Proposte Associazione di Studi Storici Giovanni Giolitti a Cavour-Associazione Studi Storici Giovanni Giolitti

Proposte

                                        In questa sezione segnaliamo editoriali, articoli, note, recensioni e saggi brevi di interesse.




GLI “ELETTI” RAPPRESENTAVANO TUTTI
SAFFI, REPUBBLICANO COL RE


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 21 maggio 2023 pagg. 1 e 6.


Marco Aurelio Saffi (Forlì, 13 ottobre 1819-10 aprile 1890). Già programmato per il 27 maggio a Forlì, il convegno sulla sua figura (“eroe del Risorgimento dimenticato) è stato rinviato al 21 ottobre. Vi verrà presentato un sontuoso volume di Alberto Urizio Koverech, denso di documenti inediti.
Didascalia
Poca gioia han dell'urna...
Imperversa il dibattito su due temi apparentemente contigui, in realtà lontanissimi. Il primo è se e quanto gli “eletti” al Parlamento e nei consigli regionali e comunali (col vento che tira quelli provinciali difficilmente verranno riesumati) rappresentino non solo chi li ha votati ma anche l'ampia e crescente massa degli astenuti. Il secondo riguarda le motivazioni profonde dell'astensionismo. In assenza di sondaggi attendibili, parecchi “opinionisti” si sbizzarriscono in lambiccate “interpretazioni” di quanto è evidente da decenni: la crescente disaffezione dei cittadini dai seggi. Secondo alcuni l'astensione indica il sempre più diffuso discredito delle candidature propinate dalle macchine elettorali dei partiti, su misura di leggi che mortificano la libera scelta degli elettori. Se vale per le elezioni politiche (e varrà ancor più per l'elezione degli “eurodeputati” dell'anno venturo), con candidature spesso selezionate da ristrette cerchie di “addetti”, tale interpretazione è confutata nelle amministrative, in specie dalle comunali. Il 14 maggio queste hanno veduto in ogni comune un numero elevato di liste: una novità destinata a rafforzarsi nel crepuscolo di partiti e movimenti che pochi anni or sono giunsero a contare anche il 30 e più per cento dei consensi ma ora sono sotto il 10% e persino al 2-3% come i Pentastellati.
Abbassare l'asticella e abolire il doppio turno?
Le risposte al “nuovo che avanza”, cioè all'astensionismo dilagante, non si sono fatte attendere. È scattata la proposta di abolire i ballottaggi e di portare al 40% il quorum di consensi necessari a eleggere i sindaci al primo turno. Sono ricette controproducenti perché ridurrebbero ulteriormente la rappresentatività dei “primi cittadini”, esattamente l'opposto di quanto occorre. Incrementerebbero l'assenteismo. Secondo un'altra interpretazione, altrettanto fantasiosa, gli astenuti costituirebbero il “parco voti di riserva” degli eletti. Secondo questi oracoli, chi non è andato alle urne lo ha fatto per esercitare una sorta di mònito pedagogico, sospingere i partiti a dare ascolto agli astenuti, ed è pronto a soccorrerli alla prima prossima occasione.
   L'inclinazione a spiegare le tendenze dell'elettorato in scansioni temporali sempre più brevi insinua che l'attuale presidente del Consiglio benefici dell'esaurimento “del decennio della protesta” e che possa quindi guardare a orizzonti lunghi con una certa tranquillità. Scandire la storia in cicli sempre più corti vela la capacità di coglierne l'onda lunga. L'unico beneficio euristico dello spezzettamento della storia in segmenti sempre più brevi è che cancella la leggenda secondo la quale l'Italia è passata dalla prima, a una seconda e alla terza repubblica. Una fiaba in un Paese nel quale molti processi durano decenni e si riaprono “casi” di ere geologiche fa. Per distrarre dalla comprensione dell'unica “repubblica” effettivamente esistita dal 1946 a oggi, ora viene proposto di sostituire l'ordinamento costituzionale vigente con una repubblica presidenziale, un “premierato” (intruglio esterofilo cacofonico) o chissà quale altro ordinamento avvolto in trine linguistiche.
Chi rappresenta chi?
Tempi addietro il corso storico era ripartito in evi (antico, medio e moderno), poi si passò a dividerlo in epoche, di seguito in età, sino a quella “presente”, che invero dura poco ed è anno dopo anno sostituita da altre: una corsa affannosa verso un futuro senza memoria e senza meta. La rappresentazione e rappresentatività dei non votanti da parte della dirigenza eletta sono questioni relativamente recenti. In Italia si posero con l'introduzione del suffragio universale (15 agosto 1919) e con l'obbligatorietà del voto, dettata dal regime di partito unico e a lungo confermata dal regime repubblicano: un “dovere civico” secondo la Costituzione. Da tempo, però, quel “dovere” è stato attenuato in “diritto e dovere”, lasciando al cittadino la libertà di valersene, senza più alcuna sanzione per chi se ne astenga: come in tutte le democrazie parlamentari.
   Dalla promulgazione dello Statuto albertino nel regno di Sardegna (4 marzo 1848), unico stato pre-unitario che tenne duro sulla elettività alle cariche anche dopo la Restaurazione asburgo-borbonica del 1849, il voto non fu affatto obbligatorio e l'elettore non incorreva in alcuna penalità se non si recava al seggio. Del pari si dette per scontato che i deputati, liberi da qualsiasi vincolo di mandato e rappresentanti “della nazione”, non di questo o quel gruppo di sostenitori o “partito” o del “collegio” nel quale venivano eletti, dovevano farsi interpreti non solo degli elettori che non erano andati alle urne ma anche dei non elettori. La legge elettorale, elaborata da politici lungimiranti quali Cesare Balbo, Luigi Francesco Des Ambrois di Nevache e Camillo Cavour, restringeva gli elettori a una stretta cerchia di cittadini, esclusivamente maschi (come in tutte le altre monarchie costituzionali europee e nella “libera Svizzera”, che solo recentemente nel 1971 ha riconosciuto alle donne il diritto di voto attivo e passivo). Dal 1861 quella legge fu adottata dal regno d’Italia, suscitando qualche malcontento, sia perché azzerò alcune norme vigenti nei domini asburgici, sia perché non ampliò il diritto di voto, sollecitato dai seguaci di Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi e da quanti rimpiangevano la Costituzione della Repubblica Romana del 1849, fondata sulla “sovranità popolare”.
   A legge elettorale invariata e con un numero di elettori “politici” fermo a mezzo milione su circa 22 milioni di abitanti (gli elettori dei consigli provinciali e comunali erano più del doppio rispetto a quanti eleggevano i deputati), la Camera eletta a inizio 1861 fu rinnovata nel 1865, dopo il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, nel 1867, dopo l'annessione del Veneto euganeo, e nel 1870, con la “presa” di Roma e del Lazio. I seggi salirono a 508 e tali rimasero sino alle elezioni del 1921, quando votarono anche gli elettori del Trentino e della Venezia Giulia. Alle urne nel 1870 andò appena il 44,5% degli aventi diritto. In Toscana furono solo il 32%, con la punta minima a Livorno (16,3%). L'astensione era predicata dal clero su direttiva della Sacra Penitenzieria vaticana che nel 1866 aveva autorizzato il voto “salvis legibus divinis”, dal 1868 aveva dichiarato il “non expedit” (“non è opportuno”) e poi precisò che quella formula comportava “prohibitionem”. Tuttavia in molti collegi i cattolici andavano ai seggi per impedire l'elezione di candidati “pericolosi”: garibaldini, mazziniani e, pessimi tra tutti, i massoni, in un'età nella quale Pio IX bollava le logge come “sinagoghe di Satana”.
   Sic stantibus rebus, le “sinistre” sentirono il bisogno di riflettere su quanto fosse opportuno e/o necessario per accelerare le riforme di cui tutti sentivano bisogno per “guarire la gran piaga della miseria “ (parole di Garibaldi). Occorreva creare un “campo largo” comprendente pionieri del Risorgimento e liberali già militanti nella sinistra democratica dai tempi del connubio di centro-sinistro (sic) tra Cavour e Urbano Rattazzi. Proprio la stasi politica dei governi della Destra Storica presieduti da Giovanni Lanza e da Marco Minghetti spingevano le “sinistre” a chiarirsi e a passare dall'“astensione” alla “partecipazione”. Sotto falsa identità ma sorvegliato dal governo, Giuseppe Mazzini morì a Pisa il 10 marzo 1872. L'“intransigenza” repubblicana faceva il gioco dei conservatori, anzi dei reazionari. L'esempio veniva da Garibaldi, eletto alla Camera subalpina per il collegio di Cicagna, in Liguria, dal 1849 e poi via via rieletto nei collegi di Corniglio, Nizza Marittima, Milano, Corleto, Napoli... Era un “rivoluzionario” con l'insegna “Italia e Vittorio Emanuele”.
   Insomma, bisognava passare il Rubicone e fare i conti con la “monarchia rappresentativa”. Come spiegò Giosue Carducci, erano stati i patrioti a costringere Vittorio Emanuele II a prendere sulle spalle il “brut fardèl” dell'unificazione nazionale. Gli italiani “adulti” non potevano lasciarlo solo. Diversamente sarebbe stato costretto a cercare l'alleanza del Papa che lo aveva addirittura scomunicato.
Saffi da Forlì: un nuovo Marco Aurelio sul Campidoglio
   Nell'estate del 1874 il bolognese Marco Minghetti presiedeva un governo con  l'antico mazziniano Emilio Visconti-Venosta agli Esteri, Antonio Scialoja all'Istruzione, Silvio Spaventa ai Lavori Pubblici, Onorato Vigliani alla Giustizia: patrioti intemerati e di grande serietà. Garibaldini, mazziniani e radicali raccolti nella Consociazione romagnola decisero di radunarsi a discutere sulla linea da tenere nelle imminenti elezioni politiche. Il 1° agosto, da Caprera, Garibaldi scrisse a Celso Ceretti, Aurelio Saffi e al colonnello Cesare Valzania: “Ai fratelli nostri dei paesi che andate a percorrere, un saluto di cuore; e procurate di inculcare nell'animo loro che Massoni, Carbonari, Internazionali, ecc. devono schierarsi sotto il vessillo repubblicano, che, uniti, potrà condurci al compimento della nostra missione”. Era una dichiarazione di guerra contro la Corona? Niente affatto. Da anni l'Eroe esortava i “progressisti” a entrare nell'arena parlamentare come egli stesso aveva fatto da un quarto di secolo. Bisognava stare in Parlamento per usare le leve del potere a favore degli esclusi dal voto, dai dimenticati. Il 2 agosto ventotto “consociati  romagnoli” si radunarono nella Villa Ruffi, sul colle di Covignano, presso Rimini. A presiederli fu Aurelio Saffi, deputato, iniziato massone nel 1862 nella loggia “Dante Alighieri” di Torino, animata da Ludovico Frapolli e Francesco Crispi. Il 2 agosto 1874 il ministro dell'Interno, Gerolamo Cantelli di Rubbiano li fece arrestare tutti come pericolosissimi cospiratori. In realtà stavano discutendo la linea da tenere contro i rivoluzionari veri, che stavano diffondendo anche in Italia il programma della Comune soffocata nel sangue a Parigi. Lì gli internazionalisti (o comunardi) che non caddero durante l'espugnazione della città da parte delle truppe inviate dal governo, provvisoriamente insediato a Bordeaux, furono spietatamente fucilati cimitero Père Lechaise o deportati nella Nuova Caledonia. Della loro utopia non doveva rimanere traccia. Quel dramma segnò la drastica divisione delle “sinistre” non solo in Francia ma in tutta l'Europa e oltre Atlantico. Lo spartiacque fu appunto la condotta dei democratici per promuovere l'“emancipazione popolare” e arginare il comunismo.
   Gli internazionalisti non avevano dubbi: in tutte le sue componenti la borghesia era complice della “reazione”, somma di Corone e di Altari. Quindi andava spazzata via. Un'altra “internazionale”, però, quella ispirata dalla massoneria universale, riteneva invece che il progresso doveva procedere attraverso l'educazione, persona per persona. Gli internazionalisti paleo-marxisti erano contrari a qualsiasi collaborazione con le “istituzioni”, dalle amministrazioni locali ai governi centrali; i democratici invece miravano invece a valersene per accelerare il miglioramento delle moltitudini. Alla luce della storia diffidavano delle “masse” e delle “rivoluzioni”, che si traducevano in stragi e riportavano all'indietro le lancette dell'incivilimento.
   Quello, appunto, era il rovello di quanti si raccolsero a Villa Ruffi. Tra loro spiccavano due politici di lungo corso: Marco Aurelio Saffi (1819 -1890) e Alessandro (Sandrino) Fortis (1841-1909). Entrambi nativi di Forlì rappresentano due stagioni del “secolo lungo” che in Italia andò dalla Restaurazione del 1814-1815 alla vigilia della Grande Guerra.
   Primo dei quattro figli del conte Girolamo, laureato in legge e filosofia a Ferrara, nel 1843 il ventiquattrenne Saffi si trasferì a Roma ove entrò nella cerchia del console degli Stati Uniti d'America G.M. Green. Eletto deputato alla Costituente istituita da Pio IX, dopo la fuga del papa da Roma a Gaeta, Saffi fu tra quanti tra l'8 e il 9 febbraio 1849, su proposta di Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino, proclamarono l'abolizione della sovranità pontificia e l'avvento della Repubblica, alla cui guida si pose con Carlo Armellini e Giuseppe Mazzini. Al suo crollo, l'11 luglio partì per l'esilio: Ginevra e poi l'Inghilterra, ove conobbe e sposò Giorgina Crawford, nata a Firenze e mazziniana. Ne ebbe quattro figli dai nomi patriottici, come Attilio ed Emilio, in onore dei fratelli Bandiera, fucilati dal Borbone nel vallone del Rovito (Cosenza). Nel 1860 raggiunse Mazzini a Napoli. Il 7 aprile fu eletto deputato nel collegi di Acerenza. Si dimise con altri esponenti della sinistra democratica nel 1864 per protesta contro le misure repressive del “brigantaggio meridionale” che, ormai privo di sostegni dall'estero e dopo la truce stagione delle esecuzioni sommarie chiusa grazie alla Legge Pica, andava affrontato con riforme socio-economiche più e meglio che con le armi. Nel 1867, dopo una seconda stagione in Gran Bretagna, ove conobbe lord Palmerston che lo apprezzò, Saffi tornò nella sua tenuta di San Varano, presso Forlì, nel cui collegio era stato eletto deputato. Dal 1873 assunse la guida dei mazziniani con Maurizio Quadrio, genero di Garibaldi, e Federico Campanella, già gran maestro del Grande Oriente incardinato nel Mezzogiorno e forte di centinaia di affiliati, tra i quali parecchi ecclesiastici.
   Nel 1874 Aurelio Saffi puntò alla svolta generale. Ma il ministro dell'Interno del governo Minghetti, il conte Gerolamo Cantelli di Rubbiano caricò come un toro infuriato. I “consociati romagnoli”, tra i quali Alessandro Fortis, massone, futuro presidente del Consiglio, il genovese Felice Dagnino ed Eugenio Valzania, furono ammanettati, incatenati due a due e tradotti in treno a Spoleto, nella cui fortezza, adattata a carcere, furono ammassati tutti insieme in uno stanzone, senza che neppure fosse stato spiccato nei loro confronti un ordine di cattura. Pura “bestialità”, come deplorò Giosue Carducci. Per un attimo si temette il peggio. L'anarchico russo Michail Bakunin diramò il Manifesto del comitato italiano per la rivoluzione sociale che incitò: “Allo schiavo esser suo primo dovere quello di insorgere e ai soldati quello di disertare”.
   Seguirono altri arresti: il “fratello”Andrea Costa, allievo di Carducci e dal 1882 primo deputato socialista, e Alberto Mario (non massone), di cui molto e bene ha scritto Gianpaolo Romanato. Le elezioni dell'8-15 novembre 1874 segnarono l'avanzata delle sinistre, soprattutto nel Mezzogiorno. Saffi venne eletto deputato nel collegio di Rimini. Mentre Cantelli studiava un progetto per dichiarare fuori legge le opposizioni democratiche e condannare al domicilio coatto da uno a cinque anni gli avversari del governo, il primo a capire la necessità di una svolta vera fu Vittorio Emanuele II, che nel 1875, affiancato dal generale Giuseppe Medici, antico garibaldino, ricevette al Quirinale Garibaldi. Sorreggendosi sulle grucce per i perenni postumi della ferita subita ad Aspromonte, l'Eroe espose al re i piani per fare di Roma una città moderna: arginare il Tevere, aprire un porto commerciale a Ostia e collegarlo con un canale alla Città Eterna, dotata di area industriale. “Agricoltore”(come si era annotato alla Camera dei deputati) Garibaldi parlava non solo per chi disertava le urne ma soprattutto per quanti non avevano diritto di voto e che dalle classi dirigenti si attendevano riforme vere.
   Il 18 marzo 1876 il governo Minghetti fu messo in minoranza. Il Re incaricò Agostino Depretis, capofila della Sinistra storica, di formare il nuovo ministero che ebbe all'Interno Giovanni Nicotera, sopravvissuto di misura alla spedizione guidata da Carlo Pisacane nel Mezzogiorno, finita tragicamente presso Sapri. Deputato della sua nativa Forlì dal 1887, alla testa dell’Associazione democratica bolognese, con i “fratelli” Carducci e Ceneri, nel 1886 Saffi venne chiamato dal gran maestro Adriano Lemmi nella celebre loggia “Propaganda massonica”: un concentrato di personalità di spicco della Terza Italia, vera e propria “vetrina” di patrioti pronti a far quadrato attorno alla Corona, unico pilastro del rinnovamento civile, come si vide con il nuovo codice penale (dovuto a Giuseppe Zanardelli, iniziato in loggia trent'anni prima a Torino) che abolì la pena di morte, ponendo l'Italia all'avanguardia.
   Quel “mondo” va riscoperto e capito mentre oggi le votazioni segnano la divaricazione tra eletti e delusi, tra mestieranti del potere e quanti si preoccupano per la tenuta della democrazia parlamentare. L'interrogativo è destinato a divenire più assillante col rinnovo del Parlamento europeo l'anno venturo: un appuntamento che sta all’Italia odierna come gli eventi di un secolo e mezzo addietro stettero a quella appena nata, quando i suoi “popoli” furono unificati in pochi anni grazie a leggi innovative e con le enormi, costose ma indispensabili infrastrutture per il progresso civile ed economico-sociale della Nuova Italia.
   Quando il 10 aprile 1890, appena settantenne, si avviò all'Oriente Eterno, Marco Aurelio Saffi aveva motivo di ritenersi pago del ruolo svolto per la patria. Era un lettore degli scritti di Mazzini e, ancor più, dell'Ecclesiaste.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA. Marco Aurelio Saffi (Forlì, 13 ottobre 1819-10 aprile 1890). Già programmato per il 27 maggio a Forlì, il convegno sulla sua figura (“eroe del Risorgimento dimenticato) è stato rinviato al 21 ottobre. Vi verrà presentato un sontuoso volume di Alberto Urizio Koverech, denso di documenti inediti.


L'ESEMPIO DELL'EROISMO PAZIENTE E SILENTE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 14 maggio 2023 pagg. 1 e 6.


Francesco Baracca
Didascalia
Fare: in fretta, bene e con discrezione.
Mentre troppi alzano la voce, abbaiano alla luna e vorrebbero tutto e subito, senza però sapere precisamente cosa né come farne uso, l'Italia ha urgenza spasmodica di recuperare la “misura umana” degli antichi vituperati sofisti: il tono medio dei moderati che sin dall'antichità incitavano i concittadini a occuparsi con dedizione e responsabilità della “politica”, la più affascinate e impegnativa delle “arti”, all'opposto della “spartizione della torta”. Tornare alla politica vera, fondata sul dialogo predicato da Socrate, il filosofo ateniese condannato a morte perché invitava a incardinare il governo della città sull'educazione, è anche la via più sicura per ricondurre i cittadini alle urne; in linea con il liberalismo classico propugnato da giureconsulti quali Giovanni Cassandro, ricordato in queste ore dal presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi. Alla vigilia di un voto non meno rappresentativo di precedenti turni elettorali, va chiarito che un ulteriore aumento dell'astensionismo suonerebbe quale campanello di allarme e metterebbe fatalmente la sordina al confronto sulle ancora confuse proposte di riforme della Costituzione. È l'ora del coraggio silenzioso, dell'eroismo paziente e silente: virtù nient’affatto estranee alla tradizione patriottica.
Quando Francesco Baracca spiegò a d'Annunzio il suo eroismo
Nel Centenario della fondazione dell'Aeronautica militare Maria Luisa Suprani Querzoli pubblica “Ritratto di Francesco Baracca” (Bookness.it), due anni addietro preceduto da “La Grande Guerra di Francesco Baracca” (ed. CartaCanta): oltre trecento pagine, ricche di fotografie e complete di ampia bibliografia. Con vivida efficacia narrativa Suprani Querzoli va oltre la biografia in senso stretto del più celebre e pluridecorato asso dell'Aviazione italiana. Ne fa comprendere la grandezza umana collocandolo, all'alba del volo aereo e del rapido avvento della “cavalleria del cielo”, negli anni precedenti la conflagrazione europea dell'estate 1914.
   Nato a Lugo di Romagna il 9 maggio 1888, allievo dell'Accademia Militare di Modena dal 1907, sottotenente dell'Arma di Cavalleria, dopo il corso di specializzazione alla Scuola di Cavalleria di Pinerolo, nel 1912 il ventiquattrenne Baracca optò per l'aviazione. Già ammiratore e seguace del “metodo” introdotto nell'equitazione dal capitano di cavalleria Federico Caprilli, di cui molto, bene e ripetutamente ha scritto il colonnello Carlo Cadorna, sino a “Equitazione naturale moderna” (ora nelle edizioni BastogiLibri), anche da aviatore Baracca puntò alla perfezione fondata sull'armonia tra spirito e materia. Conseguito il brevetto di pilota a conclusione del corso a Bétheny, nei mesi della neutralità dell'Italia tornò nuovamente in Francia per familiarizzarsi con il caccia Nieuport 10.
    Suprani Querzoli ripercorre le attese, le speranze e i sogni del giovane Baracca sin dai primi vittoriosi duelli con l'aviazione austro-ungarica, analizzando minuziosamente i suoi successi a fianco di altri provetti ufficiali della subito leggendaria 91^ Squadriglia. Ma ricorda anche le difficoltà incontrate da Giulio Douhet, profeta dell'Arma aeronautica, nel far comprendere la portata non meramente tattica dell'aviazione militare, inizialmente concepita quale mero supporto alla fanteria dal cielo, sia per propiziarne l'avanzata, sia per inseguire e colpire il nemico in ritirata. La nuova Arma secondo Douhet poteva e doveva essere decisiva per risolvere qualunque conflitto in tempi rapidi, con bombardamenti massicci sul sistema produttivo nemico, costretto alla resa. Era l'intuizione dell'impiego dell'aviazione che si affermò nella seconda guerra mondiale e vale tuttora. La sua affermazione comportava un mutamento profondo nella concezione della guerra e dell'impiego degli strumenti per combatterla e vincerla, con tutti le sue ripercussioni dirette e collaterali, anzitutto sui “civili”. Occorreva un cambio radicale non solo psicologico ma “morale”, come era avvenuto secoli prima con l'invenzione e lo sviluppo dell’artiglieria, tra la fine del Quattrocento e inizio del Cinquecento, e con l’introduzione dei fucili di precisione e delle mitragliatrici, nella seconda metà-fine dell'Ottocento. Il combattimento iniziava e si risolveva da distanze via via crescenti. Chi sparava non aveva percezione alcuna del “volto” né dell'“identità” del nemico, retrocesso a “bersaglio”, disumanizzato. Dalla Guerra di secessione negli Stati Uniti d'America e da quella franco-prussiano-germanica del 1870-1871 l'artiglieria aveva iniziato a plasmare il nuovo combattente. Ma fu la Grande Guerra a segnare la svolta.
   L'arma aerea si librò a lungo in uno spazio suo proprio: “celeste”, originariamente e ancora costitutivamente cavalleresca, ma nondimeno già “al di là” dell'ordinario. Ne avrebbe scritto Friedrich Nietzsche se ancora fosse stato vivo. Il confronto dialettico tra i due mondi spirituali è evocato da un lungo passo di una “conversazione” tra Francesco Baracca e Gabriele d'Annunzio, entrata nella “narrazione” sin dalla biografia dell'asso scritta da Foschini nel 1939 e ricalcata da Romersa in “Francesco Baracca, Cavaliere del Cielo” (Istituto Poligrafico dello Stato, 1968). Benché probabilmente non sia mai avvenuta o comunque non nei termini solitamente narrati, Suprani Querzoli ha il merito di riportarla proprio perché essa ha il pregio di chiarire le loro due “visioni”. Merita rileggerla.
   “Una sera, il Poeta volle Baracca a cena con sé, nella sua casa di Cividale. Sedettero a tavola soli, in una stanza che D'Annunzio, per l'occasione, aveva adornato con una gran quantità d'uccelli impagliati, aquile reali e gabbiani dalle ali spiegate”. Dopo averlo a lungo scrutato con l'occhio che “non era sotto vetro”, sporgendosi il Vate gli chiese: “Francesco, insegnami il tuo segreto. Tu devi sentirti corazzato ai colpi nemici, invisibile, trasfigurato in una nuvola, con la folgore in seno, non è così?”. “Non è proprio come dici tu – gli rispose Baracca. Sarebbe troppo bello. Il combattimento è semplice. Il ragionamento è crudele. Matematico. O tu o io; del resto l'impone l'istinto. Gli aeroplani si accendono, diventano torcia e tu senti nella tua carne l'atrocità di quella morte. Come si fa?” “Allora?” – incalzò d’Annunzio. “Vedi – fu la risposta – mi riesce difficile spiegartelo. Forse perché non c'è nessun segreto...Voli, combatti e basta. Tutto sta nella rapidità. Vederlo, chiuderlo nella mira, assalirlo a colpo d'occhio. Anche la scherma della difesa cambia di volta in volta. Mestiere e niente altro. Niente nuvola, perciò, niente fulmine”.
   Coraggio a tutta prova, certo; ma anzitutto preparazione tecnica, “mestiere delle armi” appunto, e velocità, precisione. E spietatezza, s'intende. È la guerra. Mentre ancora molti ritenevano che l'aeronautica militare fosse solo “una meteora brillante, cioè un passaggio, luminoso ma solo e sempre passaggio”, a coglierne tutta l'importanza innovativa, non solo bellica, più e meglio di altri fu Vittorio Emanuele III, che seguì di persona le epiche imprese dell'aviazione, in specie della 91^ Squadriglia e di Francesco Baracca, che decorò di Medaglia d'Oro al Valor Militare. Ne scrisse a casa il Comandante Supremo Luigi Cadorna: “Abbiamo assistito tre ore fa a uno straordinario duello aereo (…) Uno dei cacciatori è il capitano Baracca, già compagno di Lello “, cioè di suo figlio Raffaele, futuro generale, come erano i Cadorna da generazioni, e poi comandante del Corpo Volontari della Libertà (per assumere la carica non esitò a farsi paracadutare al Nord benché ormai anziano).
   In quella “visione” napoleonica, fucina di “valori” e, conseguentemente, di “meriti”, in una lettera al figlio, Paolina Biancoli Baracca non esitava a deplorare che tardassero a promuoverlo maggiore: “...non si ha da guardare all'età. Così fanno le altre Nazioni e si sa che in Inghilterra uno è generale a 27 anni; così si incoraggia l'uomo”.
La grandezza del “fratello” Baracca
   Tra le leggende che si sono addensate intorno alla figura e alla memoria di Baracca una riguarda la sua iniziazione alla massoneria: un tema rimasto ai margini del bel libro di Suprani Querzoli. Poiché essa è data per certa anche dalle biografie diffuse in internet, è il caso di dedicarvi due parole. In “Mille volti di massoni” Giordano Gamberini, gran maestro del Grande Oriente d'Italia, scrisse che l'asso dell'aviazione militare italiana appartenne con il 18° grado del Rito scozzese antico e accettato a una “officina” della Gran Loggia d'Italia (detta “di Piazza del Gesù”), ma non addusse prove documentarie. In “Annales. Gran Loggia d'Italia degli A∴L∴A∴M∴, 1908-2012” (ed. Atanor) Luigi Pruneti, gran maestro della Gran Loggia d'Italia, esplorate tutte le carte a sua disposizione, scrisse invece che Baracca “era membro della loggia Dovere e Diritto di Lugo di Ravenna, all'obbedienza del Grande Oriente d'Italia”, nella cui “matricola” tuttavia il suo nome non compare affatto. All'indomani della sua morte e nel corso delle solenni esequie a Lugo nessuna delle due Comunità massoniche rivendicò l'affiliazione di Francesco Baracca. Se non in quel momento, quando? Egli era all'apice della gloria e le due Comunità erano in perfetta sintonia con il Re e, soprattutto dopo la sostituzione di Luigi Cadorna con Armando Diaz al Comando Supremo, con i vertici militari. Il riserbo  sulla sua non documentata iniziazione e i cavalleresco scambio di appartenenza tra due grandi maestri sono l'unica certezza sull'ascesa di Baracca nelle Valli Celesti durante la decisiva Battaglia del Solstizio (giugno 1918), quando gli italiani fermarono l'ultima disperata offensiva austro-ungarica.
   La grandezza di Baracca sta nell'essere stato cittadino esemplare e di aver fatto la propria parte per la patria e le sue istituzioni, nate dalla fusione tra la Corona di Casa Savoia, le cospirazioni (anche settarie) e la partecipazione popolare ispirata da Giuseppe Garibaldi, dal 1859 “generale dell'Armata Sarda”.
Eddy Sogno alla Società Umanitaria di Milano il 5 febbraio 1999, su invito del suo presidente avv. Massimo della Campa.
Didascalia
Eroismo non per caso ma quotidiano: silente e paziente
Proprio il Capo della Real Casa di Savoia, il principe Aimone, Duca di Savoia e di Aosta, e un altro Garibaldi, Francesco, figlio della sempre rimpianta Anita Garibaldi Hibbert, a sua volta figlia di Ezio Garibaldi, sono autori della prefazione e dell'introduzione al poderoso volume di Alessandro Mella, “Eroi con le Stellette. Storia e storie di soldati italiani” (ed. Marvia).Già apprezzato autore di molte opere, in 444 pagine Mella raccoglie il frutto di decenni di letture e ricerche d'archivio distillate in articoli per varie testate. Con modestia pari alla sua generosità (si presenta anche come “divulgatore”, quasi fosse riduttivo), Mella scrive che i danteschi novantanove capitoli “ritratti”capitoli del suo nuovo libro, arricchiti da quattro appendici e da vastissima bibliografia, non sono collegati da uno stretto filo logico. “Ma, egli osserva,  ci sono il caso, la chimica delle cose, i meccanismi che non possiamo capire, le stranezze e coincidenze per le quali, a volte, si ha l'impressione che siano loro a chiamare noi”. Il “filo” dell'opera in realtà è robustissimo: è l'“eroismo” che contraddistingue i “personaggi” proposti dal volume, tutti accompagnati da un ritratto e da una o più fotografie. L'eroismo – argomenta Mella – “può non essere solo e soltanto, quello clamoroso, figlio di un'azione straordinaria e magnifica. Esso può configurarsi anche come una vita condotta con spirito di sacrificio, idealismo, servizio, volontarismo, amore per valori ed ideali limpidi e cristallini come ruscelli alpestri”, “con o senza divisa, con o senza glorie incredibili a raccontarsi, eroi quotidiani”. Lo ribadisce il Principe Aimone di Savoia: “L'eroismo può essere fatto di tante piccole cose, di gesti quotidiani, di un'esistenza condotta con sobrietà e buoni sentimenti. Con vivo attaccamento ai valori della nostra civiltà”. Costituisce, aggiungiamo noi, lo “zoccolo duro” sul quale, quando necessario, fanno leva i protagonisti della Storia, come suo zio, il duca Amedeo d'Aosta, viceré d'Etiopia, di cui ripercorre l'esemplare vicenda bellica e morale.
   Disposti in ordine rigorosamente alfabetico (da Maria Abriani, medaglia d'argento della Grande Guerra, sino a Gaetano Zoppi, 1850-1948, asceso a senatore del Regno) i personaggi ritratti da Mella costituiscono altrettante tessere del mosaico della Nuova Italia, senza alcuna preclusione. A quanti si spesero nelle battaglie per l'unità nazionale, seguono uomini e donne dall'età di Vittorio Emanuele II a questo dopoguerra, passando attraverso due conflitti mondiali. Vi compaiono militari di tutte le armi e dei loro più diversi corpi e specialità. Si susseguono sacerdoti (come don Giulio Bertini), partigiani e, perché no?, alpini della Repubblica sociale italiana (Renato Assante).
   Nella prefazione il principe Aimone di Savoia ricorda le parole di Silvio Geuna a proposito di Eddy Sogno, molto caro a suo padre, Amedeo: “Di eroi ne nascono pochi. Forse il Padreterno ce li manda quando vede che ne abbiamo bisogno”. Alla luminosa figura del conte Edgardo Rata Sogno del Vallino, “Eddy” in famiglia e per gli amici, Mella dedica dieci pagine fitte di citazioni e di documenti. Ne narra puntualmente le imprese, i libri (a cominciare da “Guerra senza bandiere”, cui aggiungerei “Fuga da Brindisi”, pubblicato nelle cuneesi edizioni dell'Arciere), le persecuzioni giudiziarie, le iniziative a fianco di innovatori come Randolfo Pacciardi e la sua piena “riabilitazione” politica da parte del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che lo volle incontrare a Torino.
   I suoi “esecutori testamentari politici” (tra i quali l'autore di questi appunti) hanno sempre compreso la sottile ironia di quanto da Sogno dichiarato all'autore di “Testamento di un anticomunista”. Il conte “confidò” quanto non aveva mai fatto, né mai si era proposto di fare: quel “golpe” di cui era stato imputato. Tutt'altro aveva voluto: l'affermazione della libertà quale cardine dell'Italia postbellica, tornata in seno alle monarchie liberali e parlamentari dell'Occidente, qual era stata con i Re di Casa Savoia, le cui figure additò sempre ad esempio attualissimo di virtù civili.
   In una tra le stagioni più difficili della storia d'Italia, qual è l'attuale, segnata dalla crescente disaffezione dei cittadini nei confronti dei “ludi cartacei”, ricordare il plurisecolare cammino degli italiani verso l'unità, l'indipendenza e la libertà può restituire linfa vitale alla politica, altrimenti ridotta al “teatrino” tante volte deprecato ma non ancora superato dal ritorno alla politica vera e grande di cui i cittadini hanno bisogno e diritto. Perciò vanno salutate con plauso opere come quelle di Soprani Querzoli e di Mella: non “parole” ma appelli morali.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA : Francesco Baracca; Eddy Sogno alla Società Umanitaria di Milano il 5 febbraio 1999, su invito del suo presidente avv. Massimo della Campa.

ANTI (QUALE) FASCISMO?

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 7 maggio 2023 pagg. 1 e 6.


