora, “supplente” nella lunga malattia di Antonio Segni, colpito da ictus cerebrale in circostanze politicamente drammatiche, e il Segretario generale della presidenza della Repubblica Gaetano Gifuni, che ebbe il merito di propiziare l'opera dei capi dello Stato e bene rappresenta la falange di quanti, nel corso dei decenni, si sono riconosciuti nel “servizio”. All'origine, argomenta Tito Lucrezio Rizzo con un denso capitolo di storia istituzionale, vi fu la transizione dalla monarchia al nuovo ordinamento avviata da Luigi Einaudi con Ferdinando Carbone e, ancor più, con Nicola Picella, che (egli annota) “si avvalse prevalentemente del personale proveniente dal disciolto Ministero della Real Casa, il che consentì di non disperdere preziose esperienze professionali, acquisite da quanti conoscevano assai bene il funzionamento della struttura operante nell'ambito della Dotazione”. Alle spalle vi erano gli anni del “primato della legge morale nell'incertezza di quella civile, dal crepuscolo della Monarchia all'alba della Repubblica”, da decenni anni al centro della sua meditazione giuridica, storiografica e filosofica. Al magistero, impartito anche da cattedre della “Sapienza” e di “Tor Vergata” di Roma, e allo studio dei Capi dello Stato Tito Rizzo ha accompagnato l'analisi della legislazione sociale della Nuova Italia, il volume su “Le Ragioni del diritto” (tradotto anche in cinese) e i due robusti saggi sull'etica nelle istituzioni più amate dagli italiani e “Alle fonti dell'etica. Religioni, diritto, politica, scienza, economia” (Herald Editore, 2022). Nei suoi lavori la profondità del pensiero si accompagna al nitore dell'esposizione, scevra dalla retorica, alimentata dal profondo “credo” nei valori fondanti della libertà e della fratellanza umana. Non sono parole al vento, formulette d'occasione, ma cespite della “speranza”: una virtù teologale senza la quale si precipiterebbe nel cinismo e nella disgregazione della società. Vi si avverte l'alta lezione del suo Maestro, Giovanni Cassandro, tra le voci più schiette del liberalismo italiano.DidascaliaUmberto II: continuità dello Stato in un'Italia che è anche “il Mondo” Per congiunzione astrale, dopo precedenti apprezzate edizione e quasi quattrocento articoli pubblicati in riviste prestigiose quali “Nuova Antologia” e “Libro Aperto”, il volume di Tito Lucrezio Rizzo ha assunto la veste definitiva nel quarantennale della morte di Umberto II di Savoia, quarto Re d'Italia. In tono sommesso esso costituisce omaggio alla memoria di un sovrano che si trovò sulle spalle il “brut fardèl” della Corona in una condizione tragica. Tenuto all'oscuro delle complesse trattative condotte dal governo italiano per ottenere che gli anglo-americani concedessero la “resa senza condizioni” sottoscritta a Cassibile il 3 settembre 1943, la mattina del 9 il principe ereditario lasciò Roma alla volta di Pescara con il Re, la Regina, il capo del governo Pietro Badoglio e i vertici militari per mettere al sicuro lo Stato. Combattuto dal dubbio sull'opportunità di rientrare subito nella Capitale, si attenne al dovere che gli veniva dal rango dinastico e militare: “Obbedisco”, come il Garibaldi narrato da Aldo G. Ricci. Conobbe la diffidenza dei vincitori e con condotta specchiata ne guadagnò la stima anche per il valore militare “sul campo” che gli meritò due prestigiose onorificenze. Da Luogotenente del Regno, con esercizio di tutti i poteri dal 5 giugno 1944 al 9 maggio 1946, e poi da Re fu apprezzato da statisti quali il premier britannico Winston Churchill e fugò le riserve di Benedetto Croce nei confronti della Casa. All'abdicazione e alla partenza dei geniori per l'Egitto, una decisione assunta all'interno della Famiglia, con un faticoso periplo da un capo all'altro d'Italia Umberto II non perorò la causa della Dinastia ma mostrò il volto della Ricostruzione possibile, da fondare sulla pacificazione delle coscienze. Perciò promise un referendum confermativo della nuova carta costituzionale in caso di vittoria della monarchia nel plebiscito del 2-3 giugno 1946. All'indebita assunzione delle funzioni di capo dello Stato da parte di Alcide De Gasperi alle 0.30 del 13 giugno, per scongiurare la contrapposizione tra due sovrani di uno stesso Stato, Umberto II si offrì alla Storia. Lasciò l'Italia da Re deplorando il “gesto rivoluzionario”, un vulnus lacerante che egli concorse a sanare nei trentasette anni d'esilio raccomandando a tutti, a cominciare dai monarchici, “Italia innanzi tutto”. Partendone, sapeva di lasciare alla Patria uomini di specchiato talento che, liberi dal giuramento prestatogli, avrebbero servito lo Stato d'Italia. Con altrettanta forza evocativa il volume di Tito Lucrezio Rizzo fa intendere al lettore sagace quanto è indispensabile per comprendere la complessità della storia d'Italia dalla sua nascita a oggi e agli anni a venire. A differenza degli altri Stati d'Europa (e non essi soli), la sua capitale racchiude al proprio interno uno Stato sovrano, la Città del Vaticano, che siede in tutte le Organizzazioni internazionali, a cominciare dall'ONU. La Chiesa cattolica apostolica romana è retta dal successore dell'Apostolo Pietro, martirizzato in Roma come ricordano le catene venerate in San Pietro in Vincoli. Il pontefice è però anche vescovo di Roma. Universalità e radicale identità con la Città Eterna costituiscono un unicum irripetibile. Sempre per congiunzione astrale la pubblicazione del volume di Rizzo ci ricorda l'imminenza del Giubileo, pegno di dialogo non solo tra le religioni abramitiche ma tra “tutti gli uomini di buona volontà”, sollecitati dalla meditazione sulla storia a “deporre i calzari”, a lasciare alle spalle quanto divide e a valorizzare quotidianamente e senza riserve quanto può unire. Nelle pagine di Tito Rizzo la riflessione sul Capo di uno Stato diviene dunque speculum della necessità delle Istituzioni, fondamento irrinunciabile della libertà dei cittadini.
Aldo A. Mola
Didascalia: 1- La copertina del Opera di Tito Lucrezio Rizzo, Il Capo dello Stato dalla monarchia alla Repubblica (1848-2022), Roma, Herald Editore. I proventi derivanti dalla vendita del libro sono devoluti al progetto di educazione alla legalità denominato “Carcere. Se lo conosci lo eviti”, ideato dalla cooperativa sociale Infocarcere per la prevenzione del bullismo tra i giovani e nelle scuole.
2- Il volume è stato presentato nella prestigiosa Biblioteca Casanatense di Roma (via Sant'Ignazio 52) per iniziativa dell’Associazione Culturale Visioni e Illusioni, con interventi del prof. Ernesto Lupo, primo presidente emerito della Corte di Cassazione, e dei professori Paolo Leone (che ha rievocato la formazione giuridica e il ruolo politico di suo padre, Giovanni, dalla Costituente alla presidenza del Consiglio e della Repubblica), Alessandro Acciavatti e Silvio Berardi, autore della biografia di Cesare Merzagora. Con plauso dei partecipanti, il giureconsulto Ernesto Lupo ha evidenziato la pochezza dottrinale e concettuale delle proposte di elezione diretta del presidente della Repubblica.
MORTE E RESURREZIONE DI UN'ELITE IL SENATO DEL REGNO 1939-1948
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 12 marzo023 pagg. 1 e 6.
Un consesso di patrioti Il 23 marzo 1939 Vittorio Emanuele III inaugurò la XXX legislatura pronunciando il rituale Discorso della Corona, concordato, come da prassi, con il capo del governo, Benito Mussolini. La Camera di 400 deputati, eletta in blocco nel 1934 sulla base della legge 17 maggio 1928, era stata sostituita con quella “dei Fasci e delle Corporazioni”, parte di nomina, parte con elezione di secondo grado. I suoi componenti presero nome di “consiglieri”. Alle acclamazioni il re rispose movendo la destra, come soleva fare. Secondo il numero straordinario della “Gazzetta Ufficiale” rispose “salutando romanamente”. Non venne chiesta una rettifica. Ben altro premeva. Malgrado la conferenza a Monaco di Baviera (28 settembre 1938) avesse scongiurato la guerra, l'Europa era inquieta. “Per mettere in valore le risorse del suo Impero – disse il re-imperatore – l'Italia, pur non cullandosi nella illusione della pace perpetua, desidera che la pace duri il più a lungo possibile”. Al termine del suo discorso i parlamentari intonarono “gli inni della rivoluzione fascista” e, dopo l'uscita dei Reali, tributarono “un'ardente manifestazione di devozione e di affetto al Duce”. Se la Camera era totalmente asservita a Mussolini, il Senato ne era in gran parte succubo o latitante. Dopo un lustro di totale stasi, tra il 25 marzo e il 20 ottobre 1939 con tredici “infornate” vennero nominati 211 senatori, compresi quattro dignitari dell'Albania (la cui corona in aprile era stata assunta da Vittorio Emanuele III) per la categoria 20^, riservata a quanti avevano “con meriti e servizi eminenti illustrato la patria”. Quali? I nuovi patres erano “fascisti”? Alcuni sì, anche se neppure Mussolini spiegò mai quale fosse precisamente la “dottrina” del fascismo. Divise e rituali a parte, il fascismo nacque e rimase politeista. Perciò dilagò. I nuovi senatori erano nazionalisti, ex liberali, democratici, riformisti o semplicemente “uomini d'ordine” (industriali, agrari, banchieri, scienziati, artisti...) che si riconoscevano nel governo ed erano orgogliosi di entrare a far parte della Camera Alta dopo aver servito a lungo lo Stato. Erano diplomatici, militari, magistrati, accademici di chiara fama, che non avevano bisogno di alcuna tessera di partito. Tra i generali possono essere ricordati Angelo Tua, Valentino Bobbio, che intervenne presso Mussolini a favore del nipote Norberto, Melchiade Gabba, Raffaele Montuori, Guglielmo Nasi, l'ammiraglio Inigo Campioni, fucilato con Luigi Mascherpa su sentenza di un tribunale della Repubblica sociale italiana, e Ambrogio Clerici. Prevalenti furono i nuovi patres per la categoria 21^: Alberto Beneduce, socialista, antifascista, già oratore del Grande Oriente d'Italia, presidente dell'Istituto per la ricostruzione italiana, e Luigi Burgo (di confessione evangelica, a conferma che il Senato non accoglieva solo cattolici). Foltissima fu la rappresentanza dell'aristocrazia d'ogni regione: Giuseppe Asinari Rossillon di Bernezzo, Salvatore Denti Amari di Pirajno, Febo Borromeo d'Adda, Ugolino della Gherardesca, Luigi Arborio Mella di Sant'Elia, Alfredo Dentice di Frasso... Fascisti? Le loro biografie dicono tutt'altro. Erano patrioti, come Federico Baistrocchi, Arrigo Serpieri, Luigi Aldrovandi Marescotti, Ambrogio Bollati, Giorgio Emo Capodilista, Carlo Torlonia. Alcuni nuovi patres, come il massonofago Paolo Orano, vantavano molte genuflessioni al regime e al suo duce, ma costituivano una minoranza. Di diritto, di pensiero e di fatto in maggior parte erano anzitutto e soprattutto “uomini del Re”, come lo erano stati i presidenti della Camera Alta Tommaso Tittoni e Luigi Federzoni, che nelle lettere a Mussolini lo appellavano “Eccellenza” (in quanto capo del governo) anziché “duce”, che sapeva di partito. Nella seduta che il 16 maggio 1936 approvò l'istituzione dell'Impero mentre al banco della presidenza, a cominciare da Mussolini, con le mani alla cintola, erano tutti in camicia nera, i senatori l'avevano bianca, a eccezione di Giovanni Gentile e pochi altri. Scialuppa nella tempesta Fiutato il vento, Mussolini mirò a imbrigliare il Senato. La sua presidenza fu conferita al bergamasco conte Giacomo Suardo (1883-1947), senatore per la categoria 21^, una sola legislatura da deputato e modesti incarichi governativi, prono al duce. La legge 19 gennaio 1939, n. 129 ridusse drasticamente le materie che richiedevano sedute plenarie delle Camere. Le altre furono competenza di Commissioni (nuova denominazione degli “Uffici”) con funzioni deliberanti (una mortificazione delle Assemblee, fatta propria dalla Repubblica). Le votazioni in aula divennero esclusivamente pubbliche e in molti casi si ridussero a chiassose “acclamazioni”. Con la dichiarazione di guerra (10 giugno 1940) i lavori delle Commissioni non ebbero più alcuna pubblicità. I senatori di nuova nomina giurarono dinnanzi all'Ufficio di Presidenza anziché in Aula. L'obiettivo del duce era chiaro: soffocare l'opposizione dei patres monarchici. Va peraltro aggiunto che Mussolini non svigorì solo le Camere ma anche il Gran consiglio del fascismo, “organo della rivoluzione”. Esso non fu più convocato dal 7 dicembre 1939 al 24 luglio 1943, quando approvò l'ordine del giorno Grandi-Federzoni-Bottai-De Marsico che “pregò il Re” di esercitare i poteri statutari sottraendo a Mussolini il comando delle forze armate. Il 20 ottobre 1940, vigilia del rovinoso attacco dell'Italia alla Grecia, Suardo inviò a Mussolini una servile informativa sull'allineamento del Senato al regime, ricordata da Aldo Pezzana in Gli uomini del Re. Il Senato durante e dopo il fascismo (Foggia, Bastogi, 2001): 454 dei 497 patres erano iscritti al partito. Gli altri erano suddivisi in “irriducibili” (i liberali Abbiate, Albertini, Bergamini, Canevari, Casati, Conci, Croce Serristori, Tomasi della Torretta), gli ebrei (Castellani, Diena, Levi, Loria, Mayer, Morpurgo, Segrè Sartorio), i “non frequentanti” per motivi di salute o vaghi pretesti (Badaloni, De Nicola, Di Rovasenda, Einaudi, Frassati, Mosca, Vigliani...), i “non iscritti ma non contrari”, soprattutto militari, come Dallolio, Pecori Giraldi, e diplomatici, quali Guglielmo Imperiali, Giuseppe Salvago Raggi e l'antico socialista Adolfo Zerboglio, deputato di Alessandria. Su tutti spiccava il maresciallo Enrico Caviglia, collare della SS. Annunziata (quindi “cugino del Re”), da Suardo bollato “una carogna” per il suo fiero antifascismo. Sic stantibus rebus dal 20 ottobre 1939 non avvennero altri ingressi nella Camera Alta. Tre anni e mezzo dopo, il 6 febbraio 1943, il re nominò 34 senatori, tra i quali Carlo Costamagna, Guido Donegani, Giacinto Motta ed Edoardo Rotigliano. Il regime scricchiolava, non solo per le sconfitte militari ma anche, e soprattutto, per il peggioramento delle condizioni di vita quotidiana, il razionamento dei beni di prima necessità, la divaricazione tra la retorica mussoliniana e la realtà. Tra l'8 e il 12 novembre 1942 gli anglo-americani erano sbarcati in Marocco e Algeria. In dicembre l'Armata Rossa aveva travolto quella italiana sul fronte del Don. Nella conferenza di Casablanca (14-26 gennaio1943) gli Alleati decisero l'assalto all'Italia per imporle la resa senza condizione. Il 2 febbraio l'armata tedesca comandata da von Paulus aveva perso la battaglia di Stalingrado. Tra il 6 e il 15 febbraio Mussolini sostituì i titolari dei ministeri principali: Esteri, Giustizia, Educazione nazionale, Finanze, Lavori pubblici, Corporazioni, Scambi e valute. Furono rimossi Galeazzo Ciano, Dino Grandi, Giuseppe Bottai, Host Venturi mentre Luigi Federzoni da tempo era ai margini della “politica”. Il duce stesso pose le premesse della “cospirazione” dei gerarchi del 24-25 luglio, illusi di conservare un fascismo senza Mussolini. I regimi monocratici crollano con la caduta del loro “capo”. Ma l'Italia non era una diarchia. Era ancora monarchia. Vittorio Emanuele III aveva un progetto del tutto diverso: sostituire Mussolini e sciogliere il partito nazionale fascista quale premessa per la richiesta di armistizio. Lo sbarco anglo-americano in Sicilia (10 luglio) impresse l'accelerazione. I senatori non rimasero inerti a cospetto della crisi. Il 22 luglio 63 patres presenti in Roma “data la gravità della situazione” chiesero a Suardo la convocazione del Senato in seduta plenaria. Molti erano di recente nomina, altri indossavano il laticlavio da anni. La richiesta non fece alcun cenno al fascismo. Tre giorni dopo venne superata dalla revoca di Mussolini da capo del governo e dalle dimissioni di Suardo da presidente del Senato, sostituito con Paolo Thaon di Revel. Sentito il re, il 3 agosto Badoglio, che non aveva competenza in materia ma era ansioso di ergersi a campione della “svolta”, decise di non pubblicare la richiesta dei 63 senatori. Il giorno prima aveva decretato lo scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni, del Gran Consiglio del fascismo e di altre organizzazioni del regime e impose le stellette alla Milizia volontaria di sicurezza nazionale, sciolta il 6 dicembre. Dato l'assetto bicamerale del Parlamento, l'azzeramento della Camera paralizzò il Senato, concentrò i poteri nelle mani del governo e sovraespose la Corona, privata dello scudo statutario del legislativo. Vittorio Emanuele III rifiutò di firmare un decreto propostogli da Badoglio, corrivo ad assumere il potere legislativo, e lamentò all'aiutante di campo Paolo Puntoni: “Cominciamo bene. Per prima cosa vogliono farmi firmare un decreto anticostituzionale”. In balia della tempesta, il Senato non svolse alcun ruolo nelle settimane conclusesi con la resa incondizionata sottoscritta dal generale Giuseppe Castellano a Cassibile (3 settembre) e con il trasferimento da Roma Brindisi del capo del governo, della Famiglia Reale e dei capi di stato maggiore (9-11 settembre). Abolizione ed epurazione del Senato: RSI e Alta corte “partigiana”. Nella prima seduta il governo dello Stato fascista repubblicano d'Italia, poi Repubblica sociale italiana (Rocca delle Caminate, 27 settembre 1943), decretò lo scioglimento e l'abolizione del “Senato di nomina regia” e ne privò i componenti delle prerogative e immunità che li rendevano giudicabili solo dall'Assemblea, costituita in Alta Corte di giustizia. Perciò ebbe mano libera per far processare e condannare a morte i senatori firmatari dell'ordine del giorno del 25 luglio: Federzoni, De Vecchi e De Bono, che, prigioniero, venne fucilato con Galeazzo Ciano e altri gerarchi a Verona il 6 gennaio 1944. Aveva 78 anni. Altrettanto avvenne per Inigo Campioni, pluridecorato, governatore di Rodi, fucilato il 24 maggio 1944 a Parma con il contrammiraglio Luigi Mascherpa, iniziato massone nella Gran Loggia d'Italia, al termine del vergognoso “processo degli ammiragli”. Sul regio Senato calò dunque subito la scure della RSI. Ma pochi mesi dopo scese anche quella dei governi del regno. Dopo la defascistizzazione, avviata dall'indomani della revoca di Mussolini, con l'avvento del governo del Comitato di liberazione nazionale presieduto da Ivanoe Bonomi (18 giugno 1944) giunse l'ora dell’epurazione. In premessa va ricordato che il Comitato centrale di liberazione nazionale sin dall'esordio (agosto 1943) e poi dalla sua auto-proclamazione (ottobre) aveva rifiutato di collaborare con il governo del re. Nella primavera del 1944 l'offensiva contro la monarchia divenne incalzante. Su pressione degli statunitensi il 12 aprile Vittorio Emanuele III comunicò che avrebbe conferito tutti i poteri al principe ereditario Umberto di Piemonte in Roma, quando la Capitale fosse stata liberata. Il 26 maggio 1944 fu emanato il regio decreto legge per la punizione degli “atti rilevanti” compiuti per “il mantenimento del regime fascista e dell'ingresso dell'Italia in guerra”. Il “legislatore”, cioè il governo, sommò una filza di equivoci. Quando nacque il regime? Nell'ottobre 1922? Allora sul banco degli imputati andavano chiamati quanti avevano votato a favore del governo Mussolini. Non solo “liberali” (Croce, Orlando, De Nicola, Einaudi, oltre a Casati, ministro nel suo governo...) ma anche Alcide De Gasperi e una lunga serie di “democratici”. Datò dal 3 gennaio 1925? Ma allora era nulla la nomina a senatori di quanti avevano avuto il laticlavio dopo quella data, a cominciare appunto da De Nicola e da molti capifila dell'antifascismo (con esclusione di socialcomunisti e azionisti, s'intende). E quale sarebbe stata la sorte di Badoglio, duca di Addis Abeba? Il 7 agosto 1944, il sedicente conte Carlo Sforza, alto commissario per l'epurazione, propose al presidente dell'Alta corte di giustizia, istituita per giudicare i conniventi del regime, la decadenza di 307 senatori. Per lui il Senato era “un club vitalizio di vecchi funzionari, vecchi generali, vecchi e non vecchi industriali, vecchi terrieri”. Per la prima volta venne introdotta in Italia una legge retroattiva. Giuristi niente affatto fascisti, come Guido Astuti, Massimo Severo Giannini e Arturo Carlo Jemolo, deplorarono la grave violazione del principio fondamentale di diritto “nullum crimen sine lege”. La “connivenza” con l'avvento del regime era un'“invenzione” per colpire avversari politici, declassati a nemici del popolo. Precorrendo la sentenza, Sforza, chiese subito al presidente del Senato, Tomasi della Torretta, di interdire ai senatori sotto accusa l'accesso a Palazzo Madama. Essi vennero privati dei diritti civili. L'obiettivo era dichiaratamente politico: togliere al re il sostegno della classe dirigente di sua fiducia, intimorire e piegare ogni opposizione all'avvento della repubblica di cui era fautore. Va ricordato che nel “famigerato ventennio” nessuno ne aveva messo in discussione il rango e il ruolo di senatore, benché fosse all'estero, assente alle sedute, e non mancasse occasione di vituperare le istituzioni dello Stato italiano. L'elenco degli “epurati” è lunghissimo. Ottanta di essi (a cominciare da Pietro d'Acquarone, ministro della Real Casa, artefice con il re della revoca di Mussolini) ricorsero ma si videro respingere l'istanza. Trentatré morirono in attesa del responso. Nei loro confronti fu ordinato il “non luogo a procedere per decesso”. La loro “lista” si apre con Giovanni Agnelli, defenestrato dalla Fiat, e comprende l'israelita Elia Morpurgo, deputato dal 1895 al 1919, morto mentre veniva deportato nel Reich e nondimeno “epurato”. Diciannove ottennero la revoca dell'ordinanza (Vittorio Cini, Luigi Burgo, Umberto Locatelli, Aldo Rossini...). Per diversi motivi in ventisette (De Vecchi, Federzoni...) non ricorsero affatto. Per la “nuova Italia” avevano già dato, rischiando la fucilazione da parte dei mussoliniani a oltranza. Resurrezione, sì, ma tardiva. Il calvario del regio Senato e dei suoi componenti continuò. Sino al referendum istituzionale del 2-3 giugno1946 la Camera Alta rimase in una sorta di limbo. Con l'avvento della repubblica aleggiò l'interrogativo: che cosa fare? De Gasperi si affrettò a dichiarare lo scioglimento del Senato ma la corte dei conti non registrò il decreto perché esorbitante dalle sue competenze. Quindi i patres sopravvissero persino oltre la fine della monarchia. Non solo. Con varie sentenze la Corte di Cassazione via via accolse i ricorsi contro la dichiarazione della loro decadenza, propugnati da uno specchiato giurista quale Giuliano Vassalli, antifascista a ventiquattro carati. Con la legge costituzionale 29 ottobre 1947, n. 3 (entrata in vigore il 7 novembre, giorno della sua pubblicazione in “Gazzetta Ufficiale”) il capo provvisorio dello Stato De Nicola promulgò quanto deciso dal governo De Gasperi: “soppressione del Senato e determinazione della posizione giuridica dei suoi componenti”. Uccise l'uomo morto? Sì e no. Molti senatori si videro reintegrati dalla Cassazione. Non solo. L'Assemblea costituente deliberò che nella prima legislatura repubblicana il Senato avrebbe compreso 107 “senatori di diritto” per meriti antifascisti di varia natura e 237 eletti. Molti di essi erano stati senatori del regno. Il loro peso politico non fu affatto marginale per la storia d'Italia. Nelle elezioni del 18-19 aprile 1948 la Democrazia cristiana ottenne la maggioranza dei seggi alla Camera dei deputati, ma non altrettanto in Senato, ove conquistò 133 seggi sui 237 in palio (meno del 50%) e ne ebbe ancor meno per l'ingresso dei “senatori di diritto”, tra i quali anche ex parlamentari cattolici. Si fermò a 151 patres su 344. Perciò, constatato di non avere la maggioranza per governare da sola, si rassegnò a condividere il “potere” con i partiti “laici”: repubblicani, socialdemocratici e liberali, parecchi dei quali monarchici. Essa stessa, d'altronde, contava nelle sue file monarchici notori, garanti della continuità dello Stato e convinti che le disposizioni “transitorie e finali” della Costituzione fossero tali di nome e di fatto e che pertanto prima o poi sarebbe stato cancellato il divieto di rientro e di soggiorno in Italia della Regina Elena, di Umberto II e della sua famiglia. Non avvenne. Perciò, per tenere viva la Tradizione, il Re, mai abdicatario, costituì la Consulta dei senatori del regno, aperta agli “uomini dello Stato”, anche “in servizio” in nome e a garanzia della continuità della storia d'Italia.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Giacomo Acerbo, barone dell'Aterno, sottosegretario alla presidenza del Consiglio all'avvento del governo Mussolini, già iniziato massone nella loggia “Nazionale” della Gran Loggia d'Italia ministro dell'Agricoltura dal 1929 al 1935 e delle Finanze dal 6 marzo al 25 luglio 1943, componente della Consulta dei senatori del Regno dal 10 luglio 1961. Nel 1962 il presidente Antonio Segni gli conferì la Medaglia d'Oro di benemerito della Scuola.