Obelisco Mussolini al Foro Italico (Roma). Su Giorgio Galli v. il volume collettaneo “Politiche e altre culture” (ed. Biblion), curato da Rossana Mondoni e Vinicio Serino per l'Istituto di studi Giorgio Galli (Milano) presieduto da Daniele Comero.    La voce “fascismo” firmata da Mussolini per la “Dottrina” e da Gioacchino Volpe per la “Storia” comparve nel volume XIV dell'Enciclopedia Italiana (1932). A parte fautori del regime (ciascuno con la propria visione del “fascismo”), il Consiglio Direttivo dell'Istituto comprendeva il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, membro del Consiglio supremo del Rito scozzese antico e accettato (Gran Loggia d'Italia), e il prof. Angelo Sraffa (1865-1937), docente di diritto pubblico e dal 9 dicembre 1893 maestro massone nella loggia pisana “Carlo Darwin” (Grande Oriente d'Italia, matricola 9.938). Suo figlio, Pietro, fece arrivare i “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci a Palmiro Togliatti, all'epoca alla corte di Stalin. Tra i direttori di sezione, redattori e collaboratori dell'Enciclopedia vi erano figurano studiosi niente affatto fascisti quali Enrico Fermi, Raffaele Pettazzoni, massone (storia delle religioni), il mazziniano Mario Menghini (storia del Risorgimento e contemporanea), Federico Chabod, Ugo La Malfa, Alberto Pincherle, Emilio Servadio. Nello stesso 1932 uscì il volume comprendente la ponderosa voce “Ebrei”, scritta in massima parte da Giorgio Levi della Vida.
Didascalia
Cancellare il “fascismo” dalla dottrina?
Nel lontano 1978 G. A. Allardyce in “What fascism is not: thoughts on the deflation of a concept” propose di cancellare il lemma “fascismo” dal lessico storico e politico. Sembrò una provocazione. Quasi mezzo secolo dopo suona invece come un invito alla liberazione dall'abuso di un sostantivo (“fascismo”) e di un aggettivo (“fascista”) privi di fondamenti univoci storici e scientifici: etichette polivalenti, spesso usate come clave nella rissa quotidiana che sta alla politica come le zuffe tra ragazzini stanno alla storia.
   Vent'anni dopo il Sessantotto, altra formula “magica” che dice tutto ma nulla spiega, se ne occupò il politologo Giorgio Galli (1928-2020) in “Il fascismo nella Treccani” (ed. Terziaria, 1997). Sorto con la nuova “guerra dei trent'anni” durata dal 1914 al 1945, il “fascismo storico” finì sotto le macerie della seconda guerra mondiale. Una specie estinta. Però, secondo Galli, esso sopravvisse come “modello politico” ed è quindi meritevole di studio. A sostegno del suo proposito citò un passo dell'articolo “Noi, i responsabili” pubblicato in “Primato” dal “fascista critico” Giuseppe Bottai il 15 luglio 1943, cinque giorni dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia: «Proprio nel momento in cui il nemico passa alla fase decisiva della guerra e attacca l'Europa, tentandone l'invasione dalla nostra costa, riconosciamo e rivendichiamo la responsabilità di avere acceso il fuoco del rinnovamento politico e sociale in Europa, perché questa si salvasse e potesse continuare la sua funzione di elaboratrice e sostenitrice della civiltà occidentale. La Storia riconoscerà che abbiamo interpretato la sua legge». In ore drammatiche, dieci giorni prima della richiesta del Gran consiglio del fascismo a Mussolini di rinunciare al comando militare della guerra ormai perduta, da lui stesso firmata con Dino Grandi e Luigi Federzoni, Bottai ancora considerava gli anglo-americani e quanti li sostenevano, estranei all'Europa e alla “civiltà occidentale” (quale?), a tacere della Russia, da lui e altri ritenuta asiatica.
   Di tutt'altro avviso erano gli italiani “pessiottimisti” evocati da Salvatore Satta in “De Profundis” (ed. Adelphi), inclini a «regolare la loro condotta secondo il principio “salus ab inimicis”». Essi si attendevano la liberazione dalla sconfitta, perché, «come sempre accade, i disegni della provvidenza sono attuati dal diavolo». Lo insegna il libro sapienziale dell'Antico Testamento in cui si narra che Jahve mandò suo figlio Satana a tormentare Giobbe. Con finissimo acume, Satta osservò che nel 1940 gli unici in Italia a desiderare veramente l'intervento dell'Italia in guerra e lo volevano «a fianco dell'odioso alleato, erano coloro che ritenevano che una simile guerra sarebbe stata verosimilmente perduta e con essa il regime che gravava sul paese da vent'anni come una cappa di piombo». Come nel 1922 aveva creduto di salvarsi rifiutando la libertà che lo aveva fino allora protetto, così nel 1940 l' “uomo tradizionale” sperò di recuperare la libertà auspicando la sconfitta della propria patria.
   Mentre il regime imprecava “Dio stramaledica gli inglesi”, come ricordò l'insigne penalista Franco Cordero nell'imperdibile romanzo “L'Opera” (Bompiani 1975), a Cuneo, ove risuonavano gutturali gli ordini in tedesco, i padri gesuiti, che sapevano guardare lontano, insegnavano agli allievi i rudimenti dell'inglese.
Fascismo: cioè?
“Che cosa” fu il “fascismo”? Che cosa volle dire “essere fascisti” nel discontinuo “ventennio”? Quando e come nacque il suo rifiuto da parte di quanti l'avevano condiviso, sopportato, celebrato negli “anni del consenso”, di cui scrisse Renzo De Felice in pagine insuperate? Per venirne a capo è indispensabile fare i conti con il “pensiero” o, senza esagerare, con le parole di Benito Mussolini. Impossibile prescinderne. Sarebbe però disperante avventurarsi nelle decine di volumi degli scritti e discorsi del “duce” per distillare la sua “idea” del fascismo. Per rispondere Galli imboccò la via più breve e sicura: rileggere quanto Mussolini firmò nell'Enciclopedia Italiana alla voce “Fascismo”: un testo intitolato “Dottrina”, ripartito in “Idee fondamentali” e “Dottrina politica e sociale”.
   Senza entrare nella questione della paternità di quelle pagine (il duce era di penna rapida ed efficace, ma ognuno coglie che il paragrafo introduttivo spesso ricalca parola per parola l'articolo di Giovanni Gentile sulla legge istitutiva del Gran Consiglio del fascismo pubblicato in “Educazione fascista” il 9 settembre 1928), quella voce “fa testo”, ancorché sconcertante per il suo andamento rapsodico. Pur costretti agli inevitabili “tagli” imposti dalle dimensioni di un articolo, merita ripercorrerne i passi salienti, nel rispetto del criterio “ex ore tuo te judico”. La comprensione di frasi spesso involute e oracolari richiede uno sforzo; ma da lì occorre passare. «Come ogni salda concezione politica – scrive dunque Mussolini –, il fascismo è prassi ed è pensiero, azione a cui è immanente una dottrina, e dottrina che, sorgendo da un dato sistema di forze storiche, ne resta inserita e vi opera dal di dentro. Ha quindi una forma corporativa alle contingenze di luogo e di tempo, ma ha insieme un contenuto ideale che la eleva a formula di verità nella storia superiore del pensiero. (…) Per conoscere gli uomini bisogna conoscere l'uomo; e per conoscere l'uomo bisogna conoscere la realtà e le sue leggi (…). L'uomo del fascismo è individuo che è nazione e patria, legge morale che stringe insieme individui e generazioni in una tradizione e in una missione».
   Il fascismo si proponeva dunque quale «concezione spiritualistica, sorta anch'essa dalla generale reazione del secolo contro il fiacco materialismo positivistico dell'Ottocento. Antipositivistica ma positiva: non scettica, né agnostica, né pessimistica, né passivamente ottimistica, come sono in genere le dottrine (tutte negative) che pongono il centro della vita fuori dell'uomo, che con la sua volontà può e deve crearsi il suo mondo». Il fascismo – aggiunse il “duce” – «concepisce la vita come lotta (…) La vita, perciò, (…) è seria, austera, religiosa». «Prima di tutto un sistema di pensiero», il fascismo era «una concezione storica, nella quale l'uomo non è quello che è se non in funzione del processo spirituale a cui concorre, nel gruppo familiare e sociale, nella nazione e nella storia, a cui tutte le nazioni collaborano. Fuori della storia l'uomo nulla».
   Nemico del “liberalismo classico”, il fascismo era “per la libertà” ma «per la sola libertà dello stato e dell'individuo nello stato. Giacché per il fascismo tutto è nello stato, e nulla di più umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo. Né individui fuori dello stato, né gruppi (partiti politici, associazioni, sindacati, classi)». Con la prima legge “fascistissima”, nel 1925 Mussolini si era affrettato a sbarazzarsi della Massoneria italiana, nel silenzio di quella “universale”. A costruire l'Italia fascista era «non razza, né regione geograficamente individuata, ma schiatta storicamente perpetuantesi, moltitudine unificata da un'idea, che è volontà di esistenza e di potenza: coscienza di sé, personalità», nazione creata dallo stato e a sua volta «realtà etica che esiste e vive in quanto si sviluppa», forza spirituale, “anima dell'anima”. «Educatore e promotore di vita spirituale» il fascismo esigeva pertanto «disciplina, e autorità che scenda addentro negli spiriti, e vi domini incontrastata». Tali “idee fondamentali”, enunciate con formule arcane e più poetiche che teoretiche, potrebbero risultare impenetrabili. Ma lì stava la loro forza suggestiva: dalla realtà quotidiana al mito, che non chiede comprensione razionale ma partecipazione emotiva, non tollera il confronto dialogico ma impone “la fede” (che non sta per “fiducia”).
   Nel paragrafo sulla “Dottrina politica e sociale” Mussolini rivendicò di essersi sempre ispirato alla “dottrina dell'azione”. Alla sua fondazione in Milano il 23 marzo 1919 il fascismo «fu azione, non fu partito, ma, nei primi due anni, antipartito e movimento», come hanno convenuto gli storici, da Gioacchino Volpe a Luigi Salvatorelli, da Renzo De Felice a Roberto Vivarelli. I fasci di combattimento non ebbero una dottrina ma si nutrirono di “anticipazioni” e di “accenni” che «liberati dall'inevitabile ganga (sic!) delle contingenze, dovevano poi, dopo alcuni anni, svilupparsi in una serie di posizioni dottrinali», sicché nel decennale della “Marcia su Roma” si poteva affermare che esso era «nettamente individuato non solo come regime, ma come dottrina», come tentò di documentare la Mostra della Rivoluzione Fascista.
Monarchia? Chiesa “nazionale”?
Un colpo al cerchio, uno alla botte, lasciate alle spalle le prime involute pagine sulle Idee fondamentali, Mussolini consegnò all'Enciclopedia Italiana alcune convinzioni programmatiche di lungo periodo, sottovalutate dalla generalità dei lettori pur usi a meditare sulle parole stampate. In primo luogo dichiarò che il fascismo «non crede alla possibilità né all'utilità della pace perpetua». Vent'anni prima anche Benedetto Croce aveva irriso il pacifismo umanitario predicato dai massoni, salvo scoprire nel 1914 il volto della guerra nell'età della seconda industrializzazione e delle “masse”.
   Poiché «solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla», il duce spiegò che la politica demografica è la conseguenza di quella “visione”.
Forse non aveva letto attentamente o non aveva capito Giulio Douhet, pioniere dell'Aeronautica: ci vogliono due mesi per fare un cannone, ma vent'anni per fare un soldato. E pochi attimi per vederlo spazzar via. Ricordò che solo nel 1922 il fascismo accantonò l'originaria “tendenzialità repubblicana” perché «convinto che la questione delle forme politiche di uno stato non è, oggi, preminente (…) Ci sono repubbliche intimamente reazionarie o assolutistiche, e monarchie che accolgono le più ardite esperienze politiche e sociali». Fatti i conti con la Corona, Mussolini passò alla Chiesa cattolica. Recuperato il pensiero di Tommaso d'Aquino per liberarsi dalla polvere della “questione romana” e riprendere la sua missione universale, la Santa Sede, a quanto si sa, aveva avanzato ferme riserve già sul primo abbozzo della “summa” dottrinale musso-gentiliana. Lo stato fascista (scrisse il duce dando per scontato che il Regno d'Italia, ovvero lo Stato da lui ossessivamente evocato, fosse totalmente fascistizzato) «non rimane indifferente di fronte al fatto religioso in genere e a quella particolare religione positiva [non religione “rivelata”, NdA] che è il cattolicesimo italiano. Lo stato non ha una teologia, ma ha una morale […] il fascismo rispetta il Dio degli asceti, dei santi, degli eroi e anche il Dio così come è visto e pregato dal cuore ingenuo e primitivo del popolo». La religione cattolica apostolica romana dichiarata sola religione dello stato nello statuto albertino era dunque banale “credulità popolare”? «Ben altro» voleva il regime dai cittadini: mentre «non mai come in questo momento i popoli hanno avuto sete di autorità, di direttive, di ordine» l'“impero” chiedeva agli italiani «disciplina, coordinazione degli sforzi, dovere e sacrificio». Credere, obbedire, combattere. Con i risultati ben noti per chi volle la dichiarazione di guerra contro la Gran Bretagna e la Francia, l'Unione sovietica e gli Stati Uniti d'America senza disporre degli strumenti né di attacco né di adeguata difesa.
   La sintesi dottrinale suprema del “fascismo secondo Mussolini”, suo inventore, esegeta e profeta per il secolo XX, è infine contenuta nella celebre dichiarazione antipacifista: «L'orgoglioso motto “me ne frego”, scritto sulle bende di una ferita, è un atto di filosofia non soltanto eroica, è il sunto di una dottrina non soltanto politica: è l'educazione al combattimento, l'accettazione dei rischi che esso comporta; un nuovo stile di vita italiano». Non vedeva o preferiva non vedere le spallucce ironiche delle moltitudini che subivano i sabati fascisti, i salti nel cerchio di fuoco e “se ne fregavano” delle aquile, delle legioni e di tutte le astruserie di una ideologia sproporzionata rispetto alle reali dimensioni di un'Italia appena nata, vissuta con il fucile al piede nel 1862, 1866, 1870, 1890-1896, 1911-1912, duramente provata dall'intervento forzato nella Grande Guerra e ancora lontanissima dal benessere, come documenta il censimento del 1931.
In assenza della “cosa”.
Il governo impose l'iscrizione al Partito nazionale fascista, unico consentito, agli aspiranti ai pubblici impieghi e il giuramento di fedeltà al fascismo agli insegnanti di ogni ordine e grado, docenti universitari compresi. Alle elezioni ottenne plebisciti come l'aveva avuto nelle elezioni del 24 marzo 1929, propiziate dal Concordato tra lo stato e la Santa Sede. Ma più allargava i suoi tentacoli più il “fascismo” perdeva di identità. Nato senza dottrina per dichiarazione del suo stesso duce, affidò la sua definizione all'Istituto di Cultura Fascista presieduto da Gentile. Inventò anche la “Mistica fascista”. Rimase una polifonica senza spartito, palestra di fumisterie, come erano anche le elucubrazioni dei comunisti sulla continuità logico-cronologica tra Karl Marx e la Terza Internazionale di Lenin, Stalin e accoliti.
   A distanza di quasi un secolo dal Manifesto degli intellettuali fascisti, bene si comprende perché la risposta scritta da Benedetto Croce al lettore odierno risulti prolissa se non nella contrapposizione della libertà al manganello. Come già il filosofo partenopeo, così lo storico e il cittadino razionale si domandano se abbia senso dichiararsi “anti” rispetto a una “cosa” indefinita, cangiante e imprecisata quale fu il “fascismo” nelle sue molteplici versioni: da quello della Carta del Lavoro a quello della Scuola, da quello monarchico di Cesare Maria De Vecchi e di Emilio De Bono a quello repubblicano che condannò a morte e fece fucilare al poligono di Verona i gerarchi, compreso il genero di Mussolini, Galeazzo Ciano, colpevoli di aver tentato di tirare fuori dai guai il duce proponendogli di passare il comando della guerra a Vittorio Emanuele III, il Re di Peschiera e di Vittorio Veneto. Interrogarsi sull'assillante “obbligo” di dichiararsi antifascisti, tanto più se “a comando” di chi si mostra digiuno di storia e di filosofia, non significa essere “nostalgici”. Presuppone invece la necessità di chiarire il Soggetto storico e ideologico dal quale prendere le distanze e stabilire, infine, chi ancora si dovrebbe condannare dopo la mattanza di fine aprile-inizio maggio 1945. Quello non fu un “regolamento dei conti”, ma il modo per evitare di farli, di guardare in faccia la storia. Fu il tentativo di scansare ancora una volta l'“esame di coscienza” che – insegna il catechismo di san Pio X – deve precedere la confessione e la penitenza. In quei giorni l'Italia fece il triplo tuffo carpiato da regime totalitario a democrazia parlamentare, subito confiscata dai partiti, molti dei quali oggi hanno meno iscritti di quante persone si ammassino in uno stadio. Relegò il fascismo nel passato remoto e s'illuse di camminare per sempre su sterminate praterie. 
   Ebbe buoni motivi Giorgio Galli ad annotare tanti anni addietro l’oggettiva continuità della “narrazione” del fascismo nell'Enciclopedia Italiana anche nelle appendici pubblicate nel dopoguerra. Ebbe torto invece a definire “scialba” la figura di Vittorio Emanuele III al quale il Gran Consiglio si rivolse nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943. I gerarchi e Mussolini medesimo non sapevano che il re aveva approntato da tempo la revoca del duce, la sua sostituzione con Pietro Badoglio e la richiesta di armistizio: l'unico modo per chiudere la partita aperta da tempo con l'estremismo facinoroso e salvare la continuità dello Stato, cioè dell'Italia odierna che tanto disputa su fascismo e antifascismo e dimentica chi la fondò.
   L'oblio fa tutt'uno con i complessi di colpa, con l'incapacità di superare l'estenuante adolescenza e di accettare i segni impietosi dell'incombente vecchiezza.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Obelisco Mussolini al Foro Italico (Roma). Su Giorgio Galli v. il volume collettaneo “Politiche e altre culture” (ed. Biblion), curato da Rossana Mondoni e Vinicio Serino per l'Istituto di studi Giorgio Galli (Milano) presieduto da Daniele Comero.
   La voce “fascismo” firmata da Mussolini per la “Dottrina” e da Gioacchino Volpe per la “Storia” comparve nel volume XIV dell'Enciclopedia Italiana (1932). A parte fautori del regime (ciascuno con la propria visione del “fascismo”), il Consiglio Direttivo dell'Istituto comprendeva il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, membro del Consiglio supremo del Rito scozzese antico e accettato (Gran Loggia d'Italia), e il prof. Angelo Sraffa (1865-1937), docente di diritto pubblico e dal 9 dicembre 1893 maestro massone nella loggia pisana “Carlo Darwin” (Grande Oriente d'Italia, matricola 9.938). Suo figlio, Pietro, fece arrivare i “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci a Palmiro Togliatti, all'epoca alla corte di Stalin. Tra i direttori di sezione, redattori e collaboratori dell'Enciclopedia vi erano figurano studiosi niente affatto fascisti quali Enrico Fermi, Raffaele Pettazzoni, massone (storia delle religioni), il mazziniano Mario Menghini (storia del Risorgimento e contemporanea), Federico Chabod, Ugo La Malfa, Alberto Pincherle, Emilio Servadio. Nello stesso 1932 uscì il volume comprendente la ponderosa voce “Ebrei”, scritta in massima parte da Giorgio Levi della Vida.


IL REGNO D'ITALIA
UNO STATO FONDATO SUL LAVORO


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 30 aprile 2023 pagg. 1 e 6.


L'Italia tra Otto e Novecento è sinteticamente narrata in “Vita di Vittorio Emanuele III, 1869-1947. Un Re discusso”(ed. Bompiani-Giunti, pp. 600, da questi giorni in libreria) in cui viene descritta la “macchina” della monarchia: Casa Militare, Casa Civile, Ministri della Real Casa, Aiutanti di campo... e gli Ordini cavallereschi che facevano da collante tra Istituzioni e cittadini, né più né meno di quanto accade in Repubblica, le cui leggi non per caso quando sono brevi e chiare iniziano con “visto...” con riferimento a leggi e testi unici dell'età moarchica. 
Didascalia
“Decorazioni” di imprenditori e medaglie per i lavoratori
Il 1° maggio 1898, proprio per festeggiare il lavoro, udito il Consiglio dei ministri e su proposta del ministro di agricoltura, industria e commercio, Francesco Cocco Ortu, liberale sardo destinato a divenire decano della Camera (1842-1929),  Umberto I datò il regio decreto di quattro righe istitutivo della Decorazione al merito agrario, industriale e commerciale. Fu il riconoscimento di quanto l'Italia doveva non solo a “santi, poeti e navigatori” e ai patrioti che si erano sacrificati in cospirazioni e battaglie, ma anche agli “imprenditori” senza titoli nobiliari né, a volte, di studio. Orgogliosi del proprio lavoro, mattone su mattone, voltando e rivoltando le zolle e al timone di manifatture, industrie e imprese bancarie ecmmerciali, anche essi concorrevano quotidianamente a costruire la Nuova Italia.
   Il 4 marzo 1898, per celebrare il cinquantenario della promulgazione dello Statuto del regno di Sardegna, poi divenuto del Regno d'Italia, nel giardino del Quirinale era stata posta la prima pietra della statua in bronzo di Carlo Alberto di Savoia a cavallo: un monumento opera di Raffaele Romanelli, scoperto dopo soli due anni. Nel suo basamento quattro bassorilievi in bronzo raffigurano l'aquila di Savoia, lo stemma di Roma, l'abdicazione dell'“Italo Amleto” dopo la battaglia di Novara (23 marzo 1849) e la vittoria dell'Armata sarda sugli austriaci a Goito, ove Carlo Alberto fu salutato “Re d'Italia”.
   Due giorni dopo, il 6 marzo 1898, l'Italia venne funestata dal tragico duello tra Felice Cavallotti, deputato di punta del partito radicale e fautore di un improbabile “partito degli onesti”, e il giornalista Ferruccio Macola, il cui ferro lo colpì a morte. Giosue Carducci, Maestro e Vate, commemorò Cavallotti all'Università di Bologna definendolo un istmo tra il movimentismo rivoluzionario e le istituzioni, sul quale si erge la Patria. In effetti il deputato radicale stava conducendo un fecondo dialogo con i liberali progressisti, come Giovanni Giolitti, che lo ricorda con simpatia nelle “Memorie”. Rievocando lo sfortunato Cavallotti, Carducci rifletteva su sé medesimo:  originariamente mazziniano, garibaldino, ma da ormai vent'anni schierato a sostegno della monarchia, garante delle libertà, e sempre meno corrivo a tollerare le agitazioni scomposte di chi si atteggiava a innovatore e a ribelle. Ricordava i fischi riservatigli dagli studenti quando nella bolognese Alma Mater Studiorum egli comparve in compagnia della giovane poetessa e drammaturga Annie Vivanti. Tutta invidia per chi aveva i suoi acciacchi ma rimaneva vigoroso “dentro”?
Un Paese tra conciliazione e inquietudini
Il 18 marzo 1898 Milano celebrò il cinquantenario delle Cinque Giornate. Il 21 aprile Umberto I conferì la Medaglia d'Oro alla città di Roma per la sua eroica difesa nel 1849 contro gli invasori, a cominciare dai francesi inviati da Luigi Napoleone, presidente della Repubblica d'Oltralpe, poi Napoleone III. A quel modo il Re d'Italia rese omaggio alla Repubblica di Carlo Armellini, Aurelio Saffi e Giuseppe Mazzini all'insegna dell'unitarietà del Risorgimento: repubblicani, confederali (come Giuseppe Montanelli), neoguelfi (ispirati da Vincenzo Gioberti) e massoni (come Saffi, al quale è intitolata una loggia di Forlì studiata con acume da Alberto Urizio) erano tante tessere del mosaico tenuto insieme dalla Corona. Erano tutti patrioti invisi ai reazionari, ai bigotti e al nipote di Napoleone il Grande. Ex carbonaro, cospiratore e rivoluzionario più volte incarcerato, nel 1849 Luigi Napoleone assunse la guida della seconda Restaurazione e fiancheggiò il “papa-re”.
   Mezzo secolo dopo, nella primavera del 1898, la guerra tra la Spagna e gli Stati Uniti d'America, che sobillavano l'insorgenza di Cuba e delle Filippine contro Madrid, fece impazzire il prezzo dei noli marittimi e, conseguentemente, dei cereali, la cui importazione era fondamentale per la bilancia alimentare dell'Italia, soprattutto nella crisi congiunturale di primavera, quando scarseggiano le scorte dell'anno precedente e i raccolti sono ancora di là da venire. A fine aprile dalla Romagna a Napoli vennero segnalate le prime rivolte al grido: “Pane!”.
   Il Re e il governo non percepirono subito il rischio che il Paese stava correndo. Il 1° maggio i sovrani e l’esecutivo, presieduto dal marchese Antonio Starrabba di Rudinì (Palermo, 1839-Roma, 1908), inaugurarono a Torino l'Esposizione Nazionale: vetrina delle potenzialità del Vecchio Piemonte, all'avanguardia nelle manifatture tessili e nelle industrie metallurgiche e meccaniche. L'Esposizione fu accompagnata da molte rievocazioni storiche e storiografiche, da iniziative culturali (nell'occasione il giovanissimo Luigi Einaudi scrisse “Il principe mercante”) e dalla solenne Mostra di Arte Sacra, a dimostrazione che trent'anni dopo Porta Pia le due rive del Tevere erano meno distanti. Del resto su quelle del Po il “dialogo” tra le istituzioni e gli ecclesiastici non era mai stato interrotto. L'articolo 1 dello Statuto continuava a ricordare che la sola religione dello Stato era quella cattolica apostolica romana. Valeva anche per sovrani dalle ben note e talora ostentate “scappatelle”, quali Vittorio Emanuele II e suo figlio Umberto I. Se Camillo Cavour aveva sempre contato su fra’ Giacomo da Poirino per il giorno fatidico della Grande Visitatrice, l'agnostico Urbano Rattazzi finanziava sotto banco don Giovanni Bosco, che arrivava dove Stato e amministrazioni locali erano e a lungo sarebbero rimaste in ritardo. Sin dai tempi di Tancredi e Giulia Falletti di Barolo e di Giuseppe Cottolengo, il Piemonte era terra feconda di “santi sociali”. 
   Il re e il governo ne erano consapevoli. Nel discorso della Corona del 16 novembre 1898 Umberto I annunciò alle Camere: “Vi saranno ripresentate proposte per migliorare le condizioni di quella parte del clero che trovasi in rapporto più diretto colle popolazioni, e che eserciterà le sue funzioni ispirandosi ai doveri che ha verso la religione e verso la patria”. Era tempo di far capire agli ecclesiastici che dovevano dare a Cesare quel che è di Cesare, se non altro per consentirgli di tutelare gli interessi primari anche del cattolicesimo. Lo aveva già spiegato Adriano Lemmi, gran maestro del Grande Oriente d'Italia, che incitava il “fratello” Francesco Crispi a schierarsi a sostegno del “basso clero” per attrarlo a fianco dello Stato, quale bastione contro l'avanzata dei sovversivi. In un discorso pronunciato dinnanzi all'arcivescovo di Napoli, Crispi fu netto. Lanciò l'appello all'unione “Per Dio, per la Patria, con il Re” contro i demoni che uscivano dalle “nere latebre della terra”. Ne avevano dato un saggio i devastanti “fasci siciliani”, sospettati di essere eterodiretti dalla Francia che sommava imperialismo e socialismo di stato.
Dall'insurrezione al regicidio 
   Se il 1° maggio il Re e il Governo rendevano onore al lavoro italiano a Torino, quello stesso giorno iniziarono tumulti e assalti a fornai e mulini dalla Puglia alla Campania, dall'Emilia alla Toscana. I focolai di rivolta erano troppi per apparire spontanei. Era lecito sospettare che venissero alimentati e coordinati dall'esterno, in combutta con rivoluzionari interni. In pochi giorni i tumulti divennero insurrezione generale, guidata da frange della piccola borghesia e da avanguardie studentesche, come a Pavia, ove negli scontri con le forze dell'ordine cadde ucciso Muzio Mussi, figlio di uno tra i maggiorenti dei radicali milanesi, Giuseppe Mussi, massone, poi da Vittorio Emanuele III creato senatore del regno.
   Il 5 maggio i socialisti di Milano pubblicarono un “Manifesto” per richiamare all'attenzione la rivolta della fame e della disperazione serpeggiante nel Paese e per deplorare il ricorso governativo alla proclamazione dello stato d'assedio che sostituiva i codici ordinari con quelli militari e consentiva l'impiego delle armi contro i dimostranti come nemici in guerra. I socialisti invocarono l'abolizione del dazio doganale sulle farine per calmierare il prezzo del pane: una misura accettabile e infatti subito varata da molte amministrazioni. Ma andarono oltre: denunciarono il “militarismo a servizio di alleanze cui il popolo è estraneo, di interessi dinastici, di privilegi odiosi e anticivili”. Passati dal terreno economico-sociale a quello propriamente politico, incitarono i dimostranti a “stringersi compatti attorno alla bandiera socialista sulla quale è scritto: rivendicazioni popolari, restaurazione della libertà e della giustizia, abolizione di tutti i privilegi, guerra al militarismo, suffragio universale”. Ammonirono: “Gravi giorni si appressano. È tempo che il popolo italiano rifletta, ricordi ed alfine provveda a se stesso. Il paese salvi il paese”. Era un appello incendiario, come se l'Italia fosse calpestata dagli austriaci del maresciallo Radetzky e di “Cecco Beppe” anziché, qual era, teatro di libero confronto tra parti politiche nel Parlamento e nelle amministrazioni locali, ampiamente democratizzate con le riforme introdotte da Crispi nel 1890, con elettività dei sindaci e dei presidenti delle giunte provinciali. Socialisti e repubblicani misero misero in discussione l'assetto istituzionale. Con quali prospettive?   
   Seguirono giorni di eccessi verbali, di scontri sanguinosi e di arresti di quanti furono sospettati di voler precipitare l'Italia nel caos: i socialisti Filippo Turati e Oddino Morgari, il repubblicano Luigi De Andreis e don Davide Albertario, promotore della prima Democrazia cristiana, non esente da pulsioni antisemite. Il generale Fiorenzo Bava Beccaris (di antica famiglia notabilare fossanese, come ricorda il suo biografo, generale di corpo d'armata Oreste Bovio) usò il pugno di ferro e talvolta sbagliò bersaglio, confondendo poveri barboni con rivoluzionari da fermare a cannonate. Prevalse il timore di una deriva incontenibile come quella divampata a Parigi nel 1871: la Commune, deplorata anche da Giuseppe Garibaldi che si scagliò contro le sue “massime”: “la proprietà è un furto, l'eredità altro furto”, e cosivvìa.
   Di Rudinì rassegnò le dimissioni. Formò un altro governo, che però durò appena quattro settimane. Dopo aver presieduto quattro Ministeri in soli due anni disparve. Si disse che da “ragazzo”, quando aveva appena 26 anni, aveva fatto un miracolo domando la rivolta a Palermo, città di cui era sindaco. In realtà l'ordine venne ripristinato dal generale Raffaele Cadorna. Poi però il miracolo era scomparso; era rimasto solo il ragazzo. Al di sotto del ruolo cui era chiamato.  
   Eppure il sovrano aveva fatto di tutto per avvicinare le istituzioni ai cittadini, per fondere Paese reale e Paese legale, solitamente contrapposti nella narrazione e in tanti manuali scolastici. Il 5 aprile 1897 nel discorso di apertura della nuova legislatura Umberto I aveva annunciato, fra altro: “Il mio governo vi presenterà disegni di legge a favore degli operai, acciocché negli infortuni e nella vecchiaia essi abbiano quei conforti da troppo tempo giustamente desiderati. In questi provvedimenti spira quel senso di solidarietà, quell'amor del prossimo che devono essere i principali fattori della nostra vita sociale e politica”. E ammonì il Parlamento a non permettere che le sue proposte rimanessero “una vaga aspirazione”. Non erano il Re e il governo a “fare le leggi”. Le proponevano, ma toccava al Parlamento discuterle e approvarle.  Toccava ai deputati e ai senatori “rimboccare le maniche”, mettersi “alla stanga” come in Italia qualcuno recentemente ha ricordato al “ceto politico”, inconsapevole o distratto, come si è veduto in questi giorni.
   “Al retto svolgimento delle sue libere istituzioni – aggiunse Umberto I – l'Italia deve i grandi progressi conseguiti, nonostante fortunose vicende, in quest'ultima metà del secolo; ma lunga è ancora la via che dobbiamo percorrere per raggiungere e mantenere l'alto posto che ci compete fra le nazioni più civili nell'ordine economico e sociale. Curare ogni miglioramento possibile delle condizioni delle classi lavoratrici; dare la necessaria tutela ai nostri prodotti industriali ed agricoli; proteggere efficacemente i nostri migranti; attenuare nella misura consentita dal bilancio le asprezze del sistema tributario; adattare meglio ai bisogni della vita odierna l'educazione e l'istruzione della gioventù; tenere alto il prestigio della giustizia e dei giudici; assicurare al paese un'amministrazione corretta e previdente”. Enunciato all'inaugrazione della XXI Legislatura quel programma sembra tagliato su misura dell'Italia odierna. Per attuarlo – affermò Umberto I - occorreva armonia tra il governo e il “retto funzionamento dell'istituto parlamentare”.
   “Dissi un giorno – egli aggiunse infine - quando fra l'universale compianto annunziavo la morte del Gran Re mio Padre, che avrei provato agli italiani che le istituzioni non muoiono”. Era il 16 giugno 1900. A morire fu lui, Umberto I, il 29 luglio, assassinato a revolverate a Monza dall'anarchico Gaetano Bresci, punta dell'iceberg della cospirazione contro la stabilità dell'Italia e dell'Europa.
   Il regicidio chiuse due anni di speranze, tensioni e contraddizioni.
Vittorio Emanuele III, Re dell'Italia del lavoro 
   Quasi tutti pensarono che il nuovo re, Vittorio Emanuele III, trentunenne principe di Napoli, avrebbe capitanato un'onda reazionaria. Invece, asceso al trono “impavido e sicuro” (come egli stesso dichiarò giurando a capo scoperto fedeltà allo Statuto)  si circondò di persone sagge, smantellò le ambizioni di cortigiani, dette ascolto e, come gli consigliò l'anziano Pasquale Villari, fece di testa sua. Non aveva fretta di assumere la Corona. Però aveva studiato, in un'epoca in cui molti ritenevano che per governare bastino una divisa e una spada. Vittorio Emanuele III imboccò tutt'altra via e impose il suo metodo: razionalità e massima apertura alle riforme, senza però dimenticare che “chi rompe paga”. Conferì il Collare della SS. Annunziata al presidente della Repubblica francese Emile Loubet, notoriamente agnostico (come lui stesso).
Si recò in visita di Stato nell'anglicana Gran Bretagna. Assicurò all'Italia l'amicizia di sovrani e principi del Giappone e di Paesi islamici, all'insegna della cooperazione e del progresso. Nel 1908 con finanziamenti tratti dal suo patrimonio personale varò a Roma l'Istituto Internazionale dell'Agricoltura, apprezzato in tutto il mondo. Quand'era nella “sua” Provincia Granda visitava di persona i poderi modello della Reale Tenuta di Pollenzo e incoraggiava la cerealicoltura d'avanguardia per aumentare la produzione a parità di area coltivata. Nell'ottobre del 1909 vi recò in automobile per stradine secondarie lo zar di Russia Nicola II, altro sovrano interessato allo sviluppo economico e civile del suo Paese, nella convinzione che la storia non consente scorciatoie e che gli azzardi sono dei “salti nel buio”.
   Nel 1901, riprendendo il proposito di suo padre e d'intesa con il presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli, democratico e iniziato massone sin dal 1862, Vittorio Emanuele III istituì con regio decreto l'Ordine cavalleresco al merito agrario, industriale e commerciale, da conferire sia a imprenditori, sia a loro dipendenti. Per questi nel 1923 venne istituita la Stella al merito del lavoro, tuttora ambìta.
   I Cavalieri del Lavoro affiancarono i Senatori nominati per la categoria XX, cioè quanti da tre anni pagavano tremila lire di imposta diretta “in ragione dei loro beni o della loro industria” e si mostrassero interessati alla vita pubblica, tanto da ascendere tra i patres di uno Stato che già tra Otto e Novecento era dichiaratamente  “fondato sul lavoro”. Era il “Regno d'Italia”. Lo Stato era sostantivo.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: L'Italia tra Otto e Novecento è sinteticamente narrata in “Vita di Vittorio Emanuele III, 1869-1947. Un Re discusso”(ed. Bompiani-Giunti, pp. 600, da questi giorni in libreria) in cui viene descritta la “macchina” della monarchia: Casa Militare, Casa Civile, Ministri della Real Casa, Aiutanti di campo... e gli Ordini cavallereschi che facevano da collante tra Istituzioni e cittadini, né più né meno di quanto accade in Repubblica, le cui leggi non per caso quando sono brevi e chiare iniziano con “visto...” con riferimento a leggi e testi unici dell'età moarchica. 



CUNEO, PAZIENTE E POSSENTE


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di martedì 25 aprile 2023 pagg. 1


L'Europa di Duccio Galimberti
 
Dante Livio Bianco (1909-1953), avvocato, commissario politico della I^ Divisione “Giustizia e Libertà”, comandante militare delle “G.L.” in Piemonte in successione a Galimberti, componente della Consulta Nazionale (1945-46), autore dei “Venti mesi di guerra partigiana nel Cuneese” (ed. Panfilo, 1946), candidato invano alla Costituente. Alla presenza del presidente della repubblica Luigi Einaudi, monarchico e liberale, Bianco pronunciò l'Allocuzione per il conferimento della Medaglia d'Oro al Valor Militare alla Città di Cuneo (8 giugno 1947). 
Didascalia
Dagli Anni Sessanta del Novecento la città di Cuneo fu elevata a “culla della Resistenza”. A fine Ottocento, nel settimo centenario della sua fondazione, il deputato Tancredi Galimberti, all'epoca giolittiano, poi interventista e infine fascista, l'aveva celebrata “capitale della libertà”. Suo figlio, Tancredi (Duccio) Galimberti, tra i fondatori del Partito d'azione e valoroso comandante delle formazioni “Giustizia e Libertà” in Piemonte, la notte fra il 2 e il 3 dicembre 1944 fu assassinato da fascisti nella sede dell'UPI di Cuneo, in circostanze mai accertate, e fatto trovare cadavere ove sorge il cippo a suo ricordo. 
   Nel “Progetto di costituzione confederale europea ed interna”, scritto dall'autunno 1942 con il magistrato Antonino Rèpaci, Duccio Galimberti vaticinò “il continente europeo costituito in unità politico-giuridica in forma di Confederazione”. La Confederazione accomunava politica estera, difesa, economia, moneta e colonie e persino la lingua, da inventare. Comprendente monarchie e  repubbliche, essa avrebbe deliberato a maggioranza dei componenti, con facoltà di governare anche per trent'anni gli Stati manifestamente incapaci di fare da sé. Vedeva più lontano dell'attuale Unione Europea. 
   Per darsi governi stabili ogni membro della Confederazione aveva un'Assemblea di rappresentanti, almeno diplomati, eletti da cittadini alfabeti e solamente maschi (aggiunto a mano da Duccio nell'articolo 101). Lo Stato proibiva disoccupazione, serrate padronali e scioperi. Garantiva la libertà di pensiero ma vietava la costituzione di partiti (art. 56) perché, spiegò Repaci nell'introduzione alla Carta, i partiti di massa avevano assunto assetto coercitivo: imponevano i candidati, “comoda base agli attentati alla libertà”, come aveva fatto il regime di partito unico. 
   Interrotto la sera dell'8 settembre 1943, il “Progetto” fu stampato nel giugno 1945 (ed. Fiorini,Torino-ICA, Cuneo) con “ritardo dovuto a incidenti vari, non esclusa l'ostilità di certi ambienti, che avrebbero avuto il preciso dovere di favorirla”. A chi si riferiva Repaci? 
 I cuneesi: gente dai piedi per terra 
   Come l'Italia settentrionale, chiusi cinque anni di guerra, cessate le esecuzioni sommarie e dopo la consegna delle armi da parte dei partigiani (non tutte: rimasero riserve occulte), anche Cuneo si avviò alla normalità. La giunta popolare insediata dal Comitato di liberazione nazionale sotto controllo anglo-americano durò sino alle elezioni del 31 marzo 1946, quando i cittadini, uomini  e donne, dissero la loro.
   Su 40 membri il primo Consiglio comunale di Cuneo contò 17 democristiani, 8 socialisti, 7 liberali, 5 comunisti e appena 3 del partito d'azione, quello di Galimberti e di Dante Livio Bianco, propugnatori di una “rivoluzione democratica” dai contorni ancora vaghi. A differenza di Torino (ove la DC ottenne appena 15 seggi contro 27 del Pci, 22 dello Psiup e 9 del Pli), di Alessandria, Novara, Vercelli e Asti,  le sette città del Cuneese risultarono a maggioranza largamente “moderata”.
    Se ne ebbe conferma il 2-3 giugno 1946. Al referendum istituzionale le province di Cuneo e di Asti preferirono la monarchia alla repubblica, come a Bergamo e a Padova. La repubblica prevalse di misura ad Alessandria e stravinse a Torino. 
    Nelle elezioni della Costituente la somma di democristiani e liberali superò il 50% dei voti a Cuneo e a Saluzzo; raggiunse il 60%  ad Alba e al “dolce  Mondovì ridente” (Giosue Carducci).  Era la terra di Giovanni Giolitti, Marcello Soleri, Luigi Einaudi, del cattolico monregalese Giovanni Battista Bertone, del socialdemocratico Domenico Chiaramello e di Arturo Felici, “Panfilo”. Uomini liberi, nemici della retorica, capaci di ideali, come scrisse Livio Bianco, figlio di un massone, come suo cugino Aldone Quaranta e Nuto Revelli. 
   Alle elezioni del 1946 il Partito di Galimberti e Bianco ottenne il più alto numero di voti per l'avvocato Felice Bertolino, nel 1919 eletto deputato nelle file del Partito popolare di don Sturzo e nel 1951 presidente del primo Consiglio provinciale; Bernardino (Dino) Fresia, reduce dalla deportazione, poi socialdemocratico, e Nuto Revelli, che ebbe 170 preferenze, un decimo dei 1748 ottenuti dal partito.
   Dal 1951 per un quarto di secolo la città dei Sette Assedi e la Provincia furono amministrate dalla sola Democrazia cristiana, la cui lunga storia rimane da studiare e da scrivere. Dopo secoli di guerre, con Imperia e Nizza il Cuneese è terra di confine e crocevia dell'Europa ventura. In cerca di pace e progresso civile è orgogliosa del proprio passato. Da cinque anni ha accolto nel riserbo le spoglie di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena.  
 
Aldo A. Mola 

DIDASCALI: Dante Livio Bianco (1909-1953), avvocato, commissario politico della I^ Divisione “Giustizia e Libertà”, comandante militare delle “G.L.” in Piemonte in successione a Galimberti, componente della Consulta Nazionale (1945-46), autore dei “Venti mesi di guerra partigiana nel Cuneese” (ed. Panfilo, 1946), candidato invano alla Costituente. Alla presenza del presidente della repubblica Luigi Einaudi, monarchico e liberale, Bianco pronunciò l'Allocuzione per il conferimento della Medaglia d'Oro al Valor Militare alla Città di Cuneo (8 giugno 1947). 


PER QUADRARE IL CERCHIO
“MEMORIALE” DI BOETTI VILLANIS, PATRIOTA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 23 aprile 2023 pagg. 1 e 6.


Ludovico Boetti Villanis-Audifredi monarchico, sottotenente di complemento nei Lancieri di Novara, ha militato nel Movimento sociale italiano. Avvocato, consigliere comunale a Vercelli, consigliere provinciale per vent'anni a Torino e capogruppo per MSI-Destra Nazionale, nel 1983 fu eletto deputato alla Camera nel collegio di Torino. Con ferrea memoria ed eloquio d'altri tempi interviene a fronte alta in dibattiti e conversazioni.   Sulla sua Casa si veda “I Boetti (cominciando dal ceppo)” di Ludovico e Carlo Boetti Villanis, con prefazioni di Fabrizio Antonielli d'Oulx e Gustavo Mola di Nomaglio, Torino, Vivant, 2023. Il suo “Memoriale” Dignità di una scelta è in arrivo nelle librerie; può essere ordinato a bastogilibri@alice.it.
Didascalia
Italia sempre “ in tocchi”? 
Il passato non passa? A leggere certi articoli e a sentire dibattiti televisivi si direbbe che l'Italia sia appena uscita da una guerra civile. Il centenario della mai avvenuta “marcia su Roma” incendiò gli ultimi mesi del 2022, quasi la Capitale stesse per cadere preda di nuove “squadracce”. Ma è tutta la storia d'Italia a dividere ancora. Neo-borbonici da un canto, paleo-asburgici dall'altro, vetero-clericali su una sponda, mangiapreti sull'altra. Come Stato l'Italia è nata appena un secolo e mezzo fa.Lo divenne  quasi per caso, grazie a Vittorio Emanuele II e a Cavour che ottennero via libera da Londra e da Napoleone III. A Carlo Farini e ad Enrico Cialdini, che a metà agosto del 1860 in Chambéry gli annunciavano l'imminente invasione dello Stato pontificio per arrivare a Napoli prima che Mazzini ne facesse un laboratorio della “repubblica universale”, l'imperatore raccomandò “Fate, ma fate in fretta”. Il passato prossimo e remoto incombe. Ma non è nei “fatti”. È nell’estenuante “narrazione” che vorrebbe gli italiani sempre fratricidi, sempre divisi tra Romolo e Remo, Cesare e Pompeo, Cicerone e Catilina (riproposto da Luciano Canfora per l'editore Laterza) e così via, di rivalità in rivalità. Faziosi anziché cittadini di un unico Stato.
   I cittadini, però, sono stanchi di lotte artificiose. Non “parteggiano” più. Lo dicono nel modo più pacato. Non vanno alle urne. Per la gioia di chi si sfrega le mani, perché così nessuno lo rimuoverà dal potere.
Vox clamantis in deserto:un Paese, cinque guerre
   Di quando in quando, tuttavia, si levano voci contro corrente. Vanno ascoltate. È il caso del “Memoriale” di Ludovico Boetti Villanis-Audifredi, che sommessamente invita a un “25 aprile” diverso: più pacato e quindi più “inclusivo”. Rapida premessa. Il governo Mussolini il 17 novembre 1922 fu approvato alla Camera con 307 voti contro 106. Non era affatto “regime”. Lo divenne negli anni, sempre col voto favorevole del Parlamento. Il seguito è noto: l'alleanza ideologica e militare con la Germania di Hitler, l'intervento in guerra, la catastrofe.  
   Nel 1943-1945 in Italia imperversarono cinque guerre: tra gli anglo-americani e i germanici con i loro alleati, tra il Regno d'Italia e lo Stato repubblicano d'Italia capitanato da Mussolini, fra la Repubblica sociale e il movimento di liberazione, tra le formazioni partigiane, molto diverse per composizione e obiettivi ultimi, e, non bastasse, della “Jugoslavia” e della Francia contro l'Italia per accaparrasene valichi alpini da un canto, i porti di Fiume e Trieste e ampie province dall'altro. Un groviglio di conflitti ignorato dalla maggioranza degli italiani odierni. A parte i bombardamenti aerei, gli attentati e le rappresaglie, imperversava il razionamento del cibo, più pesante soprattutto nelle città, da tempo alla fame.
   Quel turbine è soggetto di narrazioni semplicistiche, corrive a dividere il mondo in buoni e cattivi, a cancellare il passato scomodo. Eppure sin dall'immediato dopoguerra alcuni grandi scrittori (Cesare Pavese, Italo Calvino e Beppe Fenoglio, che il 2 giugno 1946 votò per la monarchia) invitarono a sostare e a meditare. Forse il nodo insoluto è proprio lì: la monarchia, il grande escluso dalla storiografia prevalente. Era possibile salvare lo Stato d'Italia e conservare chi aveva capitanato le cinque guerre per la sua unità nel 1848-1949, nel 1859-1860, nel 1866, nel 1870 e nel 1915-1918? O bisognava identificarsi con uno solo dei cinque fronti di guerra che la devastavano?
   Il “Memoriale” di Ludovico Boetti Villanis-Audifredi “Dignità di una scelta” (BastogiLibri, Roma, 2023, con partecipe prefazione di Pietrangelo Buttafuoco) mira a quadrare il cerchio nell'unico modo possibile.Attraverso i ricordi personali e familiari il libro propone la pacificazione vera: ascoltare la voce di chi visse e dinnanzi al passato alza le braccia in segno di speranza anziché alzare le mani per l'ennesima zuffa. Alcuni “sbagliarono”? Vanno studiati e compresi. Sono parte della storia patria, di ieri e ventura.
Dal regime al dopoguerra     
   Boetti Villanis nacque a Torino l'11 febbraio 1931, due anni dopo la firma dei Patti Lateranensi che chiusero ottant'anni di tensione tra la Chiesa di Roma e il “Risorgimento scomunicato” di cui scrisse il sempre rimpianto Vittorio Gorresio, nipote di un senatore cultore di sanscrito. Quando egli venne al mondo il fascismo era ormai partito unico. Dal 1931 anche ai docenti degli istituti superiori e delle università venne imposto di giurare fedeltà al duce oltre che al re e ai suoi legittimi successori. Lo rifiutarono una decina di cattedratici su oltre mille. A chi gli chiese consiglio, Benedetto Croce suggerì di giurare per non essere sostituito da professori di minor valore. Nel 1928 aveva pubblicato l'elogio dell'Italia liberale dal 1871 al 1915, un libro di ampio successo, oggi quasi dimenticato. Anche senza cattedre (non ne ebbe mai alcuna, ma nel 1920-1921 fu ministro della Pubblica istruzione nell'ultimo governo presieduto da Giovanni Giolitti) insegnava tramite la “La Critica” e le sue opere.
   Il censimento del 1931 “fotografò” vita pubblica, società e produzione. Anche perché meno industrializzata di altri Paesi, nel 1929 l'Italia ebbe minori ripercussioni dalla “Grande depressione” nata in Europa, passata negli Usa e rimbalzata nel Vecchio Continente. L'Istituto mobiliare italiano (IMI) e l'Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), affidato ad Alberto Beneduce, già socialista, massone e antifascista dichiarato, guidavano l'economia di uno Stato che stava completando la riconquista della Libia con i ruvidi metodi di Pietro Badoglio e di Rodolfo Graziani, non peggiori quelli impiegati da altri Stati europei, a tacere del Giappone, ed era tra i componenti più autorevoli della Società delle Nazioni. Chi crebbe tra impresa d'Etiopia, scatto d'orgoglio contro le sanzioni comminate dalla Società delle Nazioni, proclamazione dell'Impero, intervento in Spagna a sostegno dei nazionalisti contro i “rossi”, ripetutamente condannati da Pio XI per il loro anticlericalismo fanatico, non dubitava che l'Italia fosse un grande Paese rispettato nel mondo. Chi poi, come Ludovico, cresceva nella famiglia di antichi conti e consignori di Cavallerleone (ne scrivono la Statistica della Provincia di Saluzzo di Giovanni Eandi e Goffredo Casalis) aveva motivo di riconoscersi nel fascismo, non “partito” ma costume condiviso. I fasci erano accostati allo scudo sabaudo nello stemma dello Stato e degli enti pubblici. Erano ovunque, tranne che nel tricolore e nelle bandiere di guerra, che Vittorio Emanuele III volle rimanesse qual era: con lo scudo sabaudo nel bianco.
   Sulla fine dell'aprile 1945, a quattordici anni, Boetti Villanis vide la 34^ Divisione Granatieri tedesca in ritirata a ranghi compatti dalla Liguria verso il Piemonte ed ebbe notizia della “mattanza” di “repubblichini” (incluso un innocuo ragazzo di 16 anni) perpetrato da partigiani comunisti. Quei “fatti” rimasero in memoria e tornano nelle pagine del suo “Memoriale”, che non vuole essere “storia” ma è scritto “per la storia”, affinché il lettore ricordi o apprenda, dopo decenni di narrazioni a senso unico, tendenziose e omissive.
I “fatti” ostinati
   Dall'andamento rapsodico, “Dignità di una scelta” intreccia capitoli di testo, vastissime note, appendici e un eloquente apparato iconografico. Risponde a tre quesiti ricorrenti: avvento, durata e crollo di Mussolini. Il 31 ottobre 1922 il re incaricò il “duce del fascismo” di formare un governo di coalizione costituzionale perché il suo partito, esiguo per seggi (alla Camera ne aveva 37 su 535, al Senato appena un paio su circa 400), aveva il sostegno del “Paese reale” (confindustria, mondo finanziario, chiesa cattolica, sindacati, inclusa l'Alleanza del lavoro, di matrice socialista, e comunità massoniche). Dopo sette governi in soli quattro anni, l'Italia aveva bisogno di “disciplina”, stabilità finanziaria e ritorno al “senso dello Stato” che invano Giolitti aveva tentato di ripristinare col suo quinto e ultimo governo (1920-1921), suggellato dalla Festa delle Bandiere (1921) e dalla tumulazione del Milite Ignoto nel Sacello della Dea Roma al Vittoriano, celebrata da Vittorio Emanuele III, Sommo Sacerdote dell'unità nazionale. Un Paese che aveva vinto la guerra contro l'impero austro-ungarico a prezzo di 680.000 morti e di un milione di mutilati e feriti e aveva coronato il congiungimento del confine geografico con quello politico non poteva perdere la pace e sprofondare nel caos perché i “rossi” volevano “fare come in Russia”: sterminare Casa regnante e borghesia nel “bagno di sangue purificatore”.
   Boetti Villanis induce inoltre a riflettere sull'estate del 1943: le settimane tra la revoca di Mussolini, sostituito dal maresciallo Pietro Badoglio (25 luglio), e la resa senza condizioni del 3-29 settembre (i cui pubblica in appendice). Ogni italiano fu posto dinnanzi a scelte difficili, spesso dolorose (lo ricorda Vittorio Emanuele Terragni in “Ananke. Come arrivammo alla disfatta”, ed. De Ferrari), talora spinte sino al suicidio. In quei frangenti, come nei venti mesi seguenti, per gli italiani fece grande differenza trovarsi nelle regioni centro-settentrionali anziché in Sardegna, Sicilia e nel Mezzogiorno. La vita nelle città era molto diversa da quella dei borghi minori.
   L'autore del volume non ha dubbi e lo scrive con formula lapidaria: l'entrata in guerra a fianco della Germania di Hitler il 10 giugno 1940 fu non solo un azzardo ma un errore. Dopo l'onerosa campagna d'Etiopia e l'intervento in Spagna a fianco dei nazionalisti contro i “rossi” eterodiretti dalla Terza internazionale staliniana (ne scrisse anche Eddy Sogno), l'Italia non era preparata per una guerra “grossa e lunga”, per di più a fianco della Germania, che mirò a una “guerra lampo” e, a differenza di quanto aveva fatto nell'agosto 1914, si coprì prudentemente il fianco orientale con il cinico patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov (23 agosto 1939, una settimana prima dell'aggressione alla Polonia: ne ha scritto Aldo Ricci nel n. 197 di “Storia in Rete”). Dello stesso avviso erano sia i vertici militari, sia Mussolini, che (ricorda Boetti Villanis) tentò di starne fuori. Ma, ancora una volta, come già era accaduto in passato, entrati nella “fornace ardente” per il gioco di alleanze e controalleanze tra grandi potenze (a basso tenore ideologico, contrariamente a quanto si ritiene), divenne sempre più arduo uscirne. Va aggiunto che il duce compì l'errore catastrofico di sottoscrivere tutte le decisioni di Hitler sino alla dichiarazione di guerra del 13 dicembre 1941 contro gli Stati Uniti d'America, malgrado l'incolmabile disparità di forze e di risorse. Altrettanto deplorevole, ricorda Boetti Villanis, fu la deriva ideologica che dal 1938 condusse frange del regime (per lo più repubblicane) a propugnare le leggi contro gli ebrei, del tutto estranee alla tradizione del Risorgimento, della Terza Italia, di molti esponenti del fascismo stesso (come Italo Balbo: altra cosa dai “fratelli” Telesio Interlandi e Roberto Farinacci) e, soprattutto, di Casa Savoia, a cominciare da Vittorio Emanuele III, nettamente contrario a ogni forma di intolleranza religiosa e di discriminazione etnica. 
   Anziché indulgere a mozioni di affetti l'autore richiama i “fatti”. Ottenuta nel settembre 1943 (e in modi rocamboleschi) la resa senza condizioni dell'Italia, gli anglo-americani non mostrarono alcuna fretta di avanzare verso il centro-nord. Stavano già preparando l'imponente e impegnativo “sbarco” sulla costa atlantica francese del giugno 1944. Più divisioni germaniche erano impegnate sulle linee italiane (dalla Gustav alla Gotica), meno essi ne avrebbero avute contro sul fronte decisivo.
   A Roma, ove allo scettico Badoglio avevano ventilato il lancio di una divisione aviotrasportata, sbarcati ad Anzio-Nettuno nel gennaio 1944 i “liberatori” giunsero solo il 4-5 giugno successivo; a Firenze arrivarono dopo altri due mesi. A novembre il maresciallo Harold Alexander (che aveva ordinato la rabbiosa distruzione dell'Abbazia di Montecassino il 15 febbraio 1944, strategicamente inutile) invitò i “partigiani” alla stasi invernale. In Bologna gli Alleati entrarono il 21 aprile 1945. Per otto mesi, però, le regioni più popolose e produttive della Penisola erano rimaste sotto controllo della Germania, diretto o tramite la Repubblica sociale italiana, sua subalterna, che fece il possibile per arginare l'avanzata del IX Corpus di Tito sul confine orientale. Lasciate da parte pulsioni ideali e ideologiche, quale condotta potevano tenere quanti ricoprivano ruoli nello Stato (“sedicente” o “cosiddetto” repubblicano, come recitavano le leggi del governo regio), nelle amministrazioni locali, nelle imprese industriali, agricole, commerciali, bancarie? La domanda non è affatto retorica. Trova risposta, semmai, nelle trattative segretamente avviate dal generale delle SS Wolff, mirante a ottenere la soluzione ricorrente tra eserciti combattenti: la resa dei germanici a condizioni non disonorevoli.
   Per Boetti Villanis i travagliati “venti mesi” e quanto ne seguì non possono e non debbono essere valutati con giudizi “moralistici” ma giuridici e “morali”. Far funzionare lo Stato e amministrare correttamente, malgrado i bombardamenti, le ristrettezze della vita quotidiana e la guerra civile strisciante, significava guardare oltre la catastrofe per ottenere lo “sconto” sulle durissime condizioni della resa lasciato intravedere da vincitori sin dal Memorandum di Quebec dell'agosto 1943. Sennonché nel Comitato alleato di controllo e nella Commissione militare alleata agli anglo-americani si aggiunsero i sovietici e i francesi, assurti a compartecipi della “vittoria”. Entrato a Parigi, Charles De Gaulle dichiarò che la Francia era in guerra contro l'Italia e rivendicò l'intera Valle di Aosta e i valichi alpini. Il Trattato di pace imposto all'Italia il 10 febbraio 1947 deluse profondamente quanti ritenevano che essa si fosse condotta con spirito di lealtà e avesse diritto a condizioni meno umilianti e tragiche di quelle in corso sul confine orientale. A quel punto fu chiaro che il cambio della forma dello Stato da monarchia a repubblica (in forza di un referendum molto discusso) non comportò alcun vantaggio per l'Italia, né per chi, come Alcide De Gasperi, nella settimana decisiva, fra il 10 e il 18 giugno 1946, tenne una condotta opportunistica.
   Su quelle premesse si fondarono le successive scelte politico-partitiche e ideali di Ludovico Boetti Villanis, dalla giovinezza alla vigorosa maturità e all'elezione alla Camera dei deputati nelle file del Movimento sociale italiano. Il suo “memoriale” riflette su un tema ancora poco esplorato: la convergenza tra monarchici e vindici del ruolo svolto dal fascismo, sia nel “ventennio” sia nei “venti mesi”. Fonde passione civile e distacco critico. Non manca un filo di amarezza per il modesto sostegno ricevuto da alcuni maggiorenti del suo stesso partito in tornanti significativi dell'Italia di fine Novecento. La vicenda di Boetti Villanis richiama quella di Eddy Sogno, candidato in un collegio più impossibile che improbabile e quindi avviato alla amara solitudine dei suoi ultimi anni. Queste “memorie” inducono a una ricostruzione complessiva della Destra nazionale, libera da complessi di colpa e dal “dovere” di doversi continuamente scusare di un passato che essa superò con elaborazione critica e con propri rappresentanti nelle amministrazioni comunali, provinciali e nel Parlamento nazionale, all'insegna della responsabilità  e della continuità. Lo mostrano molte fotografie, quasi un libro nel libro, tra le quali spiccano gli incontri dell'Autore con Umberto II condannato all'esilio non dagli italiani ma dall'Assemblea Costituente.
   Chi è orgoglioso del proprio ruolo di patriota e rivendica la dignità della propria scelta, niente affatto episodica o umorale, attende il giudizio della Storia e incrocia lealmente i suoi ferri dialettici con chi vorrebbe tacitare per sempre l'avversario sulla scorta dell'irridente principio: “i vinti hanno sempre torto”. Ma nel 1943-1947 chi furono davvero i “vinti”? È il quesito affiorante dalle pagine di Ludovico Boetti Villanis-Audifredi che implicitamente rinviano alle opere decenni addietro scritte “a schiena dritta” dall'indimenticabile Giano Accame.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA . Ludovico Boetti Villanis-Audifredi monarchico, sottotenente di complemento nei Lancieri di Novara, ha militato nel Movimento sociale italiano. Avvocato, consigliere comunale a Vercelli, consigliere provinciale per vent'anni a Torino e capogruppo per MSI-Destra Nazionale, nel 1983 fu eletto deputato alla Camera nel collegio di Torino. Con ferrea memoria ed eloquio d'altri tempi interviene a fronte alta in dibattiti e conversazioni.
  Sulla sua Casa si veda “I Boetti (cominciando dal ceppo)” di Ludovico e Carlo Boetti Villanis, con prefazioni di Fabrizio Antonielli d'Oulx e Gustavo Mola di Nomaglio, Torino, Vivant, 2023. Il suo “Memoriale” Dignità di una scelta è in arrivo nelle librerie; può essere ordinato a bastogilibri@alice.it.


LE ALPI DEL MARE
TRIANGOLO D'EUROPA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 16 aprile 2023 pagg. 1 e 6.


BIANCHERI GIUSEPPE
Didascalia
I tempi lunghi della Storia 
Non per congiunzione astrale ma per crescente bisogno di riflettere su nodi antichi e perenni che la geografia impone alla storia, in uno stesso giorno si sono svolti ieri di qua e di là delle Marittime due convegni di studio: uno, a Ventimiglia, sulla Ferrovia della valle Roia; un altro, a Valdieri, sulle valli delle Alpi del Mare nel turbine della seconda guerra mondiale.
   Il primo dei due convegni, imperniato sulle comunicazioni ferroviarie transfrontaliere tra Otto e Novecento, si è incardinato su Giuseppe Biancheri, che ne fu tra i principali promotori da parte italiana. L'altro ha passato in rassegna gli aspetti militari, politici e sociali delle valli alpine prima durante e dopo la seconda guerra mondiale. (v. box)
   Al di là dei temi specificamente affrontati, i due incontri di studio propongono riflessioni sui tempi lunghi della storia. In primo luogo si impone una verità: l'ampia “regione” Cuneo-Imperia-Nizza (ne citiamo i capoluoghi in ordine alfabetico) fu nei millenni incontro di genti, riti religiosi (lo attestano le famose incisioni rupestri del Vallone delle Meraviglie), commerci e teatro di guerre spietate. Basti ricordare il Trofeo eretto a La Turbie nel 6 a.Cr. per celebrare la vittoria definitiva di Caio Ottaviano (poi Augusto) sui popoli delle Alpi nei modi poi ricordati da Publio Cornelio Tacito: dove dicevano di aver portato la pace, i Romani avevano fatto il deserto. Senza addentrarci nel passato remotissimo, la Costa Azzurra fu obiettivo dei conti e duchi di Savoia che puntarono su Nizza e Ventimiglia per procurare al loro piccolo Stato l'agognato sbocco sul mare, in gara con la potente repubblica di Genova e profittando della debolezza del regno di Francia alle prese, a nord, con quello d'Inghilterra e da se stesso indebolito sul versante mediterraneo con la devastante guerra di sterminio dei càtari: “eresia” dualistica serpeggiante carsicamente nei millenni, dalla Persia all'Europa, e tuttora presente nelle file di neognostici e neopelagiani.
   Non appena si riebbero dal secolare conflitto contro gli inglesi, i re di Francia ripresero la via per l'Italia, aperta secoli prima da Carlo Magno. Nel 1494 Carlo VIII di Valois vi irruppe dal Monginevro alla testa di 30.000 uomini. Avanzò come un rullo compressore. In pochi mesi arrivò a Napoli per rivendicarne la corona, che gli arrivava da una remota parentela con gli Angiò, a suo tempo sbaragliati dagli Aragonesi. Frantumata in tanti Stati in perenne contrasto, l'Italia era di chi se la prendeva. Succuba. Vent'anni dopo Francesco I entrò in Piemonte dal colle della Maddalena, comodo salendo dal versante francese e quasi altrettanto per riscendere lungo la valle Stura verso Cuneo, ove, a Palazzo Lovera, una lapide un po' logorroica ne ricorda il passaggio alla volta della Lombardia. Alleato dei veneziani, nella “battaglia dei giganti” a Marignano il re di Francia sconfisse i lombardi. Ma dieci anni dopo fu sbaragliato a Pavia dall'imperatore Carlo V d'Asburgo, cadde prigioniero e dovette trattare una pace umiliante, che però non gli impedì di ritentare ancora l'assalto all'Italia in un intricato scenario di alleanze e controalleanze, che vide in campo i Savoia contro la Genova di Andrea Doria, passato a vele spiegate a fianco della Casa imperiale. Per la Superba voleva dire importazione di oro e argento dalle Americhe e di spezie dall'Estremo Oriente. La restaurazione del ducato di Savoia con Emanuele Filiberto,“Testa di ferro”, comportò una nuova fase dell'espansione sabauda in direzione sud-ovest. Mentre soggiogò il marchesato di Saluzzo (a parte la “Castellata” in alta Valle Varaita: minaccioso presidio francese) il duca non esitò a guerreggiare in Provenza con esiti più logoranti che vittoriosi. Se ne legge in “Il Marchesato di Saluzzo. Da Stato di confine a confine di Stato e a Europa” (Foggia, Bastogi, 2003), atti del convegno celebrato a Saluzzo nel IV Centenario del Trattato di Lione che nel 1601 calò una delle saracinesche tra il Piemonte sabaudo e la Francia.
   Come ha scritto il generale Oreste Bovio in “Pagine di Storia” (Ed. Roberto Chiaramonte) nei secoli seguenti il Piemonte fu teatro di battaglie di importanza non solo propriamente militare ma politica. Fu il caso della cacciata dei francesi di Luigi XIV che nel 1706 assediavano Torino. Sconfitto nella battaglia di Staffarda, dopo anni di desolazione (i marescialli di Francia facevano “terra bruciata” delle plaghe via via soggiogate), Vittorio Amedeo II col soccorso del cugino Eugenio di Savoia sbaragliarono il nemico. La Basilica di Superga non fu un ex voto di pace ma un trofeo che dalla sommità del colle guarda verso le Alpi. Doveva essere mònito perpetuo, ma, dopo sue precedenti e brillanti campagne d'armi tra Ponente Ligure e valli cuneesi, Napoleone Bonaparte discese dal San Bernardo alla volta della pianura padana e nel giugno del 1800 travolse gli austriaci a Marengo, presso Alessandria. Suggellò il colpo di Stato del 18 brumaio e pose la premessa della proclamazione dell'Impero dei Francesi.
Scienza e strade ferrate
Napoleone durò appena un decennio. Ma i suoi codici e le strade da lui aperte rimasero, come quelle degli antichi Romani. Lasciò in eredità al secolo seguente la circolazione delle idee anche tramite le società segrete, i congressi degli scienziati e l'accelerazione delle comunicazioni. La svolta fu propiziata dall'avvento delle strade ferrate, dapprima in Inghilterra, poi negli Stati di terraferma, con profonde differenze dettate dalla maggiore o minore capacità di vedere lontano. La dice lunga uno sguardo alle statistiche. Nel 1861, l'anno della nascita del regno d'Italia, a fronte dei 16.000 chilometri di ferrovie dell'Inghilterra la Germania ne contava 11.600; l'Austria ne aveva 4.500, la Francia (che si valeva di un'ottima secolare rete di canali navigabili) poco più di 9.500, il piccolo Belgio 1.700. L'Italia (che però non comprendeva ancora il  Triveneto) era ferma a 1.096. Metà delle ferrovie del Paese Italia erano in Piemonte. Intere regioni dell'Italia centro-meridionale non ne avevano neppure un chilometro. Gli esordi delle ferrovie erano stati ovunque modesti, pochi tratti di facciata più che di sostanza: Napoli-Portici, Milano-Monza, Napoli-Capua, Pisa-Livorno, Padova-Venezia, Torino-Moncalieri... Ogni staterello pensava in piccolo. Fece eccezione il Piemonte di Cavour che puntò sulla Torino-Genova e cominciò a puntare a Nizza passando per Savigliano-Fossano-Cuneo.
   Il 1860 cadde come una scure sul progetto di unire il Piemonte al Ponente Ligure.
Dopo la fratellanza sul campo di battaglia nel 1859 tra la Francia e il neonato regno d'Italia scesero le prime nebbie, soprattutto a causa della “questione di Roma”. Napoleone III, antico carbonaro, si erse a tutore di Pio IX. Nel 1866 non apprezzò l'alleanza italo-prussiana contro l'impero d'Austria. Nel 1867 annientò a Mentana i garibaldini in marcia verso Roma. A chi giovava una ferrovia dal Piemonte all'antico  Nizzardo? E se un giorno l'Italia si fosse alleata con la Germania contro la Francia? Nei decenni seguenti le nebbie divennero nubi sempre più oscure: il protettorato francese sulla Tunisia, la Triplice alleanza italo-austro-germanica del 20 maggio 1882, palesemente antifrancese, la guerra doganale di Parigi contro Roma e via continuando sino alla strage di terrazzani italiani ad Aigues-Mortes e agli aiuti di Parigi a Menelik contro l'espansione coloniale italiana dall'Eritrea verso l'Etiopia.
Anno dopo anno quella ferrovia segnò il passo. Non per impossibilità tecnica, ma per diffidenza politica, sino alle intese Prinetti-Barrère d'inizio Novecento e alle aperture del 1903-1904 per iniziativa di Vittorio Emanuele III che sin dall'ascesa al trono nell'agosto 1900, dopo l'assassinio di suo padre a Monza, puntò sull'amicizia italo-francese. Conferì il Collare della Santissima Annunziata (comportante il rango di “cugino del re”) al presidente della repubblica francese Emile Loubet, notoriamente anticlericale, andò in visita di Stato a Parigi e a Londra, e ricevette Loubet a Roma, con gran dispetto del papa che ancora rivendicava il potere temporale sulla Città Eterna.
   In quel clima di ritrovata cordialità (l'alleanza è un'altra cosa), come ha documentato Mariano Gabriele in una fondamentale opera sulla difesa del confine occidentale (Ufficio Storico SME), l'Italia continuò a munirsi a Ovest ma ripresero i lavori della strada ferrata che sboccò finalmente a Vievola. Il mare, però, era ancora lontanissimo. Per arrivarci ci vollero ancora più di vent'anni. Finalmente il 30 ottobre 1928 venne inaugurata la tanto agognata Cuneo-Breil/Ventimiglia-Nizza, capace di conciliare tutte le diverse attese. Proprio perché bisognava pensare in grande venne proposta come Berna-Marsiglia. Una linea non solo italo-francese ma europea..., com’era stata ideata dai suoi pionieri e rilanciata da Giolitti, dal ministro degli Esteri Morin e, a seguire, da Tommaso Tittoni, Antonino di San Giuliano e i giovani della massonica “Corda Fratres” che, su ispirazione del canavesano Efisio Giglio-Tos organizzarono incontri culturali tra gli studenti universitari delle “Sorelle Latine”. Le “idee” precorrono il commercio e il turismo e propiziano quella “pace in terra tra gli uomini di buona volontà” che solo decenni dopo la seconda guerra mondiale rimisero in funzione la Cuneo-Nizza: il 6 ottobre 1979. Molto ansimante e in attesa di un salto di qualità per un'Europa vera.
Aldo A. Mola


Giuseppe Biancheri (Ventimiglia, 22 novembre 1821-Torino, 26 ottobre 1908).
Già allievo in una scuola di avviamento commerciale a Montecarlo, laureato in giurisprudenza a Torino (1846), fu eletto deputato nel collegio uninominale di Ventimiglia il 13 dicembre 1853 in ballottaggio con Ercole Ricotti, illustre storico militare. Nel 1855 avversò l'alleanza del regno di Sardegna con Francia, Gran Bretagna e impero turco contro la Russia e la conseguente spedizione in Crimea. Schierato a sinistra, con il nizzardo Giuseppe Garibaldi e pochi altri nel 1860 votò contro la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia di Napoleone III, prevista dagli accordi di Plombières tra l'imperatore francese e Camillo Cavour (luglio 1858) per conto di Vittorio Emanuele II. A suo avviso la rinuncia a Nizza era destinata a penalizzare gravemente il Ponente ligure, già allarmato dall'attenzione riservata da Cavour (morto il 6 giugno 1861) al porto di La Spezia. L'ascesa alla presidenza del Consiglio del toscano Bettino Ricasoli e dell'emiliano Marco Minghetti si sostanziò nel trasferimento della capitale del regno da Torino a Firenze, senza alcuna garanzia di ottenere Roma, che la Nuova Italia raggiunse il Venti Settembre 1870 solo per effetto della sconfitta di Napoleone III da parte della Prussia a Sedan (2 settembre): la terza “S” propizia all'unificazione dell'Italia: dopo la vittoria di Napoleone sugli austriaci a Solferino (24 giugno 1859) e dei prussiani sugli asburgici a Sadowa (1866), che al regno d'Italia fruttò Venezia.
   Già componente della commissione parlamentare d'inchiesta sulla rete ferrata e ministro della Marina nel governo Ricasoli (1867), comprendente esponenti della Sinistra democratica come Agostino Depretis e il gran maestro del Grande Oriente d'Italia Filippo Cordova, il 12 marzo 1870 Biancheri fu eletto per la prima volta presidente della Camera in competizione con Benedetto Cairoli, esponente della Sinistra garibaldina. Come ha fatto osservare il suo biografo Silvio Furlani nel volume VII di “Il Parlamento Italiano, 1861-1993” (voll. 23), venne confermato per ben diciotto volte in quella prestigiosa carica, anche dopo l'ascesa della Sinistra al governo con Depretis e in successione al “fratello” Domenico Farini, nominato senatore e asceso a presidente della Camera Alta. Scrupoloso nell'espletamento del prestigioso ufficio, Biancheri ebbe ruolo decisivo nel dibattito parlamentare sullo scandalo della Banca Romana e sul plico di lettere consegnate da Giovanni Giolitti a propria difesa. Poiché però non seppe arginare l'Estrema sinistra radicale, capitanata da Felice Cavallotti, corrivo a contrapporre il “partito degli onesti” a quelli “storici”, dopo le elezioni del 1895, dominate da Francesco Crispi, Biancheri non fu rieletto. A suo carico si aggiunse l'insinuazione che fosse implicato nella crisi della banca di San Remo, salvata dall'intervento della Banca Nazionale.
   Tornò presidente della Camera dopo le elezioni politiche del 1897 e nel 1899, dopo le dimissioni di Giuseppe Colombo, nuovamente nel 1902, in successione al massone Tommaso Villa, e un'ultima volta nel 1906, durante il governo presieduto per cento giorni da Sidney Sonnino. Il 30 gennaio 1907, ormai ottantacinquenne, Biancheri lasciò il seggio presidenziale adducendo che l'età e la salute non gli consentivano più “l'usata operosità e diligenza”. Dopo oltre mezzo secolo dalla prima elezione alla Camera subalpina nel collegio di Ventimiglia, piegò le vele. San Remo dopo Ernesto Marsaglia, elesse il nipote di Biancheri, Orazio Raimondo, socialista, massone, stratega del rilancio della città attraverso il Casinò e il turismo di qualità che ne fece una delle principali attrazioni turistiche italiane, come documentato da Marzia Taruffi in “Uno, cento, mille Casinò di San Remo, 1905-2015 (Ed. De Ferrari).

   Nei convegni organizzati su Biancheri anni addietro, e nuovamente in quello del marzo-aprile 2023 orchestrato da Luca Fucini, console onorario di Francia per la provincia di Imperia, è stato approfondito il ruolo protagonistico da lui svolto per collegare il Ponente Ligure all'entroterra, e in specie al Piemonte, puntando su Cuneo in alternativa alla linea Torino-Fossano-Mondovì-Savona e a quella, strategica, Torino-Alessandria-Genova, voluta da Cavour. Come ricordò il giornalista Franco Collidà nel pionieristico volume sulla ferrovia Cuneo-Nizza, pubblicato in occasione della sua riapertura, Biancheri sovrappose diverse opzioni facendole via via prevalere alla Camera grazie alla sua straordinaria facondia.
   Per propugnare i suoi progetti non esitava a lasciare lo scranno di presidente della Camera e a parlare per molte ore dal banco di deputato, sciorinando particolari tecnici e alternando sciabolate ideali. Tra i suoi cavalli di battaglia a sostegno della linea ferrata nella Valle Roia (o Roja, come all'epoca si scriveva) vi era la necessità di interpretare il sentimento di quanti “Oltralpe” non avevano cessato di sentirsi legati all'Italia. Del resto dove inizia e dove termina l'Oltralpe? Per lui, fiero avversario della cessione di Nizza alla Francia, l'Italia terminava al Varo.
   Biancheri alimentava, insomma, quel filo mai interrotto di irredentismo nizzardo poi studiato da Giulio Vignoli e Achille Ragazzoni e consegnato alle pagine del Bollettino semestrale di studi nizzardi e tendaschi “Il Pensiero di Nizza” (1995-2006), recentemente riproposto in edizione anastatica da Settimo Sigillo.
   La “Cuneo-Nizza. Storia di una ferrovia” venne studiata da Franco Collidà in una documentatissima opera del 1981: quasi 300 pagine con contributi di Max Gallo e di Aldo A. Mola. Collidà non tace le contraddizioni di Biancheri. Mentre coltivava il progetto fondamentale di quando in quando propose una bizzarra linea lungo la valle Vésubie e persino per la Valle Tinea. Benché fossero alternative del tutto irreali grazie alla sua straordinaria oratoria riusciva ad attrarre il favore dell'uditorio, che spesso aveva una idea molto vaga delle “Alpi del Mare” e dei suoi secolari problemi, in gran parte tuttora irrisolti. Che cosa se ne sa e se ne pensa oggi a Roma e a Bruxelles?
   Nel citato convegno di Valdieri sono intervenuti Pier Carlo Sommo, Walter Cesana, Andrea Benzi, Paolo Chiarenza e il generale Antonio Zerrillo.

L'ESTATE DI VITTORIO EMANUALE III
LUGLIO-OTTOBRE 1943


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 9 aprile 2023 pagg. 1 e 6.


Arriva a breve in libreria “Vita di Vittorio Emanuele III, 1869-1947. Il Re discusso” di Aldo A. Mola. Pubblicato da Bompiani-Giunti (come la sua Storia della Massoneria e le biografie di Silvio Pellico e Giosue Carducci), il volume (592 pagine e 8 di illustrazioni, euro 22) sintetizza lunghe ricerche d'archivio e meditazioni sulla storia dell'Italia unita, dai suoi albori ai giorni nostri.
Didascalia
Vittorio Emanuele III, re costituzionale...
Vittorio Emanuele III (Napoli, 11 novembre 1869-Alessandria d'Egitto,28 dicembre 1947), re d'Italia dal 29 luglio 1900 al 9 maggio 1946, svolse ruolo eminente nell'estate del 1943. Sostituì Benito Mussolini con il maresciallo Pietro Badoglio, avviò le trattative per ottenere l'armistizio dalle Nazioni Unite e si trasferì con il governo da Roma a Brindisi per guidare la riscossa. In migliaia di opere su quelle vicende, fondamentali non solo per la storia d'Italia, è ricordato quale spettatore o al traino di decisioni altrui. A ottant'anni dagli eventi giova ripercorrere sinteticamente quanto avvenne per dare a ciascuno il suo.
   In premessa va ricordato il sistema dei poteri fondato sullo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto re di Sardegna e adottato dal regno d'Italia alla sua proclamazione il 14 marzo 1861. Capo dello Stato, il sovrano aveva il comando delle forze armate, con facoltà di conferirne l'esercizio in caso di guerra. Nominava i ministri, responsabili dell'esecutivo, mentre il legislativo era “collettivamente esercitato dal re e da due Camere”: il senato, di nomina regia e vitalizia, e quella dei deputati, elettiva.
   Il 30 ottobre 1922 Vittorio Emanuele III incaricò Mussolini di formare il governo di coalizione costituzionale. Il 31 i ministri giurarono e presero ordinatamente le consegne dai predecessori; l'indomani s’insediarono. Il 17 e il 29 novembre le Camere votarono la fiducia a straripante maggioranza. Per assicurare la stabilità del governo dopo anni di crisi causate dalla “maledetta proporzionale” (definizione di Giolitti), il 18 novembre 1923 il Parlamento approvò la legge che tributò due terzi dei seggi al partito che ottenesse il 25% dei voti. Alle elezioni del 6 aprile 1924 la Lista incardinata sul Partito nazionale fascista (PNF) ottenne il 66% dei voti e i due terzi dei seggi che le sarebbero spettati anche senza quella riforma. Però i deputati iscritti al PNF (molti solo di recente) risultarono appena 227 su 535. Una minoranza. Gli altri erano “fiancheggiatori”, spesso tiepidi. Tuttavia nel 1925-1927 quella camera, col senato al seguito, varò le leggi cosiddette “fascistissime”: scioglimento delle associazioni e dei partiti di opposizione, soppressione dei loro giornali, decadenza dei deputati “assenteisti”, introduzione della pena di morte per attentati contro i Reali, il capo del governo e lo Stato, sostituzione dei consigli comunali e provinciali con podestà e presidi di nomina governativa. A coronamento del regime di partito unico, il 17 maggio 1928 il Parlamento approvò la legge elettorale proposta da Alfredo Rocco. La compilazione della lista di 400 deputati, da votare o respingere in blocco, spettò al Gran consiglio del fascismo, regolamentato il 9 dicembre 1928 da una legge che, contrariamente a quanto solitamente si afferma, non ebbe alcun potere sulla successione al trono.
   L'11 febbraio 1929 Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri sottoscrissero i Patti Lateranensi tra il regno d'Italia e lo Stato della Città del Vaticano, che si riconobbero a vicenda, mettendo fine alla “questione romana” aperta nel 1870 con l'annessione di Roma e del Lazio. Alle elezioni del 24 marzo 1929 il PNF ottenne quasi il 99% dei voti, un successo replicato nel 1934 (99,8%). A conclusione della conquista dell'Etiopia, il 9 maggio 1936 fu proclamato l'Impero. Con l'annessione dell'Austria da parte di Adolf Hitler l'Italia confinò con la Germania. Suggestionati dal nazionalsocialismo molti fascisti ritenevano sempre più ingombrante la monarchia. Lo diceva anche il duce, sia pure in privato.
...assediato dai fascisti repubblicani.
Nell'aprile 1938 Vittorio Emanuele III subì l'affronto della nomina a primo maresciallo dell'Impero, titolo dal Parlamento conferito a Mussolini. Come re non ne aveva alcun bisogno. Avverso a ogni forma di “razzismo”, nel dicembre 1938 emanò le leggi razziali perché approvate dalle Camere. A differenza della Costituzione della Repubblica, lo statuto non prevedeva il rinvio delle leggi con parere motivato, né pubbliche riserve. Se, per non firmarle, egli avesse abdicato avrebbe messo suo figlio Umberto di fronte allo stesso bivio. Se anche questi avesse abdicato e nessun principe sabaudo avesse accettato la Corona per non firmare quelle leggi, a norma dello statuto le Camere in seduta congiunta avrebbero nominato un Reggente (verosimilmente Mussolini), incarica sino al 1955, quando Vittorio Emanuele principe di Napoli avrebbe raggiunto l'età per regnare. Più nessuno avrebbe arginato chi puntava a liquidare la monarchia.
   Dal 1939, tramite Pietro d'Acquarone, ministro della Real Casa, il sovrano tastò la disponibilità di gerarchi (a cominciare da Galeazzo Ciano, insignito dell'Ordine della SS. Annunziata dopo l'annessione dell'Albania) a un “cambio di rotta” per evitare che l'Italia finisse succuba della Germania. Tutti si defilarono. In assenza di interlocutori, non gli rimase che avallare il governo Mussolini all'apogeo del consenso, dal “patto di Acciaio” alla neutralità (settembre 1939) e all'intervento in guerra del 10 giugno 1940, deliberato anche per propiziare la resa della Francia e scongiurare l'irruzione dei tedeschi irrompessero nel  “Midi”, come avvenne nel novembre 1942.
L'iniziativa del Re: revocare Mussolini...
Dall'inizio del 1943, fallita l'aggressione alla Grecia nell'ottobre 1940, perduta l'intera Africa Orientale nel 1941, dopo la ritirata dalla Libia e dal fronte del Don nell'Unione sovietica (1942), la sconfitta dell'Italia era ormai ineluttabile. Il cosiddetto patto Roma-Berlino-Tokyo non funzionava affatto per la perdurante pace tra il Giappone e l'Unione sovietica. In assenza di iniziative di Mussolini per un armistizio separato, Vittorio Emanuele III mirò a salvare l'Italia dalla debellatio e dalla sua spartizione tra i vincitori, ventilata dalla Gran Bretagna. Si valse dell'unica leva sicura: alcuni generali e i carabinieri, capaci di operare secondo i due canoni necessari: segretezza ed efficienza. L'urgenza dell'azione fu dettata dallo sbarco degli anglo-americani in Marocco e Algeria (novembre 1942), dal loro ormai indiscutibile dominio sul Mediterraneo, dalla forzata resa dell'ultimo bastione dell'esercito in Tunisia, agli ordini del maresciallo Giovanni Messe (maggio 1943), dalla “fronda” insorgente all'interno dei gerarchi dopo il vasto rimpasto di ministri attuato da Mussolini in marzo, fonte di diffusi malumori ai vertici del regime e senza speciale vantaggio per il “fascismo”, e, infine, dall'assalto anglo-americano alla Sicilia (10 luglio), completo di atti criminosi contro la popolazione civile.
   A Dino Grandi, decorato del Collare della SS. Annunziata, il re confidò di aver bisogno di un voto del Gran consiglio del fascismo, come fosse una “terza Camera”. Il bombardamento di Roma in coincidenza con il fallimento dell'ennesimo incontro Mussolini-Hitler (19 luglio) impose l'accelerazione. Quando lesse l'ordine del giorno Dino Grandi-Luigi Federzoni-Giuseppe Bottai, pervenutogli tramite Cesare Maria De Vecchi (mentre il massone Domenico Maiocco lo fece avere a Ivanoe Bonomi, capofila degli antifascisti), il re constatò che i gerarchi si limitavano a chiedere al duce di deporre il comando della guerra senza però rimuoverlo da capo del governo né intaccare il regime. 
   Mentre i partiti antifascisti e i più rappresentativi esponenti del pre-fascismo erano ancora pressoché irrilevanti nel Paese e agli occhi dei nemici, Vittorio Emanuele III passò all'azione. In un colloquio di venti minuti a Villa Savoia, poco dopo le 17 del 25 luglio 1943, comunicò al duce la revoca da capo del governo. “Fermato” (non “arrestato”) e sorvegliato in una caserma di carabinieri, Mussolini si dichiarò disponibile a collaborare. La somma dei decreti in pochi giorni emanati da Badoglio e i Verbali del governo (pubblicati a cura di Aldo G. Ricci) indicano la lunga preparazione sottesa al “cambio” e sfatano la leggendaria incertezza del sovrano tra Badoglio e il maresciallo Enrico Caviglia, lontano dalle leve del potere e privo dei necessari riservatissimi contatti internazionali. Lo stesso vale per le misure adottate dal capo di stato maggiore dell'Esercito, Mario Roatta, per reprimere manifestazioni che dall’esultanza potevano volgere in insorgenza sia di sovversivi sia di fautori del “duce”, come narrò anche il partigiano monarchico Beppe Fenoglio in Primavera di bellezza (1960). Gli anglo-americani (e non solo essi) constatarono che il governo controllava l'ordine pubblico e smantellava il regime. Aveva dunque i requisiti per eseguire le condizioni che da sin dal Memorandum di Quebec (18 agosto 1943) gli anglo-americani avevano prospettato per concedere all'Italia di uscire dalla guerra. Non tutte le decisioni di Badoglio risultarono lungimiranti. In particolare, lo scioglimento completo della Camera dei fasci e delle corporazioni, dalla quale sarebbe bastato escludere i soli fascisti, inceppò il regime bicamerale e sovraespose il re.
...e ottenere di arrendersi per salvare lo Stato
  Il 12 agosto il generale Giuseppe Castellano  partì da Roma alla volta di Lisbona per contattare l'Alto comando anglo-americano e avviare e trattative armistiziali. Vi giunse il 16 previo incontro a Madrid con l'ambasciatore britannico Samuel Hoare, che dal 1917 era stato alcuni anni tenente colonnello nel servizio segreto militare inglese a Roma.
   Contro i calcoli del governo italiano, d'intesa con l'Unione sovietica gli anglo-americani avevano approntato da tempo lo strumento immodificabile di resa dell'Italia “senza condizioni”. Esso fu consegnato in forma sintetica al generale Castellano e nel testo “lungo” al generale Giacomo Zanussi che, ignaro della missione del collega, a sua volta raggiunse Lisbona il 25. Al rientro di Castellano a Roma, dopo rapida valutazione l'“armistizio breve” obtorto collo fu accettato. Al termine di febbrili consultazioni Castellano lo sottoscrisse il 3 settembre a Cassibile (Siracusa). Preludio alle ulteriori durissime condizioni (sottoscritte da Badoglio il 29 settembre sulla nave inglese “Nelson”, ancorata a Malta), lo strumento di resa riconosceva il “governo del re” e quindi lo Stato incardinato sulla Corona. Il generale Eisenhower, comandante in capo degli Alleati, si riservò la data della pubblicazione. A Roma perdurò la convinzione che sarebbe stato proclamato il 12 (in una lettera privata Badoglio accennò addirittura al 16). Esso invece fu imposto da Algeri l'8 settembre, quando il governo era ancora impreparato ad affrontare la prevedibile reazione della Germania. Dopo vivace discussione, presenti le cariche militari supreme e il maggiore Luigi Marchesi, il re concluse: “Adesso sappiamo” (Angelo Squarti Perla, Le menzogne di chi scrive la storia, ed. Gambini, 2023). In poche ore, di concerto con Vittorio Emanuele III, il re Badoglio provvide al necessario per mettere al sicuro la famiglia reale, il governo, il comandante supremo Vittorio Ambrosio e i capi di stato maggiore delle tre Armi.
    Il re rifiutò la proposta di riparare su una nave degli Alleati (“territorio” dei vincitori). In assenza di alternative praticabili (raggiungere la Sardegna via nave in partenza da Civitavecchia), fu allestito il trasferimento in auto da Roma verso Pescara, via per Tivoli-Avezzano. Sulle 5 di mattino del 9 settembre la vettura del Re partì per prima con lo stendardo del Capo dello Stato. Le altre (con Badoglio, il principe ereditario Umberto, la Regina e il loro seguito) si accodarono alla spicciolata. Tutto fu tranne una “fuga”. Un fuggiasco non percorre strade ordinarie né innalza le sue insegne. Il governo conferì il comando di Roma (“città libera” dall'agosto, essa comprendeva lo Stato della Città del Vaticano) al generale Giorgio Calvi di Bergolo, genero del sovrano, poi autorizzato a stipulare la resa ai tedeschi soverchianti. Nel pomeriggio del 9 il Re presenziò all'aeroporto di Pescara al consulto tra Badoglio e i vertici militari per concertare la meta, fissata nella Puglia, non ancora raggiunta dagli anglo-americani ed ove erano in corso duri combattimenti di reparti italiani contro i germanici, costretti dall'eroico generale Nicola Bellomo a ritirarsi da Bari. Verso le 23 dal molo di Pescara la famiglia reale si imbarcò sulla corvetta “Baionetta”, giunta da Ortona con Badoglio già a bordo. Scortata dall'incrociatore “Scipione Africano”, essa proseguì verso un porto sicuro, durante la navigazione individuato in Brindisi.
   All'arrivo Vittorio Emanuele III lanciò un appello agli italiani. Il governo si insediò, sia pure in condizioni molto precarie. Gli Alti Comandi trasmisero direttive non sempre recepite né rilanciate dai destinatari, in via di dissolvimento. 
Il Re trasmise i poteri ma serbò la Corona
Conclusa l'occupazione della Sicilia e intrapresa quella della Calabria, allo sbarco nella piana di Salerno gli anglo-americani furono tenacemente fronteggiati dai germanici. Con una spericolata operazione il 12 settembre il maggiore delle SS Otto Skorzeny prelevò Mussolini dall'Albergo Imperatore sul Gran Sasso e lo trasferì in Germania, cespite dello Stato fascista repubblicano d'Italia, poi Repubblica sociale italiana. Dopo il “suicidio” del Maresciallo Ugo Cavallero, suo ospite a Frascati, il maresciallo tedesco Kesselring ottenne da Rodolfo Graziani di porsi a capo di un esercito repubblicano mentre non solo nel Mezzogiorno reparti fedeli al giuramento al re si battevano contro gli occupanti.
   Gli anglo-americani tennero una condotta ambigua nei confronti di Vittorio Emanuele III. Da un canto ne avevano bisogno perché era il perno dello Stato (diplomazia, forze armate...) e garantiva l'esecuzione delle condizioni di resa. Dall'altro, anche dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia contro la Germania (13 ottobre), ostacolarono la riorganizzazione del regio esercito, intrapreso tra grandi difficoltà e giunto nondimeno ad assumere veste di Raggruppamento Motorizzato, fulcro dei futuro Corpo Italiano di Liberazione e di sei Gruppi di combattimento. Il colonnello Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo assunse il comando del Fronte militare clandestino. Arrestato e seviziato nella prigione di via Tasso, fu ucciso alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944, come altri militari, antifascisti, ebrei, massoni e detenuti comuni. Il Re e il principe Umberto passarono ripetutamente in rassegna reparti dell'Esercito, riorganizzato da Giovanni Messe, rilasciato dagli inglesi su sollecitazione di Vittorio Emanuele III che lo aveva avuto aiutante di campo. Al di là di fanti, marinai e avieri, dei carabinieri e della pubblica sicurezza, circa 400.000 militari italiani concorsero alla guerra di liberazione.
   Ottenuto il riconoscimento dell'Italia quale “cobelligerante” e consolidate le relazioni internazionali anche con l'Unione sovietica, il governo Badoglio non ebbe la collaborazione del Comitato centrale di liberazione nazionale costituito in Roma dall'agosto 1943 e presieduto da Ivanoe Bonomi. Gli alleati, soprattutto gli statunitensi, ventilarono l'abdicazione immediata del Re, la rinuncia al trono del principe ereditario, il passaggio della corona al nipote, di appena sette anni, e la nomina di un Reggente (nella persona di Badoglio?). Tali proposte furono inizialmente condivise da Benedetto Croce e da Carlo Sforza, repubblicano veemente benché collare della SS.Annunziata e senatore del regno come gli rinfacciò Camillo Canciani in Vittorio Emanuele III fu complice del fascismo? (Roma, 1945). Esse furono fermamente respinte dal Re. Sgarbatamente pressato dagli Alleati, il 12 aprile 1944 il sovrano annunciò che avrebbe trasmesso tutti i poteri al principe ereditario, ma in Roma, quando fosse liberata. Tenne per sé la Corona.
   Il 22 aprile fu costituito il secondo governo Badoglio, con la partecipazione dei partiti del CLN. Alla presenza del re i ministri giurarono sul proprio onore di servire l'Italia. Non mantennero la promessa di osservare la “tregua istituzionale”. Fecero anzi di tutto per oscurare il sovrano e suo figlio, Luogotenente del regno dal 5 maggio 1944. Il 9 maggio 1946 Vittorio Emanuele III abdicò e si trasferì in Egitto con la regina Elena, cittadino di pieno diritto dell'Italia che aveva salvato dalla catastrofe. Si congedò dalla vita quattro giorni prima che la Costituzione della Repubblica lo condannasse all'esilio.  
   Il repentino crepuscolo del sovrano e della monarchia fu tutt'uno con quello dell'Italia, a vantaggio dei vincitori che conseguirono l'obiettivo col trattato di pace del 10 febbraio 1947: cancellarla dal novero delle maggiori potenze, quale si era affermata negli ottanta anni dalla proclamazione del regno. Vi fu (e vi è) poco da gioirne, come poi disse Croce alla Costituente contro la ratifica dell'umiliante diktat imposto all'Italia, con la drammatica mutilazione dei suoi confini, soprattutto sul fronte orientale, raggiunto con grande sacrificio nel 1918-1924. 
Aldo A. Mola 