I SENATORI DURANTE IL FASCISMO SCUDO DELLA CORONA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 5 marzo023 pagg. 1 e 6.
Didascalia
Nel 1912 i riformisti vennero espulsi dal Partito socialista perché si erano congratulati con Vittorio Emanuele III, scampato di misura all'attentatore Antonio D'Alba. Conservare il Senato qual era assunse il carattere di difesa delle istituzioni, mentre eventi esterni minacciavano di precipitare l'Italia nel caos. Lo si vide con la “settimana rossa” del giugno 1914. Il 20-21 maggio 1915 il Parlamento approvò la richiesta di pieni poteri avanzata il 17 dal governo Salandra “in caso di guerra”. Con l'ingresso nel conflitto le Camere persero il controllo della politica estera e militare, cioè del Paese. Durante le sedute in “comitato segreto” sulla condotta della guerra Alfredo Frassati, proprietario e direttore della “Stampa” di Torino e senatore dal 24 novembre 1913, riferì a Giolitti, chiuso nella solitudine di villa Plochiù a Cavour, che nella Camera Alta non era “penetrata nessuna delle ansie che agitano tutti i petti. Mi pare ogni giorno di più che i socialisti hanno ragione di scrivere come paragrafo primo del loro programma: abolizione del Senato”. Nel dopoguerra le sorti del Senato parvero precipitare. Chi non era per la sua eliminazione, quanto meno ne propugnava l'elettività. Per l’estrema sinistra il Parlamento andava sostituito con un’assemblea di commissari politici, sul modello dei soviet. Per loro il re e Casa di Savoia andavano spazzati via: eliminazione fisica o esilio. Canti popolari, vignette satiriche, libelli propagandistici alimentavano la visione del tutto deformata della monarchia: clan di parassiti e vecchie cariatidi che sguazzavano nel lusso “affamando il popolo”. I repubblicani erano fautori del monocameralismo. Il Partito popolare italiano, fondato il 18 gennaio 1919 su impulso di don Luigi Sturzo (“prete intrigante”, secondo Giolitti), al decimo punto del programma propose la “riforma elettorale politica con il collegio plurinominale a larga base con rappresentanza proporzionale. Voto femminile, Senato elettivo con prevalente rappresentanza dei corpi della nazione (corpi accademici, comuni, province, classi organizzate) (CdA)”. Il movimento dei fasci di combattimento abborracciato da Benito Mussolini con apporti disparati e contraddittori a sua volta propose di conferire “alle corporazioni professionali ed economiche diritto di eleggere i corpi dei Consigli Tecnici Nazionali”, sostitutivi delle Camere: un modello non troppo lontano dai soviet. Anche l’unica costituzione varata nel dopoguerra, la Carta del Carnaro, abbozzata dall'anarco-sindacalista Alceste de Ambris e perfezionata da Gabriele d'Annunzio per dar veste alla Reggenza di Fiume (agosto-settembre 1920), ignorò un consesso che in seconda lettura filtrasse la legislazione attraverso la saggezza degli anziani. Il “popolo” era chiamato a esprimersi direttamente in un clima di mistica unione, propiziata dalla trasformazione della Città in sacra rappresentazione perpetua. La canzone più in voga inneggiava alla Giovinezza, primavera di bellezza... Nata come canto goliardico, con debite modifiche fu adottata dagli Arditi e poi dalle “squadre” fasciste. Nel discorso d’insediamento alla guida del Grande Oriente d’Italia persino il cinquantenne Domizio Torrigiani nel giugno 1919 si presentò quale espressione della “Giovinezza”. Incalzato da avversari e nemici, il Senato si arroccò nella difesa della propria tradizione. Nel 1918-1919 se ne occupò Tommaso Tittoni in articoli sui Conflitti tra le due Camere in Inghilterra e la riforma della Camera dei Lords. Alla morte del venerando Giuseppe Manfredi il 18 novembre il re nominò presidente il conte Adeodato Bonasi (San Felice sul Panaro, Modena, 1838 - Roma, 1920), ma con l’inaugurazione della prima legislatura postbellica Tittoni fu eletto presidente. Tra i nuovi patres si contarono gli artefici della vittoria: Armando Diaz (24 febbraio 1918), Enrico Caviglia, l’industriale Ettore Conti (22 febbraio 1919), i generali Pietro Badoglio, Guglielmo Pecori Giraldi, l’ammiraglio Umberto Cagni di Bu Meliana, cui seguirono Alberico Albricci, l’industriale Dante Ferraris, esponente dell'influente Associazione torinese Meccanici metallurgici e affini e Carlo Sforza. Nell’ottobre 1919, in vista delle imminenti elezioni col sistema proporzionale, il governo presieduto da Francesco Saverio Nitti varò 59 nuove nomine: un ampio ventaglio di personalità eminenti: Ernesto Artom, il clinico Leonardo Bianchi, l’ebreo livornese e massone Dario Cassuto, Giovanni Ciraolo, commissario della Croce rossa italiana e presidente del Rito simbolico italiano, che fece pervenire a d'Annunzio aiuti per due milioni di lire dell’epoca, Marco di Saluzzo, Pietro Ginori Conti, Ludovico Fulci, Gaetano Mosca, Nino Tamassia. In Senato entrarono due economisti di fama, Achille Loria (studiato dallo storico Bruno di Porto, recentemente defunto) e il quarantaseienne Luigi Einaudi che, narrò poi, si ritrovò con i capelli neri in mezzo a un’assemblea di patrioti incanutiti e avvertì appieno quale pegno costituisse il laticlavio. Il Senato bilanciava l’irruzione alla Camera di duecentocinquanta deputati socialisti e popolari e i giovanissimi esponenti della “trincerocrazia”. Altrettanto fece Giolitti durante il suo quinto ministero e in vista delle sfortunate elezioni del maggio 1921. Su suggerimento di Benedetto Croce, propose senatore il grecista Roberto Ghiglianovitch, benché avvertito che era suo acre e spesso immotivato nemico. Lo constatò quando ne subì in aula un attacco violentissimo e, sportosi a domandare chi mai fosse quell’esagitato senatore, da Croce si sentì rispondere: “È quel professore di greco che io ho sulla coscienza di averti fatto nominare”. Dopo Paolo Boselli, Luigi Luzzatti, Giuseppe Marcora, tutti statisti i cui nomi riecheggiavano nelle aule parlamentai dagl’inizi del Regno unitario, nel giugno 1921 fu la volta di Alfredo Baccelli, Agostino Berenini, Alfredo Lusignoli (prefetto di Milano), Cesare Nava, Edoardo Pantano, Olindo Malagodi... In Senato v’era dunque posto per tutti: socialisti, ex repubblicani, cattolici e israeliti, purché ponessero l’Italia al di sopra di ogni particolarismo. Tra le dimissioni dell’ultimo governo Giolitti (luglio 1921) e l’insediamento di Mussolini alla presidenza del Consiglio (31 ottobre 1922) si contarono altri sedici laticlavi, una sorta di velario dell’Italia liberale. Ne beneficiarono Pietro Tomasi della Torretta dei principi di Lampedusa, unico senatore voluto dal socialriformista e poi democratico Ivanoe Bonomi, rieletto in una lista comprendente Roberto Farinacci, “il più fascista”. Il 19 ottobre 1922 il re nominò senatori il duca Giovanni Battista Borea d’Olmo, il cui antenato, Tomaso, ispirò il Barone rampante di Italo Calvino (come narrato da Luca Fucini), Giuseppe Volpi di Misurata, il professore Vittorio Puntoni, grecista insigne e padre del suo futuro aiutante di campo, generale Paolo, il cattolico conciliatorista marchese Filippo Crispolti, il massone Ettore Pais, romanista insigne, e Camillo Peano, presidente della Corte dei conti pochi giorni prima dell’avvento di Mussolini e in carica sino al 31 dicembre 1928, quando apprese dai giornali di essersi dimesso per far posto a un fiduciario del duce. Le mire del fascismo contro il Senato Asceso alla presidenza di un governo di coalizione statutaria, Mussolini non puntò alla fascistizzazione del Senato. Il 31 ottobre 1922, quando formò il governo, i senatori iscritti al PNF erano 2 su circa 400, cioè lo 0,5%. Il 27 novembre 1922 la Camera Alta lo approvò con 187 voti contro 19. I candidati al laticlavio, proposti dal governo, passavano al vaglio severo del re. Dalla memoria ferrea, curioso d’ogni aneddoto, Vittorio Emanuele III, apparentemente arido, in realtà onniveggente, sapeva tutto dei “personaggi pubblici”. Dopo la designazione spettava all’Assemblea ratificare la nomina. Nei quasi sei anni tra il 5 novembre 1922, quando fu nominato Giovanni Gentile, e il 20 maggio 1928, tre giorni dopo la legge che conferì al Gran consiglio del fascismo la composizione della Camera, i nuovi senatori furono appena 86: pochi se confrontati al cambio politico in atto. Il 1° marzo 1923 ebbe luogo la prima “infornata”, aperta dal presidente della FIAT di Torino, Giovanni Agnelli. Lo seguirono lo scultore Leonardo Bistolfi, massone notorio e influentissimo sulla strategia della “raffigurazione della patria”, il nazionalista Enrico Corradini, l’economista Maffeo Pantaleoni, l’antico ministro giolittiano, poi giolittofago e “fratello” Ferdinando Martini, primo ideatore di una Enciclopedia italiana, il generale e quadrumviro Emilio De Bono il 15 ottobre 1925 raggiunto in Senato da Cesare Maria De Vecchi, creato conte di Val Cismon. Poiché non aveva né tre legislature, né cariche accademiche, militari o altri titoli (censo compreso), questi fu nominato ministro di Stato e, dopo un iter travagliato, ottenne il laticlavio per quella categoria. I rapporti tra il duce del fascismo e la Camera Alta furono a lungo assai freddi. Nel 1924-1925 Mussolini fece ripetutamente i conti con gli umori del Senato. Nel 1924 si verificò un incidente abbastanza clamoroso. Il 20 settembre lo scrittore Ugo Ojetti, autore tra altro del Proclama della Vittoria firmato da Diaz, fu nominato senatore per le categorie 20^ e 21^ (illustrazioni della patria e alto censo). Il 23 novembre l’apposita commissione di verifica lo escluse dalla 20^. Ojetti s’affrettò a documentare d’essere pienamente in regola per la 21^. Era tra i giornalisti meglio pagati d’Italia. Però fu contrariato dal mancato riconoscimento di avere “bene meritato della patria”. La commissione di convalida dei titoli oppose identica riserva alla nomina del poeta napoletano Salvatore Di Giacomo, che rimase escluso dalla Camera Alta perché, a differenza del conterraneo suo e caldo estimatore Benedetto Croce, nominato senatore per la 21^ categoria, zeppa di industriali, banchieri, proprietari fondiari e affaristi, il poeta viveva da poeta e non aveva il reddito richiesto. Ojetti ebbe l’astuzia di farne una questione d’orgoglio: non per sé ma per solidarietà con Di Giacomo, come il 5 dicembre 1924 scrisse al presidente Tommaso Tittoni: “Delle ragioni della mia rinunzia devo pur dire all’Eccellenza Vostra la più grave. Della categoria 20^ è insieme a me rimasto escluso Salvatore Di Giacomo, ma purtroppo egli non ha il modesto censo sufficiente per essere come me ammesso nella categoria 21^. Da questo confronto con quel poeta purissimo, io scrittore sarei per sempre addolorato e umiliato”. Una furba lezione di stile. L’anno seguente la tensione tra il presidente del Consiglio e la Camera Alta si manifestò in molteplici modi: per esempio con le obiezioni opposte ai “titoli” in primo tempo presentati da De Vecchi a suffragio della nomina. In Senato incontrò poi l'astensione (che in Senato valeva per voto contrario) di Croce e altri nella votazione sulla legge “contro la Massoneria”, da Mussolini in persona presentata come “la più fascista”. Nessun pater, però, chiese la verifica del numero legale: uno strumento procedurale che avrebbe potuto costringere almeno al rinvio della votazione stessa, con smacco del governo. Perciò, proprio a cavallo di quel voto (20 novembre 1925) il Gran Consiglio del fascismo, che all’epoca era nient'altro che un consesso ‘privato’, progettò una riforma del Senato, proprio mentre vi entrava il principe ereditario Umberto di Piemonte, giunto alla maggiore età (14 novembre 1925). Presenti e oranti parecchi monarchici, il Gran consiglio ipotizzò tre vie: lasciare immutato il Senato, salvo aumentare le categorie dalle quali trarne membri; formare entrambe le Camere con rappresentanti delle “corporazioni”; inserire tali rappresentanze nel Senato. Scartate le due prime proposte, macchinose e contraddittorie, fu accolta la terza, in attesa che venisse formulata in versione più chiara. Nel frattempo “gli attuali membri del Senato (avrebbero mantenuto) la loro carica e dignità”. Il Gran consiglio, comunque, concluse che il numero dei patres sarebbe rimasto, qual era, illimitato. I senatori sarebbero stati divisi in due classi: quelli di nomina regia e vitalizi; e quelli espressi dalle corporazioni, con mandato novennale, a loro volta comunque nominati dal re ed equamente ripartiti tra esponenti dei lavoratori e dei datori di lavoro. Con modeste varianti, era la “riforma Luzzatti”, affossata dal Re e da Giolitti nel 1911. Poiché, però, le corporazioni erano ancora tutte da inventare, a differenza della precedente che già aveva avuto il pregio della confusione, la riforma prospettata dal Gran Consiglio rimase sulla carta. Mussolini capì quanto fosse alto quel bastione. Sin dalla XII riunione (1 maggio 1923) il Gran consiglio del fascismo aveva messo allo studio la “riforma costituzionale”, affidata a una commissione formata da Giorgio Del Vecchio, Michele Bianchi e da un ex sacerdote massonofago. Fra le attribuzioni e prerogative del capo del governo (legge 24 dicembre 1925, n. 2263) non comparve alcun cenno a Senato e senatori. Più invadente fu la costituzionalizzazione del Gran consiglio (9 dicembre 1928, n. 2693). In forza dell’articolo 5, il presidente del Senato (correttamente menzionato con precedenza su quello della Camera) ne avrebbe fatto parte “a cagione delle sue funzioni”. Anche l’“organo della rivoluzione” si fermò comunque sulla soglia della Camera Alta. Dopo l’abolizione del libero confronto per l’elezione dei deputati, a ridosso e all’indomani della firma dei Patti lateranensi, si susseguirono cinque infornate di nuovi patres per un insieme di 136 laticlavi in poco più di tre mesi. Un incremento senza precedenti, che riportò la Prima Camera oltre i 400 membri, che era il tetto fissato dal 1928 per quella dei deputati. Il 2 marzo 1929 i senatori in carica toccarono un nuovo apice: 459, poco al di sotto dei 464 del 1892. Neppure quelle nomine, tuttavia, comportarono la fascistizzazione del Senato. Vi si contò infatti un nutrito numero di alti ufficiali. Il 2 marzo 1929 fu nominato senatore l’avvocato Enrico De Nicola (Napoli, 1877-1959) per le categorie 2^ e 3^. Convocato il 6 maggio, giurò il 15. Anche lui abbacinato dalla luce del fascismo sulla via di Damasco o “riserva del re” per quando fossero venuti i giorni difficili dello scontro tra Corona e governo? All'inaugurazione della XXVIII legislatura (20 aprile 1929) il Senato contava 11 prìncipi del sangue, membri di diritto, e 323 componenti di nomina regia. Dal suo insediamento per ben quattro anni non venne conferito alcun laticlavio. Con l'istituzione del segretariato generale (24 maggio 1929) ne fu ammodernata l'organizzazione. Il 15 dicembre 1929 Mussolini rafforzò il potere di capo del governo aggiungendo l'obbligo della sua firma a quella del re e dei ministri per tutte le leggi e i decreti. Suoi obiettivi precipui in quegli anni furono il consolidamento del regime di partito unico e la celebrazione della Rivoluzione fascista, che stentava a imporsi nelle ovattate sale di Palazzo Madama, benché molti patres risultassero iscritti all’Associazione fascista dei senatori: adesione burocratica, priva di vincoli ideologici, a differenza di quanto asserito da Emilio Gentile. In vista dello scioglimento della Camera, nel 1933, dopo quattro anni di stasi, riprese alla spicciolata il conferimento di laticlavi, per un insieme di 75 nuovi senatori, tra i quali Pietro Ago, Donato Etna (figlio naturale di Vittorio Emanuele II), Arturo Bocchini (capo della polizia), Giorgio Emo Capodilista, Luigi Arborio Mella, Antonio Albertini, Guido Viale, Euclide Silvestri, Isaia Levi, Nicola Pende, Carlo Torlonia e Giovanni Marro: sintesi di mezzo secolo della storia d'Italia. Altre nomine seguirono nel 1934: Pietro d'Aquarone, Luigi Barzini, Giuseppe Belluzzo, Balbino Giuliano, Giovanni Battista Imberti (ex giolittiano, poi popolare, in seguito filofascista e soprattutto monarchico) e industriali come Giorgio Falck, Mario Crespi, Rinaldo Piaggio. “Fascisti”? Pochi. Qualcuno aveva ricevuto la tessera del partito “ad honorem”. Non la rimandò al mittente, anche se non ne aveva speciale bisogno. Poi dal 27 aprile 1934 per cinque anni, caso unico nella storia, non si registrarono altri ingressi alla Camera Alta. Le nuove nomine avvennero il 25 marzo 1939 in un quadro interno e internazionale rapidamente e tumultuosamente cambiato. In peggio. Isolato e incalzato dalla frangia repubblicana del PNF il re aveva bisogno che il Senato tornasse a farsi sentire. Vedremo quando e come esso si ridestò. Dal 1929, in successione a Tommaso Tittoni, suo presidente era il nazional-fascista titubante Luigi Federzoni, in carica sino al 2 marzo 1939. Il 23 marzo fu ruvidamente sostituito dal bergamasco Giacomo Suardo, prono a Mussolini. Per il Senato del regno iniziò un calvario, che merita di essere narrato a parte.
Aldo A. Mola.
DIDASCALIA: Tommaso Tittoni (Roma, 1855-1931). Ministro degli Esteri nel II governo Giolitti (3 novembre 1903-16 marzo 1905), presidente del Consiglio ad interim (16 marzo-28 marzo 1905), ministro degli Esteri nel primo governo presieduto da Alessandro Fortis (1905) e nel III governo Giolitti (1906-1909), ambasciatore a Parigi. Venne creato senatore il 25 novembre 1902. Presidente del Senato dal 1 dicembre 1919 il 20 aprile 1929 fu sostituito dal nazional-fascista Luigi Federzoni.
IL SENATO DEL REGNO ALLA RICERCA DELLA DIRIGENZA PERDUTA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 26 febbraio 023 pagg. 1 e 6.