DIDASCALIA: Arriva a breve in libreria “Vita di Vittorio Emanuele III, 1869-1947. Il Re discusso” di Aldo A. Mola. Pubblicato da Bompiani-Giunti (come la sua Storia della Massoneria e le biografie di Silvio Pellico e Giosue Carducci), il volume (592 pagine e 8 di illustrazioni, euro 22) sintetizza lunghe ricerche d'archivio e meditazioni sulla storia dell'Italia unita, dai suoi albori ai giorni nostri.

GLI ACCORDI DI SARETTO (1944)
L'EUROPA CHE NON C'È


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 2 aprile 2023 pagg. 1 e 6.


La copertina del volume di Marta Arrigoni (martasaretto@libero.it), punto di arrivo di decenni di studio e valida base in vista dell'80° dell'accordo di Saretto. Il 19 maggio 1945 il socialista Giuseppe Saragat, ambasciatore a Parigi, avvertì il ministro degli Esteri Alcide De Gasperi: “La situazione è tutt'altro che rassicurante e tale da preoccupare coloro che auspicano nell'interesse della patria e del pacifico assetto dell'Europa un'intesa sempre più cordiale tra l'Italia e la Francia (…) La Francia vuole annettersi gli alti bacini della Roia, Vesubia, Tinea, il massiccio dello Chaberton, i colli del Moncenisio e del Piccolo San Bernardo. Ma la Francia vuol annettersi soprattutto le valli del Pellice e la valle d'Aosta”, previo plebiscito da celebrare “nella scia di un esercito di occupazione”. L'ultima parola toccò al Trattato di pace del 10 febbraio 1947, nettamente sfavorevole all'Italia su entrambi i confini dell'Italia, con la Francia e, peggio, con la Jugoslavia, in spregio al suo concorso alla guerra contro la Germania di Hitler e i suoi alleati interni e internazionali, sia come Stato co-belligerante, sia con il CorpoVolontari della Libertà.
Didascalia
Ma quale Europa?
Di che Europa stiamo parlando? I “27” soci dell'Unione Europea non hanno unità politica, né militare. Non tutti hanno identica moneta, né, meno ancora, codici civili e penali in comune. Quand'è il momento, si disconoscono. Spesso si comportano come bambini capricciosi. E quindi buffi. Sotto l'ombrello difensivo (???) della NATO, per intervenire nella guerra d'Ucraina mandano persino vecchie forniture dell'URSS. L'Unione pare spesso una giostra di gelosie e di conflitti. Non ha mai fatto seriamente i conti con la decolonizzazione: un evento che dura da ottant'anni, si è verificato “in ordine sparso”, caoticamente ed è stato surrogato con altre forme di dominio. Di lì la sua miopia dinnanzi alla grande migrazione, che ne è una tra le conseguenze più vistose. Tra un anno vedremo quanti suoi elettori andranno alle urne per votarne i rappresentanti in un Parlamento vagante.
   Questa Europa non è quella sognata dai tanti che ottant'anni orsono, anche a prezzo della vita, si batterono per la federazione dei suoi popoli in nome della libertà. Ne ha scritto Marta Arrigoni in “I Patti di Saretto del 30-31 maggio 1944 tra storia e memoria”.
Gli accordi italo-francesi di Saretto
Gli “Accordi di Saretto” del 31 maggio 1944 si collocano in un arco temporale, in un contesto bellico e in un quadro politico italiano generale e locale che li rende un unicum nell'ambito della lotta di liberazione italiana e francese. Ebbero il primo impulso da Costanzo Picco, ufficiale del regio esercito, rimasto in Francia dopo la resa incondizionata del 3-29 settembre 1943. Presero corpo nella primavera avanzata del 1944, quando le “bande” partigiane piemontesi erano investite da massicci rastrellamenti da parte di reparti germanici e della Repubblica sociale italiana e si stavano “politicizzando” sempre più.
   I preliminari della collaborazione tra i due fronti della lotta di liberazione furono avviati il 12 maggio 1944 con un incontro al col Sautron (2800 metri sul livello del mare). Il 22 maggio a Barcelonnette (Val di Larche) Maurice Lecuyer, comandante della resistenza francese nelle Basse Alpi, e Tancredi (Duccio) Galimberti, comandante delle formazioni “Giustizia e Libertà” in Piemonte e valle d'Aosta, con ampia delega “politica” di Ferruccio Parri, comandante generale delle bande del Partito d'azione, sottoscrissero un primo accordo militare. Redatto in francese, esso impegnava a intensificare i legami tra le valli dei due lati della frontiera. Il 30-31 maggio i delegati dei Movimenti uniti della resistenza francese e quelli del Comitato di liberazione nazionale del Piemonte sottoscrissero accordi politici e militari a Saretto (borgata di Acceglio, in alta Valle Maira, in provincia di Cuneo). In breve, però, la loro efficacia svaporò.
   Il contesto bellico generale mutò drasticamente. Il 17 gennaio 1944 gli anglo-americani sbarcarono ad Anzio-Nettuno ma cozzarono con la tenacia dei tedeschi attestati agli ordini del maresciallo Kesselring sulla linea Gustav. La completa distruzione dell'Abbazia di Montecassino (15 febbraio), ordinata dal maresciallo inglese Harold Alexander, non comportò vantaggi operativi per gli anglo-americani e i corpi aggregati, come i polacchi. Suscitò anzi indignazione in Italia e molte riserve anche all'estero.
   A fine maggio il comandante americano Marc Clark si trovò dinnanzi alla scelta strategica: muovere verso l'Adriatico, avvolgere il nemico, costringendolo alla resa o alla fuga precipitosa, e chiudere la guerra in Italia con una vittoria decisiva oppure puntare su Roma. Scelse il successo più vistoso. Entrò nella Città Eterna il 4 giugno, vigilia dello sbarco anglo-americano in Normandia (6 giugno), militarmente di gran lunga più importante. I tedeschi ripiegarono sulla “linea gotica” (da Viareggio a Pesaro) e vi ressero per mesi. Il quadro politico-diplomatico internazionale, già modificato con l'inserimento dell'Urss e di France Libre nella Commissione militare alleata di controllo in Italia, si intersecò con quello politico interno. Il 12 aprile, ruvidamente pressato dagli anglo-americani, Vittorio Emanuele III annunciò che alla liberazione di Roma avrebbe trasferito tutti i poteri della Corona al principe ereditario, Umberto di Piemonte. Il 22 aprile il maresciallo Pietro Badoglio formò a Salerno il suo secondo governo con esponenti dei partiti del Comitato di liberazione nazionale. Il 18 giugno si insediò il governo presieduto da Ivanoe Bonomi.
   In quel contesto la “guerra partigiana” nelle regioni amministrate dalla Repubblica sociale italiana incontrò crescenti difficoltà come documenta il carteggio tra Giorgio Agosti e Dante Livio Bianco, con riferimento al teatro liguro-piemontese. La “pianurizzazione” avrebbe aumentato i rischi di cattura e di eliminazione di commissari politici e comandanti militari, ormai noti ai loro nemici, e avrebbe fatto trovare le “bande” impreparate a svolgere un ruolo decisivo nell'“ora x”. Questa convinzione si fondava sulla certezza che, giunti a Roma, gli anglo-americani sarebbero presto sbarcati sulla costa ligure per respingere i tedeschi dalle Alpi occidentali.
   L’intensificazione delle relazioni tra partigiani italo-francesi prese corpo nei giorni che lasciavano ritenere imminente la “svolta” militare nello scacchiere italiano. Per valutare la portata degli incontri di Sautron, Barcelonnette e Saretto occorrono due precisazioni. In primo luogo balza evidente l'asimmetria dei “poteri” delle due delegazioni. Quella francese faceva capo a un governo non ancora insediato sul territorio nazionale ma riconosciuto dalle Nazioni Unite. Le sue forze da mesi combattevano in Italia, con comportamenti talora deplorevoli (basti rievocare “La ciociara”) e assai peggiori di quelli tenuti dai militari anglo-americani. La delegazione italiana, invece, operava su mandato del CLN del Piemonte, ma era costituita solo da esponenti del Partito d'Azione, il cui vertice regionale tenne per sé l'esclusiva dell'iniziativa, proprio per il suo possibile rilievo generale. Sennonché nel maggio 1944 i CLN dell'Italia non ancora liberata non rappresentavano il governo nazionale. Nella fase cruciale i vertici torinesi del partito decisero di emarginare Galimberti con argomenti personalistici sconcertanti. Il 27 maggio Agosti ne precisò a Bianco il motivo (“la necessità che una trattava simile non cada nelle mani di Leo (Scamuzzi, NdA)” e della cerchia di Galimberti. Aggiunse realisticamente: “A mio avviso queste trattative e gli accordi che ne deriveranno non possono avere per noi dei risultati militari o politici molto importanti”.
   Nel Diario sotto la data del 29 maggio 1944 Bianco annotò l'incontro con suo cognato, Gigi Ventre, Ezio Aceto, comandante militare del II settore e “col delegato pel Piemonte delle forze della resistenza francese (l'avvocato Jean Lippmann, NdA). Persona simpaticissima. Proseguiamo tutti insieme, in corriera, per Acceglio, dove pernottiamo”. L'impiego di un mezzo pubblico, attraverso molti paesi e con varie soste di servizio, indica che pochi giorni dopo l'“ultimatum” della RSI (25 maggio) i partigiani potevano muoversi su un ampio territorio senza soverchi timori di controllo.
   Al termine di due giorni di colloqui nella Trattoria-Albergo di Saretto (passata in eredità a Marta Arrigoni, che ne ha curato il restauro) Max Juvenal e Bianco sottoscrissero il “documento” che, redatto in francese, va sotto il nome di “accord de Saretto”. Sull'onda di visioni condivise tra “confrères”, i delegati convennero che “aussi pour l'Italie – ainsi que pour la France – la meilleure forme de gouvernement pour assurer le mantien des libertés démocratiques et de la justice sociale, est celle républicaine”. Il 22 aprile i ministri del secondo governo Badoglio erano entrati in carica giurando sul proprio onore di rispettare la “tregua istituzionale”. Perciò Agosti sollecitò Bianco a informare Juvenal che quella clausola del “documento” andava cassata.
Quando la Francia di De Gaulle voltò le spalle
Gli eventi bellici che si susseguirono in Italia e Oltralpe, a cominciare dallo sbarco in Normandia e dall'insediamento a Roma del governo presieduto da Bonomi, ridimensionarono la portata politica e militare dell'accordo di Saretto, peraltro mai pervenuto a Roma. La riorganizzazione delle formazioni partigiane, “dopo ampie e laboriose trattative” (come scrisse Bianco), anche in vista degli assetti di potere postbellici portò alla stipula dell'accordo tra due divisioni di Giustizia e Libertà e due divisioni “autonome”, una comandata da Enrico Martini (“Mauri”), ufficiale di stato maggiore e dichiaratamente monarchico, “valoroso e popolare comandante” (Bianco), l'altra da Piero Cosa, affiancato da Dino Giacosa, fiero repubblicano. Lo “spirito” dell'accordo fu sintetizzato in un memorandum che rivendicò il valore innovativo delle “forze partigiane”, premessa del “radicale rinnovamento politico, morale e sociale del paese”, l'instaurazione di “una sana democrazia” e la libera scelta da parte del popolo italiano degli “ordinamenti che più gli convengono” (Valle Pesio, 7 agosto 1944).
   L'accordo, detto “della Certosa”, perché discusso e deliberato alla Certosa di Pesio, al suo 7° punto andò oltre quello di Saretto. Mentre Juvenal e Bianco avevano auspicato il ritorno alla fraternità italo-francese, senza alcun cenno all'Europa, il memorandum della Certosa affermò: “Siamo contro tutti i nazionalismi e gli imperialismi e, senza per nulla rinnegare l'alto valore umano e storico dell'ideale nazionale e della tradizione patriottica italiana, auspichiamo una federazione di liberi popoli del nostro continente, che, lasciando intatta nei tratti essenziali la fisionomia delle singole nazioni, realizzi una vera comunità europea, sola via per assicurare una pace duratura e garantire le migliori possibilità di progresso.” I firmatari non indicarono alcun limite territoriale all’auspicata federazione europea. Il 4° punto dell'accordo, come già era avvenuto per quello di Saretto, risultò irricevibile da parte dei comunisti e dei socialisti del CLN piemontese. Esso recitò: “Intendiamo impegnare tutte le nostre forze contro l'instaurazione e la conservazione di qualsiasi regime totalitario e dittatoriale, di qualsiasi tipo e colore” e aggiunse: “Siamo perciò contro la dittatura della reazione (grosso capitale, alta finanza, agrari, militaristi, ecc.) non meno che contro quella del proletariato o di qualsiasi altra classe o gruppo.”
   Mentre il testo era al centro della discussione, il 15 agosto l'operazione “Dragoon” cambiò drasticamente il contesto bellico e politico generale. Un convoglio di 300 navi da guerra, 2.000 trasporti e mezzi da sbarco rovesciò rapidamente sulla costa francese tra Cannes e Tolone quasi 100.000 uomini (americani e corpi francesi agli ordini del generale de Lattre de Tassigny) senza incontrare significativa resistenza da parte della 19^ armata germanica. Il crinale alpino divenne spartiacque tra i tedeschi, che dalla pianura si affrettarono a raggiungerlo per controllare le rotabili, e gli alleati. La resistenza d'Oltralpe venne incorporata nell'esercito francese. Alle 7 del 25 agosto la 2^ divisione corazzata francese entrò in Parigi, seguita mezz'ora dopo dalla 4^ divisione americana. Alle 15 e 15 il comandante tedesco della piazza Dietrich von Choltitz chiese la resa.
   Nessuno tra i partigiani italiani, neppure in Piemonte, previde la svolta della Francia verso l'Italia all'indomani dell'operazione “Dragoon” e dell'ingresso di De Gaulle in Parigi. Il 14 febbraio 1944 il segretario generale agli Esteri, Renato Prunas, già ministro plenipotenziario a Lisbona, informò Badoglio che secondo de Panafier, rappresentante della Francia presso la Commissione di controllo e del Comitato consultivo per l'Italia, De Gaulle aveva in animo, “appena regolate le maggiori questioni italo-francesi, di promuovere una qualche forma di federazione latina” e aveva costituito un apposito ufficio “Italia” ad Algeri presso il Commissariato francese agli Esteri. Però il 15 marzo sempre da Algeri il generale Giuseppe Castellano, capo della Missione militare italiana presso il comando delle forze alleate, riferì a Prunas che secondo “un ben quotato funzionario del ministero degli Esteri di De Gaulle” il governo Badoglio non comprendeva figure rappresentative dell'opinione pubblica italiana ed era colpevole di “non aver ancora ufficialmente dichiarato la completa rinunzia alle famose rivendicazioni sulla Francia”.
   Dopo l'annuncio dell'istituzione della Luogotenenza da parte di Vittorio Emanuele III, su ruvida pressione anglo-americana in risposta al suo memorandum del 21 febbraio, l'ambasciatore francese Massigli incalzò il governo Badoglio per un “cambio di passo” nei rapporti italo-francesi. Il 5 maggio venne sollecitata la “pubblica sconfessione delle rivendicazioni fasciste: Savoia, Corsica, Nizza, Tunisia”.  Il 15 da Tangeri il console generale Alberto Berio aggiunse che De Gaulle intendeva trattare solo con “un'Italia nuova, radicalmente sbarazzata dal fascismo”, retta con forme istituzionali liberamente scelte dal popolo. Erano trasparenti le sue riserve nei confronti della monarchia e l'indebita interferenza nella futura scelta referendaria.
   Nel frattempo il CLN dell'Alta Italia premeva per essere riconosciuto quale autorità centrale dell'“entire resistance activity” sia politica sia militare nell'Italia settentrionale (31 maggio 1944), in un quadro internazionale fortemente pregiudicato dall'andamento generale della guerra. Il 10 giugno la segreteria generale degli Esteri ne informò Badoglio, ormai prossimo a essere estromesso dal governo. Constava che sin dal 1° aprile “l'organizzazione italiana della resistenza si era accordata con quella di Tito sulla base di una linea confinaria al Tagliamento'”. Sull'integrità territoriale dell'Italia postbellica si addensavano nubi sempre più fosche. Il 6 luglio da Salerno Bonomi, assicurò a De Gaulle che il nuovo governo, da lui presieduto in successione a Badoglio, tra i compiti fondamentali aveva “una chiarificazione tra Francia e Italia e il progressivo rinsaldarsi della loro amicizia”. Il 17 agosto, due giorni dopo lo sbarco franco-americano sulla costa francese sud-orientale, Bonomi informò il ministro della Guerra, Alessandro Casati, che il Comandante supremo del corpo di spedizione alleato in Italia riconosceva “i patrioti italiani come esercito combattente, comandato e diretto da ufficiali e comandanti” facente parte “delle Forze di Spedizione Alleate in Italia”; ma essi dovevano portare “un distintivo regolarmente notificato in base alle leggi internazionali”. Ogni rappresaglia contro di loro “sarebbe dunque violazione delle leggi di guerra che legano anche la Germania”. Quante “bande” si adeguarono? Il 7 ottobre, mentre si infittivano i timori di svalicamento di truppe francesi in Valle d'Aosta, Prunas riferì a Bonomi, per la sua veste di ministro degli Esteri, di aver comunicato all'ambasciatore francese a Roma, Maurice Couve de Murville, l'“insoddisfazione” dell'Italia perché le autorità francesi consideravano “ripristinato lo stato di guerra fra noi e la Francia” e assumevano misure vessatorie nei confronti degli 800 mila italiani residenti in Francia, benché 1200 volontari italiani nella sola Parigi, a prezzo di un centinaio fra morti e feriti, avessero concorso alla liberazione di Parigi.
   Lo “spirito di Saretto” era ormai un lontano ricordo. Gli anglo-americani volgevano la loro precipua attenzione ai problemi politico-militari dell'Estremo Oriente: la guerra contro il Giappone e le posizioni di tutti i Paesi interessati a quell'area, dall'India all'“Indocina”, alla Cina stessa e all'Unione sovietica, che solo l'8 agosto 1945, dopo il bombardamento atomico americano su Hiroshima, avrebbe dichiarato guerra all'impero nipponico. Anche l'Italia il 12 luglio 1945 dichiarò guerra al Giappone. Ma il conflitto mondiale non era tra ideali e ideologie bensì tra potenze. L'“Europa” nacque su basi del tutto diverse dallo “spirito di Saretto”.
Aldo A. Mola


DIDASCALIA La copertina del volume di Marta Arrigoni (martasaretto@libero.it), punto di arrivo di decenni di studio e valida base in vista dell'80° dell'accordo di Saretto.
Il 19 maggio 1945 il socialista Giuseppe Saragat, ambasciatore a Parigi, avvertì il ministro degli Esteri Alcide De Gasperi: “La situazione è tutt'altro che rassicurante e tale da preoccupare coloro che auspicano nell'interesse della patria e del pacifico assetto dell'Europa un'intesa sempre più cordiale tra l'Italia e la Francia (…) La Francia vuole annettersi gli alti bacini della Roia, Vesubia, Tinea, il massiccio dello Chaberton, i colli del Moncenisio e del Piccolo San Bernardo. Ma la Francia vuol annettersi soprattutto le valli del Pellice e la valle d'Aosta”, previo plebiscito da celebrare “nella scia di un esercito di occupazione”. L'ultima parola toccò al Trattato di pace del 10 febbraio 1947, nettamente sfavorevole all'Italia su entrambi i confini dell'Italia, con la Francia e, peggio, con la Jugoslavia, in spregio al suo concorso alla guerra contro la Germania di Hitler e i suoi alleati interni e internazionali, sia come Stato co-belligerante, sia con il CorpoVolontari della Libertà.


DE GASPERI L'ONNIPOTENTE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 26 marzo 2023 pagg. 1 e 6.


Alcide De Gasperi (o anche Degasperi) (Pieve Tesino, 3 aprile 1881 - Sella di Val Sugana, 18 agosto 1954) ritratto da Attilio Melo (1954).    Per una serie di congiunzioni astrali, primo e unico nella storia d'Italia nel giugno 1946 racchiuse nelle mani il potere supremo. Già segretario della Democrazia cristiana sino all'aprile 1946 (il partito dal maggior seguito elettorale, come emerse nelle elezioni comunali della primavera 1946), ministro degli Esteri dal 18 giugno 1944, presidente del Consiglio dei ministri in successione a Ferruccio Parri l'11 dicembre 1945, su designazione del consiglio dei ministri (formulata la sera del 10 giugno 1946) alle 0.30 del 13 giugno accettò di esercitare le funzioni di Capo dello Stato in manifesta contrapposizione al legittimo sovrano, Umberto II di Savoia. Per non suscitare un conflitto tra monarchici e repubblicani dalle conseguenze imprevedibili, alle 16 dello stesso 13 giugno il Re lasciò l'Italia per il Portogallo denunciando il “gesto rivoluzionario” del “suo” governo. De Gasperi replicò in termini inusitatamente aspri e ai giornalisti dichiarò di “essere” il Capo dello Stato, suscitando perplessità anche Oltre Tevere.    Sino all'elezione del napoletano Enrico De Nicola, monarchico e liberale, a Presidente provvisorio della Repubblica italiana, lo statista concentrò i poteri di Capo provvisorio dello Stato, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Il Verbale dell'insediamento del suo successore lascia una spessa coltre di dubbi sulla legittimità dell'esercizio delle funzioni dei giorni 13-18 giugno. L'edizione straordinaria della “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana” (1° luglio 1946) infatti recita: “Oggi alle ore 13 in una sala di Montecitorio (non al Quirinale, né al Viminale, all'epoca sede del governo, NdA) ha avuto luogo l'insediamento del Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola al quale l'On. De Gasperi ha trasmesso i poteri di Presidente della Repubblica da lui esercitati, nella sua qualità di presidente del Consiglio, dal giorno dell'annuncio dei risultati definitivi del referendum istituzionale” (18 giugno, NdA): una formula arzigogolata ed elusiva dei “fatti” nella loro oggettiva sequenza. Alla cerimonia presenziarono il presidente della Costituente, Giuseppe Saragat, i vicepresidenti Terracini, Micheli, Conti e Pecorari, tutti i Ministri, l'ultimo presidente della Camera, Vittorio Emanuele Orlando (sconfitto da De Nicola nella competizione per la successione a De Gasperi) e l'ex presidente della Consulta Nazionale, Carlo Sforza, Collare della SS. Annunziata ed ex senatore del regno, animosamente repubblicano.   Come ha scritto Francesco Malgeri, uno dei suoi biografi, “De Gasperi non deluse le attese di Togliatti”. Lo confermano i saggi di Aldo G. Ricci, Aspettando la Repubblica. I governi della transizione, 1943-1946 (ed. Donzelli) e Il compromesso costituente. 2 giugno 1946-18 aprile 1948 (ed. Bastogi). Ne scrisse anche Nico Perrone in Il realismo politico di De Gasperi (BastogiLibri, 2022). Fra il 13 e il 19 giugno (giorno nel quale la “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana” pubblicò il cambio della forma dello Stato per l'esito del referendum istituzionale, senza bisogno di speciale “proclamazione”) le sentenze e gli atti con efficacia giuridica (per es. gli atti notarili) continuarono a essere emanati “in nome del Re”.    All'indomani delle dimissioni del governo comprendente esponenti dei sei partiti del Comitato centrale di liberazione nazionale (DC, PCI, PSIUP, Democrazia del Lavoro, Partito d'azione, Democrazia del lavoro: l'“esarchia” di cui ha scritto Giulio Andreotti in Concerto a sei voci), il 15 luglio 1946 De Gasperi formò una nuova coalizione: democristiani, comunisti, socialisti e Partito repubblicano (guidato da Randolfo Pacciardi), cui seguì un “tripartito DC, PCI, PSI e, dopo il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti d’America, il quadripartito centrista (DC, PSLI -cioè Partito socialista dei laboratori italiani, futuro Partito socialista democratico-, PRI, Partito liberale) durato (con vari cambi e diverse prospettive; persino un monocolore con appoggio esterno del Partito nazionale monarchico) sino alle elezioni del 1953, che segnarono il repentino crepuscolo dello statista trentino. Negli otto anni scarsi tra l'11 dicembre 1945 e il 2 agosto 1953 De Gasperi presiedette nove diversi governi, dalla composizione cangiante. Alla sua morte l'Italia era in ripresa economica ma le prospettive politiche rimanevano incerte. Si risolsero dieci anni dopo (4 dicembre 1963) con il primo governo organico di centro-sinistra (DC, PRI, PSDI e PSI) presieduto da Aldo Moro, con Nenni vicepresidente, Saragat agli Esteri, Paolo Emilio Taviani all'Interno e Andreotti alla Difesa.
Didascalia
Dall'età monarchica alla Repubblica
   Non vi sono sondaggi recenti su chi sia stato l'uomo più “potente” in Italia dall'Unità a oggi. Possiamo però immaginare le risposte. Probabilmente a nessuno vengono in mente i nomi dei re. Sovrano di un'Italia ancora tutta da fare, Vittorio Emanuele II ebbe un sacco di guai con ministri taccagni, corrivi a ridurne la “lista civile”, cioè gli spiccioli a disposizione di chi aveva fatto l'Italia. Lo stesso accadde per Umberto II e Vittorio Emanuele III. In tutti i momenti critici anche quest'ultimo, talora a torto dipinto come reazionario, non decise mai la formazione di un governo se non dopo aver consultato i presidenti delle Camere e i maggiorenti dei partiti. Anche meno imperioso fu Umberto II. Rispettosissimo dello statuto, da Luogotenente del regno (5 giugno 1944-9 maggio 1946) il Principe di Piemonte rimase impigliato nella rete del Comitato centrale di liberazione nazionale, che gli impose la firma di decreti i cui contenuti e i cui obiettivi non condivideva affatto. Ma non aveva alternative. Può sembrare allora scontato concludere che l'uomo più “potente” sia stato Benito Mussolini, mascella volitiva, pupille mobili e minacciose e gesto marziale sino alla parodia di se stesso. Quando il 30 ottobre 1922 egli fu incaricato di formare il governo di coalizione costituzionale un quotidiano di provincia lo salutò “Erculeo scopatore”, non per involontario accenno a sue “intemperanze” ma auspicando che spazzasse via la putredine dei partiti borghesi: un progetto che accomunava fascisti, estrema sinistra, nonché partiti e correnti anti-sistema, come i repubblicani e clericali anti-sabaudi perché anti-unitari. Però, come sappiamo, allo scoccare dell'ora fatale, il 25 luglio 1943 a Vittorio Emanuele III bastarono venti minuti per revocarlo da primo ministro e sostituirlo con Pietro Badoglio.
   Nelle prime settimane il maresciallo d'Italia e duca di Addis Abeba apparentemente governò con pugno di ferro. Da un canto si concesse anche alcuni eccessi, dall'altro si mosse a passi felpati su terreni più impervi. Non esitò a sciogliere il Partito nazionale fascista, il Gran consiglio, popolato da gerarchi per i quali provava ricambiata antipatia, e persino la Camera dei fasci e delle corporazioni: un azzardo statutariamente sconsiderato, perché paralizzò il Senato, di cui era componente, ma poco assiduo anche per via dei suoi impegni diplomatici e militari. Lasciò invece qual era la Milizia volontaria di sicurezza nazionale. Si limitò a cambiarne i vertici e a imporre che sostituissero i fasci con le stellette del regio esercito. D'altronde nei giorni fatidici essa non aveva mosso paglia in difesa del “duce”. Non che la Milizia fosse un puro e semplice “dopolavoro partitico”, però poteva impensierire. Il suo scioglimento fu decretato nel dicembre 1943, quando era in corso la riorganizzazione delle regie forze armate e quindi, se anche gli anglo-americani non avessero insistito per fare chiarezza, la sua sopravvivenza risultava ormai inammissibile. Poteva costituire, o almeno sembrare, una sorta di potenziale quinta colonna del neonato Partito fascista repubblicano. Tanto più che il 27 ottobre 1943 in veste di Capo dello Stato nazionale repubblicano (una delle tante denominazioni che precorsero la Repubblica sociale italiana) Mussolini aveva decretato lo scioglimento delle Forze armate regie e la costituzione di quelle repubblicane.
   La fantasiosa caccia all'uomo più potente nella storia d'Italia può quindi spingersi a passare rassegna i presidenti del Consiglio e/o segretari dei partiti susseguitisi al governo dopo l'avvento della repubblica, sino, per esempio ad Aldo Moro (ma sappiamo quale fu la sua tragica fine), Giulio Andreotti (che però subì un processo devastante e mancò l'elezione al Quirinale, considerata naturale approdo di una lunga e prestigiosa carriera) e Bettino Craxi, che morì esule ad Hammamet... Di quelli seguenti sono note ascesa e caduta, fortune e sventure, quasi la mitologica “invidia degli dei” si accanisca sui vertici del governo italiano senza distinzione tra “politici” e “tecnici” incaricati di reggere la barra del governo in mari sempre più tempestosi: da Lamberto Dini a Mario Monti e Mario Draghi. A lungo venerato quale salvatore della patria, contro tutte le più scontate previsioni anche “SuperMario” si vide sbarrata l'elezione alla presidenza della Repubblica e, dopo aver condotto al voto un Paese litigioso, è divenuto bersaglio della peggiore tra le critiche possibili: il silenzio.
De Gasperi: il borghese Onnipotente assoluto 
   Eppure l'Italia ebbe per qualche settimana al vertice un Onnipotente assoluto: Alcide Degasperi o, come nell'uso prevalente, De Gasperi (Pieve Tesino, Trento, 3 aprile 1881-Sella di Valsugana, Borgo Valsugana, 19 agosto 1954). Il  suo “caso” fu talmente anomalo che di rado viene evocato, quasi un brutto ricordo, un precedente scomodo. Anche chi scrive scordò di menzionarlo nel novero dei presidenti della Repubblica, scritto a commento del libro di Tito Lucrezio Rizzo su “I Capi dello Stato dalla monarchia alla repubblica, 1848-1922 (ed. Herald).
   Non solo per ammenda, merita ricordare come il tutto accadde nei giorni convulsi seguiti al referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946.
   In un articolo pubblicato nel glorioso mensile fiorentino “Il Ponte” ne scrisse Mario Bracci, uno dei protagonisti di quei giorni:“Storia di una settimana, 7-12 giugno 1946”. Giurista di valore, militante del Partito d'azione Bracci vergò di suo pugno la bozza di una legge di due soli articoli per segnare la svolta: “art. 1: Dalle ore 0 del giorno 11 giugno le funzioni (cancellato: i poteri) del Capo dello Stato sono (cancellato: saranno) esercitati dall'on. Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio in carica nel giorno (cancellato: il gior) delle elezioni 2 giu. 1946; art. 2: L'esercizio delle funzioni di Capo dello Stato (cancellato: spetta) da parte del Presidente del Consiglio de Gasperi cesserà all'atto dell'elezione del Capo provvisorio dello Stato che sarà fatta dall'Assemblea Costituente secondo la norma dell'art. 2 del D.leg. Lgt (decreto legge luogotenenziale) 16 marzo 1946, n. 98”, ovvero una “legge” emanata da Umberto II.
   Il documento non figura nei “Verbali del Consiglio dei ministri” curati da Aldo G. Ricci (ed. Poligrafico dello Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Governo de Gasperi, vol. VI, 2) comprendente la trascrizione dei verbali con formidabile apparato critico: opera di riferimento indispensabile. Prima di arrivare al punto, va annotato che, a volte dettagliati su specifiche dichiarazioni dei partecipanti, i Verbali non ricalcano esattamente lo svolgimento dei lavori ma ne offrono ampia sintesi. Ma non deve stupire. A volte Francesco Crispi e Giovanni Giolitti sintetizzarono in poche righe di proprio pugno i lunghissimi lavori dei Consigli da loro presieduti. Al confronto, quelli del governo De Gasperi pubblicati da Ricci sono molto più ricchi. Vale per la seduta del 23 maggio 1946, l'ultima prima delle votazioni del 2-3 giugno sulla forma dello Stato e per l'elezione della Costituente. Essa iniziò alle 10.30, venne sospesa alle 14.30, riprese alle 18 e terminò alle 22.30. Ma il verbale conta appena sedici pagine a stampa. Nel suo corso De Gasperi dovette assentarsi e, non si sa con quale criterio, fu sostituito una tantum da Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano e ministro di Grazia e giustizia. In tale veste “il Migliore” (come Togliatti venne detto lasciando tra parentesi le sue “imprese” a Mosca, in Spagna e non solo) aveva illustrato poco prima lo schema di un decreto legge sull'indipendenza della magistratura mirante a “mantenere una distinzione fra Magistrato requirente e Magistrato giudicante”. Un tema sempre attuale.
La disputa sul Referendum e il...salto nel buio
   Il Consiglio dei ministri tornò a riunirsi l'8 giugno. Prese atto delle contestazioni sui dati del referendum. Il liberale Giovanni Cassandro di concerto con giuristi dell'Università di Padova (Agostino Padoan e altri) chiedeva che il governo desse conto anche dei voti nulli e che l'esito finale venisse calcolato sulla base dei votanti, non dei soli voti validi, come invece stava facendo il ministro dell'Interno Giuseppe Romita. Di passaggio questi ammise che a quel momento, cinque giorni dopo la chiusura delle urne, mancavano ancora i verbali di 22 delle 32 circoscrizioni elettorali. Molti dei presenti, però, avevan fretta di arrivare alle conclusioni: diroccare la monarchia.Togliatti propose di intestare subito i decreti “Repubblica italiana” e che le sentenze venissero pronunciate “in nome del popolo italiano” anziché “del Re”. Ma il liberale Leone Cattani obiettò che il governo non aveva la competenza per farlo. Cozzò contro le repliche di Togliatti, Cianca, Brosio (liberale repubblicano, ministro della Guerra), Cevolotto, Gullo (a suo dire la repubblica era stata “dichiarata il 2 giugno”) e Bracci, secondo il quale il potere esecutivo doveva immediatamente “passare al Capo provvisorio dello Stato e al Consiglio dei ministri”.
   Alle 20 del 10 giugno il governo si riunì sotto la botta della Corte Suprema di Cassazione. Alle 18 nella Sala della Lupa di Montecitorio il presidente Giuseppe Pagano aveva letto i risultati provvisori dello scrutinio e convocato una altra adunanza (l'ultimo giorno utile ope legis era il 18) e, in cauda venenum, annunciato che in quella sede avrebbe indicato “il numero complessivo degli elettori votanti” (non dei soli voti validi) e quello dei “voti nulli”. Dei quali però (schede bianche, annullate, contestate...) sino a quel momento la “macchina” del Ministero dell'Interno non si era minimamente occupata. 
   Iniziarono giorni affannati: occorreva esaminare oltre 20.000 ricorsi su circa 35.000 seggi, una montagna di obiezioni e, soprattutto, conteggiare davvero tutti i voti. Impossibile risalire alle schede. Togliatti abilmente mise le mani avanti: forse erano già state distrutte e comunque non erano a Roma. Bisognava esaminare i verbali. Un'impresa gigantesca e dopotutto inutile. L'esito della verifica doveva essere comunicato nell'“adunanza” fissata dal presidente Giuseppe Pagano per le 18 del 18 giugno. La partita, però, non era “giuridica”. Era politica. E così venne risolta. La notte dell'11, subito dopo l'approvazione del “progetto” Bracci, concitatamente il governo decretò festivo il martedì 12. Nessuno se ne accorse. Nella notte tra il 12 e il 13 il governo varcò il Rubicone. Decise di conferire al presidente del Consiglio le funzioni di Capo dello Stato. Leone Cattani si oppose. Ma fu l'unico. Tanti altri plaudirono il quartetto di flauti e violini De Gasperi, Romita, Togliatti e Nenni che, dopo febbrili contatti con il Quirinale, decise il conferimento dell'esercizio dei poteri sovrani a De Gasperi. Questi, pur con animo turbato come si arguisce dalla risposta data a Epicarmo Corbino che gliene chiese conto, accettò. Perché? Quali fossero le sue convinzioni e se abbia votato monarchia o repubblica rimangono un mistero. Però il “suo” partito  (altra cosa dagli elettori) era per il “cambio”. Il Consiglio nazionale a larga maggioranza. I giovani quasi all'unanimità. Tra i ministri democristiani Mario Scelba era repubblicano intransigente. D'altra parte, egli stesso era legato a filo doppio al patto del CLN. Accipit. Così, per volere del Consiglio dei ministri non eletto dagli italiani ma nominato dal re, Alcide De Gasperi assunse tutti i poteri. Già deputato alla Dieta di Vienna, da capogruppo del Partito popolare alla Camera dei deputati il 16-17 novembre 1922 aveva propugnato il voto a favore del governo Mussolini. Acqua passata. Un po' torbida ma remota. Il primo a non farci caso nel 1946 era il ministro per l'Industria e il Commercio, Giovanni Gronchi, che nel governo Mussolini era stato sottosegretario all'Industria (titolare Teofilo Rossi di Montelera) e aveva dinnanzi a sé un luminoso futuro.
   Nelle due sedute presiedute da De Gasperi nella curiosa doppia veste di Capo provvisorio dello Stato e di presidente del Consiglio (quanto basta per non volere alcuna riforma della Carta vigente) il governo, assente Cattani, varò l'amnistia già deliberata da Umberto II (furto con destrezza?), “soppresse” il Senato del regno (ma la corte dei conti rifiutò di registrare il decreto perché eccedeva le competenze dell'esecutivo), ideò l'ANAS, destituì di ogni fondamento molte norme della “cosiddetta”, “sedicente” o “pseudo” Repubblica sociale (ma senza retroattività della loro “applicazione”) e proclamò festa della Repubblica l'11 giugno: proprio il giorno nel quale non era avvenuto nulla di significativo. La Festa venne poi fissata il 2 giugno, inizio della votazione, anziché il 19, giorno nel quale la “Gazzetta Ufficiale” dette notizia della sua nascita. Nel frattempo (e se ne parlò nella seduta del 21 giugno) incombevano la questione dei confini e la sorte delle colonie, di cui De Gasperi era ministro. 
   Vicende che meritano di essere meglio ricordate.
Aldo A. Mola 

DIDASCALIA: Alcide De Gasperi (o anche Degasperi) (Pieve Tesino, 3 aprile 1881 - Sella di Val Sugana, 18 agosto 1954) ritratto da Attilio Melo (1954).
   Per una serie di congiunzioni astrali, primo e unico nella storia d'Italia nel giugno 1946 racchiuse nelle mani il potere supremo. Già segretario della Democrazia cristiana sino all'aprile 1946 (il partito dal maggior seguito elettorale, come emerse nelle elezioni comunali della primavera 1946), ministro degli Esteri dal 18 giugno 1944, presidente del Consiglio dei ministri in successione a Ferruccio Parri l'11 dicembre 1945, su designazione del consiglio dei ministri (formulata la sera del 10 giugno 1946) alle 0.30 del 13 giugno accettò di esercitare le funzioni di Capo dello Stato in manifesta contrapposizione al legittimo sovrano, Umberto II di Savoia. Per non suscitare un conflitto tra monarchici e repubblicani dalle conseguenze imprevedibili, alle 16 dello stesso 13 giugno il Re lasciò l'Italia per il Portogallo denunciando il “gesto rivoluzionario” del “suo” governo. De Gasperi replicò in termini inusitatamente aspri e ai giornalisti dichiarò di “essere” il Capo dello Stato, suscitando perplessità anche Oltre Tevere.
   Sino all'elezione del napoletano Enrico De Nicola, monarchico e liberale, a Presidente provvisorio della Repubblica italiana, lo statista concentrò i poteri di Capo provvisorio dello Stato, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Il Verbale dell'insediamento del suo successore lascia una spessa coltre di dubbi sulla legittimità dell'esercizio delle funzioni dei giorni 13-18 giugno. L'edizione straordinaria della “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana” (1° luglio 1946) infatti recita: “Oggi alle ore 13 in una sala di Montecitorio (non al Quirinale, né al Viminale, all'epoca sede del governo, NdA) ha avuto luogo l'insediamento del Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola al quale l'On. De Gasperi ha trasmesso i poteri di Presidente della Repubblica da lui esercitati, nella sua qualità di presidente del Consiglio, dal giorno dell'annuncio dei risultati definitivi del referendum istituzionale” (18 giugno, NdA): una formula arzigogolata ed elusiva dei “fatti” nella loro oggettiva sequenza. Alla cerimonia presenziarono il presidente della Costituente, Giuseppe Saragat, i vicepresidenti Terracini, Micheli, Conti e Pecorari, tutti i Ministri, l'ultimo presidente della Camera, Vittorio Emanuele Orlando (sconfitto da De Nicola nella competizione per la successione a De Gasperi) e l'ex presidente della Consulta Nazionale, Carlo Sforza, Collare della SS. Annunziata ed ex senatore del regno, animosamente repubblicano.
  Come ha scritto Francesco Malgeri, uno dei suoi biografi, “De Gasperi non deluse le attese di Togliatti”. Lo confermano i saggi di Aldo G. Ricci, Aspettando la Repubblica. I governi della transizione, 1943-1946 (ed. Donzelli) e Il compromesso costituente. 2 giugno 1946-18 aprile 1948 (ed. Bastogi). Ne scrisse anche Nico Perrone in Il realismo politico di De Gasperi (BastogiLibri, 2022). Fra il 13 e il 19 giugno (giorno nel quale la “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana” pubblicò il cambio della forma dello Stato per l'esito del referendum istituzionale, senza bisogno di speciale “proclamazione”) le sentenze e gli atti con efficacia giuridica (per es. gli atti notarili) continuarono a essere emanati “in nome del Re”.
   All'indomani delle dimissioni del governo comprendente esponenti dei sei partiti del Comitato centrale di liberazione nazionale (DC, PCI, PSIUP, Democrazia del Lavoro, Partito d'azione, Democrazia del lavoro: l'“esarchia” di cui ha scritto Giulio Andreotti in Concerto a sei voci), il 15 luglio 1946 De Gasperi formò una nuova coalizione: democristiani, comunisti, socialisti e Partito repubblicano (guidato da Randolfo Pacciardi), cui seguì un “tripartito DC, PCI, PSI e, dopo il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti d’America, il quadripartito centrista (DC, PSLI -cioè Partito socialista dei laboratori italiani, futuro Partito socialista democratico-, PRI, Partito liberale) durato (con vari cambi e diverse prospettive; persino un monocolore con appoggio esterno del Partito nazionale monarchico) sino alle elezioni del 1953, che segnarono il repentino crepuscolo dello statista trentino. Negli otto anni scarsi tra l'11 dicembre 1945 e il 2 agosto 1953 De Gasperi presiedette nove diversi governi, dalla composizione cangiante. Alla sua morte l'Italia era in ripresa economica ma le prospettive politiche rimanevano incerte. Si risolsero dieci anni dopo (4 dicembre 1963) con il primo governo organico di centro-sinistra (DC, PRI, PSDI e PSI) presieduto da Aldo Moro, con Nenni vicepresidente, Saragat agli Esteri, Paolo Emilio Taviani all'Interno e Andreotti alla Difesa.
   Aldo Alessandro Mola


162 ANNI DI CAPI DELLO STATO
NELL'OPERA DI TITO LUCREZIO RIZZO


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 19 marzo 2023 pagg. 1 e 6.


La copertina del Opera di Tito Lucrezio Rizzo, Il Capo dello Stato dalla monarchia alla Repubblica (1848-2022), Roma, Herald Editore. I proventi derivanti dalla vendita del libro sono devoluti al progetto di educazione alla legalità denominato “Carcere. Se lo conosci lo eviti”, ideato dalla cooperativa sociale Infocarcere per la prevenzione del bullismo tra i giovani e nelle scuole.
Didascalia
  Sommo Sacerdote
Il Capo dello Stato? Solitudine e immersione nel corpo vivo della cittadinanza.
Ne abbiamo in memoria visioni icastiche. Il presidente Sergio Mattarella fermo dinnanzi alle bare dei migranti a Cutro o abbracciato dalla folla nelle centinaia di visite alle città d’Italia. Il Presidente che sale la gradinata dell'Altare della Patria cammina sulle orme di Vittorio Emanuele III che il 2 novembre 1921 seguì a piedi la salma del Soldato Ignoto dalla Stazione Termini alla Basilica di Santa Maria degli Angeli. Il Capo dello Stato è Sommo Sacerdote del rito nel quale quotidianamente si riconoscono moltitudini di cittadini che vedono, ricordano e sentono la Patria come “religione”: legame che è entusiasmo e cordiglio. All'insediamento egli giura, come facevano i Re, presenti la Casa e il Parlamento. Fedeltà allo Statuto albertino un tempo. Alla Costituzione repubblicana poi.
   La complessità e, al tempo stesso, la genuina “semplicità” del Presidente della Repubblica sono illustrate da Tito Lucrezio Rizzo in “Il Capo dello Stato dalla monarchia alla repubblica, 1848-1922” (Herald Editore). Opus magnum, il volume è punto di arrivo di ventennale elaborazione che unisce dottrina giuridica, chiarezza espositiva in lingua italiana purissima (pregio ormai raro) e cognizione personale conseguita nei decenni di servizio al Quirinale che lo hanno veduto infine Consigliere Caposervizio per la Sicurezza della Presidenza della Repubblica.
   L'opera inanella i profili dei presidenti (una tantum merita ricordarli nella loro sequenza: Enrico De Nicola, Luigi Einaudi, Giovanni Gronchi, Antonio Segni, Giuseppe Saragat, Giovanni Leone, Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella) non attraverso aneddoti da rotocalco ma individuando il filo conduttore che ne ha ispirato e retto l'azione di magistrati supremi dello Stato.
Risalire la china
Un obiettivo, questo, tutt’altro che agevole da conseguire all'indomani della seconda guerra mondiale, della lacerazione del Paese in regimi contrapposti per alleanze diplomatico-militari e ideologiche e del referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946. I voti a favore della monarchia non furono molto inferiori a quelli favorevoli al cambio istituzionale: circa 10.700.000 contro 12.700.000, con un milione e mezzo di schede bianche e un altro milione e mezzo di cittadini esclusi dal voto: Venezia Giulia e Istria, Bolzano, i militari ancora prigionieri di guerra, quelli privati del diritto di voto politico per motivi politici o non raggiunti dagli uffici elettorali operanti in condizioni oggettive oggi inimmaginabili.
   Toccò dunque proprio ai primi Presidenti riannodare i fili dell'Unità. Un compito improbo. Non tutti scommettevano fosse possibile in un mondo dal febbraio 1946 avviato alla “guerra fredda”. Eppure ce la fecero. Dal 1869, regnante Vittorio Emanuele II di Savoia (1820-1878), l'Italia ebbe il principe di Napoli (poi Vittorio Emanuele III), che poi conferì al figlio Umberto (1904-1983) il titolo di principe di Piemonte. La Repubblica esordì con il napoletano Enrico De Nicola, già presidente della Camera dei deputati all'ascesa di Benito Mussolini a capo del governo, e con il piemontese Luigi Einaudi, già ministro e governatore della Banca d'Italia. Sud e Nord. Liberali, monarchici e senatori del regno, entrambi si spesero per assicurare la continuità dello Stato a prosecuzione dell'opera svolta dai Re d'Italia dall'origine sino al tempestoso dopoguerra. Come bene spiega il prof. Rizzo, si valsero di Uffici che, malgrado la povertà dei tempi, mostrarono fedeltà alla missione e orgoglio di servire la Patria nei suoi “corpi” (diplomazia, forze armate, magistratura, amministrazione pubblica statale e locale...) per la ricostruzione del Paese. Il “miracolo italiano” degli anni seguenti non cadde dal cielo. Fu opera quotidiana di una dirigenza niente affatto improvvisata e di italiani, molti dei quali migrarono verso regioni più organizzate o cercarono all'estero, sino nell'America meridionale, il lavoro che in Italia ancora non c'era.
Cultura e Uffici
Tra i perni della vita pubblica, come argomenta l'Autore, vi fu l'attenzione dedicata dai Presidenti a istruzione e ricerca scientifica. Nel 1946 l'Italia contava ancora una massa impressionante di analfabeti. L'esercizio del diritto di voto come libera scelta e partecipazione civile comportava cognizione personale. Di lì l'appello martellante dei capi dello Stato a promuovere l'istruzione primaria, protrarre l'obbligo scolastico effettivo (conquista assai tardiva), espandere la secondaria superiore e le Università nella fiducia (non sempre assecondata nei fatti) di conciliare la moltiplicazione degli Atenei con qualità e indipendenza della docenza da condizionamenti partitici e clientelari. 
   Ai profili dei Presidenti effettivi il prof. Rizzo accompagna l’illustrazione di due figure di pregio: Cesare Merzagora, “supplente” nella lunga malattia di Antonio Segni, colpito da ictus cerebrale in circostanze politicamente drammatiche, e il Segretario generale della presidenza della Repubblica Gaetano Gifuni, che ebbe il merito di propiziare l'opera dei capi dello Stato e bene rappresenta la falange di quanti, nel corso dei decenni, si sono riconosciuti nel “servizio”. All'origine, argomenta Tito Lucrezio Rizzo con un denso capitolo di storia istituzionale, vi fu la transizione dalla monarchia al nuovo ordinamento avviata da Luigi Einaudi con Ferdinando Carbone e, ancor più, con Nicola Picella, che (egli annota) “si avvalse prevalentemente del personale proveniente dal disciolto Ministero della Real Casa, il che consentì di non disperdere preziose esperienze professionali, acquisite da quanti conoscevano assai bene il funzionamento della struttura operante nell'ambito della Dotazione”. Alle spalle vi erano gli anni del “primato della legge morale nell'incertezza di quella civile, dal crepuscolo della Monarchia all'alba della Repubblica”, da decenni anni al centro della sua meditazione giuridica, storiografica e filosofica.
   Al magistero, impartito anche da cattedre della “Sapienza” e di “Tor Vergata” di Roma, e allo studio dei Capi dello Stato Tito Rizzo ha accompagnato l'analisi  della legislazione sociale della Nuova Italia, il volume su “Le Ragioni del diritto” (tradotto anche in cinese) e i due robusti saggi sull'etica nelle istituzioni più amate dagli italiani e “Alle fonti dell'etica. Religioni, diritto, politica, scienza, economia” (Herald Editore, 2022). Nei suoi lavori la profondità del pensiero si accompagna al nitore dell'esposizione, scevra dalla retorica, alimentata dal profondo “credo” nei valori fondanti della libertà e della fratellanza umana. Non sono parole al vento, formulette d'occasione, ma cespite della “speranza”: una virtù teologale senza la quale si precipiterebbe nel cinismo e nella disgregazione della società. Vi si avverte l'alta lezione del suo Maestro, Giovanni Cassandro, tra le voci più schiette del liberalismo italiano.
Il volume è stato presentato nella prestigiosa Biblioteca Casanatense di Roma (via Sant'Ignazio 52) per iniziativa dell’Associazione Culturale Visioni e Illusioni, con interventi del prof. Ernesto Lupo, primo presidente emerito della Corte di Cassazione, e dei professori Paolo Leone (che ha rievocato la formazione giuridica e il ruolo politico di suo padre, Giovanni, dalla Costituente alla presidenza del Consiglio e della Repubblica), Alessandro Acciavatti e Silvio Berardi, autore della biografia di Cesare Merzagora. Con plauso dei partecipanti, il giureconsulto Ernesto Lupo ha evidenziato la pochezza dottrinale e concettuale delle proposte di elezione diretta del presidente della Repubblica.
Didascalia
Umberto II: continuità dello Stato in un'Italia che è anche “il Mondo”
Per congiunzione astrale, dopo precedenti apprezzate edizione  e quasi quattrocento articoli pubblicati in riviste prestigiose quali “Nuova Antologia” e “Libro Aperto”, il volume di Tito Lucrezio Rizzo ha assunto la veste definitiva nel quarantennale della morte di Umberto II di Savoia, quarto Re d'Italia. In tono sommesso esso costituisce omaggio alla memoria di un sovrano che si trovò sulle spalle il “brut fardèl” della Corona in una condizione tragica. Tenuto all'oscuro delle complesse trattative condotte dal governo italiano per ottenere che gli anglo-americani concedessero la “resa senza condizioni” sottoscritta a Cassibile il 3 settembre 1943, la mattina del 9 il principe ereditario lasciò Roma alla volta di Pescara con il Re, la Regina, il capo del governo Pietro Badoglio e i vertici militari per mettere al sicuro lo Stato. Combattuto dal dubbio sull'opportunità di rientrare subito nella Capitale, si attenne al dovere che gli veniva dal rango dinastico e militare: “Obbedisco”, come il Garibaldi narrato da Aldo G. Ricci. Conobbe la diffidenza dei vincitori e con condotta specchiata ne guadagnò la stima anche per il valore militare “sul campo” che gli meritò due prestigiose onorificenze. Da Luogotenente del Regno, con esercizio di tutti i poteri dal 5 giugno 1944 al 9 maggio 1946, e poi da Re fu apprezzato da statisti quali il premier britannico Winston Churchill e fugò le riserve di Benedetto Croce nei confronti della Casa. All'abdicazione e alla partenza dei geniori per l'Egitto, una decisione assunta all'interno della Famiglia, con un faticoso periplo da un capo all'altro d'Italia Umberto II non perorò la causa della Dinastia ma mostrò il volto della Ricostruzione possibile, da fondare sulla pacificazione delle coscienze. Perciò promise un referendum confermativo della nuova carta costituzionale in caso di vittoria della monarchia nel plebiscito del 2-3 giugno 1946. All'indebita assunzione delle funzioni di capo dello Stato da parte di Alcide De Gasperi alle 0.30 del 13 giugno, per scongiurare la contrapposizione tra due sovrani di uno stesso Stato, Umberto II si offrì alla Storia. Lasciò l'Italia da Re deplorando il “gesto rivoluzionario”, un vulnus lacerante che egli concorse a sanare nei trentasette anni d'esilio raccomandando a tutti, a cominciare dai monarchici, “Italia innanzi tutto”.
   Partendone, sapeva di lasciare alla Patria uomini di specchiato talento che, liberi dal giuramento prestatogli, avrebbero servito lo Stato d'Italia.
   Con altrettanta forza evocativa il volume di Tito Lucrezio Rizzo fa intendere   al lettore sagace quanto è indispensabile per comprendere la complessità della storia d'Italia dalla sua nascita a oggi e agli anni a venire. A differenza degli altri Stati d'Europa (e non essi soli), la sua capitale racchiude al proprio interno uno Stato sovrano, la Città del Vaticano, che siede in tutte le Organizzazioni internazionali, a cominciare dall'ONU. La Chiesa cattolica apostolica romana è retta dal successore dell'Apostolo Pietro, martirizzato in Roma come ricordano le catene venerate in San Pietro in Vincoli. Il pontefice è però anche vescovo di Roma. Universalità e radicale identità con la Città Eterna costituiscono un unicum irripetibile.
   Sempre per congiunzione astrale la pubblicazione del volume di Rizzo ci ricorda l'imminenza del Giubileo, pegno di dialogo non solo tra le religioni abramitiche ma tra “tutti gli uomini di buona volontà”, sollecitati dalla meditazione sulla storia a “deporre i calzari”, a lasciare alle spalle quanto divide e a valorizzare quotidianamente e senza riserve quanto può unire. Nelle pagine di Tito Rizzo la riflessione sul Capo di uno Stato diviene dunque speculum della necessità delle Istituzioni, fondamento irrinunciabile della libertà dei cittadini.
Aldo A. Mola

Didascalia: 
1- La copertina del Opera di Tito Lucrezio Rizzo, Il Capo dello Stato dalla monarchia alla Repubblica (1848-2022), Roma, Herald Editore. I proventi derivanti dalla vendita del libro sono devoluti al progetto di educazione alla legalità denominato “Carcere. Se lo conosci lo eviti”, ideato dalla cooperativa sociale Infocarcere per la prevenzione del bullismo tra i giovani e nelle scuole.

2- Il volume è stato presentato nella prestigiosa Biblioteca Casanatense di Roma (via Sant'Ignazio 52) per iniziativa dell’Associazione Culturale Visioni e Illusioni, con interventi del prof. Ernesto Lupo, primo presidente emerito della Corte di Cassazione, e dei professori Paolo Leone (che ha rievocato la formazione giuridica e il ruolo politico di suo padre, Giovanni, dalla Costituente alla presidenza del Consiglio e della Repubblica), Alessandro Acciavatti e Silvio Berardi, autore della biografia di Cesare Merzagora. Con plauso dei partecipanti, il giureconsulto Ernesto Lupo ha evidenziato la pochezza dottrinale e concettuale delle proposte di elezione diretta del presidente della Repubblica.




MORTE E RESURREZIONE DI UN'ELITE
IL SENATO DEL REGNO 1939-1948


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 12 marzo 2023 pagg. 1 e 6.


   Un consesso di patrioti    
   Il 23 marzo 1939 Vittorio Emanuele III inaugurò la XXX legislatura pronunciando il rituale Discorso della Corona, concordato, come da prassi,  con il capo del governo, Benito Mussolini. La Camera di 400 deputati, eletta in blocco nel 1934 sulla base della legge 17 maggio 1928, era stata sostituita con quella “dei Fasci e delle Corporazioni”, parte di nomina, parte con elezione di secondo grado. I suoi componenti presero nome di “consiglieri”. Alle acclamazioni il re rispose movendo la destra, come soleva fare. Secondo il numero straordinario della “Gazzetta Ufficiale” rispose “salutando romanamente”. Non venne chiesta una rettifica. Ben altro premeva. Malgrado la conferenza a Monaco di Baviera (28 settembre 1938) avesse scongiurato la guerra, l'Europa era inquieta. “Per mettere in valore le risorse del suo Impero – disse il re-imperatore – l'Italia, pur non cullandosi nella illusione della pace perpetua, desidera che la pace duri il più a lungo possibile”. Al termine del suo discorso i parlamentari intonarono “gli inni della rivoluzione fascista” e, dopo l'uscita dei Reali, tributarono “un'ardente manifestazione di devozione e di affetto al Duce”. Se la Camera era totalmente asservita a Mussolini, il Senato ne era in gran parte succubo o latitante.
   Dopo un lustro di totale stasi, tra il 25 marzo e il 20 ottobre 1939 con tredici “infornate” vennero nominati 211 senatori, compresi quattro dignitari dell'Albania (la cui corona in aprile era stata assunta da Vittorio Emanuele III) per la categoria 20^, riservata a quanti avevano “con meriti e servizi eminenti illustrato la patria”. Quali?
   I nuovi patres erano “fascisti”? Alcuni sì, anche se neppure Mussolini spiegò mai quale fosse precisamente la “dottrina” del fascismo. Divise e rituali a parte, il fascismo nacque e rimase politeista. Perciò dilagò. I nuovi senatori erano nazionalisti, ex liberali, democratici, riformisti o semplicemente “uomini d'ordine” (industriali, agrari, banchieri, scienziati, artisti...) che si riconoscevano nel governo ed erano orgogliosi di entrare a far parte della Camera Alta dopo aver servito a lungo lo Stato. Erano diplomatici, militari, magistrati, accademici di chiara fama, che non avevano bisogno di alcuna tessera di partito. Tra i generali possono essere ricordati Angelo Tua, Valentino Bobbio, che intervenne presso Mussolini a favore del nipote Norberto, Melchiade Gabba, Raffaele Montuori, Guglielmo Nasi, l'ammiraglio Inigo Campioni, fucilato con Luigi Mascherpa su sentenza di un tribunale della Repubblica sociale italiana, e Ambrogio Clerici. Prevalenti furono i nuovi patres per la categoria 21^: Alberto Beneduce, socialista, antifascista, già oratore del Grande Oriente d'Italia, presidente dell'Istituto per la ricostruzione italiana, e Luigi Burgo (di confessione evangelica, a conferma che il Senato non accoglieva solo cattolici). Foltissima fu la rappresentanza dell'aristocrazia d'ogni regione: Giuseppe Asinari Rossillon di Bernezzo, Salvatore Denti Amari di Pirajno, Febo Borromeo d'Adda, Ugolino della Gherardesca, Luigi Arborio Mella di Sant'Elia, Alfredo Dentice di Frasso... Fascisti? Le loro biografie dicono tutt'altro. Erano patrioti, come Federico Baistrocchi, Arrigo Serpieri, Luigi Aldrovandi Marescotti, Ambrogio Bollati, Giorgio Emo Capodilista, Carlo Torlonia. Alcuni nuovi patres, come il massonofago Paolo Orano, vantavano molte genuflessioni al regime e al suo duce, ma costituivano una minoranza. Di diritto, di pensiero e di fatto in maggior parte erano anzitutto e soprattutto “uomini del Re”, come lo erano stati i presidenti della Camera Alta Tommaso Tittoni e Luigi Federzoni, che nelle lettere a Mussolini lo appellavano “Eccellenza” (in quanto capo del governo) anziché “duce”, che sapeva di partito. Nella seduta che il 16 maggio 1936 approvò l'istituzione dell'Impero mentre al banco della presidenza, a cominciare da Mussolini, con le mani alla cintola, erano tutti in camicia nera, i senatori l'avevano bianca, a eccezione di Giovanni Gentile e pochi altri.
  Scialuppa nella tempesta
Fiutato il vento, Mussolini mirò a imbrigliare il Senato. La sua presidenza fu conferita al bergamasco conte Giacomo Suardo (1883-1947), senatore per la categoria 21^, una sola legislatura da deputato e modesti incarichi governativi, prono al duce. La legge 19 gennaio 1939, n. 129 ridusse drasticamente le materie che richiedevano sedute plenarie delle Camere. Le altre furono competenza di Commissioni (nuova denominazione degli “Uffici”) con funzioni deliberanti (una mortificazione delle Assemblee, fatta propria dalla Repubblica). Le votazioni in aula divennero esclusivamente pubbliche e in molti casi si ridussero a chiassose “acclamazioni”. Con la dichiarazione di guerra (10 giugno 1940) i lavori delle Commissioni non ebbero più alcuna pubblicità. I senatori di nuova nomina giurarono dinnanzi all'Ufficio di Presidenza anziché in Aula. L'obiettivo del duce era chiaro: soffocare l'opposizione dei patres monarchici.
   Va peraltro aggiunto che Mussolini non svigorì solo le Camere ma anche il Gran consiglio del fascismo, “organo della rivoluzione”. Esso non fu più convocato dal 7 dicembre 1939 al 24 luglio 1943, quando approvò l'ordine del giorno Grandi-Federzoni-Bottai-De Marsico che “pregò il Re” di esercitare i poteri statutari sottraendo a Mussolini il comando delle forze armate.
   Il 20 ottobre 1940, vigilia del rovinoso attacco dell'Italia alla Grecia, Suardo inviò a Mussolini una servile informativa sull'allineamento del Senato al regime, ricordata da Aldo Pezzana in Gli uomini del Re. Il Senato durante e dopo il fascismo (Foggia, Bastogi, 2001): 454 dei 497 patres erano iscritti al partito. Gli altri erano suddivisi in “irriducibili” (i liberali Abbiate, Albertini, Bergamini, Canevari, Casati, Conci, Croce Serristori, Tomasi della Torretta), gli ebrei (Castellani, Diena, Levi, Loria, Mayer, Morpurgo, Segrè Sartorio), i “non frequentanti” per motivi di salute o vaghi pretesti (Badaloni, De Nicola, Di Rovasenda, Einaudi, Frassati, Mosca, Vigliani...), i “non iscritti ma non contrari”, soprattutto militari, come Dallolio, Pecori Giraldi, e diplomatici, quali Guglielmo Imperiali, Giuseppe Salvago Raggi e l'antico socialista Adolfo Zerboglio, deputato di Alessandria. Su tutti spiccava il maresciallo Enrico Caviglia, collare della SS. Annunziata (quindi “cugino del Re”), da Suardo bollato “una carogna” per il suo fiero antifascismo.
   Sic stantibus rebus dal 20 ottobre 1939 non avvennero altri ingressi nella Camera Alta.
   Tre anni e mezzo dopo, il 6 febbraio 1943, il re nominò 34 senatori, tra i quali Carlo Costamagna, Guido Donegani, Giacinto Motta ed Edoardo Rotigliano. Il regime scricchiolava, non solo per le sconfitte militari ma anche, e soprattutto, per il peggioramento delle condizioni di vita quotidiana, il razionamento dei beni di prima necessità, la divaricazione tra la retorica mussoliniana e la realtà. Tra l'8 e il 12 novembre 1942 gli anglo-americani erano sbarcati in Marocco e Algeria. In dicembre l'Armata Rossa aveva travolto quella italiana sul fronte del Don. Nella conferenza di Casablanca (14-26 gennaio1943) gli Alleati decisero l'assalto all'Italia per imporle la resa senza condizione. Il 2 febbraio l'armata tedesca comandata da von Paulus aveva perso la battaglia di Stalingrado. Tra il 6 e il 15 febbraio Mussolini sostituì i titolari dei ministeri principali: Esteri, Giustizia, Educazione nazionale, Finanze, Lavori pubblici, Corporazioni, Scambi e valute. Furono rimossi Galeazzo Ciano, Dino Grandi, Giuseppe Bottai, Host Venturi mentre Luigi Federzoni da tempo era ai margini della “politica”. Il duce stesso pose le premesse della “cospirazione” dei gerarchi del 24-25 luglio, illusi di conservare un fascismo senza Mussolini. I regimi monocratici crollano con la caduta del loro “capo”. Ma l'Italia non era una diarchia. Era ancora monarchia.
  Vittorio Emanuele III aveva un progetto del tutto diverso: sostituire Mussolini e sciogliere il partito nazionale fascista quale premessa per la richiesta di armistizio. Lo sbarco anglo-americano in Sicilia (10 luglio) impresse l'accelerazione. I senatori non rimasero inerti a cospetto della crisi. Il 22 luglio 63 patres presenti in Roma “data la gravità della situazione” chiesero a Suardo la convocazione del Senato in seduta plenaria. Molti erano di recente nomina, altri indossavano il laticlavio da anni. La richiesta non fece alcun cenno al fascismo. Tre giorni dopo venne superata dalla revoca di Mussolini da capo del governo e dalle dimissioni di Suardo da presidente del Senato, sostituito con Paolo Thaon di Revel. Sentito il re, il 3 agosto Badoglio, che non aveva competenza in materia ma era ansioso di ergersi a campione della “svolta”, decise di non pubblicare la richiesta dei 63 senatori. Il giorno prima aveva decretato lo scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni, del Gran Consiglio del fascismo e di altre organizzazioni del regime e impose le stellette alla Milizia volontaria di sicurezza nazionale, sciolta il 6 dicembre. Dato l'assetto bicamerale del Parlamento, l'azzeramento della Camera paralizzò il Senato, concentrò i poteri nelle mani del governo e sovraespose la Corona, privata dello scudo statutario del legislativo. Vittorio Emanuele III rifiutò di firmare un decreto propostogli da Badoglio, corrivo ad assumere il potere legislativo, e lamentò all'aiutante di campo Paolo Puntoni: “Cominciamo bene. Per prima cosa vogliono farmi firmare un decreto anticostituzionale”. In balia della tempesta, il Senato non svolse alcun ruolo nelle settimane conclusesi con la resa incondizionata sottoscritta dal generale Giuseppe Castellano a Cassibile (3 settembre) e con il trasferimento da Roma Brindisi del capo del governo, della Famiglia Reale e dei capi di stato maggiore (9-11 settembre).
Abolizione ed epurazione del Senato: RSI e Alta corte “partigiana”.
Nella prima seduta il governo dello Stato fascista repubblicano d'Italia, poi Repubblica sociale italiana (Rocca delle Caminate, 27 settembre 1943), decretò lo scioglimento e l'abolizione del “Senato di nomina regia” e ne privò i componenti delle prerogative e immunità che li rendevano giudicabili solo dall'Assemblea, costituita in Alta Corte di giustizia. Perciò ebbe mano libera per far processare e condannare a morte i senatori firmatari dell'ordine del giorno del 25 luglio:  Federzoni, De Vecchi e De Bono, che, prigioniero, venne fucilato con Galeazzo Ciano e altri gerarchi a Verona il 6 gennaio 1944. Aveva 78 anni. Altrettanto avvenne per Inigo Campioni, pluridecorato, governatore di Rodi, fucilato il 24 maggio 1944 a Parma con il contrammiraglio Luigi Mascherpa, iniziato massone nella Gran Loggia d'Italia, al termine del vergognoso “processo degli ammiragli”.
   Sul regio Senato calò dunque subito la scure della RSI. Ma pochi mesi dopo scese anche quella dei governi del regno. Dopo la defascistizzazione, avviata dall'indomani della revoca di Mussolini, con l'avvento del governo del Comitato di liberazione nazionale presieduto da Ivanoe Bonomi (18 giugno 1944) giunse l'ora dell’epurazione. In premessa va ricordato che il Comitato centrale di liberazione nazionale sin dall'esordio (agosto 1943) e poi dalla sua auto-proclamazione (ottobre) aveva rifiutato di collaborare con il governo del re. Nella primavera del 1944 l'offensiva contro la monarchia divenne incalzante. Su pressione degli statunitensi il 12 aprile Vittorio Emanuele III comunicò che avrebbe conferito tutti i poteri al principe ereditario Umberto di Piemonte in Roma, quando la Capitale fosse stata liberata. Il 26 maggio 1944 fu emanato il regio decreto legge per la punizione degli “atti rilevanti” compiuti per “il mantenimento del regime fascista e dell'ingresso dell'Italia in guerra”. Il “legislatore”, cioè il governo, sommò una filza di equivoci. Quando nacque il regime? Nell'ottobre 1922? Allora sul banco degli imputati andavano chiamati quanti avevano votato a favore del governo Mussolini. Non solo “liberali” (Croce, Orlando, De Nicola, Einaudi, oltre a Casati, ministro nel suo governo...) ma anche Alcide De Gasperi e una lunga serie di “democratici”. Datò dal 3 gennaio 1925? Ma allora era nulla la nomina a senatori di quanti avevano avuto il laticlavio dopo quella data, a cominciare appunto da De Nicola e da molti capifila dell'antifascismo (con esclusione di socialcomunisti e azionisti, s'intende). E quale sarebbe stata la sorte di Badoglio, duca di Addis Abeba?
   Il 7 agosto 1944, il sedicente conte Carlo Sforza, alto commissario per l'epurazione, propose al presidente dell'Alta corte di giustizia, istituita per giudicare i conniventi del regime, la decadenza di 307 senatori. Per lui il Senato era “un club vitalizio di vecchi funzionari, vecchi generali, vecchi e non vecchi industriali, vecchi terrieri”. Per la prima volta venne introdotta in Italia una legge retroattiva. Giuristi niente affatto fascisti, come Guido Astuti, Massimo Severo Giannini e Arturo Carlo Jemolo, deplorarono la grave violazione del principio fondamentale di diritto “nullum crimen sine lege”. La “connivenza” con l'avvento del regime era un'“invenzione” per colpire avversari politici, declassati a nemici del popolo. Precorrendo la sentenza, Sforza, chiese subito al presidente del Senato, Tomasi della Torretta, di interdire ai senatori sotto accusa l'accesso a Palazzo Madama. Essi vennero privati dei diritti civili. L'obiettivo era dichiaratamente politico: togliere al re il sostegno della classe dirigente di sua fiducia, intimorire e piegare ogni opposizione all'avvento della repubblica di cui era fautore. Va ricordato che nel “famigerato ventennio” nessuno ne aveva messo in discussione il rango e il ruolo di senatore, benché fosse all'estero, assente alle sedute, e non mancasse occasione di vituperare le istituzioni dello Stato italiano.
   L'elenco degli “epurati” è lunghissimo. Ottanta di essi (a cominciare da Pietro d'Acquarone, ministro della Real Casa, artefice con il re della revoca di Mussolini) ricorsero ma si videro respingere l'istanza. Trentatré morirono in attesa del responso. Nei loro confronti fu ordinato il “non luogo a procedere per decesso”. La loro “lista” si apre con Giovanni Agnelli, defenestrato dalla Fiat, e comprende l'israelita Elia Morpurgo, deputato dal 1895 al 1919, morto mentre veniva deportato nel Reich e nondimeno “epurato”. Diciannove ottennero la revoca dell'ordinanza (Vittorio Cini, Luigi Burgo, Umberto Locatelli, Aldo Rossini...). Per diversi motivi in ventisette (De Vecchi, Federzoni...) non ricorsero affatto. Per la “nuova Italia” avevano già dato, rischiando la fucilazione da parte dei mussoliniani a oltranza.
Resurrezione, sì, ma tardiva.
Il calvario del regio Senato e dei suoi componenti continuò. Sino al referendum istituzionale del 2-3 giugno1946 la Camera Alta rimase in una sorta di limbo. Con l'avvento della repubblica aleggiò l'interrogativo: che cosa fare? De Gasperi si affrettò a dichiarare lo scioglimento del Senato ma la corte dei conti non registrò il decreto perché esorbitante dalle sue competenze. Quindi i patres sopravvissero persino oltre la fine della monarchia. Non solo. Con varie sentenze la Corte di Cassazione via via accolse i ricorsi contro la dichiarazione della loro decadenza, propugnati da uno specchiato giurista quale Giuliano Vassalli, antifascista a ventiquattro carati.
   Con la legge costituzionale 29 ottobre 1947, n. 3 (entrata in vigore il 7 novembre, giorno della sua pubblicazione in “Gazzetta Ufficiale”) il capo provvisorio dello Stato De Nicola promulgò quanto deciso dal governo De Gasperi: “soppressione del Senato e determinazione della posizione giuridica dei suoi componenti”. Uccise l'uomo morto? Sì e no. Molti senatori si videro reintegrati dalla Cassazione. Non solo. L'Assemblea costituente deliberò che nella prima legislatura repubblicana il Senato avrebbe compreso 107 “senatori di diritto” per meriti antifascisti di varia natura e 237 eletti. Molti di essi erano stati senatori del regno.
   Il loro peso politico non fu affatto marginale per la storia d'Italia. Nelle elezioni del 18-19 aprile 1948 la Democrazia cristiana ottenne la maggioranza dei seggi alla Camera dei deputati, ma non altrettanto in Senato, ove conquistò 133 seggi sui 237 in palio (meno del 50%) e ne ebbe ancor meno per l'ingresso dei “senatori di diritto”, tra i quali anche ex parlamentari cattolici. Si fermò a 151 patres su 344. Perciò, constatato di non avere la maggioranza per governare da sola, si rassegnò a condividere il “potere” con i partiti “laici”: repubblicani, socialdemocratici e liberali, parecchi dei quali monarchici. Essa stessa, d'altronde, contava nelle sue file monarchici notori, garanti della continuità dello Stato e convinti che le disposizioni “transitorie e finali” della Costituzione fossero tali di nome e di fatto e che pertanto prima o poi sarebbe stato cancellato il divieto di rientro e di soggiorno in Italia della Regina Elena, di Umberto II e della sua famiglia.
   Non avvenne. Perciò, per tenere viva la Tradizione, il Re, mai abdicatario, costituì la Consulta dei senatori del regno, aperta agli “uomini dello Stato”, anche “in servizio” in nome e a garanzia della continuità della storia d'Italia.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Giacomo Acerbo, barone dell'Aterno, sottosegretario alla presidenza del Consiglio all'avvento del governo Mussolini, già iniziato massone nella loggia “Nazionale” della Gran Loggia d'Italia ministro dell'Agricoltura dal 1929 al 1935 e delle Finanze dal 6 marzo al 25 luglio 1943, componente della Consulta dei senatori del Regno dal 10 luglio 1961. Nel 1962 il presidente Antonio Segni gli conferì la Medaglia d'Oro di benemerito della Scuola. 