Didascalia
Il 10-13 giugno 1946 il governo da lui stesso nominato il 10 dicembre 1945 mise Umberto II al bivio: rimanere in Italia, a rischio di uno scontro armato tra opposte fazioni, o allontanarsene. Nella certezza di un pacifico rientro, il re optò per l'espatrio. Appena arrivato in Portogallo, però, confidò a Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, di essere rimasto vittima di un “trucco”. I maggiorenti dei sei partiti al governo gettarono alle ortiche monarchia e monarchici ma avevano bisogno di una classe dirigente per far funzionare la macchina dello Stato. Si registrò un cambio ai vertici di tutti i settori dell'amministrazione pubblica. Ne era avvenuto un altro vent'anni prima, con il passaggio dalla democrazia parlamentare al regime di partito unico. Come ha ampiamente documentato Guido Melis nel magistrale La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista (ed. il Mulino), il governo Mussolini impose ai pubblici impiegati l'iscrizione al partito nazionale fascista, ma fece fuoco con la legna che c'era: una dirigenza che si era formata tra fine Ottocento ed età vittorioemanuelina-giolittiana. Il “ricambio” richiese quasi un decennio (1922-1931). Lo stesso avvenne nel 1943-1948, con due differenze rispetto a quel precedente. Avvenne a scaglioni, secondo tempi e aree geo-politiche diverse, a partire dal “regno del Sud” alla liberazione di Roma e sino, undici mesi dopo, ai governo presieduti da Ferruccio Parri e da Alcide Degasperi (come il segretario della Democrazia cristiana si firmava). Lo Stato aveva (come ha) bisogno di classe dirigente. Per formare u alto funzionario o un dirigente apicale non basta la tessera di parrito: occorrono venti-trent'anni di “lavoro sul campo”. Pertanto, uniti nella cancellazione del fascismo e della monarchia, i partiti (a cominciare dal quello comunista pilotato dal navigato Palmiro Togliatti) fecero incetta del personale che aveva cognizione della “macchina”: quello che aveva fatto apprendistato prima del regime e si era affinato nel suo corso. Nel 1945 un prefetto di 60 anni aveva alle spalle una “carriera” iniziata almeno nel 1915: varie ere geologiche prima, secondo la narrazione basata sulle cronache dei partiti. La necessità di far leva su personale competente fu dettata anche dal baratro aperto tra vertice dello Stato e Paese con lo scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni (2 agosto 1943) e dalla conseguente paralisi del Senato del regno: un vuoto durato sino all'elezione della Assemblea costituente e alle elezioni del Parlamento il 17-18 aprile 1948, in un “mondo” del tutto diverso rispetto a quello del 1945-1946. In piena “guerra fredda” all'esarchia del Comitato di liberazione nazionale, comprendente comunisti e socialisti , era seguita una coalizione di centro, incardinata su democrazia cristiana, liberali, repubblicani e socialdemocratici. Ne ha scritto magistralmente Aldo G. Ricci in “La rinascita dei partiti in Italia” (Fondazione Ug Spirito). I costituenti cercarono di diversificare le due Camere, differenti per età dei loro componenti (venticinquenni i deputati, almeno quarantenni i senatori) e corpo elettorale. Era fatale che divenissero sempre più simili. Però, meno male, sono due. Così, benché ormai pressoché identiche, si possono correggere a vicenda. Diversa era stata l'età monarchica, con la netta differenziazione tra la Camera elettiva e il Senato, di nomina regia e vitalizio. Giova ripercorrerne alcune vicende dal primo Novecento al regime di partito unico. Un'Italia in bilico A fine Ottocento frange clericali asserivano che l’Italia era preda dell’“Internazionale giudaica”. I socialisti davano per scontato che la “rivoluzione” dovesse passare attraverso l’eliminazione della monarchia e di tutti i suoi istituti monarchici, a cominciare dal Senato. Il 14 novembre 1901 un regio decreto stabilì che le nomine di presidente, vicepresidenti e membri del Senato sarebbero state deliberate “indi innanzi” dal governo, ma non ebbe attuazione. Presidente del Senato era l'ottantenne Giuseppe Saracco. Nel 1904, dopo l'elezione della nuova Camera, il re nominò presidente del Senato il settantaseienne Tancredi Canonico, che nel 1908 fu sostituito dal piacentino Giuseppe Manfredi, patriota intemerato e giureconsulto di rango supremo, come documentato dal mai abbastanza rimpianto Corrado Sforza Fogliani. Numericamente stabile (358 membri nel giugno 1900; 348 alla vigilia delle elezioni del 1904; 371 nel maggio del 1909; 380 il 3 giugno 1911, cinquantenario del Regno), nell’età giolittiana la Camera Alta resse agli assalti di quanti cercarono di renderla almeno parzialmente elettiva. Per consolidarla il re e il presidente del Consiglio Giolitti non esitarono a includervi radicali come Malachia De Cristoforis, già gran maestro del Grande Oriente italiano (GO-I), ammanicato con quello di Francia, e il repubblicano Adolfo Engel, gran maestro aggiunto del GOI, furente essere stato sconfitto da un cattolico nel collegio di Treviglio alle elezioni del 1904. Vi entrarono anche repubblicani. Il re era il Capo dello Stato di tutti gli italiani e il Senato era il loro specchio. Giolitti mirava alla conciliazione silenziosa tra lo Stato e i cattolici eletti deputati, consiglieri provinciali e comunali, membri delle amministrazioni di casse di risparmio, ospedali, scuole...: ma uti singuli, non come esponenti di un partito. Questo sarebbe stato una sciagura sia per lo Stato, sia per la Chiesa. Mirò a prevenirla con la laicizzazione silenziosa. In un’Italia le cui piazze si empivano ora di tardive proteste contro il rogo di Giordano Bruno ora di processioni salmodianti, lo statista rimase l’uomo delle conciliazioni incrociate. Luigi Luzzatti ripropone la parziale elettività della Camera Alta In coincidenza con l’introduzione del suffragio quasi universale maschile (1912, sperimentato l'anno seguente) fu riproposto l’annoso tema della parziale elettività del Senato. Ogni elezione politica ebbe per contorno infornate di nuovi patres: cattolici, anticlericali, positivisti, fideisti, destra e sinistra, artisti e imprenditori..., l’Italia qual era, insomma. Il laticlavio continuò a non comportare emolumenti di sorta. Al tempo stesso intese onorare anche persone di condizioni modeste, proprio per confermare che la monarchia non era fortilizio del privilegio, bastione contro l’ascesa di chi avesse come unici titoli personali talenti e volontà. Minimo comune denominatore erano e rimasero la fedeltà all’Italia. La Camera alta conservò il requisito di “partito dello Stato”. Personalità, che erano altrettanti capitoli di storia d’Italia, confluivano in un cenacolo che di anno in anno andava oltre la dimensione di mero organo politico-legislativo e diveniva sempre più un consesso di “saggi”: vera e propria “riserva della Corona” per i momenti del bisogno, quando fossero messe in gioco le sorti dello Stato e il re dovesse far leva su uomini votati alla continuità dello Stato.. Non per caso la Prima Camera all'occorrenza diveniva Alta corte per giudicare i ministri indiziati di reati compiuti nell'esercizio delle funzioni (fu il caso di Nunzio Nasi, condannato a pene esorbitanti per piccole distrazioni amministrative mentre era apprezzato ministro della Pubblica Istruzione) ed era unico giudice dei propri stessi componenti: condizione, codesta, che ne faceva un corpo sacro all’interno dell’ordinamento statutario, come scrissero i più acuti studiosi dello Statuto, da Emilio Crosa a Giuseppe Maranini e ha ripetuto Aldo Pezzana in Gli uomini del Re (ed.Bastogi) Memore delle critiche nel 1892 rivoltegli da Andrea Guarneri, nel 1913 l’onnipotente Giolitti concordò con il re l’ingresso in Senato di molti “busti insigni” della Terza Italia. Altrettanto fece il suo successore, Antonio Salandra. Dopo i ministri della Guerra Domenico Grandi (29 marzo 1914) e Vittorio Zupelli (15 novembre) vennero creati senatori Luigi Albertini, comproprietario e direttore del “Corriere della Sera”, Lelio Bonin Longare, Roberto Brusati (fratello del primo aiutante del re), Guglielmo Marconi, Francesco Ruffini, Leone Wollemborg, Giuseppe Pitrè...: quanto di meglio l’Italia contasse dall’antropologia alle invenzioni, dall’imprenditoria alla comunicazione di massa, dalle armi alle arti e al pensiero giuridico. Quei laticlavi coronavano il successo di quanti avevano dedicato la vita allo studio, al lavoro, al servizio dello Stato. Se Napoleone aveva detto che ogni soldato aveva nello zaino il bastone di maresciallo, così si poteva ripetere che ciascun italiano avrebbe potuto conseguire il laticlavio senatoriale, non riservato dominio di una casta e, meno ancora, di una sola parte politica. I senatori erano boni viri e il Senato non era mala bestia proprio perché al suo interno si raccoglievano in operosa dialettica le posizioni più disparate. Eppure continuava ad aleggiare la richiesta che divenisse almeno in parte elettivo. Il 28 aprile 1910 Luigi Luzzatti (Venezia, 1841 - Roma, 1927), presidente del Consiglio dal 31 marzo di quell’anno al 30 marzo 1911, illustrò alla Camera Alta il progetto di riforma: dalla sessione parlamentare ventura la Corona avrebbe demandato al consesso l’elezione di presidente e vicepresidenti. Propugnò inoltre una “legge interpretativa dello Statuto” per “ammodernare” il Senato. Al progetto lavorarono alcuni tra i giuristi più prestigiosi. Presieduta da Gaspare Finali, la Commissione, appositamente istituita, ebbe Giorgio Arcoleo quale relatore di maggioranza. Questi propose il numero chiuso, una quota di membri nominati motu proprio dal re e un’altra formata con elezioni di secondo grado da corpi accademici e ordini professionali. Il tutto risultò farraginoso. Non conduceva comunque all’elettività diretta, sollecitata dai radicali, da alcuni liberali progressisti e vista con favore dai socialisti riformisti. Il progetto dette ala all’ultimo dibattito di elevato tenore su natura e scopi della Camera Alta. Il senatore calabrese Antonio Cefaly dichiarò la sua netta avversione nei confronti del numero chiuso, giacché sin dall’istituzione la libertà di modificarne la composizione era stata garanzia per il superamento di contrapposizioni rigide tra i due rami del Parlamento. La proposta incappò in altri ostacoli insormontabili. Il duca Riccardo Carafa d’Andria scrisse nella “Nuova Antologia” che essa non era “giustificata da necessità urgente. Il Senato è stato sempre assai scrupoloso, e specialmente in questi ultimi anni, nell’evitare conflitti con l’altro ramo del Parlamento e non si è mai opposto a leggi o riforme che fossero o paressero ispirate da un’idea di progresso o di libertà. Qualche legge sociale ebbe la precedenza in Senato ed in Senato, per esempio, sarebbe quasi certamente approvata una legge che regolasse il divorzio, mentre non so quale sorte essa potrebbe incontrare nella Camera elettiva.” La riforma avanzata da Luzzatti altro non era che “una concessione all’Estrema Sinistra in compenso di tutte le cose che le si negavano”. In conclusione, “il Senato, composto in grandissima parte di uomini che combatterono e soffrirono per l’unità e l’indipendenza del Paese, sarà favorevole ad ogni passo diretto verso una maggiore armonia fra la sua funzione ed i tempi nuovi, ma resisterà ad ogni tentativo di sopraffazione di plebi le quali, come dice Socrate, non possono far né i grandi beni né i grandi mali”. Rattazzi-Giolitti: così com'era il Senato aveva reso e poteva rendere grandi servizi alla monarchia Il 17 novembre 1910, da Roma, Urbano Rattazzi jr rispose a una lettera di Giolitti, sinora non ritrovata, sulla spinosa e ormai incombente parziale elettività della Camera alta. “Avverso sin dal primo giorno alla proposta di riforma lanciata con cinica leggerezza da Luzzatti al Paese che non la chiedeva e vi è tuttora indifferente”, egli scrisse, “ero in questi giorni molto preoccupato per il timore che la vanità della Commissione, e specialmente dell’on. Arcoleo, non che quella di senatori che si prestano con sciocche interviste a riempire le colonne dei giornali, potessero davvero dar corpo a quest’ombra e rovinare un’istituzione che, così com’è, ha reso e può rendere ancora in momenti difficili grandi servizi al Paese e alla Monarchia (…). Le tue considerazioni così elevate, chiare e precise demoliscono con poche parole tutto l’edificio di carta pesta costruito dalla maggioranza della Commissione, e non ti nascondo che mi piacquero e mi persuasero tanto da non saper resistere alla tentazione di comunicarle ai comuni amici Inghilleri, Cefaly, Todaro, Filippo Mariotti e pure a Manfredi (presidente del Senato, NdA), i quali tutti le accolsero con plauso e dichiararono di associarvisi intieramente (...) mi parve doveroso di sgombrare dall’ambiente del Senato il dubbio che tu, pur troppo designato in Parlamento e ovunque quale padre e sostenitore di questo ministero presieduto da un cattivo pazzo, avessi anche la responsabilità della riforma del Senato, la quale, ove fosse davvero accolta sarebbe il principio di una prossima fine delle istituzioni monarchiche.” Il 9 febbraio 1911 Vittorio Scialoja, suscitando “approvazioni vivissime e commenti”, sentenziò in Senato: “Se venisse in quest’Aula un ambasciatore, come avvenne nei tempi remoti di Roma, e chiedesse: ‘Che fa quest’Assemblea così solenne? Che fa questa adunanza di uomini così insigni ’ e noi gli rispondessimo: ‘Cerca di riformarsi perché non è di sé contenta’, resterebbe alquanto meravigliato e dovrebbe pensare essere l’Italia la più fortunata delle nazioni, se a tanta Assemblea ne può facilmente sostituire una migliore”. Negò poi che la progettata riforma rispondesse a una necessità sentita in quel momento dal popolo italiano e ammonì: “Il modificare articoli dello Statuto ha sempre un lato pericoloso”. “Ora quali sono gl’inconvenienti che si sentono ogni tanto deplorare? Nessuno ha mai messo in dubbio l’alta dignità del Senato: nessuno! Dunque qualche riformetta ci vuole, ma sia la medicina adatta al male, non la clinica chirurgica per un piccolo raffreddore.” Scialoja respinse infine la pretesa che la Camera Alta dovesse farsi copia dell’altra: “L’avere due Camere di funzione politica dello stesso tipo, è assai peggio che l'averne una sola (…). La Camera fa gli Annali, il Senato deve essere il custode della Storia, il custode delle linee fondamentali, direttive del progresso italico”. A Luzzatti non restò che gettare la spugna. Lo fece però scoprendo la Corona. Il 15 febbraio ringraziò i patres della “lieta accoglienza fatta alla proposta della elettività per il seggio della presidenza”. “Presi gli ordini sovrani, come li avevo presi per la comunicazione del 28 aprile scorso, e in conformità a deliberazione concorde del consiglio dei ministri”, preannunziò apposito disegno di legge e prese atto che le discussioni sulla proposta dell’elettività, “ispirata dal culto degli istituti monarchici rappresentativi, frutteranno decoro alla patria nostra, che, fiaccola di vita perenne, si tramanderà più bella, più libera, più grande, alle generazioni future, sotto la guida sicura della Dinastia di Savoia, vigilante a guardia della nostra indipendenza, custodia indefettibile delle guarentigie costituzionali”. La proposta di rendere almeno parzialmente elettiva la Camera alta si perse per via. Non se ne sentiva bisogno mentre per l’elezione della Camera dei deputati venne introdotto il suffragio quasi universale maschile, che suscitò le riserve di Arcoleo, propenso a conferire alle donne almeno quello amministrativo giacché, diversamente, “a fil di logica, il censo, l’alfabeto, il voto avrebbero carattere sessuale: prolifico per gli uomini, sterile per le donne”. Bisognava difendere il Parlamento mentre i partiti estremi bollavano il Senato come “assemblea di retrogradi o di antenati” e il socialmassimalista Benito Mussolini lo definiva “gerontocomio”. Quel Senato, di nomina regia e vitalizio, concorse a reggere le sorti dell'Italia durante la Grande Guerra. E poi? Il seguito merita di essere rievocato.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Luigi Luzzatti (Venezia, 1 marzo 1841-Roma, 27 marzo 1927), economista di fama europea, iniziato alla massoneria, pioniere delle banche popolari e di una moneta unica europea, ministro più volte, presidente del Consiglio (1910-1911), propugnò la parziale elettività del Senato. Una proposta che avrebbe generato un ibrido, mezzo di nomina regia (vitalizio), mezzo elettivo (a tempo): due categorie di difficile conciliazione. Il Regio Senato (o Camera Alta), di cui fu componente dal 1921, era un cenacolo di uomini “per lo Stato”. L'urgenza di riflettere sul ruolo della monarchia sabauda nella dello Stato d'Italia emerge dal recente saggio “Il fantasma della nazione. Per una critica del sovranismo”. In oltre 200 pagine il suo autore, Alessandro Campi, compie il piccolo capolavoro di citare tutti (Bossi, La Malfa, Togliatti, Salvini...) tranne i re da Carlo Alberto a Umberto II, gli Istituti e gli Uffici della monarchia. Come scrivere la storia della Chiesa dell'Otto-Novecento tacendone i papi da Pio VII a Pio XII, il collegio cardinalizio e gli Ordini religiosi.
ELETTI, VOTATI, VOCATI CREPUSCOLO DELLA “RAPPRESENTANZA”
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 19 febbraio 023 pagg. 1 e 6.