I SENATORI DURANTE IL FASCISMO
SCUDO DELLA CORONA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 5 marzo 2023 pagg. 1 e 6.


Tommaso Tittoni (Roma, 1855-1931). Ministro degli Esteri nel II governo Giolitti (3 novembre 1903-16 marzo 1905), presidente del Consiglio ad interim (16 marzo-28 marzo 1905), ministro degli Esteri nel primo governo presieduto da Alessandro Fortis (1905) e nel III governo Giolitti (1906-1909), ambasciatore a Parigi. Venne creato senatore il 25 novembre 1902. Presidente del Senato dal 1 dicembre 1919 il 20 aprile 1929 fu sostituito dal nazional-fascista Luigi Federzoni.
Didascalia
  Nel 1912 i riformisti vennero espulsi dal Partito socialista perché si erano congratulati con Vittorio Emanuele III, scampato di misura all'attentatore Antonio D'Alba. Conservare il Senato qual era assunse il carattere di difesa delle istituzioni, mentre eventi esterni minacciavano di precipitare l'Italia nel caos. Lo si vide con la “settimana rossa” del giugno 1914. Il 20-21 maggio 1915 il Parlamento approvò la richiesta di pieni poteri avanzata il 17 dal governo Salandra “in caso di guerra”. Con l'ingresso nel conflitto le Camere persero il controllo della politica estera e militare, cioè del Paese. Durante le sedute in “comitato segreto” sulla condotta della guerra Alfredo Frassati, proprietario e direttore della “Stampa” di Torino e senatore dal 24 novembre 1913, riferì a Giolitti, chiuso nella solitudine di villa Plochiù a Cavour, che nella Camera Alta non era “penetrata nessuna delle ansie che agitano tutti i petti. Mi pare ogni giorno di più che i socialisti hanno ragione di scrivere come paragrafo primo del loro programma: abolizione del Senato”. Nel dopoguerra le sorti del Senato parvero precipitare. Chi non era per la sua eliminazione, quanto meno ne propugnava l'elettività. Per l’estrema sinistra il Parlamento andava sostituito con un’assemblea di commissari politici, sul modello dei soviet. Per loro il re e Casa di Savoia andavano spazzati via: eliminazione fisica o esilio. Canti popolari, vignette satiriche, libelli propagandistici alimentavano la visione del tutto deformata della monarchia: clan di parassiti e vecchie cariatidi che sguazzavano nel lusso “affamando il popolo”. I repubblicani erano fautori del monocameralismo. Il Partito popolare italiano, fondato il 18 gennaio 1919 su impulso di don Luigi Sturzo (“prete intrigante”, secondo Giolitti), al decimo punto del programma propose la “riforma elettorale politica con il collegio plurinominale a larga base con rappresentanza proporzionale. Voto femminile, Senato elettivo con prevalente rappresentanza dei corpi della nazione (corpi accademici, comuni, province, classi organizzate) (CdA)”. Il movimento dei fasci di combattimento abborracciato da Benito Mussolini con apporti disparati e contraddittori a sua volta propose di conferire “alle corporazioni professionali ed economiche diritto di eleggere i corpi dei Consigli Tecnici Nazionali”, sostitutivi delle Camere: un modello non troppo lontano dai soviet.
  Anche l’unica costituzione varata nel dopoguerra, la Carta del Carnaro, abbozzata dall'anarco-sindacalista Alceste de Ambris e perfezionata da Gabriele d'Annunzio per dar veste alla Reggenza di Fiume (agosto-settembre 1920), ignorò un consesso che in seconda lettura filtrasse la legislazione attraverso la saggezza degli anziani. Il “popolo” era chiamato a esprimersi direttamente in un clima di mistica unione, propiziata dalla trasformazione della Città in sacra rappresentazione perpetua. La canzone più in voga inneggiava alla Giovinezza, primavera di bellezza... Nata come canto goliardico, con debite modifiche fu adottata dagli Arditi e poi dalle “squadre” fasciste. Nel discorso d’insediamento alla guida del Grande Oriente d’Italia persino il cinquantenne Domizio Torrigiani nel giugno 1919 si presentò quale espressione della “Giovinezza”.
  Incalzato da avversari e nemici, il Senato si arroccò nella difesa della propria tradizione. Nel 1918-1919 se ne occupò Tommaso Tittoni in articoli sui Conflitti tra le due Camere in Inghilterra e la riforma della Camera dei Lords. Alla morte del venerando Giuseppe Manfredi il 18 novembre il re nominò presidente il conte Adeodato Bonasi (San Felice sul Panaro, Modena, 1838 - Roma, 1920), ma con l’inaugurazione della prima legislatura postbellica Tittoni fu eletto presidente.
   Tra i nuovi patres si contarono gli artefici della vittoria: Armando Diaz (24 febbraio 1918), Enrico Caviglia, l’industriale Ettore Conti (22 febbraio 1919), i generali Pietro Badoglio, Guglielmo Pecori Giraldi, l’ammiraglio Umberto Cagni di Bu Meliana, cui seguirono Alberico Albricci, l’industriale Dante Ferraris, esponente dell'influente Associazione torinese Meccanici metallurgici e affini e Carlo Sforza. Nell’ottobre 1919, in vista delle imminenti elezioni col sistema proporzionale, il governo presieduto da Francesco Saverio Nitti varò 59 nuove nomine: un ampio ventaglio di personalità eminenti: Ernesto Artom, il clinico Leonardo Bianchi, l’ebreo livornese e massone Dario Cassuto, Giovanni Ciraolo, commissario della Croce rossa italiana e presidente del Rito simbolico italiano, che fece pervenire a d'Annunzio aiuti per due milioni di lire dell’epoca, Marco di Saluzzo, Pietro Ginori Conti, Ludovico Fulci, Gaetano Mosca, Nino Tamassia. In Senato entrarono due economisti di fama, Achille Loria (studiato dallo storico Bruno di Porto, recentemente defunto) e il quarantaseienne Luigi Einaudi che, narrò poi, si ritrovò con i capelli neri in mezzo a un’assemblea di patrioti incanutiti e avvertì appieno quale pegno costituisse il laticlavio. Il Senato bilanciava l’irruzione alla Camera di duecentocinquanta deputati socialisti e popolari e i giovanissimi esponenti della “trincerocrazia”. Altrettanto fece Giolitti durante il suo quinto ministero e in vista delle sfortunate elezioni del maggio 1921. Su suggerimento di Benedetto Croce, propose senatore il grecista Roberto Ghiglianovitch, benché avvertito che era suo acre e spesso immotivato nemico. Lo constatò quando ne subì in aula un attacco violentissimo e, sportosi a domandare chi mai fosse quell’esagitato senatore, da Croce si sentì rispondere: “È quel professore di greco che io ho sulla coscienza di averti fatto nominare”.
   Dopo Paolo Boselli, Luigi Luzzatti, Giuseppe Marcora, tutti statisti i cui nomi riecheggiavano nelle aule parlamentai dagl’inizi del Regno unitario, nel giugno 1921 fu la volta di Alfredo Baccelli, Agostino Berenini, Alfredo Lusignoli (prefetto di Milano), Cesare Nava, Edoardo Pantano, Olindo Malagodi... In Senato v’era dunque posto per tutti: socialisti, ex repubblicani, cattolici e israeliti, purché ponessero l’Italia al di sopra di ogni particolarismo. Tra le dimissioni dell’ultimo governo  Giolitti (luglio 1921) e l’insediamento di Mussolini alla presidenza del Consiglio (31 ottobre 1922) si contarono altri sedici laticlavi, una sorta di velario dell’Italia liberale. Ne beneficiarono Pietro Tomasi della Torretta dei principi di Lampedusa, unico senatore voluto dal socialriformista e poi democratico Ivanoe Bonomi, rieletto in una lista comprendente Roberto Farinacci, “il più fascista”. Il 19 ottobre 1922 il re nominò senatori il duca Giovanni Battista Borea d’Olmo, il cui antenato, Tomaso, ispirò il Barone rampante di Italo Calvino (come narrato da Luca Fucini), Giuseppe Volpi di Misurata, il professore Vittorio Puntoni, grecista insigne e padre del suo futuro aiutante di campo, generale Paolo, il cattolico conciliatorista marchese Filippo Crispolti, il massone Ettore Pais, romanista insigne, e Camillo Peano, presidente della Corte dei conti pochi giorni prima dell’avvento di Mussolini e in carica sino al 31 dicembre 1928, quando apprese dai giornali di essersi dimesso  per far posto a un fiduciario del duce.
Le mire del fascismo contro il Senato
Asceso alla presidenza di un governo di coalizione statutaria, Mussolini non puntò alla fascistizzazione del Senato. Il 31 ottobre 1922, quando formò il governo, i senatori iscritti al PNF  erano 2 su circa 400, cioè lo 0,5%. Il 27 novembre 1922 la Camera Alta lo approvò con 187 voti contro 19. 
  I candidati al laticlavio, proposti dal governo, passavano al vaglio severo del re. Dalla memoria ferrea, curioso d’ogni aneddoto, Vittorio Emanuele III, apparentemente arido, in realtà onniveggente, sapeva tutto dei “personaggi pubblici”. Dopo la designazione spettava all’Assemblea ratificare la nomina. Nei quasi sei anni tra il 5 novembre 1922, quando fu nominato Giovanni Gentile, e il 20 maggio 1928, tre giorni dopo la legge che conferì al Gran consiglio del fascismo la composizione della Camera, i nuovi senatori furono appena 86: pochi se confrontati al cambio politico in atto. Il 1° marzo 1923 ebbe luogo la prima “infornata”, aperta dal presidente della FIAT di Torino, Giovanni Agnelli. Lo seguirono lo scultore Leonardo Bistolfi, massone notorio e influentissimo sulla strategia della “raffigurazione della patria”, il nazionalista Enrico Corradini, l’economista Maffeo Pantaleoni, l’antico ministro giolittiano, poi giolittofago e “fratello” Ferdinando Martini, primo ideatore di una Enciclopedia italiana, il generale e quadrumviro Emilio De Bono il 15 ottobre 1925 raggiunto in Senato da Cesare Maria De Vecchi, creato conte di Val Cismon. Poiché non aveva né tre legislature, né cariche accademiche, militari o altri titoli (censo compreso), questi fu nominato ministro di Stato e, dopo un iter travagliato, ottenne il laticlavio per quella categoria.
  I rapporti tra il duce del fascismo e la Camera Alta furono a lungo assai freddi. Nel 1924-1925 Mussolini fece ripetutamente i conti con gli umori del Senato. Nel 1924 si verificò un incidente abbastanza clamoroso. Il 20 settembre lo scrittore Ugo Ojetti, autore tra altro del Proclama della Vittoria firmato da Diaz, fu nominato senatore per le categorie 20^ e 21^ (illustrazioni della patria e alto censo). Il 23 novembre l’apposita commissione di verifica lo escluse dalla 20^. Ojetti s’affrettò a documentare d’essere pienamente in regola per la 21^. Era tra i giornalisti meglio pagati d’Italia. Però fu contrariato dal mancato riconoscimento di avere “bene meritato della patria”. La commissione di convalida dei titoli oppose identica riserva alla nomina del poeta napoletano Salvatore Di Giacomo, che rimase escluso dalla Camera Alta perché, a differenza del conterraneo suo e caldo estimatore Benedetto Croce, nominato senatore per la 21^ categoria, zeppa di industriali, banchieri, proprietari fondiari e affaristi, il poeta viveva da poeta e non aveva il reddito richiesto. Ojetti ebbe l’astuzia di farne una questione d’orgoglio: non per sé ma per solidarietà con Di Giacomo, come il 5 dicembre 1924 scrisse al presidente Tommaso Tittoni: “Delle ragioni della mia rinunzia devo pur dire all’Eccellenza Vostra la più grave. Della categoria 20^ è insieme a me rimasto escluso Salvatore Di Giacomo, ma purtroppo egli non ha il modesto censo sufficiente per essere come me ammesso nella categoria 21^. Da questo confronto con quel poeta purissimo, io scrittore sarei per sempre addolorato e umiliato”. Una furba lezione di stile.
  L’anno seguente la tensione tra il presidente del Consiglio e la Camera Alta si manifestò in molteplici modi: per esempio con le obiezioni opposte ai “titoli” in primo tempo presentati da De Vecchi a suffragio della nomina. In Senato incontrò poi l'astensione (che in Senato valeva per voto contrario) di Croce e altri nella votazione sulla legge “contro la Massoneria”, da Mussolini in persona presentata come “la più fascista”. Nessun pater, però, chiese la verifica del numero legale: uno strumento procedurale che avrebbe potuto costringere almeno al rinvio della votazione stessa, con smacco del governo. Perciò, proprio a cavallo di quel voto (20 novembre 1925) il Gran Consiglio del fascismo, che all’epoca era nient'altro che un consesso ‘privato’, progettò una riforma del Senato, proprio mentre vi entrava il principe ereditario Umberto di Piemonte, giunto alla maggiore età (14 novembre 1925). Presenti e oranti parecchi monarchici, il Gran consiglio ipotizzò tre vie: lasciare immutato il Senato, salvo aumentare le categorie dalle quali trarne membri; formare entrambe le Camere con rappresentanti delle “corporazioni”; inserire tali rappresentanze nel Senato. Scartate le due prime proposte, macchinose e contraddittorie, fu accolta la terza, in attesa che venisse formulata in versione più chiara. Nel frattempo “gli attuali membri del Senato (avrebbero mantenuto) la loro carica e dignità”. Il Gran consiglio, comunque, concluse che il numero dei patres sarebbe rimasto, qual era, illimitato. I senatori sarebbero stati divisi in due classi: quelli di nomina regia e vitalizi; e quelli espressi dalle corporazioni, con mandato novennale, a loro volta comunque nominati dal re ed equamente ripartiti tra esponenti dei lavoratori e dei datori di lavoro. Con modeste varianti, era la “riforma Luzzatti”, affossata dal Re e da Giolitti nel 1911. Poiché, però, le corporazioni erano ancora tutte da inventare, a differenza della precedente che già aveva avuto il pregio della confusione, la riforma prospettata dal Gran Consiglio rimase sulla carta. 
  Mussolini capì quanto fosse alto quel bastione. Sin dalla XII riunione (1 maggio 1923) il Gran consiglio del fascismo aveva messo allo studio la “riforma costituzionale”, affidata a una commissione formata da Giorgio Del Vecchio, Michele Bianchi e da un ex sacerdote massonofago. Fra le attribuzioni e prerogative del capo del governo (legge 24 dicembre 1925, n. 2263) non comparve alcun cenno a Senato e senatori. Più invadente fu la costituzionalizzazione del Gran consiglio (9 dicembre 1928, n. 2693). In forza dell’articolo 5, il presidente del Senato (correttamente menzionato con precedenza su quello della Camera) ne avrebbe fatto parte “a cagione delle sue funzioni”. Anche l’“organo della rivoluzione” si fermò comunque sulla soglia della Camera Alta. 
  Dopo l’abolizione del libero confronto per l’elezione dei deputati, a ridosso e all’indomani della firma dei Patti lateranensi, si susseguirono cinque infornate di nuovi patres per un insieme di 136 laticlavi in poco più di tre mesi. Un incremento senza precedenti, che riportò la Prima Camera oltre i 400 membri, che era il tetto fissato dal 1928 per quella dei deputati. Il 2 marzo 1929 i senatori in carica toccarono un nuovo apice: 459, poco al di sotto dei 464 del 1892. Neppure quelle nomine, tuttavia, comportarono la fascistizzazione del Senato. Vi si contò infatti un nutrito numero di alti ufficiali. Il 2 marzo 1929 fu nominato senatore l’avvocato Enrico De Nicola (Napoli, 1877-1959) per le categorie 2^ e 3^. Convocato il 6 maggio, giurò il 15. Anche lui abbacinato dalla luce del fascismo sulla via di Damasco o “riserva del re” per quando fossero venuti i giorni difficili dello scontro tra Corona e governo?
  All'inaugurazione della XXVIII legislatura (20 aprile 1929) il Senato contava 11 prìncipi del sangue, membri di diritto, e 323 componenti di nomina regia. Dal suo insediamento per ben quattro anni non venne conferito alcun laticlavio. Con l'istituzione del segretariato generale (24 maggio 1929) ne fu ammodernata l'organizzazione. Il 15 dicembre 1929 Mussolini rafforzò il potere di capo del governo aggiungendo l'obbligo della sua firma a quella del re e dei ministri per tutte le leggi e i decreti. Suoi obiettivi precipui in quegli anni furono il consolidamento del regime di partito unico e la celebrazione della Rivoluzione fascista, che stentava a imporsi nelle ovattate sale di Palazzo Madama, benché molti patres risultassero iscritti all’Associazione fascista dei senatori: adesione burocratica, priva di vincoli ideologici, a differenza di quanto asserito da Emilio Gentile.
  In vista dello scioglimento della Camera, nel 1933, dopo quattro anni di stasi, riprese alla spicciolata il conferimento di laticlavi, per un insieme di 75 nuovi senatori, tra i quali Pietro Ago, Donato Etna (figlio naturale di Vittorio Emanuele II), Arturo Bocchini (capo della polizia), Giorgio Emo Capodilista, Luigi Arborio Mella, Antonio Albertini, Guido Viale, Euclide Silvestri, Isaia Levi, Nicola Pende, Carlo Torlonia e Giovanni Marro: sintesi di mezzo secolo della storia d'Italia. Altre nomine seguirono nel 1934: Pietro d'Aquarone, Luigi Barzini, Giuseppe Belluzzo, Balbino Giuliano, Giovanni Battista Imberti (ex giolittiano, poi popolare, in seguito filofascista e soprattutto monarchico) e industriali come Giorgio Falck, Mario Crespi, Rinaldo Piaggio. “Fascisti”? Pochi. Qualcuno aveva ricevuto la tessera del partito “ad honorem”. Non la rimandò al mittente, anche se non ne aveva speciale bisogno. Poi dal 27 aprile 1934 per cinque anni, caso unico nella storia, non si registrarono altri ingressi alla Camera Alta. Le nuove nomine avvennero il 25 marzo 1939 in un quadro interno e internazionale rapidamente e tumultuosamente cambiato. In peggio. Isolato e incalzato dalla frangia repubblicana del PNF il re aveva bisogno che il Senato tornasse a farsi sentire. Vedremo quando e come esso si ridestò.
  Dal 1929, in successione a Tommaso Tittoni, suo presidente era il nazional-fascista titubante Luigi Federzoni, in carica sino al 2 marzo 1939. Il 23 marzo fu ruvidamente sostituito dal bergamasco Giacomo Suardo, prono a Mussolini. Per il Senato del regno iniziò un calvario, che merita di essere narrato a parte.
Aldo A. Mola.

DIDASCALIA: Tommaso Tittoni (Roma, 1855-1931). Ministro degli Esteri nel II governo Giolitti (3 novembre 1903-16 marzo 1905), presidente del Consiglio ad interim (16 marzo-28 marzo 1905), ministro degli Esteri nel primo governo presieduto da Alessandro Fortis (1905) e nel III governo Giolitti (1906-1909), ambasciatore a Parigi. Venne creato senatore il 25 novembre 1902. Presidente del Senato dal 1 dicembre 1919 il 20 aprile 1929 fu sostituito dal nazional-fascista Luigi Federzoni.



IL SENATO DEL REGNO
ALLA RICERCA DELLA DIRIGENZA PERDUTA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 26 febbraio 2023 pagg. 1 e 6.


Luigi Luzzatti (Venezia, 1 marzo 1841-Roma, 27 marzo 1927), economista di fama europea, iniziato alla massoneria, pioniere delle banche popolari e di una moneta unica europea, ministro più volte, presidente del Consiglio (1910-1911), propugnò la parziale elettività del Senato. Una proposta che avrebbe generato un ibrido, mezzo di nomina regia (vitalizio), mezzo elettivo (a tempo): due categorie di difficile conciliazione. Il Regio Senato (o Camera Alta), di cui fu componente dal 1921, era un cenacolo di uomini “per lo Stato”. L'urgenza di riflettere sul ruolo della monarchia sabauda nella dello Stato d'Italia emerge dal recente saggio “Il fantasma della nazione. Per una critica del sovranismo”. In oltre 200 pagine il suo autore, Alessandro Campi, compie il piccolo capolavoro di citare tutti (Bossi, La Malfa, Togliatti, Salvini...) tranne i re da Carlo Alberto a Umberto II, gli Istituti e gli Uffici della monarchia. Come scrivere la storia della Chiesa dell'Otto-Novecento tacendone i papi da Pio VII a Pio XII, il collegio cardinalizio e gli Ordini religiosi.
Didascalia
  Il 10-13 giugno 1946 il governo da lui stesso nominato il 10 dicembre 1945 mise  Umberto II al bivio: rimanere in Italia, a rischio di uno scontro armato  tra opposte fazioni, o allontanarsene. Nella certezza di un pacifico rientro, il re optò per l'espatrio. Appena arrivato in Portogallo, però, confidò a Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, di essere rimasto vittima di un “trucco”. I maggiorenti dei sei partiti al governo gettarono alle ortiche monarchia e monarchici ma avevano bisogno di una classe dirigente per far funzionare la macchina dello Stato. Si registrò un cambio ai vertici di tutti i settori dell'amministrazione pubblica. Ne era avvenuto un altro vent'anni prima, con il passaggio dalla democrazia parlamentare al regime di partito unico. Come ha ampiamente documentato Guido Melis nel magistrale La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista (ed. il Mulino), il governo Mussolini impose ai pubblici impiegati l'iscrizione al partito nazionale fascista, ma fece fuoco con la legna che c'era: una dirigenza che si era formata tra fine Ottocento ed età vittorioemanuelina-giolittiana. Il “ricambio” richiese quasi un decennio (1922-1931). Lo stesso avvenne nel 1943-1948, con due differenze rispetto a quel precedente. Avvenne a scaglioni, secondo tempi e aree geo-politiche diverse, a partire dal “regno del Sud” alla liberazione di Roma e sino, undici mesi dopo, ai governo presieduti da Ferruccio Parri e da Alcide Degasperi (come il segretario della Democrazia cristiana si firmava). Lo Stato aveva (come ha) bisogno di classe dirigente. Per formare u alto funzionario o un dirigente apicale non basta la tessera di parrito: occorrono venti-trent'anni di “lavoro sul campo”. Pertanto, uniti nella cancellazione del fascismo e della monarchia, i  partiti (a  cominciare dal quello comunista pilotato dal navigato Palmiro Togliatti) fecero incetta del personale che aveva cognizione della “macchina”: quello che aveva fatto apprendistato prima del regime e si era affinato nel suo corso. Nel 1945 un prefetto di 60 anni aveva alle spalle una “carriera” iniziata almeno nel 1915: varie ere geologiche prima, secondo la narrazione basata sulle cronache dei partiti.
   La necessità di far leva su personale competente fu dettata anche dal baratro aperto tra vertice dello Stato e Paese con lo scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni (2 agosto 1943) e dalla conseguente paralisi del Senato del regno: un vuoto durato sino all'elezione della Assemblea costituente e alle elezioni del Parlamento il 17-18 aprile 1948, in un “mondo” del tutto diverso rispetto a quello del 1945-1946. In piena “guerra fredda” all'esarchia del Comitato di liberazione nazionale, comprendente comunisti e socialisti ,  era seguita una coalizione di centro, incardinata su democrazia cristiana, liberali, repubblicani e socialdemocratici. Ne ha scritto magistralmente Aldo G. Ricci  in “La rinascita dei  partiti in Italia” (Fondazione Ug Spirito). I costituenti cercarono di diversificare le due Camere, differenti per età dei loro componenti (venticinquenni i deputati, almeno quarantenni i senatori) e corpo elettorale. Era fatale che divenissero sempre più simili. Però, meno male, sono due. Così, benché ormai pressoché identiche,  si possono correggere a vicenda.
    Diversa era stata l'età monarchica, con la netta differenziazione tra la Camera elettiva e il Senato, di nomina regia e vitalizio. Giova ripercorrerne alcune vicende dal primo Novecento al regime di partito unico.     
Un'Italia in bilico 
  A fine Ottocento frange clericali asserivano che l’Italia era preda dell’“Internazionale giudaica”. I socialisti davano per scontato che la “rivoluzione” dovesse passare attraverso l’eliminazione della monarchia e di tutti i suoi istituti monarchici, a cominciare dal Senato. Il 14 novembre 1901 un regio decreto stabilì che le nomine di presidente, vicepresidenti e membri del Senato sarebbero state deliberate “indi innanzi” dal governo, ma non ebbe attuazione. Presidente del Senato era l'ottantenne Giuseppe Saracco. Nel 1904, dopo l'elezione della nuova Camera, il re nominò presidente del Senato il settantaseienne Tancredi Canonico, che nel 1908 fu sostituito dal piacentino Giuseppe Manfredi, patriota intemerato e giureconsulto di rango supremo, come documentato dal mai abbastanza rimpianto Corrado Sforza Fogliani.
  Numericamente stabile (358 membri nel giugno 1900; 348 alla vigilia delle elezioni del 1904; 371 nel maggio del 1909; 380 il 3 giugno 1911, cinquantenario del Regno), nell’età giolittiana la Camera Alta resse agli assalti di quanti cercarono di renderla almeno parzialmente elettiva. Per consolidarla il re e il presidente del Consiglio Giolitti non esitarono a includervi radicali  come Malachia De Cristoforis, già gran maestro del Grande Oriente italiano (GO-I), ammanicato con quello di Francia, e il repubblicano Adolfo Engel, gran maestro aggiunto del GOI, furente essere stato sconfitto da un cattolico nel collegio di Treviglio alle elezioni del 1904. Vi entrarono anche repubblicani. Il re era il Capo dello Stato di tutti gli italiani e il Senato era il loro specchio.  
    Giolitti mirava   alla  conciliazione silenziosa tra lo Stato e i cattolici eletti deputati, consiglieri provinciali e comunali, membri delle amministrazioni di casse di risparmio, ospedali, scuole...: ma uti singuli, non come esponenti di un partito. Questo sarebbe stato una sciagura sia per lo Stato, sia per la Chiesa. Mirò a prevenirla con la laicizzazione silenziosa. In un’Italia le cui piazze si empivano ora di tardive proteste contro il rogo di Giordano Bruno ora di processioni salmodianti, lo statista rimase l’uomo delle conciliazioni incrociate.
Luigi Luzzatti ripropone la parziale elettività della Camera Alta
In coincidenza con l’introduzione del suffragio quasi universale maschile (1912, sperimentato l'anno seguente) fu riproposto l’annoso tema della parziale elettività del Senato. Ogni elezione politica ebbe per contorno infornate di nuovi patres: cattolici, anticlericali, positivisti, fideisti, destra e sinistra, artisti e imprenditori..., l’Italia qual era, insomma. Il laticlavio continuò a non comportare emolumenti di sorta. Al tempo stesso intese onorare anche persone di condizioni modeste, proprio per confermare che la monarchia non era fortilizio del privilegio, bastione contro l’ascesa di chi avesse come unici titoli personali talenti e volontà. Minimo comune denominatore erano e rimasero la fedeltà all’Italia. La Camera alta conservò il requisito di “partito dello Stato”.
  Personalità, che erano altrettanti capitoli di storia d’Italia, confluivano in un cenacolo che di anno in anno andava oltre la dimensione di mero organo politico-legislativo e diveniva sempre più un consesso di “saggi”: vera e propria “riserva della Corona” per i momenti del bisogno, quando fossero messe in gioco le sorti dello Stato e il re dovesse far leva su uomini votati alla continuità dello Stato.. Non per caso la Prima Camera all'occorrenza diveniva Alta corte per giudicare i ministri indiziati di reati compiuti nell'esercizio delle funzioni (fu il caso di Nunzio Nasi, condannato a pene esorbitanti per piccole distrazioni amministrative mentre era apprezzato ministro della Pubblica Istruzione) ed era unico giudice dei propri stessi componenti: condizione, codesta, che ne faceva un corpo sacro all’interno dell’ordinamento statutario, come scrissero i più acuti studiosi dello Statuto, da Emilio Crosa a Giuseppe Maranini e ha ripetuto Aldo Pezzana in Gli uomini del Re (ed.Bastogi) 
  Memore delle critiche nel 1892 rivoltegli da Andrea Guarneri, nel 1913 l’onnipotente Giolitti concordò con il re l’ingresso in Senato di molti “busti insigni” della Terza Italia. Altrettanto fece il suo successore, Antonio Salandra. Dopo i ministri della Guerra Domenico Grandi (29 marzo 1914) e Vittorio Zupelli (15 novembre) vennero creati senatori Luigi Albertini, comproprietario e direttore del “Corriere della Sera”, Lelio Bonin Longare, Roberto Brusati (fratello del primo aiutante del re), Guglielmo Marconi, Francesco Ruffini, Leone Wollemborg, Giuseppe Pitrè...: quanto di meglio l’Italia contasse dall’antropologia alle invenzioni, dall’imprenditoria alla comunicazione di massa, dalle armi alle arti e al pensiero giuridico. Quei laticlavi coronavano il successo di quanti avevano dedicato la vita allo studio, al lavoro, al servizio dello Stato. Se Napoleone aveva detto che ogni soldato aveva nello zaino il bastone di maresciallo, così si poteva ripetere che ciascun italiano avrebbe potuto conseguire il laticlavio senatoriale, non riservato dominio di una casta e, meno ancora, di una sola parte politica. I senatori erano boni viri e il Senato non era mala bestia proprio perché al suo interno si raccoglievano in operosa dialettica le posizioni più disparate. 
  Eppure continuava ad aleggiare la richiesta che divenisse almeno in parte elettivo. 
 Il 28 aprile 1910 Luigi Luzzatti (Venezia, 1841 - Roma, 1927), presidente del Consiglio dal 31 marzo di quell’anno al 30 marzo 1911, illustrò alla Camera Alta il progetto di riforma: dalla sessione parlamentare ventura la Corona avrebbe demandato al consesso l’elezione di presidente e vicepresidenti. Propugnò inoltre una “legge interpretativa dello Statuto” per “ammodernare” il Senato. Al progetto lavorarono alcuni tra i giuristi più prestigiosi. Presieduta da Gaspare Finali, la Commissione, appositamente istituita, ebbe Giorgio Arcoleo quale relatore di maggioranza. Questi propose il numero chiuso, una quota di membri nominati motu proprio dal re e un’altra formata con elezioni di secondo grado da corpi accademici e ordini professionali. Il tutto risultò farraginoso. Non conduceva comunque all’elettività diretta, sollecitata dai radicali, da alcuni liberali progressisti e vista con favore dai socialisti riformisti.
   Il progetto dette ala all’ultimo dibattito di elevato tenore su natura e scopi della Camera Alta. Il senatore calabrese Antonio Cefaly dichiarò la sua netta avversione nei confronti del numero chiuso, giacché sin dall’istituzione la libertà di modificarne la composizione era stata garanzia per il superamento di contrapposizioni rigide tra i due rami del Parlamento. La proposta incappò in altri ostacoli insormontabili. Il duca Riccardo Carafa d’Andria scrisse nella “Nuova Antologia” che essa non era “giustificata da necessità urgente. Il Senato è stato sempre assai scrupoloso, e specialmente in questi ultimi anni, nell’evitare conflitti con l’altro ramo del Parlamento e non si è mai opposto a leggi o riforme che fossero o paressero ispirate da un’idea di progresso o di libertà. Qualche legge sociale ebbe la precedenza in Senato ed in Senato, per esempio, sarebbe quasi certamente approvata una legge che regolasse il divorzio, mentre non so quale sorte essa potrebbe incontrare nella Camera elettiva.” La riforma avanzata da Luzzatti altro non era che “una concessione all’Estrema Sinistra in compenso di tutte le cose che le si negavano”. In conclusione, “il Senato, composto in grandissima parte di uomini che combatterono e soffrirono per l’unità e l’indipendenza del Paese, sarà favorevole ad ogni passo diretto verso una maggiore armonia fra la sua funzione ed i tempi nuovi, ma resisterà ad ogni tentativo di sopraffazione di plebi le quali, come dice Socrate, non possono far né i grandi beni né i grandi mali”.
Rattazzi-Giolitti: così com'era il Senato aveva reso e poteva rendere grandi servizi alla monarchia
Il 17 novembre 1910, da Roma, Urbano Rattazzi jr rispose a una lettera di Giolitti, sinora non ritrovata, sulla spinosa e ormai incombente parziale elettività della Camera alta. “Avverso sin dal primo giorno alla proposta di riforma lanciata con cinica leggerezza da Luzzatti al Paese che non la chiedeva e vi è tuttora indifferente”, egli scrisse, “ero in questi giorni molto preoccupato per il timore che la vanità della Commissione, e specialmente dell’on. Arcoleo, non che quella di senatori che si prestano con sciocche interviste a riempire le colonne dei giornali, potessero davvero dar corpo a quest’ombra e rovinare un’istituzione che, così com’è, ha reso e può rendere ancora in momenti difficili grandi servizi al Paese e alla Monarchia (…). Le tue considerazioni così elevate, chiare e precise demoliscono con poche parole tutto l’edificio di carta pesta costruito dalla maggioranza della Commissione, e non ti nascondo che mi piacquero e mi persuasero tanto da non saper resistere alla tentazione di comunicarle ai comuni amici Inghilleri, Cefaly, Todaro, Filippo Mariotti e pure a Manfredi (presidente del Senato, NdA), i quali tutti le accolsero con plauso e dichiararono di associarvisi intieramente (...) mi parve doveroso di sgombrare dall’ambiente del Senato il dubbio che tu, pur troppo designato in Parlamento e ovunque quale padre e sostenitore di questo ministero presieduto da un cattivo pazzo, avessi anche la responsabilità della riforma del Senato, la quale, ove fosse davvero accolta sarebbe il principio di una prossima fine delle istituzioni monarchiche.” 
   Il 9 febbraio 1911 Vittorio Scialoja, suscitando “approvazioni vivissime e commenti”, sentenziò in Senato: “Se venisse in quest’Aula un ambasciatore, come avvenne nei tempi remoti di Roma, e chiedesse: ‘Che fa quest’Assemblea così solenne? Che fa questa adunanza di uomini così insigni ’ e noi gli rispondessimo: ‘Cerca di riformarsi perché non è di sé contenta’, resterebbe alquanto meravigliato e dovrebbe pensare essere l’Italia la più fortunata delle nazioni, se a tanta Assemblea ne può facilmente sostituire una migliore”. Negò poi che la progettata riforma rispondesse a una necessità sentita in quel momento dal popolo italiano e ammonì: “Il modificare articoli dello Statuto ha sempre un lato pericoloso”. “Ora quali sono gl’inconvenienti che si sentono ogni tanto deplorare? Nessuno ha mai messo in dubbio l’alta dignità del Senato: nessuno! Dunque qualche riformetta ci vuole, ma sia la medicina adatta al male, non la clinica chirurgica per un piccolo raffreddore.” Scialoja respinse infine la pretesa che la Camera Alta dovesse farsi copia dell’altra: “L’avere due Camere di funzione politica dello stesso tipo, è assai peggio che l'averne una sola (…). La Camera fa gli Annali, il Senato deve essere il custode della Storia, il custode delle linee fondamentali, direttive del progresso italico”.
  A Luzzatti non restò che gettare la spugna. Lo fece però scoprendo la Corona. Il 15 febbraio ringraziò i patres della “lieta accoglienza fatta alla proposta della elettività per il seggio della presidenza”. “Presi gli ordini sovrani, come li avevo presi per la comunicazione del 28 aprile scorso, e in conformità a deliberazione concorde del consiglio dei ministri”, preannunziò apposito disegno di legge e prese atto che le discussioni sulla proposta dell’elettività, “ispirata dal culto degli istituti monarchici rappresentativi, frutteranno decoro alla patria nostra, che, fiaccola di vita perenne, si tramanderà più bella, più libera, più grande, alle generazioni future, sotto la guida sicura della Dinastia di Savoia, vigilante a guardia della nostra indipendenza, custodia indefettibile delle guarentigie costituzionali”. 
  La proposta di rendere almeno parzialmente elettiva la Camera alta si perse per via. Non se ne sentiva bisogno mentre per l’elezione della Camera dei deputati venne introdotto il suffragio quasi universale maschile, che suscitò le riserve di Arcoleo, propenso a conferire alle donne almeno quello amministrativo giacché, diversamente, “a fil di logica, il censo, l’alfabeto, il voto avrebbero carattere sessuale: prolifico per gli uomini, sterile per le donne”. Bisognava difendere il Parlamento mentre i partiti estremi bollavano il Senato come “assemblea di retrogradi o di antenati” e il socialmassimalista Benito Mussolini lo definiva  “gerontocomio”.
    Quel Senato, di nomina regia e vitalizio, concorse a reggere le sorti dell'Italia durante la Grande Guerra. E poi? Il seguito merita di essere rievocato.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Luigi Luzzatti (Venezia, 1 marzo 1841-Roma, 27 marzo 1927), economista di fama europea, iniziato alla massoneria, pioniere delle banche popolari e di una moneta unica europea, ministro più volte, presidente del Consiglio (1910-1911), propugnò la parziale elettività del Senato. Una proposta che avrebbe generato un ibrido, mezzo di nomina regia (vitalizio), mezzo elettivo (a tempo): due categorie di difficile conciliazione. Il Regio Senato (o Camera Alta), di cui fu componente dal 1921, era un cenacolo di uomini “per lo Stato”. L'urgenza di riflettere sul ruolo della monarchia sabauda nella dello Stato d'Italia emerge dal recente saggio “Il fantasma della nazione. Per una critica del sovranismo”. In oltre 200 pagine il suo autore, Alessandro Campi, compie il piccolo capolavoro di citare tutti (Bossi, La Malfa, Togliatti, Salvini...) tranne i re da Carlo Alberto a Umberto II, gli Istituti e gli Uffici della monarchia. Come scrivere la storia della Chiesa dell'Otto-Novecento tacendone i papi da Pio VII a Pio XII, il collegio cardinalizio e gli Ordini religiosi. 



ELETTI, VOTATI, VOCATI
CREPUSCOLO DELLA “RAPPRESENTANZA”


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 19 febbraio 2023 pagg. 1 e 6.

Hieronymus Bosch (1460 ? - 1516 ). L'imbonitore. Molti scommettono sulla “credulità popolare”. Promettono. Ma oggi i cittadini sono informati e non si fanno più abbindolare. Le Istituzioni, tutte, debbono dare risposte. La massiccia astensione dal voto non è una passeggera febbre influenzale ma patologica.
Didascalia
    Quis custodiet ipsos custodes?
“Bisogna che venite appresso a me!”/disse er Leone ar Popolo animale. / E tutti quanti agnedero cor Re,/ ma doppo un po' de strada ecchete che/ er Re rimase in coda, cor Cignale.// “Ritorna ar posto indove t'eri messo”/ je disse quello “e insegnece er cammino...”. “ Va là” rispose er Re “tanto è lo stesso:/ oggi chi guida un popolo è destino/ che poi finisce per andaje appresso”.
   Questa brillante sintesi della “dottrina delle élites” (piccolo vanto del pensiero politico italiano, secondo Norberto Bobbio) non è di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto o Roberto Michels, ma di Carlo Alberto Salustri (Roma, 1871-1950: morì appena nominato senatore a vita da Luigi Einaudi, monarchico e liberale), celebre come Trilussa dal più famoso tra i suoi pseudonimi (ne riparleremo). Come tante sue poesie, “Er Re Leone” va riletta per rispondere ai quesiti che si affollano sull'esito delle elezioni regionali di domenica scorsa, 12 febbraio, penultima del Carnevale 2023.
   Al netto dei commenti di auto-consolazione e auto-assoluzione su chi ha vinto un po' di più o ha perso un po' di meno, va constatato che ormai il crollo della partecipazione elettorale non è affatto un malessere passeggero, come si vuol far credere, bensì patologico. Fingere che non lo sia significa fare gli struzzi. Non è assenteismo per distrazione di massa. Segnala che si è aperta la grande faglia tra corpo elettorale e la sua rappresentanza. E' anche anche l’ultimo appello alla “politica” affinché si dia una mossa e si sforzi di percepire quel che pensano i cittadini, a cominciare dalla politica estera e quindi militare dello Stato d'Italia.
   Da decenni molte votazioni amministrative si sono svolte nell'indifferenza di un numero crescente di elettori. I primi segnali sono arrivati da Mezzogiorno e grandi isole, ma anche da aree periferiche dell'Italia centro-settentrionale. In alcuni casi superiore al 70 per cento, quell'astensione è stata a lungo classificata come manifestazione episodica e circoscritta di malumori locali, una febbricciattola del sistema democratico in sé granitico. La beata auto-celebrazione della “democrazia” ha accompagnato anche l’elezione di parlamentari in collegi per motivi vari rimasti vacanti e assegnati come feudi blindatissimi a candidati di assoluta fiducia del “mandante”. Paradigmatiche rimangono l'elezione del dottor Antonio Di Pietro (il fu stato magistrato più amato dagli italiani) nel collegio del Mugello e (in tempi meno arcaici ma dal profilo identico) quella di taluni “democratici” nel collegio di Siena, passato di mano in mano sino a Enrico Letta, sciacquato nella Senna. In molti casi tali “ludi cartacei” (come li definiva quel tizio che poi agli italiani impose il voto obbligatorio) si risolsero in una finzione mortificante, fatta apposta per dissuadere qualunque tentativo di capovolgere l'esito scontatissimo con candidature alternative. Un seggio parlamentare venne procacciato, quando era ministro, a Roberto Gualtieri, che lo abbandonò per la candidatura, molto più ghiotta, a sindaco di “Roma capitale” in vista del Giubileo, con tutto quel che ne discende in termini di potere e di controllo di fondi pubblici e privati nel prossimo triennio.
   Vien bene, a proposito della Città Eterna, memorizzare quanto ha detto papa Francesco il 2 febbraio agli 82 gesuiti congolesi guidati dal padre provinciale Rigobert Kyungu S. J., raccolti a dialogo anziché ad audiendum verbum dopo l'incontro di preghiera nella cattedrale “Notre Dame du Congo” a Kinshasa: “La chiesa, ha osservato il pontefice, non è una multinazionale della spiritualità”. Si contrappone alla “cultura pagana molto generalizzata” , distillato di “denaro, potere e fama”, opposto a “vicinanza, misericordia e tenerezza”. “Le istituzioni senza vicinanza e senza tenerezza faranno anche del bene, ma sono pagane”. Sappiamo a chi si riferisce.
   Il rifiuto di un numero crescente di cittadini di accedere ai seggi elettorali, dunque, non è affatto nuovo ma dallo scorso 12 febbraio si è imposto all'attenzione in misura assillante, sia per le percentuali, salite in parecchi comuni e in alcuni quartieri oltre la soglia più pessimistica, sia per la specificità delle due regioni chiamate a rinnovare il presidente e il consiglio. Per abitanti, reddito pro-capite e “rappresentatività”, il Lazio e la Lombardia sono altra cosa rispetto a “consorelle” chiamate al voto alla spicciolata in precedenti occasioni. Valga il caso dell'Umbria, ove il Partito democratico registrò la prima inattesa sconfitta. Lì la posta in gioco attizzò la partecipazione. In consultazioni successive la partecipazione andò sempre più scemando. Il campanello d'allarme fu ignorato. Ma ora? Una settimana addietro l'elettorato ha voltato le spalle malgrado la mobilitazione di un'imponente  macchina promozionale, risultata autoreferenziale e non priva di risvolti e risultati patetici, come quella frettolosamente allestita a sostegno della dottoressa Letizia Maria Brichetto Arnaboldi Moratti.
Eletti e votati quando c'era il re...
Per valutare se la frana dell'afflusso ai seggi elettorali sia davvero grave giova un sintetico panorama della storia delle elezioni. La premessa è scontata. Il diritto di voto fu la grande conquista della democrazia partecipativa moderna. Non quella dell'antichità, che ad Atene e a Roma lo riservava a minoranze o lo immaginava decisione “diretta” della comunità auto-convocata (alla Rousseau, per intenderci), ma quella varata in Francia dopo la Rivoluzione dell'Ottantanove. Malgrado ben noti e deplorevoli eccessi, il suffragio universale è speculare alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Scandì le sue diverse fasi e le svolte che si susseguirono, sino ai plebisciti chiesti da Napoleone Bonaparte per avallare il colpo di Stato del 18 brumaio e la sua proclamazione a imperatore dei francesi. Il “modello” fu esportato nei Paesi via via contagiati dal messaggio rivoluzionario e/o assoggettati dalle armate napoleoniche. Segnò un punto di non ritorno. Dopo il crollo di Napoleone, la richiesta di ripristinare assemblee elettive rimase obiettivo dei liberali costituzionali al di qua e al di là dell'Atlantico.
   Come scrisse Giosue Carducci, che lo sapeva per cognizione personale, furono le “società segrete” (anzitutto la massoneria) a praticare e a predicare i due canoni cardinali della politica moderna: elettività alle cariche, durata ope legis del loro esercizio e rielettività solo dopo un congruo intervallo per scongiurare il rischio che l'esercizio del potere (non del solo “capo” ma anche del suo “seguito) si trasformi da democratico in indeterminato e generi fatalmente il culto della personalità e determini la fuoriuscita dal regime costituzionale. Per rimanere al “caso Italia”, dopo decenni di cospirazioni, moti e insurrezioni il Quarantotto di metà Ottocento vide fiorire una molteplicità di Costituzioni. La più limpida e feconda fu lo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Savoia nel regno di Sardegna il 4 marzo 1848, preceduto dalle regie patenti che nel novembre 1847 introdussero l'elettività dei consigli comunali, provinciali e divisionali, modellati sull'esempio dell'età franco-napoleonica. Il voto era riservato a un numero esiguo di cittadini e non era obbligatorio. Per eleggere deputati in collegi uninominali ai seggi si recava chi voleva. La legge elettorale però prevedeva che al primo turno dovesse affluire almeno un terzo degli aventi diritto, pena la nullità della votazione. Era la garanzia della rappresentatività effettiva degli eletti, fondata sulla partecipazione degli aventi diritto, non sulla loro indifferenza. La storia, con secoli di dominio straniero e di guerre contro gli invasori aveva insegnato  che i cittadini dovevano far quadrato a sostegno delle istituzioni anche attraverso la leva militare obbligatoria, prolungata con la “milizia paesana” di cui ha scritto il generale Oreste Bovio in “Pagine di storia” (Ed. Roberto Chiaramonte, 2023). 
   I pilastri dello Stato erano tre “S”: la Spada, la Scheda, i Soldi. L'articolo 25 dello Statuto era chiarissimo: i regnicoli contribuivano “indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato”. Per gli evasori fiscali, come per evasione dall'obbligo di leva, non erano previsti sconti. 
   Con la proclamazione del regno d'Italia la legge elettorale di quello di Sardegna divenne nazionale. Come ricorda Pierluigi Ballini, la percentuale dei votanti si attestò costantemente intorno al 60%. L'affluenza più elevata venne registrata in Sicilia e nel Mezzogiorno. Finalmente liberi dai Borbone, i meridionali scommisero sulla nuova dirigenza di votati, molti dei quali avevano alle spalle decenni di prigionia o di esilio. Erano vocati. La partecipazione al voto rimase nettamente inferiore nel Veneto e in alcune province lombarde, succube del clero anti-unitario, ove essa a volte risultò persino al di sotto del 30%. Sia la Sinistra democratica (“garibaldini”, ex mazziniani,  radicali, protosocialisti) sia alcune frange illuminate della Destra propugnarono il suffragio universale, introdotto nel 1913, quando nessuno statista immaginava che di lì a poco l'Europa si sarebbe buttata a corpo morto nella fornace della Grande Guerra. L'intervento venne deliberato dalle Camere obtorto collo e senza alcun avallo degli elettori. Fu estorto alla Camera da un governo consapevole di avere il sostegno di appena 120 deputati su 508 e che l'opinione pubblica era prevalentemente contraria. “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole...”.
   Nel regime monarchico i rappresentanti dei cittadini venivano dunque “eletti”. All'epoca erano un’élite, cioè una “dirigenza” non precostituita per nascita o censo ma votata. Chiunque poteva candidarsi. La decisione usciva dalle urne. L'elettività alle cariche e un'ampia gamma di forme di promozione sociale aprì l'ascesa alle cariche supreme anche a cittadini di modeste condizioni. L'elenco potrebbe essere lunghissimo. A parte il corpo diplomatico, tutti gli altri uffici dello Stato e l'ingresso nella dirigenza politica risultarono “aperti”. Accadde anche per le forze armate, in specie per l'Esercito, che vide salire in vetta un esponente della “piccola borghesia” quale Luigi Capello, comandante dell'Armata più corposa mai esistita in Italia prima e dopo di lui. Il regime statutario conciliò i principi della gerarchia e del merito, che dallo Statuto passarono nella Costituzione repubblicana (anche se largamente ignorati e spesso calpestati, come l'art. 97 secondo i quale “agli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni si accede mediante concorso” . La gerarchia era nell'organicità degli uffici, il merito veniva vagliato dalla scuola, che funse da “ascensore sociale” e propiziò l'affermazione in posizioni apicali a prescindere dalle condizioni originarie. Non per caso la legge elettorale conferì il diritto di voto sulla base del grado di istruzione, anziché solo sul censo. Tra i principali artefici della Nuova Italia bastino i nomi dell'albese Michele Coppino, il più innovativo ministro della Pubblica istruzione dal 1861 a oggi, nato da un ciabattino e da una cucitrice, e di Carducci. Figlio di un “chirurgo” squattrinato (non “medico”, come all'epoca accadeva), allievo all'Università grazie a una “borsa di studio”, fu nominato docente universitario a 25 anni. Curiosamente entrambi erano stati iniziati in loggia. Coppino nell' “Ausonia” di Torino (1860), Carducci nella “Felsinea” di Bologna (1866):
   Il regime rappresentativo incentivò la partecipazione alla vita politica. Ogni cittadino sentiva di potere e dovere esercitare la sua quota di sovranità. Il corpo della “nazione”, somma dei “popoli d'Italia” come argomentò Vittorio Emanuele II, era il vivaio dal quale la Terza Italia attingeva sempre nuove energie sulla base della libertà del voto.
   Per ironia della sorte o per l'eterogenesi dei fini che si diverte a deviare l'illusorio “corso della storia”, proprio l'avvento del voto universale maschile e dei partiti di massa (1919) precipitò il Paese sulla china che condusse al regime di partito unico, al voto obbligatorio, alla tessera di partito quale requisito indispensabile per l'accesso ai pubblici impieghi e al giuramento di fedeltà al duce del regime, imposto a tutti gli impiegati, compresi i docenti universitari. Accadde in Italia ma all'epoca molto peggio avveniva nell'Unione sovietica e in altri Stati totalitari di Europa e di altri continenti. Nel 1929, 1934 e 1939 votò il 98% degli “aventi diritto” e il governo ottenne ogni volta consenso plebiscitario. Gli  eletti non erano propriamente “élite” ma i più “devoti al partito” anziché all'Italia, col risultato che il nazionalismo si risolse nella catastrofe dello Stato. Quanti “gerarchi” erano “vocati”?
… all'alba  della repubblica...
Dal crollo del partito unico e dalla discussa vittoria sulla Monarchia la Repubblica ereditò l'obbligo del voto. Sui documenti di quanti lo evadevano veniva stampigliata la scritta mortificante “Non ha votato”, quasi fosse una colpa “morale” oltre che una (non sempre voluta) infrazione di legge. Alcuni insigni giuristi liberali, come Giovanni Cassandro, propugnarono l'obbligatorietà del voto, nella visione superiore del concetto di cittadinanza. La realtà però rimase altra. Ampia parte dell'elettorato restò succuba di pulsioni estreme. Erano gli anni della cortina di ferro, della divisione tra Democrazia cristiana e Fronte popolare, di temute insurrezioni eterodirette, ampiamente documentate da opere recenti quasi subito dimenticate. Le scelte razionali rimasero professione di minoranze esigue. Il partito d'azione, che contò sulla concentrazione più elevata di “intelletti”, si frantumò quattro mesi prima dell'elezione della Costituente. Giuseppe Saragat, che guidò parte dei socialisti italiani verso la libertà democratica, venne lapidato dai socialcomunisti. Come poi accadde a Bettino Craxi.
   Al netto delle critiche che li angustiarono e ne profetizzarono il tramonto, per un un trentennio i partiti alimentarono la partecipazione alla vita pubblica e il rinnovamento della dirigenza attraverso i loro riti interni e quelli elettorali, dai piccoli comuni al Parlamento. Il cittadino rimase a lungo convinto che, sommando un voto all'altro, la sua scelta personale potesse davvero incidere e determinare il corso generale della vita politica.
   Quando si spensero le illusioni? Paradossalmente proprio quando l'orizzonte divenne meno fosco: il crollo dell'Unione sovietica, la riunificazione della Germania, l'alba dell'Unione europea. Preceduta dalla “prova generale” dell'artificioso “scandalo” montato sulla '“P2” (una mistificazione da ricordare per tutte le sue nefaste conseguenze), dal 1992-1993 la campagna di discredito dei partiti e della “politica” (con rutto di tamburi di certi “media”) travolse il regime repubblicano postbellico senza generarne un altro. Dei vecchi “soci” del Comitato di liberazione nazionale sopravvisse solo l'ex Partito comunista italiano.
   Dalle macerie non nacquero fiori. Iniziò la grande fuga dalla vita pubblica. Il processo fu lento ma inarrestabile. Ora se ne vedono le conseguenze ultime. Vale per la “politica” come per l'istruzione pubblica. Bastarono pochi anni per svuotare la Scuola. Occorreranno generazioni per rimediare al guaio. Chiusa l'epoca degli uomini cosmico-storici (come descritti da Hegel) seguì quella dei comici e/o di “avvocati del popolo”, tribuni né eletti né vocati. Piaccia o meno, nel 1994 e per altre due volte Silvio Berlusconi ebbe il suffragio di metà dei voti, molto molto più di quanti ne ha avuti il partito dell'attuale presidente del Consiglio, che il 25 settembre 2022 ottenne i 16% degli aventi diritto al voto.
   Tempo è venuto di domandarsi perché manchino non tanto elezioni (convocate per ratificare candidati pre-confezionati) ma “vocazioni”. Occorre ripartire dalla centralità dello Stato, garante dei diritti dei cittadini, e da un'amministrazione pubblica rispondente alle loro urgenze quotidiane. Altrettanto, e ancor più, vale per le decisioni sul problema dei problemi: la politica estera e militare in un mondo che è in guerra e che, come ricorda papa Francesco dichiarandosi “un po' pessimista”, va “avanti, avanti, avanti verso il baratro.”
    Chi si illude che si possa ignorare quel che pensano i cittadini sino alle elezioni dei deputati all'Europarlamento nel 2024 e che nel frattempo tutto resta com'è ha un'idea bislacca della democrazia elettorale, della “rappresentanza”, e confonde la pazienza con la rassegnazione a non contare nulla. Ma oggi i cittadini sono informati e controllano le zampate “der Re leone”.      
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Hieronymus Bosch (1460 ? - 1516 ). L'imbonitore. Molti scommettono sulla “credulità popolare”. Promettono. Ma oggi i cittadini sono informati e non si fanno più abbindolare. Le Istituzioni, tutte, debbono dare risposte. La massiccia astensione dal voto non è una passeggera febbre influenzale ma patologica.    


IL PARTITO DELLO STATO
I SENATORI DEL REGNO, NON ELETTI MA VOTATI


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 12 febbraio 2023 pagg. 1 e 6.

Luigi Girolamo Pelloux (La Roche en Savoie, 1839-Bordighera, 1924). Figlio di un medico eletto al Parlamento subalpino (1857-1860), allievo dell'Accademia militare di Torino, alla cessione della Savoia alla Francia (1869) optò per la cittadinanza italiana, come già aveva fatto suo fratello Leone nel 1860. Comandò l'artiglieria che il 20 settembre 1870 aprì la breccia a Porta Pia. Eletto deputato a Livorno nel 1881 e confermato alla Camera sino al 1892, ministro della guerra nei governi Rudinì, Giolitti e ancora Rudinì (1891-1896), fu presidente del Consiglio nel 1898-1900. Lasciato il servizio militare (1902) si stabilì a Bordighera, ove morì. Venne nominato senatore nel 1896, come suo fratello. Lo storico Oreste Bovio, autore di “Pagine di storia” (Chiaramonte Ed., 2023), in “Sacerdoti di Marte” (Ed. Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito) ha giustamente scritto che “La patente di reazionario che ancora oggi alcuni studiosi attribuiscono a Pelloux è del tutto ingiustificata”. Ma i “luoghi comuni” e i “manuali” scolastici sono rigidi: “rigor mortis”. 
Didascalia
    La Costituzione è “rigida”? Allora va ripensata.
   I costituzionalisti insegnano che lo Statuto Albertino del 1848 era flessibile mentre la Costituzione della Repubblica è rigida. Ma non è affatto immutabile. Quando lo ha voluto, il legislatore l'ha modificata, talvolta in modo opportunistico e maldestro. L'intero Titolo V (Regioni, province, comuni) è stato messo a soqquadro da una maggioranza risicata. Fatto il danno, diviene difficile riparare. Vittime illustri delle Camere sono stati gli articoli 56 e 57 della Carta, con il drastico “taglio” di deputati e senatori, senza significativo risparmio per lo Stato né miglioramento apprezzabile della qualità dei “rappresentati della Nazione”. Mentre occorre la diversificazione di formazione e competenze delle due Camere, il Parlamento ha conferito l'elezione del Senato ai diciottenni (qualcuno proponeva i sedicenni) nella fatua illusione di ampliare la partecipazione al voto. E allora? L'astensione aumenta sia nelle “amministrative”, sia nelle “politiche”. Le “verità” sono “scomode”, ma vanno dette. La Carta vigente fu pensata e approvata con l'occhio rivolto a un passato che nel gennaio 1948 era già remoto. Quando già esisteva l'ONU e, a fronte della “guerra fredda”, l'Italia stava per aderire alla Nato (1949), la Costituzione non affrontò il “problema dei problemi” di uno Stato sia pure a sovranità limitata, cioè la politica estera, fugacemente accennata nell'articolo 11 (“L'Italia ripudia la guerra...”), destinato a rimanere una petizione di principio. Perciò, al netto di elogi d'occasione, bisogna prendere che venne scritta mentre incombeva l'imposizione del punitivo “Trattato di pace”, quando non esisteva neppure l'ombra dell'Unione Europea, del G7, del G20 e dei rapporti globali odierni economici e, purtroppo, militari. In quel “mondo” Africa e Asia erano ancora “colonie”. La Carta va “ripensata” nel suo insieme. Il “corpo” dello Stato d'Italia è cresciuto. Per dargli una veste istituzionale non bastano “rattoppi” occasionali. Come da decenni si ripete, occorre una stagione costituente. 
   Analogo interrogativo si pose sul finire dell'Ottocento a proposito del Senato del regno.
Una Camera “ringiovanita”. Un Senato immobile. 
Il 29 giugno 1881 il Parlamento approvò la legge elettorale proposta dalla “Sinistra storica” guidata da Agostino Depretis. Il diritto di voto fu conferito ai maschi che sapessero leggere e pagassero 19,80 lire di imposte dirette, una somma modesta. Gli elettori crebbero da seicentomila 600.000 a poco più di due milioni, il 20 per cento dei maschi ventunenni. Nel maggio 1882 fu introdotto lo scrutinio di lista in collegi circoscrizionali, per garantire l'elezione di candidati di minoranza: un sistema arzigogolato. Nel 1892 si tornò al collegio uninominale, ancor oggi rimpianto, nel quale l'elettore può essere ingannato una volta sola e diffida di candidati paracadutati “dall'alto”.Secondo Giuseppe Galasso, storico sommo, nel 1882 vennero eletti deputati competenti e assidui ai lavori. 
  Risultò quindi urgente “ammodernare” anche il Senato, che era di nomina regia e vitalizio. Ma come? A intuire che la sua immobilità poteva essere pericolosa per il futuro delle istituzioni  fu  Ruggiero Bonghi (Napoli, 1826-Torre de Greco, 1895), deputato dal 1860, già ministro della Pubblica istruzione. Nel 1884 denunziò nella “Nuova Antologia” il decadimento del “regime parlamentare”: “L’uno o l’altro partito diventa governo. Ebbene, quantunque il partito che occupa il governo abbia una maggioranza in suo sostegno, non è punto certo che la rappresenti, anzi è assai probabile, e in più casi è più che probabile, che non la rappresenti. Se è così, che cosa resta di rappresentativo al regime parlamentare? Gli eletti non rappresentano i collegi; i partiti dividono la Camera, nessun d’essi la rappresenta, non che tutta, neanche in maggioranza. Non v’ha dubbio, il regime parlamentare si è sviluppato dal rappresentativo; ma è un figliuolo che ha soffocato il padre. Quando io penso al regime stesso, così come vige tuttora, mi ricorre a mente quel verso - cattivo, sì, ma non peggio di quanto va diventando la cosa -: Questi è un uomo che morra.” 
  Lo pensava anche Marco Minghetti, ultimo presidente del Consiglio della “Destra storica” (1873-1876). “Per mio avviso”, questi scrisse nel subito celebre saggio su “L'ingerenza dei partiti nella pubblica amministrazione”, “la Corona deve accuratamente serbare le prerogative che le accorda lo Statuto e mai lasciare che altri le usurpi, imperocché quelle prerogative, ben usate sia nella scelta di ministri sia negli scioglimenti della Camera, possono in talune circostanze salvare il Paese.” Tra di esse spiccava la scelta dei senatori, che non poteva essere lasciata in balìa del presidente del Consiglio di turno, come Depretis, giunto a farne nominare 220 in otto anni e nove mesi di governo. Riempiendo il Senato di ex deputati ligi al governo impoveriva la dignità della nomina regia, spogliava la Camera Alta della sua superiore indipendenza dalle passioni partitiche contingenti e recideva alla radice il suo requisito di Istituto super partes.
   Decenni prima, nel saggio  sulla Monarchia rappresentativa in Italia Cesare Balbo aveva configurato il Senato quale vera e propria élite. “Soffiando su tutta Europa continentale il vento democratico del Quarantotto, tutti gli statuti italiani dati al principio di quell’anno fecero senati non ereditari ma a vita. Se invece di gennaio, febbraio e marzo, fossero nati nei mesi successivi, è poco dubbio che non sarebbero rimaste nemmeno quelle due ultime reliquie aristocratiche dell’elezione dei senatori fatti a vita e da principi: ché i senatori si sarebbero fatti eleggere a tempo dal popolo. Un senato per rimaner senato, per fare effetto diverso in qualche parte dalla Camera dei deputati, debb’essere diverso da questa, diverso nella durata e nell’elezione. Se vogliamo istituzioni repubblicane, facciamo una repubblica; ma se vogliamo monarchia, facciamo istituzioni monarchiche; verità sempre da per tutto; in tutto verità.”
   Determinante per la continuità del Senato fu il passaggio di Francesco Crispi dai fautori dell’elettività di entrambe le Camere (propugnata dal cattolico Fedele Lampertico e, ai suoi esordi, da Domenico Farini, componente del Consiglio dell'Ordine del Grande Oriente d'Italia) a quella della esclusiva nomina regia dei patres conscripti. Ebbe il conforto dalle amare riflessioni di Gaetano Mosca sulla nuova classe dirigente: “Il tempo farebbe pure dimenticare la prima origine impura di molte fortune e molte influenze; ai figli nati in elevata fortuna sarebbero risparmiate le bassezze e le contraddizioni che, per arrivarvi, furono necessarie ai padri...”.  
   Materia prima della “teoria delle élites” elaborata da Mosca fu proprio il Senato del Regno.
  Per una fortunata congiunzione astrale tra calcoli di potere e invenzioni della “buona stella” che costituiscono caratteristica della storia d’Italia, a conferma dell’eterogenesi dei fini anche nella vita politica, proprio Crispi e il suo emulo Giolitti di infornata in infornata gonfiarono a dismisura il corpo del Senato ma al tempo stesso ne serbarono elevato il rango, riscattandosi dall’insinuazione che la quantità dovesse necessariamente comportare lo scadimento della qualità. Ogni nuovo senatore recò alla Camera Alta un capitolo della storia d’Italia, che affondava radici nelle cospirazioni liberali e nelle patrie battaglie del Risorgimento.
   In quegli anni entrarono in Senato Giosue Carducci, maestro e vate della Nuova Italia e Costantino Nigra, decano della diplomazia. Sarebbe stato umiliante che per concorrere alla vita parlamentare italiana quelle personalità dovessero assoggettarsi a notabili locali, talora più forti persino del potere corruttivo di prefetti e viceprefetti, come narrò Amedeo Nasalli Rocca nelle sue gustosissime Memorie di un prefetto. Accadeva, per esempio, che, non essendo riuscito a convincere gli elettori a votare per il candidato che gli era stato raccomandato, il sindaco di un piccolo borgo scolasse da solo tutto il vino acquistato coi fondi neri governativi per propiziarne il successo e venisse rinvenuto ubriaco in un fosso: sconfitto, alle urne e senza speranza di essere premiato con l’ambita croce di cavaliere.
   Nominato presidente del Consiglio, Giolitti camminò nel solco tracciato da Depretis e Crispi. Nelle due infornate del 10 ottobre e 21 novembre 1892, prima e dopo il rinnovo della Camera, tra parecchi patres di fama non imperitura inserì quanti bastavano a conservare lustro alla nomina regia e vitalizia.
   Nel 1892 il Senato riservò a Giolitti un’accoglienza gelida. Il suo governo contava un solo pater, il savoiardo ammiraglio Antonio Pacoret de Saint-Bon, che morì pochi mesi dopo la nomina. Un affronto alla Camera Alta? Il precedente ministero, però, presieduto da Antonio di  Rudinì, ne aveva avuti appena due. La ragione era dunque altra. In Giolitti la Camera Alta intravvide chi avrebbe chiesto ai patres che non si contentassero del laticlavio come fosse una onorificenza, ma concorressero con maggiore partecipazione al grigio travaglio di elaborazione delle leggi. Alla proclamazione del Regno, nel 1861, i senatori erano 211. Dopo il trasferimento della capitale da Torino a Firenze risultavano 276. Divennero 308 con l’annessione di Roma. Nel passaggio dalla Destra alla Sinistra (marzo 1876) se ne contavano 328. Depretis li portò a una media di circa 330 durante il suo decennio di governo. Crispi li fece balzare a 411 nel 1890 e a 416 nel 1891. Giolitti, fece di più. Li accrebbe a 464. Poche decine meno dei 508 deputati. Come prevedibile, venne chiamato a darne conto in Assemblea. Andrea Guarneri lo accusò di mettere a repentaglio l’intero edificio “alla cui sommità v’ha, o signori, la Maestà del Trono di Italia”. Come al solito, Giolitti eluse le questioni di principio, terreno lubrico d’interminabili dispute bizantine, e andò al punto che gli premeva. Da anni la Camera Alta faceva registrare un grave e non edificante assenteismo. Nelle due votazioni più importanti della precedente legislatura (1890-1892), sull'abolizione dello scrutinio di lista e ritorno al collegio uninominale e sull’esercizio provvisorio del bilancio per sei mesi, dei 375 senatori in carica in aula se ne contarono appena 83 per la prima legge e 116 per la seconda. Quello fu anche il numero di presenze più elevato fatto registrare dai patres nell’arco dell’intera legislatura: meno di un terzo dei componenti. Non era dunque il governo a mancare di rispetto al Senato immettendovi energie nuove, in gran parte provenienti dalla Camera e quindi aduse alla dialettica parlamentare. Erano i senatori, a volte presuntuosi e assenteisti,  ad aver trascurato il loro dovere. La Camera Alta non era un’Assemblea di congerrones, cioè di compagnoni, come avrebbe lamentato a suo tempo Marco Tullio Cicerone, che in Aula si trovavano di quando in quando quasi per divertimento. Il Senato del Regno era la Prima Camera. Tenuta, come l’antica, a far sì che sempre si dicesse “Senatus populusque romanus” e mai “Populus et senatus”. La differenza non era poca. Il Senato doveva comprovare con la propria condotta che il re tale era “per grazia di Dio” prima che “per volontà della nazione”. Giolitti era conscio che non tutte le assenze potevano essere addebitate a negligenza, giacché molti senatori erano anziani, cagionevoli di salute, residenti in lande remote dalla capitale, difficile da raggiungere per chi abitava nelle grandi isole o nelle province periferiche del Regno. Ammise che gli ex deputati costituivano il gruppo più numeroso dei nuovi senatori. Ma se il Senato voleva non solo una “vetrina” di celebrità ma un'assemblea politica, poiché non ci si poteva attendere partecipazione assidua di diplomatici, militari, magistrati, scienziati, cattedratici e accademici in missione e dediti alle loro discipline, era bene che la Camera Alta venisse rinvigorita con ex deputati, molti dei quali avevano titoli anche per altre categorie. 
Come veniva preparata una “infornata”? 
In pagine scritte col pennino intinto nell’amaro inchiostro di chi temeva l'avvento dei clericali, nel Diario di fine secolo Domenico Farini lasciò resoconto minuzioso di come fossero decisi i laticlavi da proporre al Re, Umberto I. Narrò il colloquio avuto all'Hotel “Suisse” di Torino con il presidente del Consiglio generale Luigi Pelloux. Scorrendo le liste trasmessegli dal precedente presidente del Consiglio e quelle da più parti pervenute i due passarono in rassegna vizi e virtù degli aspiranti senatori. Poiché la Camera Alta contava un solo ammiraglio, che a detta del ministro Benedetto Brin non sapeva né leggere né scrivere, s’imbatterono nella candidatura di un suo pari grado che secondo il re era “un grande intrigante”. A Pelloux risultava anzi che mentre era imbarcato sul “Colombo” aveva persino rubato. Occorreva bilanciare nomi di sinistra con altri di destra. I due si scambiarono battute feroci. Miceli era “un rammollito”. La candidatura dell’ex deputato di Milano Luigi Rossi pareva sostenuta dalla duchessa Litta (vale a dire dal re, di cui era notoriamente intrinseca) benché fosse mezzo radicale, mezzo socialista, dotato di ingegno e cultura e quindi “un uomo che può riuscire in Assemblea molesto”. Ulderico Levi, in aggiunta a Ugo Pisa, avrebbe portato gl’israeliti a due su trenta in una sola tornata. Troppi. “E di Parpaglia che dici?” domandò Pelloux. Farini di rimando: “mi pare una brava persona, ma bada, in Sardegna che ora ha un solo senatore, vi ha un vecchio parlamentare che non si può trascurare: il Salaris”. Pelloux replicò: “Sì... il Salaris... ma è vecchio e non verrà mai. Parpaglia è ottimo”. Farini: “Ma Salaris, ufficiale fino dal 1848 nei cacciatori sardi, è un liberale, ha undici legislature”. “E del Piaggio, ex deputato, che diresti?” domandò Pelloux. Rispose Farini: “Non credo si debba nominare chi è direttore d’una società come quella di navigazione, tanto legata al Governo”. Pelloux: “Così pare anche a me. Ma dicono che il Piaggio è amministratore delegato e non direttore generale... ”. “Questa è ipocrisia da curiali, quasi che il titolo muti la sostanza...”. Infine i due concordarono nel deplorare “il pettegolezzo giornalistico intorno alle nomine senatorie, le autocandidature, le sfacciate pretese, le impudenze inaudite”. A un certo punto Pelloux esclamò che “in mezzo a tanto putiferio, il meglio sarebbe di non far nulla di nulla”. Fu incoraggiato da Farini che gli osservò come i patres già fossero 326, oltre a tre che ancora non avevano prestato giuramento e a cinque principi del sangue, uno dei quali gli era inviso per legami con gli Orléans. Era il 13 ottobre 1898.
  Il 17 novembre avvenne l’infornata di trenta senatori, aperta proprio dall’uomo del “Colombo”. Comprese Giuseppe Carle, Antonio Cefaly, diadoco di Giolitti nel Mezzogiorno e massone, il garibaldino Abele Damiani, che Pelloux aveva detto a Farini di non volere “assolutamente”, i due ebrei Ulderico Levi e Ugo Pisa, Luigi Miceli, Salvatore Parpaglia (ma non Salaris), Erasmo Piaggio e il giolittiano e proprietario della “Stampa” di Torino, Luigi Roux, perché in fondo, pettegolezzi per pettegolezzi, era bene avere amico almeno uno dei giornali più influenti.
Malgrado tutto...
   Il Senato mostrò di essere il luogo istituzionale più propizio per lanciare messaggi politici a futura memoria, come il conferimento dei collari della SS. Annunziata a sovrani, presidenti di repubbliche e principi esteri lo era per le linee che lo Stato si apprestava a percorrere nelle relazioni internazionali. Se n’ebbe la conferma il 14 giugno 1900. Nel 1870, l’anno di Porta Pia, alla Camera Alta venne chiamato il laniere di Schio Alessandro Rossi, clericale e massonofago. Nell’anno del Giubileo il laticlavio fu conferito ad Antonio Fogazzaro, il più prestigioso scrittore cattolico italiano tra Otto e Novecento, più volte candidato al premio Nobel per la letteratura come documentato da Enrico Tiozzo. La Corona non precludeva l'Aula senatoria ai talenti acclarati e non badava alle contese in corso tra clericali e anticlericali. Lo scrittore era “un nome”. 
   Va ricordato infine che l’ingresso in Senato non comportava alcuna remunerazione e neppure alcuna “quota” da parte dei suoi componenti: una un “patto” alla pari tra Monarchia e Patres, come spiegò Luigi Einaudi, monarchico e liberale “a schiena dritta”.
    Il regio Senato, in sintesi, era e rimase un “élite”, con tutte le contraddizioni interne del nome, che indica una classe dirigente esistente “di per sé, non “eletta” (élite derivi da eligere) e tuttavia “votata”: non dal suffragio popolare, però, ma dalla propria vocazione. Un groviglio che merita un'apposita trattazione. 
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Luigi Girolamo Pelloux (La Roche en Savoie, 1839-Bordighera, 1924). Figlio di un medico eletto al Parlamento subalpino (1857-1860), allievo dell'Accademia militare di Torino, alla cessione della Savoia alla Francia (1869) optò per la cittadinanza italiana, come già aveva fatto suo fratello Leone nel 1860. Comandò l'artiglieria che il 20 settembre 1870 aprì la breccia a Porta Pia. Eletto deputato a Livorno nel 1881 e confermato alla Camera sino al 1892, ministro della guerra nei governi Rudinì, Giolitti e ancora Rudinì (1891-1896), fu presidente del Consiglio nel 1898-1900. Lasciato il servizio militare (1902) si stabilì a Bordighera, ove morì. Venne nominato senatore nel 1896, come suo fratello. Lo storico Oreste Bovio, autore di “Pagine di storia” (Chiaramonte Ed., 2023), in “Sacerdoti di Marte” (Ed. Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito) ha giustamente scritto che “La patente di reazionario che ancora oggi alcuni studiosi attribuiscono a Pelloux è del tutto ingiustificata”. Ma i “luoghi comuni” e i “manuali” scolastici sono rigidi: “rigor mortis”. 



PER UNA NUOVA COSTITUENTE
IL SENATO DEL REGNO, PER ESEMPIO 


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 5 febbraio 2023 pagg. 1 e 6.

Carlo Alberto di Savoia-Carignano, Re di Sardegna. Busto in marmo. Un tempo orgoglio del Palazzo civico di Saluzzo, da lui donato al Comune.   Tra i primi 58 patres nominati da Carlo Alberto il 3 aprile 1848 per costituire il Senato del regno di Sardegna spiccano Cesare Alfieri di Sostegno, Gaspare Coller, nominato presidente del consesso, Alessandro e Annibale di Saluzzo, Alberto Ferrero della Marmora, Carlo Ignazio Giulio, Giuseppe Manno, Giovanni Nigra, Emanuele Pes di Villamarina, Luigi e Giacinto Provana di Collegno, Vittorio Amedeo Sallier de la Tour, Lodovico Sauli d'Igliano, Roberto Tapparelli d'Azeglio, Girolamo Tornielli, Cesare Trabucco di Castagnetto. Con decreti successivi nominò senatori, fra altri, Ettore Gerbaix de Sonnaz, l'arcivescovo Luigi Nazari di Calabiana, Agostino Chiodo, Ferdinando Prat, Luigi Cibrario, Gabriele De Launay e don Ferrante Aporti.    Nei primi tempi di regno Vittorio Emanuele II creò senatori Luigi Des Ambrois de Nevache, Federigo Sclopis, l'archiatra Spirito Riberi (al quale, spirando, il garbatissimo Carlo Alberto disse “Vi voglio bene, Riberi; ma muoio”), Luigi Provana del Sabbione, Cesare Della Chiesa di Benevello, Ferdinando Arborio Gattinara di Breme e Giuseppe Siccardi, che legò il nome all'abolizione di privilegi ecclesiastici.      Per una rassega delle costituzioni vigenti in Italia  dal Settecento a oggi v. “Le Costituzioni italiane” a cura di A. Aquarone, M. D'Addio e G. Negri, Milano, Comunità, 1958, ricalcato in parte da “Le Costituzioni Italiane, 1786-1948” a cura di E. Fimiani e M. Togna, con prefazione di Maria Elena Boschi e prefazione di Giovanni Legnini, L'Aquila, Textus, 2015.
Didascalia
    All'outlet del costituzionalismo imperfetto?  
 Nuovamente molto si parla di riforma dello Stato.Vengono presi a prestito istituti di terre lontane, diversissimi, come presidenzialismo, semipresidenzialismo, primierato e simili, e proposti alla rinfusa, come capi di vestiario in svendita all' Outlet del costituzionalismo imperfetto. Con le solite condizioni allettanti: soddisfatti o rimborsati, oppure “si accettato resi”. Se dopo la prima sommaria prova “nel camerino”, il“popolo”constata che la giacca risulta di manica troppo larga o troppo lunga e il pantalone cade male può restituire e indossare un altro abito...costituzionale? Ogni quante stagioni? Così non funzionano le forme dello Stato. Due considerazioni s'impongono: in primo luogo, come mai altrove gli Stati hanno una forma che dura nei secoli? Si vedano la monarchia britannica, gli Stati Uniti d'America e, dopo vari esprimenti, la repubblica francese, punto di arrivo di un processo millenario che fa di Macron il successore di De Gaulle, Napoleone, Luigi XIV, sino alla unzione davidica dei re. Qual è il segreto  della lunga durata delle Istituzioni? Semplice: durano quando calzano ai popoli, i cui caratteri – come ricorda il generale Claudio Graziano in “Missione” - sono frutto di secoli e secoli. Lo stesso vale per l'Italia, uno stato giovane, che somma circa cent'anni di monarchia rappresentativa e settantacinque di repubblica parlamentare: un sistema il cui pregio principale sta nella continuità, come ognuno  capisce se confronta  lo Statuto albertino del 4 marzo 1848 con la Costituzione del 1 gennaio 1948. Chi voglia approfondire può leggere con profitto il libro di Tito Lucrezio Rizzo, per decenni Consigliere del Quirinale, Il Capo dello Stato dalla Monarchia alla Repubblica, 1848 al 2022 (ed.Herald). 