Didascalia
Quis custodiet ipsos custodes? “Bisogna che venite appresso a me!”/disse er Leone ar Popolo animale. / E tutti quanti agnedero cor Re,/ ma doppo un po' de strada ecchete che/ er Re rimase in coda, cor Cignale.// “Ritorna ar posto indove t'eri messo”/ je disse quello “e insegnece er cammino...”. “ Va là” rispose er Re “tanto è lo stesso:/ oggi chi guida un popolo è destino/ che poi finisce per andaje appresso”. Questa brillante sintesi della “dottrina delle élites” (piccolo vanto del pensiero politico italiano, secondo Norberto Bobbio) non è di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto o Roberto Michels, ma di Carlo Alberto Salustri (Roma, 1871-1950: morì appena nominato senatore a vita da Luigi Einaudi, monarchico e liberale), celebre come Trilussa dal più famoso tra i suoi pseudonimi (ne riparleremo). Come tante sue poesie, “Er Re Leone” va riletta per rispondere ai quesiti che si affollano sull'esito delle elezioni regionali di domenica scorsa, 12 febbraio, penultima del Carnevale 2023. Al netto dei commenti di auto-consolazione e auto-assoluzione su chi ha vinto un po' di più o ha perso un po' di meno, va constatato che ormai il crollo della partecipazione elettorale non è affatto un malessere passeggero, come si vuol far credere, bensì patologico. Fingere che non lo sia significa fare gli struzzi. Non è assenteismo per distrazione di massa. Segnala che si è aperta la grande faglia tra corpo elettorale e la sua rappresentanza. E' anche anche l’ultimo appello alla “politica” affinché si dia una mossa e si sforzi di percepire quel che pensano i cittadini, a cominciare dalla politica estera e quindi militare dello Stato d'Italia. Da decenni molte votazioni amministrative si sono svolte nell'indifferenza di un numero crescente di elettori. I primi segnali sono arrivati da Mezzogiorno e grandi isole, ma anche da aree periferiche dell'Italia centro-settentrionale. In alcuni casi superiore al 70 per cento, quell'astensione è stata a lungo classificata come manifestazione episodica e circoscritta di malumori locali, una febbricciattola del sistema democratico in sé granitico. La beata auto-celebrazione della “democrazia” ha accompagnato anche l’elezione di parlamentari in collegi per motivi vari rimasti vacanti e assegnati come feudi blindatissimi a candidati di assoluta fiducia del “mandante”. Paradigmatiche rimangono l'elezione del dottor Antonio Di Pietro (il fu stato magistrato più amato dagli italiani) nel collegio del Mugello e (in tempi meno arcaici ma dal profilo identico) quella di taluni “democratici” nel collegio di Siena, passato di mano in mano sino a Enrico Letta, sciacquato nella Senna. In molti casi tali “ludi cartacei” (come li definiva quel tizio che poi agli italiani impose il voto obbligatorio) si risolsero in una finzione mortificante, fatta apposta per dissuadere qualunque tentativo di capovolgere l'esito scontatissimo con candidature alternative. Un seggio parlamentare venne procacciato, quando era ministro, a Roberto Gualtieri, che lo abbandonò per la candidatura, molto più ghiotta, a sindaco di “Roma capitale” in vista del Giubileo, con tutto quel che ne discende in termini di potere e di controllo di fondi pubblici e privati nel prossimo triennio. Vien bene, a proposito della Città Eterna, memorizzare quanto ha detto papa Francesco il 2 febbraio agli 82 gesuiti congolesi guidati dal padre provinciale Rigobert Kyungu S. J., raccolti a dialogo anziché ad audiendum verbum dopo l'incontro di preghiera nella cattedrale “Notre Dame du Congo” a Kinshasa: “La chiesa, ha osservato il pontefice, non è una multinazionale della spiritualità”. Si contrappone alla “cultura pagana molto generalizzata” , distillato di “denaro, potere e fama”, opposto a “vicinanza, misericordia e tenerezza”. “Le istituzioni senza vicinanza e senza tenerezza faranno anche del bene, ma sono pagane”. Sappiamo a chi si riferisce. Il rifiuto di un numero crescente di cittadini di accedere ai seggi elettorali, dunque, non è affatto nuovo ma dallo scorso 12 febbraio si è imposto all'attenzione in misura assillante, sia per le percentuali, salite in parecchi comuni e in alcuni quartieri oltre la soglia più pessimistica, sia per la specificità delle due regioni chiamate a rinnovare il presidente e il consiglio. Per abitanti, reddito pro-capite e “rappresentatività”, il Lazio e la Lombardia sono altra cosa rispetto a “consorelle” chiamate al voto alla spicciolata in precedenti occasioni. Valga il caso dell'Umbria, ove il Partito democratico registrò la prima inattesa sconfitta. Lì la posta in gioco attizzò la partecipazione. In consultazioni successive la partecipazione andò sempre più scemando. Il campanello d'allarme fu ignorato. Ma ora? Una settimana addietro l'elettorato ha voltato le spalle malgrado la mobilitazione di un'imponente macchina promozionale, risultata autoreferenziale e non priva di risvolti e risultati patetici, come quella frettolosamente allestita a sostegno della dottoressa Letizia Maria Brichetto Arnaboldi Moratti. Eletti e votati quando c'era il re... Per valutare se la frana dell'afflusso ai seggi elettorali sia davvero grave giova un sintetico panorama della storia delle elezioni. La premessa è scontata. Il diritto di voto fu la grande conquista della democrazia partecipativa moderna. Non quella dell'antichità, che ad Atene e a Roma lo riservava a minoranze o lo immaginava decisione “diretta” della comunità auto-convocata (alla Rousseau, per intenderci), ma quella varata in Francia dopo la Rivoluzione dell'Ottantanove. Malgrado ben noti e deplorevoli eccessi, il suffragio universale è speculare alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Scandì le sue diverse fasi e le svolte che si susseguirono, sino ai plebisciti chiesti da Napoleone Bonaparte per avallare il colpo di Stato del 18 brumaio e la sua proclamazione a imperatore dei francesi. Il “modello” fu esportato nei Paesi via via contagiati dal messaggio rivoluzionario e/o assoggettati dalle armate napoleoniche. Segnò un punto di non ritorno. Dopo il crollo di Napoleone, la richiesta di ripristinare assemblee elettive rimase obiettivo dei liberali costituzionali al di qua e al di là dell'Atlantico. Come scrisse Giosue Carducci, che lo sapeva per cognizione personale, furono le “società segrete” (anzitutto la massoneria) a praticare e a predicare i due canoni cardinali della politica moderna: elettività alle cariche, durata ope legis del loro esercizio e rielettività solo dopo un congruo intervallo per scongiurare il rischio che l'esercizio del potere (non del solo “capo” ma anche del suo “seguito) si trasformi da democratico in indeterminato e generi fatalmente il culto della personalità e determini la fuoriuscita dal regime costituzionale. Per rimanere al “caso Italia”, dopo decenni di cospirazioni, moti e insurrezioni il Quarantotto di metà Ottocento vide fiorire una molteplicità di Costituzioni. La più limpida e feconda fu lo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Savoia nel regno di Sardegna il 4 marzo 1848, preceduto dalle regie patenti che nel novembre 1847 introdussero l'elettività dei consigli comunali, provinciali e divisionali, modellati sull'esempio dell'età franco-napoleonica. Il voto era riservato a un numero esiguo di cittadini e non era obbligatorio. Per eleggere deputati in collegi uninominali ai seggi si recava chi voleva. La legge elettorale però prevedeva che al primo turno dovesse affluire almeno un terzo degli aventi diritto, pena la nullità della votazione. Era la garanzia della rappresentatività effettiva degli eletti, fondata sulla partecipazione degli aventi diritto, non sulla loro indifferenza. La storia, con secoli di dominio straniero e di guerre contro gli invasori aveva insegnato che i cittadini dovevano far quadrato a sostegno delle istituzioni anche attraverso la leva militare obbligatoria, prolungata con la “milizia paesana” di cui ha scritto il generale Oreste Bovio in “Pagine di storia” (Ed. Roberto Chiaramonte, 2023). I pilastri dello Stato erano tre “S”: la Spada, la Scheda, i Soldi. L'articolo 25 dello Statuto era chiarissimo: i regnicoli contribuivano “indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato”. Per gli evasori fiscali, come per evasione dall'obbligo di leva, non erano previsti sconti. Con la proclamazione del regno d'Italia la legge elettorale di quello di Sardegna divenne nazionale. Come ricorda Pierluigi Ballini, la percentuale dei votanti si attestò costantemente intorno al 60%. L'affluenza più elevata venne registrata in Sicilia e nel Mezzogiorno. Finalmente liberi dai Borbone, i meridionali scommisero sulla nuova dirigenza di votati, molti dei quali avevano alle spalle decenni di prigionia o di esilio. Erano vocati. La partecipazione al voto rimase nettamente inferiore nel Veneto e in alcune province lombarde, succube del clero anti-unitario, ove essa a volte risultò persino al di sotto del 30%. Sia la Sinistra democratica (“garibaldini”, ex mazziniani, radicali, protosocialisti) sia alcune frange illuminate della Destra propugnarono il suffragio universale, introdotto nel 1913, quando nessuno statista immaginava che di lì a poco l'Europa si sarebbe buttata a corpo morto nella fornace della Grande Guerra. L'intervento venne deliberato dalle Camere obtorto collo e senza alcun avallo degli elettori. Fu estorto alla Camera da un governo consapevole di avere il sostegno di appena 120 deputati su 508 e che l'opinione pubblica era prevalentemente contraria. “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole...”. Nel regime monarchico i rappresentanti dei cittadini venivano dunque “eletti”. All'epoca erano un’élite, cioè una “dirigenza” non precostituita per nascita o censo ma votata. Chiunque poteva candidarsi. La decisione usciva dalle urne. L'elettività alle cariche e un'ampia gamma di forme di promozione sociale aprì l'ascesa alle cariche supreme anche a cittadini di modeste condizioni. L'elenco potrebbe essere lunghissimo. A parte il corpo diplomatico, tutti gli altri uffici dello Stato e l'ingresso nella dirigenza politica risultarono “aperti”. Accadde anche per le forze armate, in specie per l'Esercito, che vide salire in vetta un esponente della “piccola borghesia” quale Luigi Capello, comandante dell'Armata più corposa mai esistita in Italia prima e dopo di lui. Il regime statutario conciliò i principi della gerarchia e del merito, che dallo Statuto passarono nella Costituzione repubblicana (anche se largamente ignorati e spesso calpestati, come l'art. 97 secondo i quale “agli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni si accede mediante concorso” . La gerarchia era nell'organicità degli uffici, il merito veniva vagliato dalla scuola, che funse da “ascensore sociale” e propiziò l'affermazione in posizioni apicali a prescindere dalle condizioni originarie. Non per caso la legge elettorale conferì il diritto di voto sulla base del grado di istruzione, anziché solo sul censo. Tra i principali artefici della Nuova Italia bastino i nomi dell'albese Michele Coppino, il più innovativo ministro della Pubblica istruzione dal 1861 a oggi, nato da un ciabattino e da una cucitrice, e di Carducci. Figlio di un “chirurgo” squattrinato (non “medico”, come all'epoca accadeva), allievo all'Università grazie a una “borsa di studio”, fu nominato docente universitario a 25 anni. Curiosamente entrambi erano stati iniziati in loggia. Coppino nell' “Ausonia” di Torino (1860), Carducci nella “Felsinea” di Bologna (1866): Il regime rappresentativo incentivò la partecipazione alla vita politica. Ogni cittadino sentiva di potere e dovere esercitare la sua quota di sovranità. Il corpo della “nazione”, somma dei “popoli d'Italia” come argomentò Vittorio Emanuele II, era il vivaio dal quale la Terza Italia attingeva sempre nuove energie sulla base della libertà del voto. Per ironia della sorte o per l'eterogenesi dei fini che si diverte a deviare l'illusorio “corso della storia”, proprio l'avvento del voto universale maschile e dei partiti di massa (1919) precipitò il Paese sulla china che condusse al regime di partito unico, al voto obbligatorio, alla tessera di partito quale requisito indispensabile per l'accesso ai pubblici impieghi e al giuramento di fedeltà al duce del regime, imposto a tutti gli impiegati, compresi i docenti universitari. Accadde in Italia ma all'epoca molto peggio avveniva nell'Unione sovietica e in altri Stati totalitari di Europa e di altri continenti. Nel 1929, 1934 e 1939 votò il 98% degli “aventi diritto” e il governo ottenne ogni volta consenso plebiscitario. Gli eletti non erano propriamente “élite” ma i più “devoti al partito” anziché all'Italia, col risultato che il nazionalismo si risolse nella catastrofe dello Stato. Quanti “gerarchi” erano “vocati”? … all'alba della repubblica... Dal crollo del partito unico e dalla discussa vittoria sulla Monarchia la Repubblica ereditò l'obbligo del voto. Sui documenti di quanti lo evadevano veniva stampigliata la scritta mortificante “Non ha votato”, quasi fosse una colpa “morale” oltre che una (non sempre voluta) infrazione di legge. Alcuni insigni giuristi liberali, come Giovanni Cassandro, propugnarono l'obbligatorietà del voto, nella visione superiore del concetto di cittadinanza. La realtà però rimase altra. Ampia parte dell'elettorato restò succuba di pulsioni estreme. Erano gli anni della cortina di ferro, della divisione tra Democrazia cristiana e Fronte popolare, di temute insurrezioni eterodirette, ampiamente documentate da opere recenti quasi subito dimenticate. Le scelte razionali rimasero professione di minoranze esigue. Il partito d'azione, che contò sulla concentrazione più elevata di “intelletti”, si frantumò quattro mesi prima dell'elezione della Costituente. Giuseppe Saragat, che guidò parte dei socialisti italiani verso la libertà democratica, venne lapidato dai socialcomunisti. Come poi accadde a Bettino Craxi. Al netto delle critiche che li angustiarono e ne profetizzarono il tramonto, per un un trentennio i partiti alimentarono la partecipazione alla vita pubblica e il rinnovamento della dirigenza attraverso i loro riti interni e quelli elettorali, dai piccoli comuni al Parlamento. Il cittadino rimase a lungo convinto che, sommando un voto all'altro, la sua scelta personale potesse davvero incidere e determinare il corso generale della vita politica. Quando si spensero le illusioni? Paradossalmente proprio quando l'orizzonte divenne meno fosco: il crollo dell'Unione sovietica, la riunificazione della Germania, l'alba dell'Unione europea. Preceduta dalla “prova generale” dell'artificioso “scandalo” montato sulla '“P2” (una mistificazione da ricordare per tutte le sue nefaste conseguenze), dal 1992-1993 la campagna di discredito dei partiti e della “politica” (con rutto di tamburi di certi “media”) travolse il regime repubblicano postbellico senza generarne un altro. Dei vecchi “soci” del Comitato di liberazione nazionale sopravvisse solo l'ex Partito comunista italiano. Dalle macerie non nacquero fiori. Iniziò la grande fuga dalla vita pubblica. Il processo fu lento ma inarrestabile. Ora se ne vedono le conseguenze ultime. Vale per la “politica” come per l'istruzione pubblica. Bastarono pochi anni per svuotare la Scuola. Occorreranno generazioni per rimediare al guaio. Chiusa l'epoca degli uomini cosmico-storici (come descritti da Hegel) seguì quella dei comici e/o di “avvocati del popolo”, tribuni né eletti né vocati. Piaccia o meno, nel 1994 e per altre due volte Silvio Berlusconi ebbe il suffragio di metà dei voti, molto molto più di quanti ne ha avuti il partito dell'attuale presidente del Consiglio, che il 25 settembre 2022 ottenne i 16% degli aventi diritto al voto. Tempo è venuto di domandarsi perché manchino non tanto elezioni (convocate per ratificare candidati pre-confezionati) ma “vocazioni”. Occorre ripartire dalla centralità dello Stato, garante dei diritti dei cittadini, e da un'amministrazione pubblica rispondente alle loro urgenze quotidiane. Altrettanto, e ancor più, vale per le decisioni sul problema dei problemi: la politica estera e militare in un mondo che è in guerra e che, come ricorda papa Francesco dichiarandosi “un po' pessimista”, va “avanti, avanti, avanti verso il baratro.” Chi si illude che si possa ignorare quel che pensano i cittadini sino alle elezioni dei deputati all'Europarlamento nel 2024 e che nel frattempo tutto resta com'è ha un'idea bislacca della democrazia elettorale, della “rappresentanza”, e confonde la pazienza con la rassegnazione a non contare nulla. Ma oggi i cittadini sono informati e controllano le zampate “der Re leone”.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Hieronymus Bosch (1460 ? - 1516 ). L'imbonitore. Molti scommettono sulla “credulità popolare”. Promettono. Ma oggi i cittadini sono informati e non si fanno più abbindolare. Le Istituzioni, tutte, debbono dare risposte. La massiccia astensione dal voto non è una passeggera febbre influenzale ma patologica. IL PARTITO DELLO STATO I SENATORI DEL REGNO, NON ELETTI MA VOTATI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 12 febbraio 2023 pagg. 1 e 6.
Didascalia
La Costituzione è “rigida”? Allora va ripensata. I costituzionalisti insegnano che lo Statuto Albertino del 1848 era flessibile mentre la Costituzione della Repubblica è rigida. Ma non è affatto immutabile. Quando lo ha voluto, il legislatore l'ha modificata, talvolta in modo opportunistico e maldestro. L'intero Titolo V (Regioni, province, comuni) è stato messo a soqquadro da una maggioranza risicata. Fatto il danno, diviene difficile riparare. Vittime illustri delle Camere sono stati gli articoli 56 e 57 della Carta, con il drastico “taglio” di deputati e senatori, senza significativo risparmio per lo Stato né miglioramento apprezzabile della qualità dei “rappresentati della Nazione”. Mentre occorre la diversificazione di formazione e competenze delle due Camere, il Parlamento ha conferito l'elezione del Senato ai diciottenni (qualcuno proponeva i sedicenni) nella fatua illusione di ampliare la partecipazione al voto. E allora? L'astensione aumenta sia nelle “amministrative”, sia nelle “politiche”. Le “verità” sono “scomode”, ma vanno dette. La Carta vigente fu pensata e approvata con l'occhio rivolto a un passato che nel gennaio 1948 era già remoto. Quando già esisteva l'ONU e, a fronte della “guerra fredda”, l'Italia stava per aderire alla Nato (1949), la Costituzione non affrontò il “problema dei problemi” di uno Stato sia pure a sovranità limitata, cioè la politica estera, fugacemente accennata nell'articolo 11 (“L'Italia ripudia la guerra...”), destinato a rimanere una petizione di principio. Perciò, al netto di elogi d'occasione, bisogna prendere che venne scritta mentre incombeva l'imposizione del punitivo “Trattato di pace”, quando non esisteva neppure l'ombra dell'Unione Europea, del G7, del G20 e dei rapporti globali odierni economici e, purtroppo, militari. In quel “mondo” Africa e Asia erano ancora “colonie”. La Carta va “ripensata” nel suo insieme. Il “corpo” dello Stato d'Italia è cresciuto. Per dargli una veste istituzionale non bastano “rattoppi” occasionali. Come da decenni si ripete, occorre una stagione costituente. Analogo interrogativo si pose sul finire dell'Ottocento a proposito del Senato del regno. Una Camera “ringiovanita”. Un Senato immobile. Il 29 giugno 1881 il Parlamento approvò la legge elettorale proposta dalla “Sinistra storica” guidata da Agostino Depretis. Il diritto di voto fu conferito ai maschi che sapessero leggere e pagassero 19,80 lire di imposte dirette, una somma modesta. Gli elettori crebbero da seicentomila 600.000 a poco più di due milioni, il 20 per cento dei maschi ventunenni. Nel maggio 1882 fu introdotto lo scrutinio di lista in collegi circoscrizionali, per garantire l'elezione di candidati di minoranza: un sistema arzigogolato. Nel 1892 si tornò al collegio uninominale, ancor oggi rimpianto, nel quale l'elettore può essere ingannato una volta sola e diffida di candidati paracadutati “dall'alto”.Secondo Giuseppe Galasso, storico sommo, nel 1882 vennero eletti deputati competenti e assidui ai lavori. Risultò quindi urgente “ammodernare” anche il Senato, che era di nomina regia e vitalizio. Ma come? A intuire che la sua immobilità poteva essere pericolosa per il futuro delle istituzioni fu Ruggiero Bonghi (Napoli, 1826-Torre de Greco, 1895), deputato dal 1860, già ministro della Pubblica istruzione. Nel 1884 denunziò nella “Nuova Antologia” il decadimento del “regime parlamentare”: “L’uno o l’altro partito diventa governo. Ebbene, quantunque il partito che occupa il governo abbia una maggioranza in suo sostegno, non è punto certo che la rappresenti, anzi è assai probabile, e in più casi è più che probabile, che non la rappresenti. Se è così, che cosa resta di rappresentativo al regime parlamentare? Gli eletti non rappresentano i collegi; i partiti dividono la Camera, nessun d’essi la rappresenta, non che tutta, neanche in maggioranza. Non v’ha dubbio, il regime parlamentare si è sviluppato dal rappresentativo; ma è un figliuolo che ha soffocato il padre. Quando io penso al regime stesso, così come vige tuttora, mi ricorre a mente quel verso - cattivo, sì, ma non peggio di quanto va diventando la cosa -: Questi è un uomo che morra.” Lo pensava anche Marco Minghetti, ultimo presidente del Consiglio della “Destra storica” (1873-1876). “Per mio avviso”, questi scrisse nel subito celebre saggio su “L'ingerenza dei partiti nella pubblica amministrazione”, “la Corona deve accuratamente serbare le prerogative che le accorda lo Statuto e mai lasciare che altri le usurpi, imperocché quelle prerogative, ben usate sia nella scelta di ministri sia negli scioglimenti della Camera, possono in talune circostanze salvare il Paese.” Tra di esse spiccava la scelta dei senatori, che non poteva essere lasciata in balìa del presidente del Consiglio di turno, come Depretis, giunto a farne nominare 220 in otto anni e nove mesi di governo. Riempiendo il Senato di ex deputati ligi al governo impoveriva la dignità della nomina regia, spogliava la Camera Alta della sua superiore indipendenza dalle passioni partitiche contingenti e recideva alla radice il suo requisito di Istituto super partes. Decenni prima, nel saggio sulla Monarchia rappresentativa in Italia Cesare Balbo aveva configurato il Senato quale vera e propria élite. “Soffiando su tutta Europa continentale il vento democratico del Quarantotto, tutti gli statuti italiani dati al principio di quell’anno fecero senati non ereditari ma a vita. Se invece di gennaio, febbraio e marzo, fossero nati nei mesi successivi, è poco dubbio che non sarebbero rimaste nemmeno quelle due ultime reliquie aristocratiche dell’elezione dei senatori fatti a vita e da principi: ché i senatori si sarebbero fatti eleggere a tempo dal popolo. Un senato per rimaner senato, per fare effetto diverso in qualche parte dalla Camera dei deputati, debb’essere diverso da questa, diverso nella durata e nell’elezione. Se vogliamo istituzioni repubblicane, facciamo una repubblica; ma se vogliamo monarchia, facciamo istituzioni monarchiche; verità sempre da per tutto; in tutto verità.” Determinante per la continuità del Senato fu il passaggio di Francesco Crispi dai fautori dell’elettività di entrambe le Camere (propugnata dal cattolico Fedele Lampertico e, ai suoi esordi, da Domenico Farini, componente del Consiglio dell'Ordine del Grande Oriente d'Italia) a quella della esclusiva nomina regia dei patres conscripti. Ebbe il conforto dalle amare riflessioni di Gaetano Mosca sulla nuova classe dirigente: “Il tempo farebbe pure dimenticare la prima origine impura di molte fortune e molte influenze; ai figli nati in elevata fortuna sarebbero risparmiate le bassezze e le contraddizioni che, per arrivarvi, furono necessarie ai padri...”. Materia prima della “teoria delle élites” elaborata da Mosca fu proprio il Senato del Regno. Per una fortunata congiunzione astrale tra calcoli di potere e invenzioni della “buona stella” che costituiscono caratteristica della storia d’Italia, a conferma dell’eterogenesi dei fini anche nella vita politica, proprio Crispi e il suo emulo Giolitti di infornata in infornata gonfiarono a dismisura il corpo del Senato ma al tempo stesso ne serbarono elevato il rango, riscattandosi dall’insinuazione che la quantità dovesse necessariamente comportare lo scadimento della qualità. Ogni nuovo senatore recò alla Camera Alta un capitolo della storia d’Italia, che affondava radici nelle cospirazioni liberali e nelle patrie battaglie del Risorgimento. In quegli anni entrarono in Senato Giosue Carducci, maestro e vate della Nuova Italia e Costantino Nigra, decano della diplomazia. Sarebbe stato umiliante che per concorrere alla vita parlamentare italiana quelle personalità dovessero assoggettarsi a notabili locali, talora più forti persino del potere corruttivo di prefetti e viceprefetti, come narrò Amedeo Nasalli Rocca nelle sue gustosissime Memorie di un prefetto. Accadeva, per esempio, che, non essendo riuscito a convincere gli elettori a votare per il candidato che gli era stato raccomandato, il sindaco di un piccolo borgo scolasse da solo tutto il vino acquistato coi fondi neri governativi per propiziarne il successo e venisse rinvenuto ubriaco in un fosso: sconfitto, alle urne e senza speranza di essere premiato con l’ambita croce di cavaliere. Nominato presidente del Consiglio, Giolitti camminò nel solco tracciato da Depretis e Crispi. Nelle due infornate del 10 ottobre e 21 novembre 1892, prima e dopo il rinnovo della Camera, tra parecchi patres di fama non imperitura inserì quanti bastavano a conservare lustro alla nomina regia e vitalizia. Nel 1892 il Senato riservò a Giolitti un’accoglienza gelida. Il suo governo contava un solo pater, il savoiardo ammiraglio Antonio Pacoret de Saint-Bon, che morì pochi mesi dopo la nomina. Un affronto alla Camera Alta? Il precedente ministero, però, presieduto da Antonio di Rudinì, ne aveva avuti appena due. La ragione era dunque altra. In Giolitti la Camera Alta intravvide chi avrebbe chiesto ai patres che non si contentassero del laticlavio come fosse una onorificenza, ma concorressero con maggiore partecipazione al grigio travaglio di elaborazione delle leggi. Alla proclamazione del Regno, nel 1861, i senatori erano 211. Dopo il trasferimento della capitale da Torino a Firenze risultavano 276. Divennero 308 con l’annessione di Roma. Nel passaggio dalla Destra alla Sinistra (marzo 1876) se ne contavano 328. Depretis li portò a una media di circa 330 durante il suo decennio di governo. Crispi li fece balzare a 411 nel 1890 e a 416 nel 1891. Giolitti, fece di più. Li accrebbe a 464. Poche decine meno dei 508 deputati. Come prevedibile, venne chiamato a darne conto in Assemblea. Andrea Guarneri lo accusò di mettere a repentaglio l’intero edificio “alla cui sommità v’ha, o signori, la Maestà del Trono di Italia”. Come al solito, Giolitti eluse le questioni di principio, terreno lubrico d’interminabili dispute bizantine, e andò al punto che gli premeva. Da anni la Camera Alta faceva registrare un grave e non edificante assenteismo. Nelle due votazioni più importanti della precedente legislatura (1890-1892), sull'abolizione dello scrutinio di lista e ritorno al collegio uninominale e sull’esercizio provvisorio del bilancio per sei mesi, dei 375 senatori in carica in aula se ne contarono appena 83 per la prima legge e 116 per la seconda. Quello fu anche il numero di presenze più elevato fatto registrare dai patres nell’arco dell’intera legislatura: meno di un terzo dei componenti. Non era dunque il governo a mancare di rispetto al Senato immettendovi energie nuove, in gran parte provenienti dalla Camera e quindi aduse alla dialettica parlamentare. Erano i senatori, a volte presuntuosi e assenteisti, ad aver trascurato il loro dovere. La Camera Alta non era un’Assemblea di congerrones, cioè di compagnoni, come avrebbe lamentato a suo tempo Marco Tullio Cicerone, che in Aula si trovavano di quando in quando quasi per divertimento. Il Senato del Regno era la Prima Camera. Tenuta, come l’antica, a far sì che sempre si dicesse “Senatus populusque romanus” e mai “Populus et senatus”. La differenza non era poca. Il Senato doveva comprovare con la propria condotta che il re tale era “per grazia di Dio” prima che “per volontà della nazione”. Giolitti era conscio che non tutte le assenze potevano essere addebitate a negligenza, giacché molti senatori erano anziani, cagionevoli di salute, residenti in lande remote dalla capitale, difficile da raggiungere per chi abitava nelle grandi isole o nelle province periferiche del Regno. Ammise che gli ex deputati costituivano il gruppo più numeroso dei nuovi senatori. Ma se il Senato voleva non solo una “vetrina” di celebrità ma un'assemblea politica, poiché non ci si poteva attendere partecipazione assidua di diplomatici, militari, magistrati, scienziati, cattedratici e accademici in missione e dediti alle loro discipline, era bene che la Camera Alta venisse rinvigorita con ex deputati, molti dei quali avevano titoli anche per altre categorie. Come veniva preparata una “infornata”? In pagine scritte col pennino intinto nell’amaro inchiostro di chi temeva l'avvento dei clericali, nel Diario di fine secolo Domenico Farini lasciò resoconto minuzioso di come fossero decisi i laticlavi da proporre al Re, Umberto I. Narrò il colloquio avuto all'Hotel “Suisse” di Torino con il presidente del Consiglio generale Luigi Pelloux. Scorrendo le liste trasmessegli dal precedente presidente del Consiglio e quelle da più parti pervenute i due passarono in rassegna vizi e virtù degli aspiranti senatori. Poiché la Camera Alta contava un solo ammiraglio, che a detta del ministro Benedetto Brin non sapeva né leggere né scrivere, s’imbatterono nella candidatura di un suo pari grado che secondo il re era “un grande intrigante”. A Pelloux risultava anzi che mentre era imbarcato sul “Colombo” aveva persino rubato. Occorreva bilanciare nomi di sinistra con altri di destra. I due si scambiarono battute feroci. Miceli era “un rammollito”. La candidatura dell’ex deputato di Milano Luigi Rossi pareva sostenuta dalla duchessa Litta (vale a dire dal re, di cui era notoriamente intrinseca) benché fosse mezzo radicale, mezzo socialista, dotato di ingegno e cultura e quindi “un uomo che può riuscire in Assemblea molesto”. Ulderico Levi, in aggiunta a Ugo Pisa, avrebbe portato gl’israeliti a due su trenta in una sola tornata. Troppi. “E di Parpaglia che dici?” domandò Pelloux. Farini di rimando: “mi pare una brava persona, ma bada, in Sardegna che ora ha un solo senatore, vi ha un vecchio parlamentare che non si può trascurare: il Salaris”. Pelloux replicò: “Sì... il Salaris... ma è vecchio e non verrà mai. Parpaglia è ottimo”. Farini: “Ma Salaris, ufficiale fino dal 1848 nei cacciatori sardi, è un liberale, ha undici legislature”. “E del Piaggio, ex deputato, che diresti?” domandò Pelloux. Rispose Farini: “Non credo si debba nominare chi è direttore d’una società come quella di navigazione, tanto legata al Governo”. Pelloux: “Così pare anche a me. Ma dicono che il Piaggio è amministratore delegato e non direttore generale... ”. “Questa è ipocrisia da curiali, quasi che il titolo muti la sostanza...”. Infine i due concordarono nel deplorare “il pettegolezzo giornalistico intorno alle nomine senatorie, le autocandidature, le sfacciate pretese, le impudenze inaudite”. A un certo punto Pelloux esclamò che “in mezzo a tanto putiferio, il meglio sarebbe di non far nulla di nulla”. Fu incoraggiato da Farini che gli osservò come i patres già fossero 326, oltre a tre che ancora non avevano prestato giuramento e a cinque principi del sangue, uno dei quali gli era inviso per legami con gli Orléans. Era il 13 ottobre 1898. Il 17 novembre avvenne l’infornata di trenta senatori, aperta proprio dall’uomo del “Colombo”. Comprese Giuseppe Carle, Antonio Cefaly, diadoco di Giolitti nel Mezzogiorno e massone, il garibaldino Abele Damiani, che Pelloux aveva detto a Farini di non volere “assolutamente”, i due ebrei Ulderico Levi e Ugo Pisa, Luigi Miceli, Salvatore Parpaglia (ma non Salaris), Erasmo Piaggio e il giolittiano e proprietario della “Stampa” di Torino, Luigi Roux, perché in fondo, pettegolezzi per pettegolezzi, era bene avere amico almeno uno dei giornali più influenti. Malgrado tutto... Il Senato mostrò di essere il luogo istituzionale più propizio per lanciare messaggi politici a futura memoria, come il conferimento dei collari della SS. Annunziata a sovrani, presidenti di repubbliche e principi esteri lo era per le linee che lo Stato si apprestava a percorrere nelle relazioni internazionali. Se n’ebbe la conferma il 14 giugno 1900. Nel 1870, l’anno di Porta Pia, alla Camera Alta venne chiamato il laniere di Schio Alessandro Rossi, clericale e massonofago. Nell’anno del Giubileo il laticlavio fu conferito ad Antonio Fogazzaro, il più prestigioso scrittore cattolico italiano tra Otto e Novecento, più volte candidato al premio Nobel per la letteratura come documentato da Enrico Tiozzo. La Corona non precludeva l'Aula senatoria ai talenti acclarati e non badava alle contese in corso tra clericali e anticlericali. Lo scrittore era “un nome”. Va ricordato infine che l’ingresso in Senato non comportava alcuna remunerazione e neppure alcuna “quota” da parte dei suoi componenti: una un “patto” alla pari tra Monarchia e Patres, come spiegò Luigi Einaudi, monarchico e liberale “a schiena dritta”. Il regio Senato, in sintesi, era e rimase un “élite”, con tutte le contraddizioni interne del nome, che indica una classe dirigente esistente “di per sé, non “eletta” (élite derivi da eligere) e tuttavia “votata”: non dal suffragio popolare, però, ma dalla propria vocazione. Un groviglio che merita un'apposita trattazione.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Luigi Girolamo Pelloux (La Roche en Savoie, 1839-Bordighera, 1924). Figlio di un medico eletto al Parlamento subalpino (1857-1860), allievo dell'Accademia militare di Torino, alla cessione della Savoia alla Francia (1869) optò per la cittadinanza italiana, come già aveva fatto suo fratello Leone nel 1860. Comandò l'artiglieria che il 20 settembre 1870 aprì la breccia a Porta Pia. Eletto deputato a Livorno nel 1881 e confermato alla Camera sino al 1892, ministro della guerra nei governi Rudinì, Giolitti e ancora Rudinì (1891-1896), fu presidente del Consiglio nel 1898-1900. Lasciato il servizio militare (1902) si stabilì a Bordighera, ove morì. Venne nominato senatore nel 1896, come suo fratello. Lo storico Oreste Bovio, autore di “Pagine di storia” (Chiaramonte Ed., 2023), in “Sacerdoti di Marte” (Ed. Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito) ha giustamente scritto che “La patente di reazionario che ancora oggi alcuni studiosi attribuiscono a Pelloux è del tutto ingiustificata”. Ma i “luoghi comuni” e i “manuali” scolastici sono rigidi: “rigor mortis”.
PER UNA NUOVA COSTITUENTE IL SENATO DEL REGNO, PER ESEMPIO
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 5 febbraio 2023 pagg. 1 e 6.
Didascalia
All'outlet del costituzionalismo imperfetto? Nuovamente molto si parla di riforma dello Stato.Vengono presi a prestito istituti di terre lontane, diversissimi, come presidenzialismo, semipresidenzialismo, primierato e simili, e proposti alla rinfusa, come capi di vestiario in svendita all' Outlet del costituzionalismo imperfetto. Con le solite condizioni allettanti: soddisfatti o rimborsati, oppure “si accettato resi”. Se dopo la prima sommaria prova “nel camerino”, il“popolo”constata che la giacca risulta di manica troppo larga o troppo lunga e il pantalone cade male può restituire e indossare un altro abito...costituzionale? Ogni quante stagioni? Così non funzionano le forme dello Stato. Due considerazioni s'impongono: in primo luogo, come mai altrove gli Stati hanno una forma che dura nei secoli? Si vedano la monarchia britannica, gli Stati Uniti d'America e, dopo vari esprimenti, la repubblica francese, punto di arrivo di un processo millenario che fa di Macron il successore di De Gaulle, Napoleone, Luigi XIV, sino alla unzione davidica dei re. Qual è il segreto della lunga durata delle Istituzioni? Semplice: durano quando calzano ai popoli, i cui caratteri – come ricorda il generale Claudio Graziano in “Missione” - sono frutto di secoli e secoli. Lo stesso vale per l'Italia, uno stato giovane, che somma circa cent'anni di monarchia rappresentativa e settantacinque di repubblica parlamentare: un sistema il cui pregio principale sta nella continuità, come ognuno capisce se confronta lo Statuto albertino del 4 marzo 1848 con la Costituzione del 1 gennaio 1948. Chi voglia approfondire può leggere con profitto il libro di Tito Lucrezio Rizzo, per decenni Consigliere del Quirinale, Il Capo dello Stato dalla Monarchia alla Repubblica, 1848 al 2022 (ed.Herald).
La riforma costituzionale anni addietro proposta da Matteo Renzi puntava al riassetto armonico dei tre poteri apicali dello Stato, con opportune modiche di competenze, ma nella piena salvaguardia della loro identità, necessaria all'equilibrio della democrazia, garantita dalla sovranità dei cittadini. Non cedeva alla chimera dell' uomo unico (e “forte” ) al comando né alle sirene del monocameralismo, tipica dei giacobini e dei sovietici e realizzata dalla non rimpianta Repubblica sociale italiana. Anni di impossibile diarchia di partito unico e monarchia rappresentativa si risolsero nella prevalenza logico-cronologica della monarchia costituzionale, che ispirò i costituenti quando scrissero la Carta della repubblica parlamentare. Merita dunque ripercorrere per sommi capi genesi e vita del Senato del Regno, che dal 1848 dette corpo al regime parlamentare in Italia e propiziò lo sviluppo civile, sociale, economico e culturale del Paese sorto dall'accorpamento dei popoli d'Italia raccolti attorno al tricolore sabaudo. Senza indulgere a sterili accenti nostalgici, stiamo ai fatti. Lo Statuto albertino nacque in un mese di “Consigli di conferenza” presieduti personalmente da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, sovrano di un regno che usava ufficialmente due lingue e, caso unico in Italia, rispettava tre confessioni religiose: la cattolica (di Stato), la valdese e l'israelita e riconobbe i cittadini uguali dinanzi alle legge, osservassero o meno un culto. L'importate era che rispettassero le leggi e fossero fedeli al re e a suoi reali successori per il bene indivisibile del patria. Vediamo dunque il primo mezzo secolo del Senato del Regno, dall'origine a fine Ottocento. In altri articoli parleremo delle sue vicende successive. E' il modo pacato di offrire un contributo costruttivo al confronto sulle riforme costituzionali che ricorrentemente si affaccia sull'orizzonte della politica non inquinata da urla scomposte. Quando Carlo Alberto istituì il Senato Fra il 3 aprile 1848, Carlo Alberto di Sardegna nominò i primi 58 senatori e le ultime nomine decretate da Vittorio Emanuele III il 6 febbraio 1943, il Senato del Regno contò in tutto 2404 membri designati. Però solo 2362 furono convalidati e prestarono giuramento divenendo a tutti gli effetti componenti della Prima Camera o, come si disse, Camera Alta per distinguerla da quella elettiva. I senatori erano di nomina regia, vitalizi e in numero aperto. Le differenze tra natura, composizione, poteri e scopi dei due rami del Parlamento furono profonde. Lo divennero ancor più quando, per effetto della “legge Alfredo Rocco” del 17 maggio 1928 n. 1079, la Camera elettiva cessò di essere frutto di libero confronto-scontro tra partiti e candidati e risultò preconfezionata dal Gran consiglio del fascismo ertosi a “partito unico”. Il Senato assunse dignità anche maggiore quando, con la legge 19 gennaio 1939 n. 129, la Camera votata nel 1934 approvò la propria sostituzione con quella “dei fasci e delle corporazioni”, infarcita di “eletti di secondo grado”. Quest’ultima evocò per contrasto il ruolo che la Camera Alta era chiamata a esercitare in presenza di reiterati assalti di Mussolini allo Statuto, orgoglio per Casa Savoia molto prima che Vittorio Emanuele II fosse proclamato re d’Italia. La Camera dei fasci e delle corporazioni fu formata da componenti del consiglio nazionale del Partito Nazionale Fascista, dal profilo culturale e professionale generalmente modesto, e in parte dal Consiglio nazionale delle corporazioni. Quei deputati, o “consiglieri”, come ordinariamente furono detti, erano almeno venticinquenni e ricevettero indennità annua fissata dalla legge. Parecchi di essi avevano un impiego negli enti fascistizzati o parafascisti e non avrebbero avuto altrimenti di che vivere. Con votazioni sempre palesi essa doveva deliberare entro un mese i disegni di legge che riceveva dal duce. Invertendo la pena etrusca, il nuovo contaminò il vecchio. La legge recitò che il Senato e la Camera avrebbero “collaborato col Governo per la formazione delle leggi”. Vennero subordinate al governo. “D’altronde”, affermò Mussolini in La dottrina del fascismo nel 1938 posto a preambolo del nuovo statuto del PNF, “ammesso che il secolo XIX sia stato il secolo del socialismo, del liberalismo, della democrazia”, non era detto lo fosse anche il seguente. “Le dottrine politiche passano, i popoli restano. Il fascismo vuole lo Stato forte, organico e al tempo stesso poggiato su una larga base popolare. Non crea un suo “Dio”, né cerca vanamente di cancellarlo dagli animi come fa il bolscevismo. Il fascismo rispetta il Dio degli asceti, dei santi, degli eroi e anche il Dio così com’è visto e pregato nel cuore ingenuo e primitivo del popolo.” In 37 articoli lo statuto del PNF non fece alcun cenno al re né alla monarchia. I tesserandi declamavano: “Nel nome di Dio e dell’Italia, giuro di eseguire gli ordini del duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario, col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista”. Quanto quel giuramento fosse vincolante si vide il 26 luglio 1943, Benché il partito avesse raggiunto il massimo degli iscritti ma non si registrò alcuna manifestazione di massa contro la revoca di Mussolini da capo del governo. Solo un labile cenno ricordava che dalla direzione del partito dipendeva l’“Unione Nazionale Fascista del Senato. Alcuni “storici”, come Emilio Gentile, ne hanno dedotto che il PNF avesse prono ai suoi ordini il Senato del Regno. Così però non era. Infatti l’Unione raccoglieva solo una parte dei patres conscripti, come i senatori eran detti nell’antica Roma. Il capo del governo esigeva dai dipendenti pubblici il giuramento di fedeltà al duce in aggiunta a quello al re e ai suoi reali successori ma non ricambiava chiedendo ai suoi iscritti analogo impegno verso il re, benché il Gran consiglio fosse da un decennio “organo costituzionale”: un guazzabuglio di contraddizioni creato apposta per isolare sempre più il sovrano. La Camera Alta era e rimase un osso duro da rodere da parte del Duce, perché, pur con percorso segmentato, dalla promulgazione dello Statuto esso fu l’unico fulcro di un possibile “partito dello Stato”. Il Senato, “partito del Re” Dagli esordi, nel 1848, il Senato del Regno si trovò tra due fuochi. Da un canto doveva assumere la funzione di “partito del re”, dall’altro acquistare rappresentatività della nazione. Le nomine di patres talora precorsero l’annessione di nuove terre alla Corona sabauda e le elezioni della Camera dei deputati, come quelle indette a distanza ravvicinata nel 1860-1861 proprio per suggellare il conseguimento dell’unità nazionale nei confini in quel momento possibili. Gli elettori furono convocati il 25 marzo 1860 per eleggere i deputati di un Regno comprendente Lombardia, ducati padani, legazioni pontificie e Toscana da poco annessi al Regno di Sardegna, previo plebiscito. Il 29 febbraio Vittorio Emanuele II conferì 33 laticlavi senatoriali a personalità di spicco delle nuove terre. Tra il 18 e il 23 marzo seguirono due piccole “infornate” (com’eran dette le nomine di parecchi senatori in uno stesso giorno), per un insieme di altri 33 membri. Il 29 febbraio era stato il turno soprattutto di lombardi; poi fu la volta di tosco-emiliani. Tutte designazioni di alto prestigio. Rispondevano allo scopo: conservare al Senato il rango di “legione sacra” della monarchia e farne la “vetrina del Regno”, il consesso delle figure più illustri nei campi indicati dalle ventuno categorie dallequali eran tratte: politici, militari, magistrati, alti burocrati, docenti, con speciale riguardo per gli esponenti della cultura intesa quale sintesi suprema di otium e negotium, pensiero e azione, sapere scientifico e partecipazione alla vita politica nazionale. Altrettanto avvenne sull'inizio del 1861, dopo l’annessione di Marche, Umbria e delle Due Sicilie. I comizi elettorali furono convocati per il 27 gennaio. Una settimana prima, il 20, il re nominò 57 patres. Aperta dallo storico, arabista e patriota siciliano Michele Amari e chiusa dal giurista napoletano Giuseppe Vacca (1810-1876), poi ministro di Grazia, giustizia e culti nel governo La Marmora (1864-65), l'“infornata” comprese una carrellata di celebrità, i cui nomi riassumevano decenni di storia e talora congiungevano l’età franco-napoleonica e i moti liberali del 1820-1831 con il regno d'Italia poco dopo proclamato dalle Camere (14 marzo 1861). Rendere parzialmente elettivo il Senato per rivitalizzarlo? Ancor prima di essere nominato presidente del Consiglio Camillo Cavour aveva auspicato che il Senato divenisse almeno parzialmente elettivo, proprio per levargli di dosso la patina di accolta di “camelots du Roi”. Però la svolta sanguigna assunta dalla Rivoluzione in Francia e la chiassosa inconcludenza della Camera dei deputati presto lo convinsero che non era prudente insistere su propositi innovatori proprio mentre occorreva far quadrato attorno alla Corona. La sconfitta militare a Novara, l’abdicazione di Carlo Alberto, il proclama di Moncalieri, il conflitto con gli ecclesiastici fecero il resto anche se proprio in Senato il programma di modernizzazione di Azeglio e di Cavour incontrò resistenze accentuate e se Vittorio Emanuele II tentò di sostituire il primo ministro con il presidente della Prima Camera, il sardo Giuseppe Manno. Nel 1852 il barone Domenico Carutti di Cantogno (1821-1909, nominato senatore nel 1889) osservò che il Senato doveva rappresentare “specialmente lo spirito di conservazione”, ma rilevò che “la facoltà della Corona, assoggettando soverchiamente la podestà esecutiva, diminui(va) la considerazione e la corsa dell’intera assemblea, qualunque sia l’autorità personale dei singoli suoi membri. Tale sistema impertanto o presto o poi dovrà cedere il luogo alla elezione, verso la quale inclinano sensibilmente le società moderne”. La sua opinione non nasceva solo dal fatto che tanti suoi sodali erano stati nominati senatori ma lui no. A chiedere che il Senato venisse abolito rimasero i sempre più rari nostalgici della Convenzione repubblicana francese del 1792, l’assemblea che dapprima votò il regicidio e poi fu teatro dell’aggressione al suo tiranno Massimiliano Robespierre e segnò il passaggio dal Terrore al Termidoro. Più ampio e articolato rimase il ventaglio di quanti insistevano per l’elettività almeno parziale della Camera Alta. Argomentato e tenace fu il siciliano Francesco Crispi. Le vicende del Regno però rimasero troppo incalzanti perché si potessero modificare a cuor leggero natura e funzioni di un pilastro portante dello Stato qual era il Senato. La spedizione garibaldina per “Roma o morte”, intrecciata al brigantaggio infestante le regioni che essa avrebbe dovuto attraversare, il trasferimento della capitale a Firenze, abbrunato dalla sanguinosa repressione della protesta torinese, la guerra del 1866 e la rivolta repubblicana di Palermo, la sfortunata campagna garibaldina nell'Agro Romano spenta a Mentana nel novembre 1867, le insorgenze contro la tassa sulla macinazione delle farine, indispensabile per avviare al pareggio il bilancio d'esercizio, l'annessione di Roma e una geremiade di guai, compresa la devastante epidemie di colera del 1867 e da un canto indussero a lasciare lo Statuto qual era, dall’altro spinsero molti esponenti della Sinistra ad accostarsi alla Corona nella forma più esplicita: l'ingresso nella Camera Alta. Il 23 marzo 1876 Vittorio Emanuele II nominò senatore Isacco Artom (Asti, 1829-1900). Ebreo osservante, come Costantino Nigra “apprendista diplomatico” a fianco di Cavour, all'avvento della Sinistra (18 marzo) fu rimosso da segretario generale del ministero degli Affari Esteri e subito risarcito con l'inclusione tra gli “uomini del re”. Nel triennio seguente il Senato fu approdo di altri esponenti della Destra, preziosi per la continuità delle istituzioni nel cambio tra le due maggioranze, e di rappresentanti della Sinistra, a conferma che, al di sopra dei rispettivi retaggi, vi erano le “fortune indivisibili” dell’Italia e di Casa Savoia, come si sentiva ripetere nei banchetti politici e nelle rievocazioni patriottiche. Era davvero difficile pensare che un italiano famoso per merito non fosse anche senatore, posto che non preferisse essere eletto alla Camera dei deputati. Qualcosa però appunto mancava alla Camera Alta: il conforto esplicito della “volontà della nazione”. Si vedrà se e come venne rimediato.
Aldo Mola
DIDASCALIA Carlo Alberto di Savoia-Carignano, Re di Sardegna. Busto in marmo. Un tempo orgoglio del Palazzo civico di Saluzzo, da lui donato al Comune. Tra i primi 58 patres nominati da Carlo Alberto il 3 aprile 1848 per costituire il Senato del regno di Sardegna spiccano Cesare Alfieri di Sostegno, Gaspare Coller, nominato presidente del consesso, Alessandro e Annibale di Saluzzo, Alberto Ferrero della Marmora, Carlo Ignazio Giulio, Giuseppe Manno, Giovanni Nigra, Emanuele Pes di Villamarina, Luigi e Giacinto Provana di Collegno, Vittorio Amedeo Sallier de la Tour, Lodovico Sauli d'Igliano, Roberto Tapparelli d'Azeglio, Girolamo Tornielli, Cesare Trabucco di Castagnetto. Con decreti successivi nominò senatori, fra altri, Ettore Gerbaix de Sonnaz, l'arcivescovo Luigi Nazari di Calabiana, Agostino Chiodo, Ferdinando Prat, Luigi Cibrario, Gabriele De Launay e don Ferrante Aporti. Nei primi tempi di regno Vittorio Emanuele II creò senatori Luigi Des Ambrois de Nevache, Federigo Sclopis, l'archiatra Spirito Riberi (al quale, spirando, il garbatissimo Carlo Alberto disse “Vi voglio bene, Riberi; ma muoio”), Luigi Provana del Sabbione, Cesare Della Chiesa di Benevello, Ferdinando Arborio Gattinara di Breme e Giuseppe Siccardi, che legò il nome all'abolizione di privilegi ecclesiastici. Per una rassega delle costituzioni vigenti in Italia dal Settecento a oggi v. “Le Costituzioni italiane” a cura di A. Aquarone, M. D'Addio e G. Negri, Milano, Comunità, 1958, ricalcato in parte da “Le Costituzioni Italiane, 1786-1948” a cura di E. Fimiani e M. Togna, con prefazione di Maria Elena Boschi e prefazione di Giovanni Legnini, L'Aquila, Textus, 2015.
GIOLITTI 1915-1928 TRAMONTO DELLO STATISTA E DEL REGIME LIBERALE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 29 gennaio 2023 pagg. 1 e 6.
Didascalia
“Moriar in patria saepe servata” pare abbia detto Cicerone porgendo il collo ai sicari che gli mozzarono la testa e, orrendo omaggio, la recarono ad Antonio. Al generale Paolo Puntoni, suo primo aiutante di campo, Vittorio Emanuele III osservò imperturbabile: “Non si può dire che da quando s'è formata l'Italia le cose siano andate proprio bene per la mia Casa! Solo mio nonno (Vittorio Emanuele II) ne è uscito bene, Carlo Alberto (il bisnonno) dovette abdicare, mio padre (Umberto I) fu assassinato”. Lo aspettavano l'abdicazione e l'espatrio. Non andò molto meglio ai maggiori statisti italiani. Nel 1861, appena proclamato il regno d'Italia, Camillo Cavour morì cinquantunenne per una febbre così violenta da suscitare sospetti e leggende. Travolto dalla sconfitta nella prima guerra d'Africa nel 1896, Francesco Crispi chiuse gli occhi a Napoli nel 1901 pressoché dimenticato. Con alto senso dello Statoil suo principale avversario, Giovanni Giolitti, volle che gli fossero rese solenni onoranze. Mussolini finì affisso per i piedi a Piazzale Loreto dopo una morte ancora al centro di diverse narrazioni. Alcide De Gasperi visse gli ultimi mesi estromesso dal potere. Aveva fallito l'obiettivo di varare la legge elettorale, combattuta come “truffa”, che avrebbe assicurato stabilità al governo. Negli ultimi anni il liberale Luigi Einaudi si rifugiò tra i suoi libri all'“Eremo” di Dogliani. Rifiutato ogni patteggiamento mortificante, il socialista Bettino Craxi preferì morire ad Hammamet. E Giolitti? Non gli andò molto meglio. Per una pace nella giustizia interna e internazionale Costretto a lasciare Roma sotto la minaccia di attentato alla sua vita (17 maggio 1915) Giolitti visse appartato nella villa avita a Cavour, un borgo ai piedi della Rocca. Valicato un ponticello sul rio Marrone, dal giardino di casa andava a passeggiare sotto la cortina di glicini nel vasto parco, rifugio della sua orgogliosa solitudine di deputato da 34 anni, quattro volte presidente del Consiglio e ministro dell'Interno. Mentre divampava la prima guerra mondiale, rimaneva la Stella Polare dei “moderati”: liberali pensosi, democratici veri e cattolici conciliati con lo Stato. Dal seggio di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo il 14 agosto 1916 auspicò, con la vittoria, “la cessazione del più immane macello di uomini che lo storico ricordi e una pace sicura”. Un anno dopo indicò le fondamenta della futura ricostruzione: “Sarebbe pericolosa illusione credere che si possa riprendere con poche varianti l’andamento della politica estera a base di trattati segreti e della politica sociale ed economica del periodo storico che ha preceduto la guerra. Quel periodo è definitivamente chiuso, come fu chiuso il periodo dell’antico regime dalla rivoluzione francese. Questa guerra, che non è più solo un urto di eserciti ma un conflitto di popoli che vi gettarono senza misura vite ed averi, ha dimostrato la necessità di profonde mutazioni nella condotta della politica estera, ha messo in vista le eroiche virtù del nostro esercito e del nostro popolo, ma, d’altra parte, ha in stridente contrasto rilevato insaziabile avidità di danari, disuguaglianze nei sacrifici, ingiustizie sociali; ha mutato le condizioni della pubblica economia, ha concentrato ricchezze in poche mani, ha accresciuto in modo senza precedenti le ingerenze dello Stato e quindi le responsabilità dei governi. È inevitabile che, a guerra finita, lo spirito pubblico, specialmente nelle classi popolari, si trovi profondamente mutato. Quando milioni di lavoratori delle città e della campagna, la parte più virile della nazione, affratellati per anni dai comuni pericoli, sofferenze e disagi eroicamente sopportati per la patria, torneranno alle povere loro case, ritorneranno con la coscienza dei loro diritti e reclameranno ordinamenti improntati a maggiore giustizia sociale che la patria riconoscente non potrà loro negare”. Poche settimane dopo l’Italia si misurò con la rotta di Caporetto (24 ottobre) e l’Europa con la cosiddetta “rivoluzione d’ottobre” in Russia (7-16 novembre secondo il calendario giuliano). Il 12 agosto 1918 da Cuneo ancora una volta Giolitti parlò al Paese: “Possano gli avvenimenti bellici del 1918 avvicinare il termine della orrenda carneficina e fare che una giusta pace consenta al mondo il ritorno alla vita civile, al progresso, alla libertà. Ma sia pace e non tregua, non ritorno alla politica degli armamenti, preparazione di nuovi conflitti. L’immane catastrofe che si abbatté sul mondo persuada i popoli tutti della assoluta necessità di grandi riforme negli ordinamenti interni ed internazionali, fondandoli sulla giustizia e sulla libertà, poiché se le assemblee dei rappresentanti dei popoli continueranno a non avere sulla politica estera un’influenza decisiva e se i rapporti tra le Nazioni continueranno ad essere retti con le vecchie norme della diplomazia, sarà vano sperare in una pace sicura e i progressi delle scienze non serviranno ad assicurare ai nostri figli un migliore avvenire, ma a rendere i futuri conflitti così orribili da far impallidire il ricordo di quelli ai quali ora assistiamo”. Come provò la seconda guerra mondiale, chiusa con il lancio di due bombe atomiche americane sul Giappone. Il 12 dicembre 1918 le difficoltà di instaurare la “pace sicura” ispirarono anche il suo breve discorso al Consiglio provinciale di Cuneo: “Non solo il nemico è vinto, non solo è distrutto l’esercito nemico, ma sono distrutti anche gli imperi nemici, e il principio di nazionalità trionfa in tutta l’Europa. La riconoscenza del popolo italiano verso i valorosi nostri soldati e verso i condottieri che li guidarono alla vittoria sarà eterna, come eterno sarà il nome degli eroi che sacrificarono la vita per la salvezza e la grandezza della Patria. L’ingresso trionfale del Re d’Italia a Trento e Trieste, e la certezza di una pace che soddisfi tutti gli italiani, segnano l’inizio di una èra nuova nella storia d’Italia. Questa sarà èra di libertà, di giustizia sociale, di fecondo lavoro, di progresso, di prosperità, se la pace secondo i principi del grande presidente Wilson, sarà una pace definitiva fra i popoli, e se le classi ricche accetteranno con patriottico slancio i sacrifici finanziari che occorrono per tenere alto il credito dello Stato, delle Province e dei Comuni, e per mantenere gli impegni assunti verso le classi popolari, e specialmente verso i combattenti, i mutilati e le famiglie dei morti in guerra. L’eroico esempio di milioni di soldati che alla patria offersero la vita dovrà far parere lieve qualunque sacrificio finanziario”. A chi il potere di deliberare lo stato guerra? Nel discorso al Consiglio provinciale di Cuneo del l0 agosto 1917 Giolitti propose di trasferire dal re al Parlamento la deliberazione dei trattati internazionali. Ne fece il caposaldo del suo programma postbellico.Tornato in Aula (da osservatore poco propenso a prendervi la parola), dal seggio di presidente del Consesso cuneese nel dopoguerra Giolitti riassunse il programma nazionale “in una sola parola: lavorare” (12 agosto 1919). Urgevano ordine pubblico e disciplina per scongiurare il collasso finanziario dello Stato. La sovranità sulla politica estera rimase il perno dei suoi ragionamenti, perché ne dipendevano le spese militari, il ritorno alla normalità, il superamento delle tensioni nel Paese. Vi tornò nel discorso di Dronero del 12 ottobre 1919. Senza evocare le prerogative della Corona osservò “la più strana delle contraddizioni” degli ordinamenti italiani:“Mentre il potere esecutivo non può spendere una lira, non può modificare in alcun modo gli ordinamenti amministrativi, non può creare né abolire una pretura, un impiego d’ordine, senza la preventiva approvazione del parlamento, può invece, per mezzo di trattati internazionali assumere, a nome del Paese, i più terribili impegni che portino inevitabilmente alla guerra; e non solo senza le approvazioni del Parlamento, ma senza che né Parlamento né Paese ne siano, o ne possano essere in alcun modo informati [...]. Nel 1848, quando fu sancito l’articolo 5 dello Statuto, il segreto diplomatico era norma di tutti gli Stati d’Europa, e le guerre erano fatte da eserciti professionali; ora invece [...] le guerre sono diventate conflitti di popoli, che si gettano uno sull’altro con tutta la massa della popolazione atta alle armi, con tutti i mezzi di distruzione dei quali possono disporre, e il conflitto cessa soltanto quando una delle parti è in completa rovina. È quindi vera necessità storica che i rapporti internazionali siano ora regolati dai rappresentanti dei popoli, sui quali è giusto che cadano queste terribili responsabilità [...].Come corollario necessario dell’autorità data sulla politica estera al parlamento, la dichiarazione di guerra dovrà sempre esser sottoposta in precedenza alla sua approvazione. Sarebbe una grande garanzia di pace se in tutti i paesi fossero le rappresentanze popolari a dirigere la politica estera; poiché così sarebbe esclusa la possibilità che minoranze audaci, o governi senza intelligenza e senza coscienza riescano a portare in guerra un popolo contro la sua volontà”. Lo Statuto era flessibile.Toccava al Parlamento, non a Vittorio Emanuele III, fare la prima mossa. Incaricato dal re di formare per la quinta volta il governo, Giolitti propose di conferire al Parlamento il potere di “deliberare” guerra (altra cosa dal “dichiararla” e dal “proclamarla”: prerogativa del sovrano), ma il disegno di legge non fu discusso. Sciolta la Camera, lo ripresentò. Invano. Si dimise. Se ne videro le conseguenze dal 10 giugno 1940 quando per la seconda volta l'Italia entrò in guerra contro grandi potenze (Francia, Gran Bretagna, Unione Sovietica, Stati Uniti d'America...) senza approvazione preventiva delle Camere, ormai ammutolite. Dal 1923: a u secolo dall'amaro crepuscolo di uno statista liberale Rassegnate le dimissioni da presidente del Consiglio (giugno 1921), Giolitti vide allontanarsi la soluzione del problema che costituiva il porro unum et necessarium della sua visione della Nuova Italia. Non ne parlò più né in Aula né in pubblico. Nell’ultimo discorso agli elettori (Dronero, 16 marzo 1924) ripercorse rapidamente “le ragioni dell’azione politica”. Evocò la guerra implacabile condotta contro di lui dal partito popolare e citò la lettera a Malagodi (“che cosa può venire di buono per il paese da un connubio don Sturzo-Treves-Turati?”). Non disse parola sulla crisi di fine ottobre 1922. Il governo Mussolini non era nato in Parlamento ma era costituzionale. Nominato dal sovrano, aveva prestato giuramento di fedeltà al re e allo Statuto, si era presentato alle Camere e aveva ottenuto la fiducia “dai partiti liberali e democratici alla quasi unanimità”. Era stato il Parlamento, non il governo, a varare la nuova legge elettorale, detta “Acerbo” dal nome del suo relatore, approvata a maggioranza dalla commissione presieduta da Giolitti stesso, per parte sua favorevole al ritorno al collegio uninominale, “più rispondente all’essenza del sistema rappresentativo ed al sentimento del nostro popolo che desidera scegliere liberamente e direttamente i suoi rappresentanti”. Lo statista concluse evocando le glorie del partito liberale e la propria coerenza “in nome dei principi di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di devozione alla monarchia”. Il proposito di trasferire dalla Corona al Parlamento l’“approvazione dei trattati internazionali”, ovvero la sovranità nazionale, era ormai archiviato. Il 7 febbraio 1924 aveva presieduto il consiglio provinciale di Cuneo. Vi rivendicò di aver salvato l’indipendenza di Fiume e si dichiarò lieto che il governo Mussolini avesse completato la sua opera conseguendone l’annessione. Rieletto deputato nelle elezioni del 6 aprile, nulla disse nella seduta consiliare cuneese del 15 maggio. Il 13 ottobre 1924 Giolitti fu rieletto presidente con 37 preferenze, 5 schede bianche e due voti dispersi. Ringraziò i colleghi per averlo confermato a ricoprire l’ufficio. Non aggiunse altro. Non presenziò alla seduta del 22 dicembre 1924, presieduta dal suo fido Marco Aurelio Saluzzo di Saluzzo, già sottosegretario di stato e senatore. Tornò in Consiglio il 20 aprile 1925. Il 10 agosto, benché assente, fu eletto ancora una volta presidente con appena 29 preferenze su 37 presenti e 60 consiglieri in carica. Il 15 ottobre presiedette i lavori. Sapeva che era ormai giunto per lui “il momento del collocamento a riposo”, ma avrebbe obbedito di buon grado continuando a tenere l’“alto ufficio” conferitogli con mandato quadriennale. Sennonché il 17 dicembre 1925 ventitré consiglieri sottoscrissero la richiesta che il presidente della Provincia fosse politicamente allineato col governo nazionale: doveva avere la tessera del PNF o il beneplacito di Mussolini. L’amministrazione locale attendeva un cospicuo finanziamento straordinario per la prosecuzione di opere pubbliche avviate da anni. Come a Roma voleva il “duce”, furono i cuneesi (consiglieri del partito popolare, vari “liberali”, gli sparuti nazionalfascisti) a tradire Giolitti. Lo privarono della tribuna alternativa all’Aula parlamentare per rivolgersi al Paese, come aveva fatto anche nella Grande Guerra. In risposta, il 21 dicembre si dimise da presidente e, “per elementare senso di dignità”, da rappresentante dei mandamenti di Prazzo e San Damiano. Lo comunicò agli elettori da Roma, ove il 15 ottobre 1882 aveva datato il programma di aspirante deputato. Là egli era stato mandato dagli elettori politici e là rimase, almeno idealmente, deputato in carica sino all’ultimo giorno di vita. Tanti cuneesi lo tradirono o non lo capirono mai. Venne dimenticato per quasi mezzo secolo: “Ministro della mala vita” secondo la miope e ingenerosa etichetta appiccicatagli dall'interventista Gaetano Salvemini e da tanti sedicenti democratici. Ora lo deplora anche Paolo Mieli nel “Corriere della Sera”. Quel 21 dicembre fu un triste Solstizio d’Inverno per il partito liberale che nel discorso del 16 marzo 1924 Giolitti aveva chiesto di votare per non disperdere il ricordo di Cavour, Azeglio, Rattazzi, Lanza e Sella. Il 18 gennaio 1926 il consesso cuneese prese atto sbrigativamente delle sue dimissioni. Il consigliere Giorgio Tornari cercò invano di leggerne o farne leggere il testo. Il presidente provvisorio della seduta si oppose perché, a suo dire, era già iniziata la votazione. Così “a larga maggioranza” le sue dimissioni furono approvate senza neppure la rituale proposta di ripensamento. Con lui si dimisero Marcello Soleri, Aurelio di Saluzzo e altri liberali, seguiti da socialisti. I discorsi del 12 ottobre 1919 e del 16 marzo 1924 vanno confrontati con le relazioni di presentazione dei disegni di legge del suo quinto governo: un’eredità impegnativa non solo per quelli immediatamente seguenti ma anche per il secondo dopoguerra: controllo delle industrie da parte dei lavoratori, trasformazione del latifondo e colonizzazione interna e obbligo dell'istruzione a coronamento del disegno di legge sulla cittadinanza presentato alla Camera il 7 luglio 1911, trasformato nella legge 13 giugno 1912, n. 555, che indicò i requisiti dell’“italianità”, a particolari condizioni concessa agli stranieri. L'eredità dell' “età liberale” Nei quarantasei anni dalla prima elezione alla Camera dei deputati e nei quaranta di consigliere provinciale Giolitti parlò solo nelle sedi istituzionali o, in forma programmata, ai suoi elettori. In rarissime funzioni civili pronunciò poche parole. Predilesse il contatto diretto con la popolazione. Stringeva mani, ricambiava saluti, chiacchierava con la curiosità del pius agricola gravato della responsabilità di pater familias della Nuova Italia. Quando poteva conversava in dialetto, con Vittorio Emanuele III o con i compaesani. Non si rivolse mai alla “piazza”. Non mirò mai ad attizzare passioni irrazionali. Additò invece gli ideali dai quali era nata l’Italia libera, indipendente e una, con un Parlamento demandato a modificarne gli ordinamenti secondo la volontà dei cittadini, dal 1912 elevati a elettori, compartecipi della sovranità. Preparò sempre accuratamente i discorsi. Li stese, corresse e copiò di suo pugno. Ciascuno di essi era frutto di lunghe ricerche sintetizzate in montagne di appunti. Ogni discorso veniva poi distillato in cartelle fitte di frasi lapidarie, spesso con parole sottolineate. Infine stringeva il tutto in una scaletta sintetica. La parola fluiva alta, solenne, rapida. Il 16 marzo 1928 motivò il suo voto contrario alla legge, proposta dal ministro nazionalfascista Alfredo Rocco, che attribuiva al Gran consiglio del fascismo la scelta dei deputati. Poiché “esclude(va) qualsiasi opposizione di carattere politico, (essa) segna(va) il decisivo distacco dal regime retto dallo Statuto”. “Dicendi peritus” anche per lui il “politico” è anzitutto “vir bonus” (parole di Cicerone), orgoglioso di rappresentare alla Camera elettiva i “fieri montanari” della sua terra, senza mai rinnegare “la fede liberale che professai in tutta la mia vita, e che fu quella di tutti i nostri rappresentanti dal 1848 in poi”.
Aldo A. Mola
DIDSCALIA: Giovanni Giolitti ritratto da Antonio Piatti per la Città di Cuneo (rimosso dal Palazzo Comunale nel cui Salone d'onore campeggiò un immenso ritratto di Mussolini, in servile omaggio al “duce” da parte della futura volubile “culla della Resistenza”). Il suo profilo è pubblicato in “Cosmopolis. Rivista di filosofia e teoria politica” (Università di Perugia) con quelli di Filippo Turati, Benedetto Croce, Luigi Sturzo, Antonio Gramsci, Altiero Spinelli, Carlo e Nello Rosselli, Giuseppe Capograssi e di altri eminenti rappresentanti della “Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana”.
GIOVANNI GIOLITTI COME NACQUE E PENSO' UNO STATISTA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 22 gennaio 2023 pagg. 1 e 6.
Didascalia
Oggi tanti rimpiangono i “partiti”. Si dimentica che in principio vi era lo Stato, la monarchia costituzionale, che si valeva di una dirigenza sin dall'infanzia formata all'idea di operare per l'Italia: diplomatici, militari, docenti, scienziati, artisti, ecclesiastici soccorrevoli e una miriade di funzionari e impiegati pubblici di condizioni modeste ma fieri della propria missione civile. Il piemontese Giovanni Giolitti ne è un esempio illustre. Memore del proprio lungo “apprendistato”, quando fu al governo rispettò sempre i talenti dei Travèt, ai quali non venne mai né chiesta né imposta una “tessera” ma solo la fedeltà al servizio dello Stato. Merita di essere meglio conosciuto. Candidato alla Camera a sua insaputa, eletto e dichiarato ineleggibile Nelle Memorie della mia vita Giovanni Giolitti (Mondovì, 27 ottobre 1842-Cavour, 17 luglio 1928) scrisse di aver appreso di essere candidato alla Camera dalla “lettera circolare” in cui Antonio Riberi, deputato uscente, comunicò che non si sarebbe ripresentato e “senza dir(gli) niente” avanzò il suo nome. Aggiunse: «Fui appoggiato anche dagli altri due deputati che si ritiravano [Luigi Ranco, ingegnere, e Spirito Riberi, avvocato, NdA]; ma, non tenendoci molto, rifiutai di andare a fare il solito giro di campagna elettorale.» La realtà fu del tutto diversa da come la narrò. Va ricordata perché essa incise sulla maturazione di Giolitti dall'alta burocrazia alla politica e lo segnò per sempre. La sua candidatura venne affacciata il 9 settembre 1882 in una riunione di notabili confluiti dal Piemonte a Dronero per lo scoprimento del monumento di Gustavo Ponza di San Martino, giureconsulto e ministro del regno di Sardegna. Lì il munifico conte Deodato Pallieri, che da vent'anni propiziava la burocratica carriera di Giolitti (entrato in magistratura a vent'anni e dal 1869 “prestato” al ministero delle Finanze, ove collaborò con Quintino Sella) assicurò a Riberi la nomina a senatore se avesse rinunciato alla Camera. A volerlo deputato fu anzitutto il presidente del Consiglio Agostino Depretis, massone, che il 21 agosto, in vista delle elezioni lo nominò consigliere di Stato ponendolo al riparo dall'estrazione a sorte tra i deputati eccedenti il numero riservato ai pubblici dipendenti e di decadere, come era accaduto a Giosuè Carducci nel 1876. Il 16 settembre Francesco Blanchi , fratello di un prestigioso notaio locale, propose a Giolitti la candidatura. Altri seguirono. Sondati alcuni deputati e notabili, egli accettò ma, fiero della “storia di famiglia” e di quanti ne avevano propiziato l'ascesa (a cominciare dagli zii materni, Melchior e Luigi, magistrati, e Alessandro Plochiù, generale: tutti scapoli) precisò che non intendeva “fare fiasco” e rischiare “una meschina figura”. A istruirlo e a dettargli quasi parola per parola la lettera programmatica agli elettori del Collegio di Cuneo furono alcuni amici influenti: Angelo Garelli, procuratore del Re, l'ex deputato Agostino Moschetti e Nicolò Vineis, massone e direttore del quotidiano cuneese “La Sentinella delle Alpi”, che da quasi trent'anni era il regista delle elezioni parlamentari locali. Dopo turbinosa altalena di candidature Giolitti scese in campo in una terna comprendente Sebastiano Turbiglio, massone, docente di storia della filosofia alla “Sapienza” di Roma, e Luigi Roux, direttore della “Gazzetta Piemontese” (futura “La Stampa”) di Torino, contro il quale si schierò Vittorio Bersezio, già direttore dello stesso quotidiano, storico e autore delle celebri Miserie 'd Monsù travet. Il 15 ottobre Giolitti vergò laboriosamente la “lettera agli elettori” e la mandò a Garelli che ne cancellò un paio di frasi a suo avviso controproducenti e la affidò alla “Sentinella”. Su suggerimento di Moschetti l'aspirante deputato scrisse l'inciso famoso: «Allorché gli uomini di Stato più eminenti e gli operai sono concordi in un programma, vi ha la certezza che questi risponde ai veri bisogni del Paese». Dall'esordio Giolitti si mostrò dunque “politico” autentico: capace di ascolto, di sintesi e animato da princìpi saldi e condivisi. Non si mosse da Roma ma sollecitò il sostegno di decine di notabili (sindaci, pretori, farmacisti, militari, il padre di un parroco della sua valle Maira...) con lettere personali. sollecitandone il sostegno. Alle 19 del 29 ottobre il procuratore Garelli gli telegrafò: era il primo eletto con 5310 preferenze su 6864 votanti. Un successo clamoroso, superiore alle sue prudenti previsioni. Sennonché il 13 marzo 1883 la Giunta permanente sulle ineleggibilità e incompatibilità parlamentari, formata dai deputati più prestigiosi, stabilì che era ineleggibile perché retribuito dall'erario con propine per le sue funzioni di consigliere di Stato. Giolitti se ne adontò perché percepì che la pronuncia ne metteva in discussione l'onestà morale prima che politica, quasi avesse truffato gli elettori, candidandosi benché ineleggibile. Approntò scrupolosamente la difesa. Il 21 aprile la illustrò in Aula. Aveva percepito 20 lire per ogni pratica esaminata, ma le aveva sbrigate quasi sempre a casa propria facendo risparmiare allo Stato “le spese di locale, carta, oggetti di cancelleria, lumi e simili”. Richiesti di approvare “per alzata” la proposta di decadenza i presenti rimasero seduti. Per un soffio l'Italia rischiò di non averlo deputato, né capofila dell'opposizione piemontese al governo Depretis nel 1886, né ministro del Tesoro e delle Finanze nel governo presieduto da Francesco Crispi (1889-1891), né cinque volte presidente del Consiglio e ministro dell'Interno tra il 1892 e il 1921, né altro ancora. Gli otto mesi dalla candidatura alla Camera alla conferma dell'elezione a deputato di “homines abhorrentes servitium et amatores libertatis inctintu naturali” (come gli aveva scritto Pallieri) furono per lui di noviziato alla “politica” e innervarono la sobria “retorica” dei suoi interventi in Parlamento sino al 16 marzo 1928. Meritano di essere riletti. Amministratori e politici? “Una riunione di amici” Per comprendere la sua concezione della politica, dell'esercizio del mandato parlamentare e la sua coerenza di monarchico e liberale al servizio dello Stato nelle Aule parlamentari in continuità con gli uffici di pubblico impiegato ai ministeri di Grazia e Giustizia e delle Finanze, giova passare in rassegna i pochi discorsi da lui pronunciati al di fuori delle Camere dal 1886 al 1899 (anche per difendere il suo onore dalle accuse mossegli in connessione con lo “scandalo della Banca Romana” che nel 1893 gli costò le dimissioni da presidente del governo), specie nel Consiglio provinciale di Cuneo di cui fu componente dal 1886 al 1925. Lasciata il 16 marzo 1905 la guida del governo, per seri motivi di salute, il 14 agosto Giolitti fu eletto presidente del Consiglio provinciale di Cuneo. In tale veste espose la sua visione di “buona amministrazione”: «Il nostro consesso – disse – non è che una riunione di amici che si stimano e si amano, animati dal solo intento di procurare il bene degli amministrati, non divisi da dissensi di natura politica, poiché tutti sono devoti alle patrie istituzioni; e, se qualche volta vi è lotta, ciò dipende unicamente dal fatto che ognuno vede le cose dal proprio punto di vista.» Il 2 ottobre 1910 pronunciò poche eloquenti parole all’inaugurazione della nuova sede della Cassa di Risparmio di Cuneo. Mentre a Roma, da lui propiziato e assecondato, era sindaco Ernesto Nathan, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia, e alla guida di comuni e province si moltiplicavano i “blocchi popolari” di liberalprogressisti, radicali e socialriformisti, nel silenzio “ossequioso e ammirante” dei presenti Giolitti scandì che la Cassa era il punto di convergenza e di collaborazione “delle idee clericali e socialiste, moderate e radicali”. «La questione sociale – aggiunse – noi la risolviamo elevando le classi più umili a livello di quelle più ricche”. Pochi giorni prima era stato ricevuto segretamente da Vittorio Emanuele III nel Castello di Racconigi. Si avvicinavano le celebrazioni del cinquantesimo del regno. Urgeva un cambio al vertice del governo. Da Cuneo Giolitti fece sapere di non aver preconcetti nei confronti di chi aveva veduto in Luigi Luzzatti l’argine laico contro l’avanzata dei cattolici deputati. Al tempo stesso non coltivava alcun altro pregiudizio: «Ognuno valga per ciò che sa e per il lavoro che compie.» Le ideologie appartenevano al passato remoto, anche perché premevano impegni che nessuno dei presenti immaginava, a cominciare dall’impresa di Libia. Non solo Marx era stato mandato in soffitta (o così gli pareva o sperava). La “pace sociale” era premessa indispensabile per affrontare nuove e severe prove, giacché «nessuna guerra moderna può svolgersi senza la decisa volontà del popolo che la fa», lontano dal “Paese che lavora. Il 30 marzo 1911, dopo il cinquantenario della proclamazione di Roma a capitale d’Italia (lasciata celebrare a Luzzatti) Vittorio Emanuele III gli affidò per la quarta volta il governo del Paese. All’inaugurazione della prima Camera eletta col suffragio quasi universale maschile (1913), dopo circa tre lustri di governo, Giolitti non fu affatto scosso da chi, come il socialista Giuseppe Raimondo, ne annunciava il tramonto o, come Arturo Labriola (futuro ministro del Lavoro nel suo V governo, 1920-1921), sentenziava che vi era «da una parte un’Italia rivoluzionaria nazionalista e dall’altra un’Italia socialista, ma non c’e(ra) più un’Italia giolittiana». Lo statista sapeva bene che vi era la cattolica, maggioritaria nel Paese, e che solo il cosiddetto “patto Gentiloni”, approdo della sospensione non expedit da parte di Pio X sin dal 1904 (come chiarito da Gianpaolo Romanato nella biografia di Pio X), aveva scongiurato divenisse più clericale di quanto, per contrapposti motivi, molti volevano. Conscio che l’Italia aveva necessità di riforme profonde nell’amministrazione della giustizia, nel sistema scolastico e nei rapporti tra capitale e lavoro, lo statista affermò che esse andavano varate subito ma avrebbero dato frutti solo sul lungo periodo. Per evitare che «il partito monarchico divent(asse) in molta parte d’Italia una minoranza» occorrevano però misure immediate e incisive. I fasci siciliani, i moti di Lunigiana del 1894 e la vasta sommossa/insurrezione del 1898 avevano indicato la via maestra: il riordino completo della fiscalità per scongiurare il declino della piccola proprietà, che costituiva «la più valida difesa dell’ordine sociale». Le classi dirigenti dovevano persuadersi che «senza qualche sacrificio esse non possono sperare durevole quella pace sociale senza cui non vi è sicurezza né per le persone né per gli averi». Lanciò un monito severo: «Io deploro quanto altri mai la lotta di classe; ma, siamo giusti, chi l’ha iniziata?». Venti di guerra, tra irredentismo, espansione coloniale e crisi europea Nel primo decennio del Novecento, mentre una moltitudine di movimenti, gruppi ideologici, circoli letterari, artistici e riviste davano voce alla “rivolta ideale” e dai salotti molti si appellavano alla “piazza” contro il grigiore del governo, Giolitti varò leggi speciali per accelerare il risanamento di regioni e plaghe arretrate. Al conterraneo Luigi Facta spiegò che l'Italia doveva evitare di avventurarsi in una guerra con l'impero austro-ungarico perché avrebbe dovuto dirottarvi le sue risorse e sottrarle allo sviluppo del Mezzogiorno, interrompendo l'unificazione effettiva, così provocando la rivoluzione e la crisi della monarchia: obiettivo dei repubblicani che, fece notare, erano i precipui alfieri dell'irredentismo. Il 28 luglio 1911 il ministro degli Esteri Antonino Paternò Castello di San Giuliano mandò a Giolitti e al sovrano il “memoriale” segretissimo sulla “probabilità” che entro pochi mesi l’Italia potesse essere “costretta a compiere la spedizione militare in Tripolitania”. Ne nasceva la «probabilità (probabilità non certezza) che il successo di tale spedizione darebbe al prestigio dell’Impero Ottomano, spinga all’azione contro di esso i popoli balcanici, entro e fuori l’impero, oggi più che mai irritati contro il regime centralista giovane-turco, ed affretti una crisi, che potrebbe determinare e quasi costringere l’Austria ad agire nei Balcani». All’orizzonte gonfiava la tempesta della guerra europea, temuta, schivata, sempre incombente. Chi avrebbe dato fuoco alla miccia? Il programma del settembre 1900 per l’unione dei partiti liberali giunse a una seconda svolta. Dopo l'incontro segreto del 16 settembre nel Castello di Racconigi, ove il re fissò con lui l'agenda dell'impresa di Libia, e dopo la dichiarazione di guerra all'impero turco ottomano, il 7 ottobre 1911 Giolitti ne spiegò i motivi al Teatro Regio di Torino: «Politica democratica non è sinonimo di politica fiacca, di politica impotente; la storia di tutti i popoli e gli avvenimenti che succedono sotto i nostri occhi dimostrano invece che i governi i quali sanno di rappresentare tutte le classi sociali sono i più gelosi custodi dei grandi interessi del loro paese; appunto perché non rappresentano interessi di persone o di limitate classi, ma quelli di tutto il popolo, essi sentono più vivamente il dovere di non pensare solamente alle questioni di immediato interesse, ma di assicurare anche il lontano avvenire del paese. La politica estera non può, come la politica interna, dipendere interamente dalla volontà del governo e del Parlamento ma, per assoluta necessità, deve tenere conto di avvenimenti e di situazioni che non è in poter nostro di modificare e talora neanche di accelerare o ritardare. Vi sono fatti che si impongono come una vera fatalità storica, alla quale un popolo non può sottrarsi senza compromettere in modo irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del governo di assumere tutte le responsabilità, poiché una esitazione o un ritardo può segnare l’inizio della decadenza politica, producendo conseguenze che il popolo deplorerà per lunghi anni, e talora per secoli.» Profondamente radicato nella tradizione del Vecchio Piemonte, ove il lavoro era terreno di sfida civile dai tempi delle Associazioni agrarie di metà Ottocento, animato da una visione biblica del cammino dei popoli, all'inaugurazione dell'ospedale per l'infanzia “Regina Elena” in Cuneo il 14 agosto 1914 Giolitti meditò ad alta voce. Bisognava «procurare alla Patria cittadini futuri sani ed equilibrati, perché bastano due generazioni ben curate e ben educate a far rifiorire i destini di una Nazione». Lo stesso giorno, «in un momento angoscioso per tutta l’Europa e grave per il nostro Paese», dal seggio di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo egli dichiarò la solidarietà al governo presieduto da Antonio Salandra: «Senza distinzione di partiti, appoggeremo lealmente e fortemente in quella via che creda di seguire per la tutela dei nostri diritti e per assicurare all’Italia il posto che le spetta nel mondo.» Non era un’apertura di credito illimitata. Cinque giorni prima aveva infatti confidato al ministro degli Esteri, San Giuliano, la priorità di «coltivare i nostri buoni rapporti con l’Inghilterra, e fare quanto ci è possibile per limitare o abbreviare la durata e le conseguenze del conflitto». Senza entrarvi. Gli eventi ebbero tutt’altro corso: la firma dell'arrangement di Londra all’insaputa del Parlamento e del governo stesso (26 aprile 1915), la denuncia dell'alleanza con Berlino e Vienna (3 maggio), la dichiarazione di guerra contro l’Impero austro-ungarico in nome del “sacro egoismo” (23 maggio con effetto dall'indomani). Da quando il 17 maggio 1915 dovette lasciare precipitosamente Roma perché il governo non ne garantiva l’incolumità da un attentato mortale ormai in corso di attuazione, lo statista riparò a Cavour. Al di là di quanto disse nello scambio epistolare e in confidenze anziché dal seggio di deputato, Giolitti parlò dallo scranno di presidente del consiglio provinciale. Il 5 luglio 1915 dichiarò: «Quando il Re chiama il paese alle armi, la provincia di Cuneo, senza distinzioni di parti e senza riserve, è unanime nella devozione al Re, nell’appoggio incondizionato al Governo, nell’illimitata fiducia nell’esercito e nell’armata», impegnati in un conflitto dal quale dipendeva «l’avvenire dell’Italia per un lungo periodo della sua storia». Ma a differenza di Salandra e del ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, aveva chiaro che la guerra sarebbe durata anni. Nella forzata solitudine constatava l’imparità dei governi al “più grave disastro dell'umanità dopo il diluvio universale” anche a giudizio del premier britannico David Lloyd George. Chi avrebbe riacceso i lumi sull'Europa? La sua vita di statista era finita?
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Giovanni Giolitti (1842-1928), statista della Nuova Italia. Se ne legge un profilo nella rivista “Cosmopolis” dell'Università di Perugia.
IL TRICOLORE ITALIANO 230 ANNI DI STORIA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 15 gennaio 2023 pagg. 1 e 6.
Didascalia
L'Italia ha tante “feste”, civili e religiose. Forse troppe. Non sempre le “sente”. Poco importa avere una festa in più ma capire a chi, a che cosa e perché rendere omaggio con dispensa retribuita dal lavoro. Il 7 gennaio di ogni anno viene celebrato il Tricolore. È una “ricorrenza” nazionale, con epicentro a Reggio nell'Emilia perché, si dice, lì per la prima volta il verde il bianco e il rosso furono adottati per il vessillo di uno Stato, precisamente la minuscola Repubblica Cispadana nata su impulso dei francesi capitanati da Napoleone Buonaparte, comandante dell'Armata d'Italia mandata dal Direttorio di Parigi a sconfiggere gli Asburgici e i suoi alleati, a cominciare dal re di Sardegna. Come ogni anno anche nel 2023 è stato ripetuto che il tricolore, simbolo di unità e di indivisibilità dell'Italia, è stato voluto dalla Costituente quale vessillo della Repubblica. La quale, dunque, adottò la bandiera esistente, ma ne cancellò lo scudo sabaudo che vi campeggiava dal 1848. Quel tricolore aveva un secolo. L'attuale ne ha 75. Norme successive vietarono l'esposizione del tricolore originario che (ha ricordato il messaggio del presidente Sergio Mattarella) era stato innalzato dagli avi per dar vita all'unità italiana. Insomma, si festeggia un “prima” (una “repubblica” vassalla della Francia) e un “poi”, quella attuale, ma non si ricorda in debite forme che il Tricolore è nato come bandiera del Regno di Sardegna e poi di quello d'Italia. L’eliminazione dell'emblema della Casa che dal 23 marzo 1848 si fece carico delle guerre per l'indipendenza, l'unità e la libertà degli italiani non cambia la verità dei fatti. Perciò quel passato merita di essere sinteticamente ricordato. Si scopre così che nel 1848 Carlo Alberto di Savoia Carignano non inventò il tricolore ma lo ricevette “per li rami”da due studenti universitari che lo avevano ideato e ne erano morti più di mezzo secolo prima. Il Tricolore dunque nacque e dovrebbe rimanere insegna della gioventù, dell'Italia che è Nuova se riconosce l'Antica, le sue radici.
La «Bandiera dei tre colori/ è sempre stata la più bella/ noi vogliamo sempre quella/noi vogliam la libertà…». Canti del Risorgimento. Come la “Bella Gigogin” che oggi verrebbe vietata per oltraggio al pudore. Chiusi per sempre nel baule dei ricordi perduti? La bandiera italiana garrisce nell'Italia delle “cento città” se il suo passato viene recuperato senza cesure né censure. Vent'anni fa l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi restituì smalto al Tricolore e incitò con l’esempio personale a intonare il “Canto nazionale”, la cui “storia” merita di essere ripercorsa, tanto più che qualcuno vorrebbe addirittura inserirlo nella Costituzione. E' un inno neoguelfo. Cade bene. Dopo la prima guerra mondiale uomini saggi al governo della cosa pubblica, come Giovanni Giolitti e Benedetto Croce, d'intesa con Vittorio Emanuele III puntarono diritto all’obiettivo vero: la Festa delle Bandiere (celebrata all'Altare della Patria il 4 novembre 1920) era tutt'uno con la legge sulla cittadinanza e l’obbligo dell’istruzione (altra cosa dall’istruzione obbligatoria). Da lì bisogna ripartire. Intorno alla genesi del Tricolore molto è stato scritto, ma con lacune vistose e per obiettivi spesso di parte. Se davvero si vuole che esso unisca, tempo è venuto di ricordarne almeno per sommi capi la lunga storia, dire chi per primo lo ideò, che cosa forse volle esprimere, quali ne furono le molteplici vicissitudini. Una prima certezza è che il variegato “tricolore” adottato dalla Repubblica Cispadana il 7 gennaio 1797 ha poco a che vedere con quello del 1848-2023. Esso era a bande orizzontali. Quattro punte di freccia convergenti indicavano l'unione delle sue “terre”: Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, alle quali poi si aggiunsero un po' di Romagna, la Garfagnana, Massa e Carrara, accorpate in una “repubblica” del tutto artificiosa, dai confini improbabili e dalla brevissima durata. Alle spalle esso aveva stendardi reggimentali, modellati sull'esempio di quelli della francese Armata d'Italia e ornati da cifre e da simboli esoterici. Nel corso della caotica assemblea che il 7 gennaio 1797 ne decise l'adozione, il tricolore della Cispadana ebbe un fautore curiosissimo: Giuseppe Compagnoni (Lugo, 1754-Milano, 1833). Ordinato prete per volontà della famiglia, letterato di qualche nomea, questi era stato tra gli inquirenti del processo a carico di Giuseppe Balsamo, sedicente Alessandro conte di Cagliostro, condannato a morte con pena commutata nel carcere a vita, da scontare nel “pozzetto” della fortezza di San Leo ove morì poco prima dell’arrivo dei francesi liberatori. Compagnoni apprese che nel rito egizio Cagliostro usava nastri verdi bianchi e rossi. Nessuno sa dire perché. E nessuno ha mai spiegato perché, deposto l'abito talare e passato nelle file dei rivoluzionari, per lo stendardo della repubblica cispadana Compagnoni abbia suggerito proprio quei colori. Sappiamo invece per certo che né lui né Cagliostro furono gli inventori del Tricolore. Lo scrisse il “Messaggere Torinese” del 19 febbraio 1848 che per editoriale pubblicò il necrologio di Giuseppe De Rolandis. Tricolore (su modello francese) fu la bandiera del Regno italico, retto dal figlio adottivo di Napoleone I, Eugenio di Beauharnais, sotto tutela dell'imperatore. Iniziato alla Carboneria (la cui bandiera era azzurra, rossa e nera), Giuseppe Mazzini, fondatore della “Giovine Italia” nel 1831, tornò a innalzare il tricolore verde, bianco e rosso, ma nuovamente a bande orizzontali. In “Le bandiere dell'Esercito”, sontuoso volume pubblicato nel 1985 dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'esercito, di cui fu a lungo operoso e lungimirante capo, il generale Oreste Bovio documenta che fu Re Carlo Alberto di Sardegna ad adottare il tricolore, che sventolò per un secolo quale vessillo nazionale. L’articolo 77 dello Statuto promulgato il 4 marzo 1848 recitava: «Lo Stato conserva la sua bandiera: e la coccarda azzurra è la sola nazionale.» Ma neppure tre settimane dopo, il 23 marzo, quando dichiarò guerra all’Impero d’Austria convinto di avere a fianco gli altri Stati dell’Italia d’allora (Regno delle Due Sicilie, Stato della Chiesa, Granducato di Toscana..., che invece via via si defilarono), Carlo Alberto lanciò un proclama «ai popoli della Lombardia e della Venezia» per annunciare che correva in loro aiuto. «Per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell’unione italiana – aggiunse – vogliamo che le nostre truppe, entrando sul territorio della Lombardia e della Venezia, portino lo scudo di Savoia sovrapposto alla bandiera tricolore italiana.» Proprio “italiana”, si badi bene: non “del Regno di Sardegna”. Come anni prima in un gelido colloquio mattutino aveva promesso a Massimo d’Azeglio, venuta l’ora, Carlo Alberto scelse l’Italia. Lo seguì suo figlio, Vittorio Emanuele II, che distribuì personalmente i tricolori di combattimento ai reggimenti in partenza per la Crimea: una guerra decisiva per imporre all’Europa la questione italiana. Da allora il tricolore e l’Italia furono tutt’uno. Il 25 marzo 1860, dieci giorni dopo la proclamazione del Regno d'Italia da parte del parlamento, un apposito decreto stabilì misure e caratteri della «bandiera di cui deve far uso il Regio Esercito»: col verde all’asta, il bianco e il rosso, scudo sabaudo e stemma sormontato dalla corona per le navi da guerra. A quel vessillo guardarono generazioni di italiani, sino alla svolta del 1946-1947.
Il Museo degli Studenti voluto in Bologna, la Dotta, dal Rettore dell’Università, Fabio Roversi Monaco, conserva il primo tricolore italiano: la coccarda disegnata da Giovanni Battista De Rolandis (1774-1796), nativo di Castell’Alfero, ora in provincia di Asti. Iscritto alla facoltà di teologia dell’Università di Bologna e ospitato al collegio Piemontese “La Viola”, ove era docente Giuseppe Compagnoni, “Giò” De Rolandis conobbe Luigi Zamboni, di qualche anno più anziano, studente nella facoltà di legge. Insieme cospirarono per l’idea d’Italia. La coccarda sommò i colori comunali (di Asti, Milano, Cuneo e tante altre città...) con il verde. Nessuno sa esattamente perché. Forse il verde (poi distintivo della massoneria in Italia) era il colore della speranza o della giustizia, il colore della Pentecoste (cantata da Alessandro Manzoni, forse “iniziato” in gioventù) e di altre solennità della chiesa cattolica? Di sicuro sappiamo che i loro sogni vennero presto stroncati. Su delazione di un altro studente inizialmente loro compagno di cospirazione i due furono indagati, ma con esito favorevole. Continuarono nel loro disegno e per segno distintivo fecero cucire coccarde grandi “il doppio di un baiocco di rame” con i colori della città, bianco e rosso, e “del cavadino verde”. La cospirazione venne dispersa. Zamboni e De Rolandis fuggirono, ma furono arrestati sul confine col granducato di Toscana. Consegnati alla polizia bolognese vennero processati, con i metodi del tempo, dal tribunale presieduto da Federico Pistrucci noto come “la mano sinistra del Maligno” e più volte sottoposti a torture efferate, comprese le pinze infuocate in parti delicate e nella schiena. Antonio Aldini, illustre giureconsulto, apprezzato da Napoleone che lo elevò a cariche apicali, in loro difesa escluse che la coccarda fosse segnacolo di rivoluzione e di subordinazione dei giovani a progetti di “agenti” francesi, come Aurelio Saliceti. Lo fece per scagionarli e sottrarli alla tragica sorte che li attendeva. Il 18 agosto 1795 Zamboni venne rinvenuto impiccato in una celletta ove non poteva neppure stare in piedi. Strozzato? De Rolandis subì sevizie orrende affinché confessasse chi erano i suoi ispiratori, mandanti e complici. Dopo estenuanti interrogatori che lo sfinirono fu condannato a morte. Attese il supplizio stringendo tra le mani il Vangelo. Prima di essere portato alla forca, gli vennero “recise le forze”, cioè fu evirato. Condotto esangue alla Montagnola di Bologna, venne appiccato. Per inettitudine del boia, il cappio non funzionò “a dovere”. Contro le regole, l'esecuzione fu ripetuta. Lo sciagurato gli balzò sulle spalle per affrettarne la morte. Una incisione ricorda la sua tragica fine. Chi si indigna delle infamie praticate da integralisti odierni dovrebbe deplorare quelli che venivano usate in Italia dopo la Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e del cittadino. Ne scrisse Ito De Rolandis in Orgoglio tricolore, ove vengono ricostruite le vicende di altri due componenti della sua famiglia, Giuseppe, medico di fiducia di Carlo Alberto, e Secondo, che si occupò di egittologia, incluso lo studio della stele di Rosetta. Il Tricolore dunque è simbolo universale. Come scrisse Angelo Brofferio nel “Messaggere Torinese”, in punto di morte Giuseppe De Rolandis «voleva un’ultima volta rallegrarsi colla vista dell’italiana coccarda che, agonizzando, salutava ancora». Nel 1862 Augusto Aglebert pubblicò “I primi martiri della libertà italiana e l'origine della bandiera tricolore o congiura e morte di Luigi Zamboni di Bologna e Gio. Battista De Rolandis di Castel d'Alfero presso Asti tratta da documenti autentici”. Altri seguirono sulla sua traccia sino alle iniziative promosse da Ito (Ippolito) De Rolandis, giornalista d'assalto e saggista indomito (al liceo era soprannominato “Tritolo”) di concerto con il rettore dell'Università di Bologna, Fabio Roversi Monaco e un amico di fiducia.
Con l’avvento della Repubblica, dal tricolore venne tolto lo scudo sabaudo, che vi aveva campeggiato per un secolo. Quando se ne celebra la festa sarebbe dunque doveroso esporre anche una delle bandiere “storiche”, di quelle in uso da Carlo Alberto a Umberto II, proprio per ricordare chi siamo e da dove veniamo (dove si vada nessun lo sa): dalla Repubblica cisalpina del 1796, anche un po’ da Cagliostro e dall'ambiguo Compagnoni, dai moti costituzionali del 1820-21, del 1831, dalle guerre per l'indipendenza e per l'unione degli italiani, nel 1848, nel 1859-1860, nel 1866, nel 1870 e nel 1915-1918 e anzitutto da due studenti antesignani della patria italiana. È una storia lunga e sofferta. Va ripercorsa e ricordata nella sua complessità. Il Tricolore, a conclusione, non è nato nel 1946 o con la Costituzione del 1° gennaio 1948. Ha quasi 230 anni di vita vissuta. È giusto innalzarlo, non solo per eventi sportivi, e indossarlo quale coccarda, come avvenne nell'ormai lontano 2011 quando su iniziativa dell'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano venne festeggiato il 150° dell'“unità nazionale”, ovvero della proclamazione del regno d'Italia. Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, propone che il giorno della venga elevata a festa civile. Quell'Italia era l'unica in quel momento possibile: ancora senza Venezia, Trento, Trieste. Roma sembrava inarrivabile perché il papa-re, Pio IX, era tutelato da Napoleone III, anticamente carbonaro, cospiratore, “fosco figlio di Ortensia”, favorevole all'“unione” degli italiani ma non alla loro “unità”. La festa del tricolore sarebbe finalmente occasione di una riflessione corale sullo Stato d'Italia, sulla “cittadinanza” e sulle loro radici in una civiltà millenaria, patrimonio fondamentale per l’Europa ventura.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA. La straziante impiccagione del ventiduenne “Giò” De Rolandis alla Montagnola di Bologna (23 aprile 1796). La storia del Tricolore italiano è stata appassionatamente narrata da Ito De Rolandis in Orgoglio tricolore. L’avventurosa nascita della nostra bandiera (Lorenzo Fornaca Ed. - L’Artistica, Savigliano, 2008), con prefazioni dei sindaci di Asti e di Castell’Alfero, Angelo Marengo, di Mercedes Bresso, Aldo Mola e scritti di altri autori: Amedeo di Savoia, Duca d'Aosta, Marco Bortolotti, Fausto Carpani, Sabina Fornaca, Corrado Testa e Guido Peila, che ripercorre le gesta di Giuseppe De Rolandis in “L'Ussaro sul Tetto” di Jean Jono, dal quale venne tratto il film diretto da Jean-Paul Rappenau e interpretato da “Fernandel” (Fernando Contandin, nativo di Perosa Argentina, il celebre “don Camillo”). Il volume di Ito De Rolandis è suggellato dalla fotografia di Carla Bruna Tedeschi (poi moglie di Sarkozy) recante il tricolore italiano nella cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali di Torino (2006). Quello approvato a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797 è solo uno dei tricolori ideati per la Nuova Italia. La loro molteplicità esprime un sentimento diffuso dei cittadini italiani di ieri e di oggi: di varie confessioni religiose ed etnie, accomunati dall’orgoglio dei propri diritti e dal senso dei doveri verso lo Stato. A beneficio della memoria del “défroqué” Giuseppe Compagnoni va ricordato che nell'Assemblea della Repubblica Cispadana proprio lui si dichiarò contrario all'elevazione del cattolicesimo a “religione dello Stato”. Dopo la Restaurazione non riprese l'abito talare; visse a Milano campando della propria prodigiosa attività di studioso. Scrisse anche una storia degli Stati Uniti d'America in 29 volumi. Era la “Terra promessa”...
A TESTA ALTA 1943-1945 CONTINUITÀ E RISCOSSA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 8 gennaio 2023 pagg. 1 e 6.
Didascalia
“A testa alta” è l'insegna del “CalendEsercito 2023” (ed. Giunti) per l'80° dell'estate 1943, «uno dei momenti più tragici della storia nazionale». Fotografie e documenti scandiscono i mesi dalla firma della resa a Cassibile (3 settembre) alla co-belligeranza dell'Italia a fianco delle Nazioni Unite e alle due battaglie di Monte Lungo che videro in campo il I Raggruppamento Motorizzato del Regio Esercito a fianco degli Alleati. Come scrive il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, generale di CdA Pietro Serino, «in soli 98 giorni l'Esercito italiano seppe reagire, tornare a combattere e a vincere per liberare il proprio Paese, dimostrando una saldezza morale che ci fa dire, con orgoglio, A testa alta!». Pubblicato con la direzione del Colonnello Giuseppe Cacciaguerra, molto più che mero “almanacco” il “CalendEsercito 2023” è una miniera di informazioni e di spunti per ricerche e approfondimenti. Ricorda al lettore i combattimenti di Porta San Paolo a Roma, ove i civili affiancarono le Divisioni “Granatieri di Sardegna” e “Sassari”, mentre a Monterotondo reparti della “Piave” e della “Re” contrastavano l'aviolancio di paracadutisti tedeschi, e la lunga serie di combattimenti su tutto il territorio nazionale, in Sardegna, Corsica, oltre che nelle regioni quasi subito libere (Puglia e Calabria) a prezzo di duri combattimenti e l'impegno ovunque possibile oltre confine. Documenta inoltre il Fronte Militare Clandestino del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, caduto prigioniero, torturato a via Tasso, assassinato alle Fosse Ardeatine con tanti altri militari,via via sino alla Riscossa, che dà titolo alle Memorie del generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà, punto di arrivo del coordinamento tra Regio Esercito e formazioni partigiane unite “dal” e “nel” Tricolore. A differenza di quanto talvolta è stato scritto, in quei frangenti non morì affatto la Patria. La direttiva del capo del governo, Pietro Badoglio, all'annuncio dell'armistizio per i militari era chiaro: le forze armate italiane cessavano «ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». Come avvenne la Riscossa e chi la guidò? In Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio (il Mulino, 2021) Paolo Cacace conferma che la revoca di Benito Mussolini da capo del governo e la sua sostituzione con il maresciallo Badoglio furono iniziativa personale di Vittorio Emanuele III, assecondato dal ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone e dalla ristretta cerchia di militari di sua assoluta fiducia, a cominciare da Giuseppe Castellano. Il 25 luglio il Gran Consiglio del fascismo a maggioranza “esortò” il re a esercitare i poteri statutari, senza però mettere in discussione il regime. Perciò Mussolini chiese udienza al re e nel pomeriggio si recò a Villa Savoia convinto che quasi nulla sarebbe cambiato. Fu la Corona a decidere tempi e modi della “svolta”, anche sbrigativi, come il “fermo” del duce, che si dichiarò pronto a collaborare con Badoglio. Come osservò Luigi Einaudi, citato dal presidente Sergio Mattarella a Dogliani il 12 maggio 2018, chi detiene la somma dei poteri può lasciarli apparentemente dormienti per vent'anni, salvo valersene quando percepisce che è giunto il momento di usarli. Così fece il re. Di seguito fu lui ad autorizzare la ricerca del contatto con il Comando nemico per ottenere che all'Italia, ormai in un tunnel dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, fosse concessa la “resa senza condizione”, deliberata dagli anglo-americani a carico dei vinti nella Conferenza di Casablanca su richiesta ultimativa di Stalin. L'obiettivo fu raggiunto in meno di un mese con la firma a Cassibile della resa (surrender), documentata da Elena Aga Rossi in L'inganno reciproco (ACS, 1982). Lo strumento sottoscritto dal generale Giuseppe Castellano, datato “Sicilia, 3 settembre 1943” è esplicito: la resa fu concessa (o imposta) al “governo del Re”, ovvero a Vittorio Emanuele stesso. Il “Comandante in capo” dei vincitori si riservò di stabilire «un Governo militare alleato in quelle parti del territorio italiano ove egli lo riterrà necessario nell'interesse militare delle Nazioni alleate» e di dettare «altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario che l'Italia dovrà impegnarsi ad eseguire», analiticamente contenute nell'“armistizio lungo” consegnato dal generale Dwight Eisenhower a Badoglio a Malta il 29 settembre 1943. Però con la resa la monarchia ottenne tre vantaggi preziosi per l'Italia: lo Stato non fu debellato ma riconosciuto; a differenza della sorta poi toccata alla Germania, non ne venne previsto lo smembramento; la sua forma istituzionale non fu messa in discussione. Per gli inglesi, al riguardo più lungimiranti degli americani, la monarchia costituiva una garanzia. Il verbale del colloquio svoltosi il 29 settembre a margine della firma precisò la cornice degli eventi successivi. Il vincitore incitò il vinto a dichiarare guerra alla Germania, a «immettere nuovi elementi nel suo governo», previo il placet del generale Mason Mac Farlane e, “parlando da soldato”, a destinare alla lotta contro la Germania le “divisioni migliori”. Badoglio precisò che «per la legge italiana solo il re può dichiarare guerra» e scegliere i nuovi membri del governo. Assicurò la massima collaborazione anche in vista dell'ingresso in Roma (dato per imminente da Eisenhower, ma avenuto otto mesi dopo), accolse con freddezza l'annuncio del ritorno in Italia del “conte” Carlo Sforza, gran collare della SS. Annunziata e senatore ma accesamente repubblicano, auspicò di essere considerato “un collaboratore completo” e, su direttiva del Re, che lo aveva avuto aiutante di campo, chiese di «prendere contatto col maresciallo Messe, ora prigioniero di guerra in Inghilterra». Ne ha scritto brillantemente il generale Antonio Zerrillo nel volume Il lungo regno di Vittorio Emanuele III (BastogiLibri, 2021). I punti di debolezza: il CLN contro la monarchia Lo scenario istituzionale e politico italiano era però profondamente diverso da quello ventilato dal Comandante alleato. Il Comitato dei partiti antifascisti operante clandestinamente in Roma da metà agosto 1943, contrario a condividere il “passivo” della guerra e deciso a scaricarne la peso esclusivamente sulla Corona, assunto il nome di Comitato (Centrale) di liberazione nazionale tra fine settembre e inizio ottobre, rifiutò ogni collaborazione con il governo Badoglio, riservando gelida accoglienza alla proposta di collaborazione avanzata dal colonnello Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo. Lo ricorda Ivanoe Bonomi in Diario di un anno, 2 giugno 1943-10 giugno 1944. Il CLN propugnò l'immediata abdicazione del re, la rinuncia del principe Umberto alla successione e il conferimento della Corona al principe di Napoli, Vittorio Emanuele, di appena sette anni, sotto tutela di un reggente di nomina politica, contro la lettera dello Statuto. Anche molti liberali si accodarono e per bocca di Carandini fecero sapere di essere per «assemblea costituente più abdicazione». Per decretazione d'urgenza varata da Badoglio a inizio agosto furono sciolti il Partito nazionale fascista, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, il Gran consiglio del fascismo e tutte le organizzazioni del passato regime, ma anche la Camera dei fasci e delle corporazioni in vista dell’elezione di una nuova Camera dei deputati entro quattro mesi dalla fine della guerra. Pertanto, data la natura bicamerale del Parlamento, il Senato fu paralizzato e il re risultò istituzionalmente sovraesposto. La “monarchia rappresentativa”, fondata sull'equilibrio tra i poteri, risultò sospesa. Sotto il profilo politico la parola passò dalle istituzioni vigenti a forze autoconvocate, come il congresso dei CLN, radunatosi a Bari il 28-29 gennaio 1944. Nel suo corso venne ribadita la richiesta di immediata abdicazione di Vittorio Emanuele III, da alcuni liberali liquidato addirittura come “cencio sporco”. Per gli anglo-americani, pur diversi nella loro grammatica politico-istituzionale, lo Stato d'Italia era quello impersonato dal re e dal governo di sua nomina. Se mai avessero avuto motivo di dubitarne (ma non ne esistono documenti probanti) a rafforzarli nella loro posizione fu la costituzione della Repubblica sociale italiana incardinata su Mussolini e succuba della Germania. Malgrado tutto, all'indomani della resa e del trasferimento del re, del principe ereditario e del governo da Roma a Brindisi, nei modi che tante polemiche hanno suscitato e ancora sollevano, i vertici delle Forze Armate furono a fianco del sovrano. Il 26 settembre 1943 Vittorio Emanuele III ordinò l'organizzazione del Raggruppamento “Piemonte”: un primo nucleo di circa 5.000 uomini. Cinque giorni dopo la dichiarazione di guerra alla Germania (13 ottobre), lo passò in rassegna nei pressi di Manduria. La riorganizzazione dell'Esercito molto deve alla tenacia di Giovanni Messe, ultimo Maresciallo d'Italia, biografato da Luigi Emilio Longo nel volume pubblicato dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito (2006) e, successivamente, dal già citato generale Zerrillo. Il 15 novembre il Raggruppamento fu autorizzato a muovere verso la linea del fronte di combattimento. Sulle fiancate degli automezzi il colonnello Valfrè di Bonzo fece istoriare lo scudo sabaudo. A inizio dicembre venne aggregato alla 36^ divisione statunitense del II corpo d'armata e (come scrisse Gabrio Lombardi) fu incaricato di espugnare il «dosso allungato, scoperto e roccioso, spezzato in una lunga serie di ondulazioni di altezza crescente»: Montelungo. Lì, l'8 e il 16 dicembre 1944, ebbero luogo le sue prime prove con attacchi ripetuti a reparti della divisione “Goering”. Subì pesanti perdite. Il primo giorno perse 4 dei 5 ufficiali in linea. Mostrò che «l'antiquo valore/ne l'italici cor non [era] ancor morto». Lo stesso principe Umberto di Piemonte si levò in volo di ricognizione per fornire precise informazioni sul nemico, meritandosi la Silver Star, la prima delle due onorificenze conferitegli dagli anglo-americani, i quali gli attribuirono poi anche la Legion of Merit. La riorganizzazione delle Forze Armate, a cominciare dal Regio Esercito, avvenne in quei mesi difficili per tutti. Il motto del Re e del Principe ereditario, dal 5 giugno 1944 Luogotenente del Regno, fu “Viva l'Italia”. Continuò a garrire il tricolore che dal 1848 ne aveva guidato la lunga marcia verso l'indipendenza e l'unità nazionale, come ha scritto lo storico militare gen. Oreste Bovio nell’insuperata Storia dell'Esercito italiano e in In alto la Bandiera. Per saperne di più: mostre, convegni, studi... Dal rovesciamento del regime fascista all’instaurazione dalla Repubblica (19 giugno 1946) si susseguirono sei diversi governi. Nell'ordine, il maresciallo Pietro Badoglio ne presiedette tre diversi dal 25 luglio 1943 al 18 giugno 1944; Ivanoe Bonomi (ex socialista riformista, democratico, esponente della Democrazia del lavoro) ne guidò due sino al 21 giugno 1945. A lui seguì il breve governo presieduto da Ferruccio Parri, comandante delle formazioni partigiane “Giustizia e libertà”, esponente del Partito d'azione, dal quale si separò nel congresso del febbraio 1946 per dar vita alla Concentrazione democratica repubblicana con Ugo La Malfa. Il 10 dicembre gli subentrò il democristiano Alcide De Gasperi, a capo di un governo formato da ministri dei sei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale (comunisti, socialisti, azionisti, democratici del lavoro, democristiani, liberali), con esclusione del Partito repubblicano italiano capitanato da Randolfo Pacciardi. Al ministero della Guerra si susseguirono nell'ordine i generali Antonio Sorice e Taddeo Orlando con Badoglio; il liberale Alessandro Casati con Bonomi, il democristiano Stefano Jacini con Parri e il repubblicano e massone Cipriano Facchinetti con De Gasperi. Nello stesso arco di tempo si susseguirono due soli Capi di Stato Maggiore Generale: il maresciallo d'Italia Giovanni Messe dal 18 novembre 1943 al 1° maggio 1945, quando gli subentrò il generale designato d'armata Claudio Trezzani. Capi di stato maggiore dell'Esercito furono i generali Mario Roatta sino al 18 novembre 1943; Paolo Berardi fino al 10 febbraio 1945, quando assunse il comando delle Forze Armate in Sicilia per contrastare l'Esercito volontario per l'indipendenza dell'isola; Ercole Ronco e infine il generale di divisione Raffaele Cadorna, già comandante del Corpo Volontari della Libertà, figlio di Luigi Cadorna, comandante supremo durante la Grande Guerra (su cui fa luce il volume Luigi e Carlo Cadorna, Caporetto? Risponde Cadorna, BastogiLibri, 2021). Capo di Stato Maggiore della Marina (carica abbinata a quella di sottosegretario della Marina) fu l'ammiraglio Raffaele De Courten; a Capo di Stato Maggiore dell'Areonautica si susseguirono i generali Pietro Piacentini e Mario Aymone Cat. Quattro furono i comandati generali dei Carabinieri: i generali Angelo Cerica fino al 9 settembre 1943, Giuseppe Pièche dal 15 novembre 1943 al 20 luglio 1944, Taddeo Orlando e dal 7 marzo 1945 Brunetto Brunetti. La loro opera si coniugò a quella dei comandanti del Corpo Italiano di Liberazione e, di seguito, dei Gruppi di Combattimento “Cremona” (gen. Clemente Primieri), “Friuli” (gen. Arturo Scattini), “Folgore” (Giorgio Morigi), “Legnano”, “Mantova”, “Piceno (gen. Emanuele Beraudo di Pralormo), impegnati nell'avanzata verso il Nord. “Nel decennale della Resistenza e del ritorno alla democrazia” il loro fondamentale contributo alla ricostruzione dell'Italia è stato documentato dal gen. Primieri in Il Secondo Risorgimento (Roma, Poligrafico dello Stato, 1955, con contributi di Aldo Garosci, Raffaele Cadorna, Costantino Mortati e altri) e, sulla scorta di ampia documentazione, dal generale Pierluigi Bertinaria nel convegno internazionale di studi (Milano 17-19-maggio 1984) La cobelligeranza italiana nella lotta di Liberazione dell'Europa, i cui atti sono stati pubblicati dal Ministero della Difesa-Comitato storico “Forze Armate e Guerra di Liberazione” (Roma, 1986). La complessa evoluzione dal Raggruppamento “Savoia” al CIL e ai Gruppi di Combattimento è stata documentata dalla Mostra al Mastio della Cittadella di Torino (C.so Galileo Ferraris), allestita dal 22 al 30 aprile per iniziativa di illustri personalità (i generali Pastorello, Cinaglia, Uzzo, Puliatti e altri) di concerto con il Museo Storico Nazionale di Artiglieria e l'Associazione Nazionale Artiglieri d'Italia. La Mostra è stata accompagnata da un minuzioso catalogo che, come ribadito dal “CalendEsercito 2023”, illustra la continuità dell'Esercito italiano dalla sua costituzione (1861) a oggi, evidenziando anche il ruolo svolto per 19 mesi dalle forze armate italiane, giunte a contare 450.000 uomini tra reparti combattenti e ausiliari; senza dimenticare gli 80.000 militari che operarono nelle formazioni partigiane sorte nell'Italia centro-settentrionale: non solo in quelle dichiaratamente monarchiche ma anche nelle file di Garibaldini, Giustizia e libertà, Matteotti e nelle brigate “bianche”, cioè di ispirazione democristiana o genericamente “cattolica”. Il panorama del contributo dato dai militari alla “Riscossa” (come Raffaele Cadorna intitolò le sue Memorie) non sarebbe completo se non venisse tenuto conto anche degli Internati Militari Italiani (la loro storia è stata recentemente documentata da Avagliano e Palmieri (ed. Mondadori) e dei prigionieri italiani negli USA e Gran Bretagna. A ottant'anni dai “fatti”, la svolta voluta e attuata da Vittorio Emanuele III nell'estate 1943 viene ricomposta alla luce meridiana della verità storica. Meriterà di essere ulteriormente approfondita e soprattutto proposta all'attenzione di docenti e studenti anche attraverso programmi radiotelevisivi, che mettano a frutto le decine di volumi di Atti dei convegni promossi dagli Uffici storici militari e dall'Archivio Centrale dello Stato e i Verbali dei governi da Badoglio a De Gasperi curati da Aldo G. Ricci.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Vittorio Emanuele III passa in rassegna a Brindisi reparti del riorganizzato Regio Esercito Italiano.