  La riforma costituzionale anni addietro proposta da Matteo Renzi puntava al riassetto armonico dei tre poteri apicali dello Stato, con opportune modiche di competenze, ma nella piena salvaguardia  della loro identità, necessaria all'equilibrio della democrazia, garantita dalla sovranità dei cittadini. Non cedeva alla chimera dell' uomo unico (e “forte” ) al comando né alle sirene del monocameralismo, tipica dei giacobini e dei sovietici e realizzata dalla non rimpianta Repubblica sociale italiana. Anni di impossibile diarchia di partito unico e monarchia rappresentativa si risolsero  nella prevalenza logico-cronologica della monarchia costituzionale, che ispirò i costituenti quando scrissero la Carta della repubblica parlamentare.
Merita dunque ripercorrere per sommi capi genesi e vita del Senato del Regno, che dal 1848 dette corpo al regime parlamentare in Italia e propiziò lo sviluppo civile, sociale, economico e culturale del Paese sorto dall'accorpamento dei popoli d'Italia raccolti attorno al tricolore sabaudo. Senza indulgere a sterili accenti nostalgici, stiamo ai fatti. Lo Statuto albertino nacque in un mese di  “Consigli di conferenza” presieduti personalmente da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, sovrano di un regno che usava ufficialmente due lingue  e, caso unico  in Italia, rispettava tre confessioni religiose: la cattolica (di Stato), la valdese e l'israelita e riconobbe i cittadini uguali dinanzi alle legge, osservassero o meno un culto. L'importate era che rispettassero le leggi e fossero fedeli al re e a suoi reali successori per il  bene indivisibile del patria.
Vediamo dunque il primo mezzo secolo del Senato del Regno, dall'origine a fine Ottocento. In altri articoli parleremo delle sue vicende successive. E' il modo pacato di offrire un contributo costruttivo al confronto sulle riforme costituzionali che ricorrentemente si affaccia sull'orizzonte della politica non inquinata da urla scomposte.
Quando Carlo Alberto istituì il Senato
   Fra il 3 aprile 1848, Carlo Alberto di Sardegna nominò i primi 58  senatori  e le ultime nomine decretate da Vittorio Emanuele III il 6 febbraio 1943, il Senato del Regno contò in tutto 2404 membri designati. Però solo 2362 furono convalidati e prestarono giuramento divenendo a tutti gli effetti componenti della Prima Camera o, come si disse, Camera Alta per distinguerla da quella elettiva. I senatori erano di nomina regia, vitalizi e in numero aperto. Le differenze tra natura, composizione, poteri e scopi dei due rami del Parlamento furono profonde. Lo divennero ancor più quando, per effetto della “legge Alfredo Rocco” del 17 maggio 1928 n. 1079, la Camera elettiva cessò di essere frutto di libero confronto-scontro tra partiti e candidati e risultò preconfezionata dal Gran consiglio del fascismo ertosi a “partito unico”. Il Senato assunse dignità anche maggiore quando, con la legge 19 gennaio 1939 n. 129, la Camera votata nel 1934 approvò la propria sostituzione con quella “dei fasci e delle corporazioni”, infarcita di “eletti di secondo grado”. 
Quest’ultima evocò per contrasto il ruolo che la Camera Alta era chiamata a esercitare in presenza di reiterati assalti di Mussolini allo Statuto, orgoglio per Casa Savoia molto prima che Vittorio Emanuele II fosse proclamato re d’Italia. 
La Camera dei fasci e delle corporazioni fu formata da componenti del consiglio nazionale del Partito Nazionale Fascista, dal profilo culturale e professionale generalmente modesto, e in parte dal Consiglio nazionale delle corporazioni. Quei deputati, o “consiglieri”, come ordinariamente furono detti, erano almeno venticinquenni e ricevettero indennità annua fissata dalla legge. Parecchi di essi avevano un impiego negli enti fascistizzati o parafascisti e non avrebbero avuto altrimenti di che vivere. Con votazioni sempre palesi essa  doveva deliberare entro un mese i disegni di legge che riceveva dal duce.
Invertendo la pena etrusca, il nuovo contaminò il vecchio. La legge recitò  che il Senato e la Camera avrebbero “collaborato col Governo per la formazione delle leggi”. Vennero subordinate al governo. 
“D’altronde”, affermò Mussolini in La dottrina del fascismo nel 1938 posto a preambolo del nuovo statuto del PNF, “ammesso che il secolo XIX sia stato il secolo del socialismo, del liberalismo, della democrazia”, non era detto lo fosse anche il seguente. “Le dottrine politiche passano, i popoli restano. Il fascismo vuole lo Stato forte, organico e al tempo stesso poggiato su una larga base popolare. Non crea un suo “Dio”, né cerca vanamente di cancellarlo dagli animi come fa il bolscevismo. Il fascismo rispetta il Dio degli asceti, dei santi, degli eroi e anche il Dio così com’è visto e pregato nel cuore ingenuo e primitivo del popolo.” 
In 37 articoli     lo statuto del PNF non fece alcun cenno al re né alla monarchia. I tesserandi declamavano: “Nel nome di Dio e dell’Italia, giuro di eseguire gli ordini del duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario, col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista”. Quanto quel giuramento fosse vincolante si vide il 26 luglio 1943, Benché il partito avesse raggiunto il massimo degli iscritti ma non si registrò alcuna manifestazione di massa contro la revoca di Mussolini da capo del governo. Solo un labile cenno ricordava che dalla direzione del partito dipendeva l’“Unione Nazionale Fascista del Senato. Alcuni “storici”, come Emilio Gentile,  ne hanno dedotto che il PNF avesse prono ai suoi ordini il Senato del Regno. Così però non era. Infatti l’Unione raccoglieva solo una parte dei patres conscripti, come i senatori eran detti nell’antica Roma. Il capo del governo esigeva dai dipendenti pubblici il giuramento di fedeltà al duce in aggiunta a quello al re e ai suoi reali successori ma non ricambiava chiedendo ai suoi iscritti analogo impegno verso il re, benché il Gran consiglio fosse da un decennio “organo costituzionale”: un guazzabuglio di contraddizioni creato apposta per isolare sempre più il sovrano. La Camera Alta era e rimase un osso duro da rodere da parte del Duce, perché, pur con percorso segmentato, dalla promulgazione dello Statuto esso fu l’unico fulcro di un possibile “partito dello Stato”.
Il Senato, “partito del Re”
Dagli esordi, nel 1848, il Senato del Regno si trovò tra due fuochi. Da un canto doveva assumere la funzione di “partito del re”, dall’altro acquistare rappresentatività della nazione. Le nomine di patres talora precorsero l’annessione di nuove terre alla Corona sabauda  e le elezioni della Camera dei deputati, come quelle indette a distanza ravvicinata nel 1860-1861 proprio per suggellare il conseguimento dell’unità nazionale nei confini in quel momento possibili. Gli elettori furono convocati il 25 marzo 1860 per eleggere i deputati di un Regno comprendente Lombardia, ducati padani, legazioni pontificie e Toscana da poco annessi al Regno di Sardegna, previo plebiscito. Il 29 febbraio Vittorio Emanuele II conferì 33 laticlavi senatoriali a personalità di spicco delle nuove terre. Tra il 18 e il 23 marzo seguirono due piccole “infornate” (com’eran dette le nomine di parecchi senatori in uno stesso giorno), per un insieme di altri 33 membri. Il 29 febbraio era stato il turno soprattutto di lombardi; poi fu la volta di tosco-emiliani. Tutte designazioni di alto prestigio. Rispondevano allo scopo: conservare al Senato il rango di “legione sacra” della monarchia e farne la “vetrina del Regno”, il consesso delle figure più illustri nei campi indicati dalle ventuno categorie dallequali eran tratte:  politici, militari, magistrati, alti burocrati, docenti, con speciale riguardo per gli esponenti della cultura intesa quale sintesi suprema di otium e negotium, pensiero e azione, sapere scientifico e partecipazione alla vita politica nazionale.
Altrettanto avvenne sull'inizio del 1861, dopo l’annessione di Marche, Umbria e delle Due Sicilie. I comizi elettorali furono convocati per il 27 gennaio. Una settimana prima, il 20, il re nominò 57 patres. Aperta dallo storico, arabista e patriota siciliano Michele Amari e chiusa dal giurista napoletano Giuseppe Vacca (1810-1876), poi ministro di Grazia, giustizia e culti nel governo La Marmora (1864-65), l'“infornata” comprese una carrellata di celebrità, i cui nomi riassumevano decenni di storia e talora congiungevano l’età franco-napoleonica e i moti liberali del 1820-1831 con il regno d'Italia poco dopo proclamato dalle Camere (14 marzo 1861).
Rendere parzialmente elettivo il Senato per rivitalizzarlo?
Ancor prima di essere nominato presidente del Consiglio Camillo Cavour aveva auspicato che il Senato divenisse almeno parzialmente elettivo, proprio per levargli di dosso la patina di accolta di “camelots du Roi”. Però la svolta sanguigna assunta dalla Rivoluzione in Francia e la chiassosa inconcludenza della Camera dei deputati presto lo convinsero che non era prudente insistere su propositi innovatori proprio mentre occorreva far quadrato attorno alla Corona. La sconfitta militare a Novara, l’abdicazione di Carlo Alberto, il proclama di Moncalieri, il conflitto con gli ecclesiastici fecero il resto anche se proprio in Senato il programma di modernizzazione di Azeglio e di Cavour incontrò resistenze accentuate e se Vittorio Emanuele II tentò di sostituire il primo ministro con il presidente della Prima Camera, il sardo Giuseppe Manno. 
Nel 1852 il barone Domenico Carutti di Cantogno (1821-1909, nominato senatore nel 1889) osservò che il Senato doveva rappresentare “specialmente lo spirito di conservazione”, ma rilevò che “la facoltà della Corona, assoggettando soverchiamente la podestà esecutiva, diminui(va) la considerazione e la corsa dell’intera assemblea, qualunque sia l’autorità personale dei singoli suoi membri. Tale sistema impertanto o presto o poi dovrà cedere il luogo alla elezione, verso la quale inclinano sensibilmente le società moderne”. La sua opinione non nasceva solo dal fatto che tanti suoi sodali erano stati nominati senatori ma lui no.
A chiedere che il Senato venisse abolito rimasero i sempre più rari nostalgici della Convenzione repubblicana francese del 1792, l’assemblea che dapprima votò il regicidio e poi fu teatro dell’aggressione al suo tiranno Massimiliano Robespierre e segnò il passaggio dal Terrore al Termidoro. Più ampio e articolato rimase il ventaglio di quanti insistevano per l’elettività almeno parziale della Camera Alta. Argomentato e tenace fu il siciliano Francesco Crispi. Le vicende del Regno però rimasero troppo incalzanti perché si potessero modificare a cuor leggero natura e funzioni di un pilastro portante dello Stato qual era il Senato. La spedizione garibaldina per “Roma o morte”, intrecciata al brigantaggio infestante le regioni che essa avrebbe dovuto attraversare, il trasferimento della capitale a Firenze, abbrunato dalla sanguinosa repressione della protesta torinese, la guerra del 1866 e la rivolta repubblicana di Palermo, la sfortunata campagna garibaldina nell'Agro Romano spenta a Mentana nel novembre 1867, le insorgenze contro la tassa sulla macinazione delle farine, indispensabile per avviare al pareggio il bilancio d'esercizio, l'annessione di Roma e una geremiade di guai, compresa la devastante epidemie di colera del 1867 e da un canto indussero a lasciare lo Statuto qual era, dall’altro spinsero molti esponenti della Sinistra ad accostarsi alla Corona nella forma più esplicita: l'ingresso nella Camera Alta. 
Il 23 marzo 1876 Vittorio Emanuele II nominò senatore Isacco Artom (Asti, 1829-1900). Ebreo osservante, come Costantino Nigra “apprendista diplomatico” a fianco di Cavour, all'avvento della Sinistra (18 marzo) fu rimosso da segretario generale del ministero degli Affari Esteri e subito risarcito con l'inclusione tra gli “uomini del re”. Nel triennio seguente il Senato fu approdo di altri esponenti della Destra, preziosi per la continuità delle istituzioni nel cambio tra le due maggioranze, e di rappresentanti della Sinistra, a conferma che, al di sopra dei rispettivi retaggi, vi erano le “fortune indivisibili” dell’Italia e di Casa Savoia, come si sentiva ripetere nei banchetti politici e nelle rievocazioni patriottiche.
Era davvero difficile pensare che un italiano famoso per merito non fosse anche senatore, posto che non preferisse essere eletto alla Camera dei deputati. Qualcosa però appunto mancava alla Camera Alta: il conforto esplicito della “volontà della nazione”. Si vedrà se e come venne rimediato.
Aldo Mola

DIDASCALIA Carlo Alberto di Savoia-Carignano, Re di Sardegna. Busto in marmo. Un tempo orgoglio del Palazzo civico di Saluzzo, da lui donato al Comune.
  Tra i primi 58 patres nominati da Carlo Alberto il 3 aprile 1848 per costituire il Senato del regno di Sardegna spiccano Cesare Alfieri di Sostegno, Gaspare Coller, nominato presidente del consesso, Alessandro e Annibale di Saluzzo, Alberto Ferrero della Marmora, Carlo Ignazio Giulio, Giuseppe Manno, Giovanni Nigra, Emanuele Pes di Villamarina, Luigi e Giacinto Provana di Collegno, Vittorio Amedeo Sallier de la Tour, Lodovico Sauli d'Igliano, Roberto Tapparelli d'Azeglio, Girolamo Tornielli, Cesare Trabucco di Castagnetto. Con decreti successivi nominò senatori, fra altri, Ettore Gerbaix de Sonnaz, l'arcivescovo Luigi Nazari di Calabiana, Agostino Chiodo, Ferdinando Prat, Luigi Cibrario, Gabriele De Launay e don Ferrante Aporti.
   Nei primi tempi di regno Vittorio Emanuele II creò senatori Luigi Des Ambrois de Nevache, Federigo Sclopis, l'archiatra Spirito Riberi (al quale, spirando, il garbatissimo Carlo Alberto disse “Vi voglio bene, Riberi; ma muoio”), Luigi Provana del Sabbione, Cesare Della Chiesa di Benevello, Ferdinando Arborio Gattinara di Breme e Giuseppe Siccardi, che legò il nome all'abolizione di privilegi ecclesiastici.
     Per una rassega delle costituzioni vigenti in Italia  dal Settecento a oggi v. “Le Costituzioni italiane” a cura di A. Aquarone, M. D'Addio e G. Negri, Milano, Comunità, 1958, ricalcato in parte da “Le Costituzioni Italiane, 1786-1948” a cura di E. Fimiani e M. Togna, con prefazione di Maria Elena Boschi e prefazione di Giovanni Legnini, L'Aquila, Textus, 2015.
 



GIOLITTI 1915-1928
TRAMONTO DELLO STATISTA E DEL REGIME LIBERALE


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 29 gennaio 2023 pagg. 1 e 6.

Giovanni Giolitti ritratto da Antonio Piatti per la Città di Cuneo (rimosso dal Palazzo Comunale nel cui Salone d'onore campeggiò un immenso ritratto di Mussolini, in servile omaggio al “duce” da parte della futura volubile “culla della Resistenza”).   Il suo profilo è pubblicato in “Cosmopolis. Rivista  di filosofia e teoria politica” (Università di Perugia) con quelli di Filippo Turati, Benedetto Croce, Luigi Sturzo, Antonio Gramsci, Altiero Spinelli, Carlo e Nello Rosselli, Giuseppe Capograssi e di altri eminenti rappresentanti della “Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana”.
Didascalia
    “Moriar in patria saepe servata” pare abbia detto Cicerone porgendo il collo ai sicari che gli mozzarono la testa e, orrendo omaggio, la recarono ad Antonio. Al generale Paolo Puntoni, suo primo aiutante di campo, Vittorio Emanuele III osservò imperturbabile: “Non si può dire che da quando s'è formata l'Italia le cose siano andate proprio bene per la mia Casa! Solo mio nonno (Vittorio Emanuele II) ne è uscito bene, Carlo Alberto (il bisnonno) dovette abdicare, mio padre (Umberto I) fu assassinato”. Lo aspettavano l'abdicazione e l'espatrio. Non andò molto meglio ai maggiori statisti italiani. Nel 1861, appena proclamato il regno d'Italia, Camillo Cavour morì cinquantunenne per una febbre così violenta da suscitare sospetti e leggende. Travolto dalla sconfitta nella prima guerra d'Africa nel 1896, Francesco Crispi chiuse gli occhi a Napoli nel 1901 pressoché dimenticato. Con alto senso dello Statoil suo principale avversario, Giovanni Giolitti, volle che gli fossero rese solenni onoranze. Mussolini finì affisso per i piedi a Piazzale Loreto dopo una morte ancora al centro di diverse narrazioni. Alcide De Gasperi visse gli ultimi mesi estromesso dal potere. Aveva fallito l'obiettivo di varare la legge elettorale, combattuta come “truffa”, che avrebbe assicurato stabilità al governo. Negli ultimi anni il liberale Luigi Einaudi si rifugiò tra i suoi libri all'“Eremo” di Dogliani. Rifiutato ogni patteggiamento mortificante, il socialista Bettino Craxi preferì morire ad Hammamet. E Giolitti? Non gli andò molto meglio.         
Per una pace nella giustizia interna e internazionale  
 Costretto a lasciare Roma sotto la minaccia di attentato alla sua vita (17 maggio 1915) Giolitti visse appartato nella villa avita a Cavour, un borgo ai piedi della Rocca. Valicato un ponticello sul rio Marrone, dal giardino di casa andava a passeggiare sotto la cortina di glicini nel vasto parco, rifugio della sua orgogliosa solitudine di deputato da 34 anni, quattro volte presidente del Consiglio e ministro dell'Interno. Mentre divampava la prima guerra mondiale, rimaneva la Stella Polare dei “moderati”: liberali pensosi, democratici veri e cattolici conciliati con lo Stato. 
  Dal seggio di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo il 14 agosto 1916 auspicò, con la vittoria, “la cessazione del più immane macello di uomini che lo storico ricordi e una pace sicura”. Un anno dopo indicò le fondamenta della futura ricostruzione: “Sarebbe pericolosa illusione credere che si possa riprendere con poche varianti l’andamento della politica estera a base di trattati segreti e della politica sociale ed economica del periodo storico che ha preceduto la guerra. Quel periodo è definitivamente chiuso, come fu chiuso il periodo dell’antico regime dalla rivoluzione francese. Questa guerra, che non è più solo un urto di eserciti ma un conflitto di popoli che vi gettarono senza misura vite ed averi, ha dimostrato la necessità di profonde mutazioni nella condotta della politica estera, ha messo in vista le eroiche virtù del nostro esercito e del nostro popolo, ma, d’altra parte, ha in stridente contrasto rilevato insaziabile avidità di danari, disuguaglianze nei sacrifici, ingiustizie sociali; ha mutato le condizioni della pubblica economia, ha concentrato ricchezze in poche mani, ha accresciuto in modo senza precedenti le ingerenze dello Stato e quindi le responsabilità dei governi. È inevitabile che, a guerra finita, lo spirito pubblico, specialmente nelle classi popolari, si trovi profondamente mutato. Quando milioni di lavoratori delle città e della campagna, la parte più virile della nazione, affratellati per anni dai comuni pericoli, sofferenze e disagi eroicamente sopportati per la patria, torneranno alle povere loro case, ritorneranno con la coscienza dei loro diritti e reclameranno ordinamenti improntati a maggiore giustizia sociale che la patria riconoscente non potrà loro negare”. Poche settimane dopo l’Italia si misurò con la rotta di Caporetto (24 ottobre) e l’Europa con la cosiddetta “rivoluzione d’ottobre” in Russia (7-16 novembre secondo il calendario giuliano).
   Il 12 agosto 1918 da Cuneo ancora una volta Giolitti parlò al Paese: “Possano gli avvenimenti bellici del 1918 avvicinare il termine della orrenda carneficina e fare che una giusta pace consenta al mondo il ritorno alla vita civile, al progresso, alla libertà. Ma sia pace e non tregua, non ritorno alla politica degli armamenti, preparazione di nuovi conflitti. L’immane catastrofe che si abbatté sul mondo persuada i popoli tutti della assoluta necessità di grandi riforme negli ordinamenti interni ed internazionali, fondandoli sulla giustizia e sulla libertà, poiché se le assemblee dei rappresentanti dei popoli continueranno a non avere sulla politica estera un’influenza decisiva e se i rapporti tra le Nazioni continueranno ad essere retti con le vecchie norme della diplomazia, sarà vano sperare in una pace sicura e i progressi delle scienze non serviranno ad assicurare ai nostri figli un migliore avvenire, ma a rendere i futuri conflitti così orribili da far impallidire il ricordo di quelli ai quali ora assistiamo”. Come provò la seconda guerra mondiale, chiusa con il lancio di due bombe atomiche americane sul Giappone.
   Il 12 dicembre 1918 le difficoltà di instaurare la “pace sicura” ispirarono anche il suo breve discorso al Consiglio provinciale di Cuneo: “Non solo il nemico è vinto, non solo è distrutto l’esercito nemico, ma sono distrutti anche gli imperi nemici, e il principio di nazionalità trionfa in tutta l’Europa. La riconoscenza del popolo italiano verso i valorosi nostri soldati e verso i condottieri che li guidarono alla vittoria sarà eterna, come eterno sarà il nome degli eroi che sacrificarono la vita per la salvezza e la grandezza della Patria. L’ingresso trionfale del Re d’Italia a Trento e Trieste, e la certezza di una pace che soddisfi tutti gli italiani, segnano l’inizio di una èra nuova nella storia d’Italia. Questa sarà èra di libertà, di giustizia sociale, di fecondo lavoro, di progresso, di prosperità, se la pace secondo i principi del grande presidente Wilson, sarà una pace definitiva fra i popoli, e se le classi ricche accetteranno con patriottico slancio i sacrifici finanziari che occorrono per tenere alto il credito dello Stato, delle Province e dei Comuni, e per mantenere gli impegni assunti verso le classi popolari, e specialmente verso i combattenti, i mutilati e le famiglie dei morti in guerra. L’eroico esempio di milioni di soldati che alla patria offersero la vita dovrà far parere lieve qualunque sacrificio finanziario”.
A chi il potere di deliberare lo stato guerra?
   Nel discorso al Consiglio provinciale di Cuneo del l0 agosto 1917 Giolitti propose di trasferire dal re al Parlamento la deliberazione dei trattati internazionali. Ne fece il caposaldo del suo programma postbellico.Tornato in Aula (da osservatore poco propenso a prendervi la parola), dal seggio di presidente del Consesso cuneese nel dopoguerra Giolitti riassunse il programma nazionale “in una sola parola: lavorare” (12 agosto 1919). Urgevano ordine pubblico e disciplina per scongiurare il collasso finanziario dello Stato. La sovranità sulla politica estera rimase il perno dei suoi ragionamenti, perché ne dipendevano le spese militari, il ritorno alla normalità, il superamento delle tensioni nel Paese. Vi tornò nel discorso di Dronero del 12 ottobre 1919. Senza evocare le prerogative della Corona osservò “la più strana delle contraddizioni” degli ordinamenti italiani:“Mentre il potere esecutivo non può spendere una lira, non può modificare in alcun modo gli ordinamenti amministrativi, non può creare né abolire una pretura, un impiego d’ordine, senza la preventiva approvazione del parlamento, può invece, per mezzo di trattati internazionali assumere, a nome del Paese, i più terribili impegni che portino inevitabilmente alla guerra; e non solo senza le approvazioni del Parlamento, ma senza che né Parlamento né Paese ne siano, o ne possano essere in alcun modo informati [...]. Nel 1848, quando fu sancito l’articolo 5 dello Statuto, il segreto diplomatico era norma di tutti gli Stati d’Europa, e le guerre erano fatte da eserciti professionali; ora invece [...] le guerre sono diventate conflitti di popoli, che si gettano uno sull’altro con tutta la massa della popolazione atta alle armi, con tutti i mezzi di distruzione dei quali possono disporre, e il conflitto cessa soltanto quando una delle parti è in completa rovina. È quindi vera necessità storica che i rapporti internazionali siano ora regolati dai rappresentanti dei popoli, sui quali è giusto che cadano queste terribili responsabilità [...].Come corollario necessario dell’autorità data sulla politica estera al parlamento, la dichiarazione di guerra dovrà sempre esser sottoposta in precedenza alla sua approvazione. Sarebbe una grande garanzia di pace se in tutti i paesi fossero le rappresentanze popolari a dirigere la politica estera; poiché così sarebbe esclusa la possibilità che minoranze audaci, o governi senza intelligenza e senza coscienza riescano a portare in guerra un popolo contro la sua volontà”.
   Lo Statuto era flessibile.Toccava al Parlamento, non a Vittorio Emanuele III, fare la prima mossa. 
Incaricato dal re di formare per la quinta volta il governo, Giolitti propose di conferire al Parlamento il potere di “deliberare” guerra (altra cosa dal “dichiararla” e dal “proclamarla”: prerogativa del sovrano), ma il disegno di legge non fu discusso. Sciolta la Camera, lo ripresentò. Invano. Si dimise. Se ne videro le conseguenze dal 10 giugno 1940 quando per la seconda volta l'Italia entrò in guerra contro grandi potenze (Francia, Gran Bretagna, Unione Sovietica, Stati Uniti d'America...) senza approvazione preventiva delle Camere, ormai ammutolite.  
Dal 1923: a u secolo dall'amaro crepuscolo di uno statista liberale
Rassegnate le dimissioni da presidente del Consiglio (giugno 1921), Giolitti vide allontanarsi la soluzione del problema che costituiva il porro unum et necessarium della sua visione della Nuova Italia. Non ne parlò più né in Aula né in pubblico. Nell’ultimo discorso agli elettori (Dronero, 16 marzo 1924) ripercorse rapidamente “le ragioni dell’azione politica”. Evocò la guerra implacabile condotta contro di lui dal partito popolare e citò la lettera a Malagodi (“che cosa può venire di buono per il paese da un connubio don Sturzo-Treves-Turati?”). Non disse parola sulla crisi di fine ottobre 1922. Il governo Mussolini non era nato in Parlamento ma era costituzionale. Nominato dal sovrano, aveva prestato giuramento di fedeltà al re e allo Statuto, si era presentato alle Camere e aveva ottenuto la fiducia “dai partiti liberali e democratici alla quasi unanimità”. Era stato il Parlamento, non il governo, a varare la nuova legge elettorale, detta “Acerbo” dal nome del suo relatore, approvata a maggioranza dalla commissione presieduta da Giolitti stesso, per parte sua favorevole al ritorno al collegio uninominale, “più rispondente all’essenza del sistema rappresentativo ed al sentimento del nostro popolo che desidera scegliere liberamente e direttamente i suoi rappresentanti”. Lo statista concluse evocando le glorie del partito liberale e la propria coerenza “in nome dei principi di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di devozione alla monarchia”. Il proposito di trasferire dalla Corona al Parlamento l’“approvazione dei trattati internazionali”, ovvero la sovranità nazionale, era ormai archiviato.
   Il 7 febbraio 1924 aveva presieduto il consiglio provinciale di Cuneo. Vi rivendicò di aver salvato l’indipendenza di Fiume e si dichiarò lieto che il governo Mussolini avesse completato la sua opera conseguendone l’annessione. Rieletto deputato nelle elezioni del 6 aprile, nulla disse nella seduta consiliare cuneese del 15 maggio. Il 13 ottobre 1924 Giolitti fu rieletto presidente con 37 preferenze, 5 schede bianche e due voti dispersi. Ringraziò i colleghi per averlo confermato a ricoprire l’ufficio. Non aggiunse altro. Non presenziò alla seduta del 22 dicembre 1924, presieduta dal suo fido Marco Aurelio Saluzzo di Saluzzo, già sottosegretario di stato e senatore. Tornò in Consiglio il 20 aprile 1925. Il 10 agosto, benché assente, fu eletto ancora una volta presidente con appena 29 preferenze su 37 presenti e 60 consiglieri in carica. Il 15 ottobre presiedette i lavori. Sapeva che era ormai giunto per lui “il momento del collocamento a riposo”, ma avrebbe obbedito di buon grado continuando a tenere l’“alto ufficio” conferitogli con mandato quadriennale.
   Sennonché il 17 dicembre 1925 ventitré consiglieri sottoscrissero la richiesta che il presidente della Provincia fosse politicamente allineato col governo nazionale: doveva avere la tessera del PNF o il beneplacito di Mussolini. L’amministrazione locale attendeva un cospicuo finanziamento straordinario per la prosecuzione di opere pubbliche avviate da anni. Come a Roma voleva il “duce”, furono i cuneesi (consiglieri del partito popolare, vari “liberali”, gli sparuti nazionalfascisti) a tradire Giolitti. Lo privarono della tribuna alternativa all’Aula parlamentare per rivolgersi al Paese, come aveva fatto anche nella Grande Guerra. In risposta, il 21 dicembre si dimise da presidente e, “per elementare senso di dignità”, da rappresentante dei mandamenti di Prazzo e San Damiano. Lo comunicò agli elettori da Roma, ove il 15 ottobre 1882 aveva datato il programma di aspirante deputato. Là egli era stato mandato dagli elettori politici e là rimase, almeno idealmente, deputato in carica sino all’ultimo giorno di vita. Tanti cuneesi lo tradirono o non lo capirono mai. Venne dimenticato per quasi mezzo secolo: “Ministro della mala vita” secondo la miope e ingenerosa etichetta appiccicatagli dall'interventista Gaetano Salvemini e da tanti sedicenti democratici. Ora lo deplora anche Paolo Mieli nel “Corriere della Sera”.
   Quel 21 dicembre fu un triste Solstizio d’Inverno per il partito liberale che nel discorso del 16 marzo 1924 Giolitti aveva chiesto di votare per non disperdere il ricordo di Cavour, Azeglio, Rattazzi, Lanza e Sella. Il 18 gennaio 1926 il consesso cuneese prese atto sbrigativamente delle sue dimissioni. Il consigliere Giorgio Tornari cercò invano di leggerne o farne leggere il testo. Il presidente provvisorio della seduta si oppose perché, a suo dire, era già iniziata la votazione. Così “a larga maggioranza” le sue dimissioni furono approvate senza neppure la rituale proposta di ripensamento. Con lui si dimisero Marcello Soleri, Aurelio di Saluzzo e altri liberali, seguiti da socialisti.
   I discorsi del 12 ottobre 1919 e del 16 marzo 1924 vanno confrontati con le relazioni di presentazione dei disegni di legge del suo quinto governo: un’eredità impegnativa non solo per quelli immediatamente seguenti ma anche per il secondo dopoguerra: controllo delle industrie da parte dei lavoratori, trasformazione del latifondo e colonizzazione interna e obbligo dell'istruzione a coronamento del disegno di legge sulla cittadinanza presentato alla Camera il 7 luglio 1911, trasformato nella legge 13 giugno 1912, n. 555, che indicò i requisiti dell’“italianità”, a particolari condizioni concessa agli stranieri.
L'eredità dell' “età liberale” 
   Nei quarantasei anni dalla prima elezione alla Camera dei deputati e nei quaranta di consigliere provinciale Giolitti parlò solo nelle sedi istituzionali o, in forma programmata, ai suoi elettori. In rarissime funzioni civili pronunciò poche parole. Predilesse il contatto diretto con la popolazione. Stringeva mani, ricambiava saluti, chiacchierava con la curiosità del pius agricola gravato della responsabilità di pater familias della Nuova Italia. Quando poteva conversava in dialetto, con Vittorio Emanuele III o con i compaesani. Non si rivolse mai alla “piazza”. Non mirò mai ad attizzare passioni irrazionali. Additò invece gli ideali dai quali era nata l’Italia libera, indipendente e una, con un Parlamento demandato a modificarne gli ordinamenti secondo la volontà dei cittadini, dal 1912 elevati a elettori, compartecipi della sovranità. Preparò sempre accuratamente i discorsi. Li stese, corresse e copiò di suo pugno. Ciascuno di essi era frutto di lunghe ricerche sintetizzate in montagne di appunti. Ogni discorso veniva poi distillato in cartelle fitte di frasi lapidarie, spesso con parole sottolineate. Infine stringeva il tutto in una scaletta sintetica. La parola fluiva alta, solenne, rapida. Il 16 marzo 1928 motivò il suo voto contrario alla legge, proposta dal ministro nazionalfascista Alfredo Rocco, che attribuiva al Gran consiglio del fascismo la scelta dei deputati. Poiché “esclude(va) qualsiasi opposizione di carattere politico, (essa) segna(va) il decisivo distacco dal regime retto dallo Statuto”. 
   “Dicendi peritus” anche per lui il “politico” è anzitutto “vir bonus” (parole di Cicerone), orgoglioso di rappresentare alla Camera elettiva i “fieri montanari” della sua terra, senza mai rinnegare “la fede liberale che professai in tutta la mia vita, e che fu quella di tutti i nostri rappresentanti dal 1848 in poi”.
Aldo A. Mola

DIDSCALIA: Giovanni Giolitti ritratto da Antonio Piatti per la Città di Cuneo (rimosso dal Palazzo Comunale nel cui Salone d'onore campeggiò un immenso ritratto di Mussolini, in servile omaggio al “duce” da parte della futura volubile “culla della Resistenza”).
  Il suo profilo è pubblicato in “Cosmopolis. Rivista  di filosofia e teoria politica” (Università di Perugia) con quelli di Filippo Turati, Benedetto Croce, Luigi Sturzo, Antonio Gramsci, Altiero Spinelli, Carlo e Nello Rosselli, Giuseppe Capograssi e di altri eminenti rappresentanti della “Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana”.
 




GIOVANNI GIOLITTI
COME NACQUE E PENSO' UNO STATISTA 


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 22 gennaio 2023 pagg. 1 e 6.

Didascalia
    Oggi tanti rimpiangono i “partiti”. Si dimentica che in principio vi era lo Stato, la monarchia costituzionale, che si valeva di una dirigenza sin dall'infanzia formata all'idea di operare per l'Italia: diplomatici, militari, docenti, scienziati, artisti, ecclesiastici soccorrevoli e una miriade di funzionari e impiegati pubblici di condizioni modeste ma fieri della propria missione civile. Il piemontese Giovanni Giolitti ne è un esempio illustre. Memore del proprio lungo “apprendistato”, quando fu al governo rispettò sempre i talenti dei Travèt, ai quali non venne mai né chiesta né imposta una “tessera” ma solo la fedeltà al servizio dello Stato. Merita di essere meglio conosciuto.       
Candidato alla Camera a sua insaputa, eletto e dichiarato ineleggibile
Nelle Memorie della mia vita Giovanni Giolitti (Mondovì, 27 ottobre 1842-Cavour, 17 luglio 1928) scrisse di aver appreso di essere candidato alla Camera dalla “lettera circolare” in cui Antonio Riberi, deputato uscente, comunicò che non si sarebbe ripresentato e “senza dir(gli) niente” avanzò il suo nome. Aggiunse: «Fui appoggiato anche dagli altri due deputati che si ritiravano [Luigi Ranco, ingegnere, e Spirito Riberi, avvocato, NdA]; ma, non tenendoci molto, rifiutai di andare a fare il solito giro di campagna elettorale.» La realtà fu del tutto diversa da come la narrò. Va ricordata perché essa incise sulla maturazione di Giolitti dall'alta burocrazia alla politica e lo segnò per sempre. La sua candidatura venne affacciata il 9 settembre 1882 in una riunione di notabili confluiti dal Piemonte a Dronero per lo scoprimento del monumento di Gustavo Ponza di San Martino, giureconsulto e ministro del regno di Sardegna. Lì il munifico conte Deodato Pallieri, che da vent'anni propiziava la burocratica carriera di Giolitti (entrato in magistratura a vent'anni e dal 1869 “prestato” al ministero delle Finanze, ove collaborò con Quintino Sella) assicurò a Riberi la nomina a senatore se avesse rinunciato alla Camera. A volerlo deputato fu anzitutto il presidente del Consiglio Agostino Depretis, massone, che il 21 agosto, in vista delle elezioni lo nominò consigliere di Stato ponendolo al riparo dall'estrazione a sorte tra i deputati eccedenti il numero riservato ai pubblici dipendenti e di decadere, come era accaduto a Giosuè Carducci nel 1876.
    Il  16  settembre  Francesco Blanchi , fratello di un prestigioso notaio locale, propose a Giolitti la candidatura. Altri seguirono. Sondati alcuni deputati e notabili, egli accettò ma, fiero della “storia di famiglia” e di quanti ne avevano propiziato l'ascesa (a cominciare dagli zii materni, Melchior e Luigi, magistrati, e Alessandro Plochiù, generale: tutti scapoli) precisò che non intendeva “fare fiasco” e rischiare “una meschina figura”. A istruirlo e a dettargli quasi parola per parola la lettera programmatica agli elettori del Collegio di Cuneo furono alcuni amici influenti: Angelo Garelli, procuratore del Re, l'ex deputato Agostino Moschetti e Nicolò Vineis, massone e direttore del quotidiano cuneese “La Sentinella delle Alpi”, che da quasi trent'anni era il regista delle elezioni parlamentari locali. Dopo turbinosa altalena di candidature Giolitti scese in campo in una terna comprendente Sebastiano Turbiglio, massone, docente di storia della filosofia alla “Sapienza” di Roma, e Luigi Roux, direttore della “Gazzetta Piemontese” (futura “La Stampa”) di Torino, contro il quale si schierò Vittorio Bersezio, già direttore dello stesso quotidiano, storico e autore delle celebri Miserie 'd Monsù travet.
   Il 15 ottobre Giolitti vergò laboriosamente la “lettera agli elettori” e la mandò a Garelli che ne cancellò un paio di frasi a suo avviso controproducenti e la affidò alla “Sentinella”. Su suggerimento di Moschetti l'aspirante deputato scrisse l'inciso famoso: «Allorché gli uomini di Stato più eminenti e gli operai sono concordi in un programma, vi ha la certezza che questi risponde ai veri bisogni del Paese». Dall'esordio Giolitti si mostrò dunque “politico” autentico: capace di ascolto, di sintesi e animato da princìpi saldi e condivisi. Non si mosse da Roma ma sollecitò il sostegno di decine di notabili (sindaci, pretori, farmacisti, militari, il padre di un parroco della sua valle Maira...) con lettere personali. sollecitandone il sostegno. Alle 19 del 29 ottobre il procuratore Garelli gli telegrafò: era il primo eletto con 5310 preferenze su 6864 votanti. Un successo clamoroso, superiore alle sue prudenti previsioni.
   Sennonché il 13 marzo 1883 la Giunta permanente sulle ineleggibilità e incompatibilità parlamentari, formata dai deputati più prestigiosi, stabilì che era ineleggibile perché retribuito dall'erario con propine per le sue funzioni di consigliere di Stato. Giolitti se ne adontò perché percepì che la pronuncia ne metteva in discussione l'onestà morale prima che politica, quasi avesse truffato gli elettori, candidandosi benché ineleggibile. Approntò scrupolosamente la difesa. Il 21 aprile la illustrò in Aula. Aveva percepito 20 lire per ogni pratica esaminata, ma le aveva sbrigate quasi sempre a casa propria facendo risparmiare allo Stato “le spese di locale, carta, oggetti di cancelleria, lumi e simili”. Richiesti di approvare “per alzata” la proposta di decadenza i presenti rimasero seduti.
   Per un soffio l'Italia rischiò di non averlo deputato, né capofila dell'opposizione piemontese al governo Depretis nel 1886, né ministro del Tesoro e delle Finanze nel governo presieduto da Francesco Crispi (1889-1891), né cinque volte presidente del Consiglio e ministro dell'Interno tra il 1892 e il 1921, né altro ancora. Gli otto mesi dalla candidatura alla Camera alla conferma dell'elezione a deputato di “homines abhorrentes servitium et amatores libertatis inctintu naturali” (come gli aveva scritto Pallieri) furono per lui di noviziato alla “politica” e innervarono la sobria “retorica” dei suoi interventi in Parlamento sino al 16 marzo 1928. Meritano di essere riletti.
Amministratori e politici? “Una riunione di amici”
Per comprendere la sua concezione della politica, dell'esercizio del mandato parlamentare e la sua coerenza di monarchico e liberale al servizio dello Stato nelle Aule parlamentari in continuità con gli uffici di pubblico impiegato ai ministeri di Grazia e Giustizia e delle Finanze, giova passare in rassegna i pochi discorsi da lui pronunciati al di fuori delle Camere dal 1886 al 1899 (anche per difendere il suo onore dalle accuse mossegli in connessione con lo “scandalo della Banca Romana” che nel 1893 gli costò le dimissioni da presidente del governo), specie nel Consiglio provinciale di Cuneo di cui fu componente dal 1886 al 1925. 
  Lasciata il 16 marzo 1905 la guida del governo, per seri motivi di salute, il 14 agosto Giolitti fu eletto presidente del Consiglio provinciale di Cuneo. In tale veste espose la sua visione di “buona amministrazione”: «Il nostro consesso – disse – non è che una riunione di amici che si stimano e si amano, animati dal solo intento di procurare il bene degli amministrati, non divisi da dissensi di natura politica, poiché tutti sono devoti alle patrie istituzioni; e, se qualche volta vi è lotta, ciò dipende unicamente dal fatto che ognuno vede le cose dal proprio punto di vista.»
   Il 2 ottobre 1910 pronunciò poche eloquenti parole all’inaugurazione della nuova sede della Cassa di Risparmio di Cuneo. Mentre a Roma, da lui propiziato e assecondato, era sindaco Ernesto Nathan, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia, e alla guida di comuni e province si moltiplicavano i “blocchi popolari” di liberalprogressisti, radicali e socialriformisti, nel silenzio “ossequioso e ammirante” dei presenti Giolitti scandì che la Cassa era il punto di convergenza e di collaborazione “delle idee clericali e socialiste, moderate e radicali”. «La questione sociale – aggiunse – noi la risolviamo elevando le classi più umili a livello di quelle più ricche”.
   Pochi giorni prima era stato ricevuto segretamente da Vittorio Emanuele III nel Castello di Racconigi. Si avvicinavano le celebrazioni del cinquantesimo del regno. Urgeva un cambio al vertice del governo. Da Cuneo Giolitti fece sapere di non aver preconcetti nei confronti di chi aveva veduto in Luigi Luzzatti l’argine laico contro l’avanzata dei cattolici deputati. Al tempo stesso non coltivava alcun altro pregiudizio: «Ognuno valga per ciò che sa e per il lavoro che compie.» Le ideologie appartenevano al passato remoto, anche perché premevano impegni che nessuno dei presenti immaginava, a cominciare dall’impresa di Libia. Non solo Marx era stato mandato in soffitta (o così gli pareva o sperava). La “pace sociale” era premessa indispensabile per affrontare nuove e severe prove, giacché «nessuna guerra moderna può svolgersi senza la decisa volontà del popolo che la fa», lontano dal “Paese che lavora. Il 30 marzo 1911, dopo il cinquantenario della proclamazione di Roma a capitale d’Italia (lasciata celebrare a Luzzatti) Vittorio Emanuele III gli affidò per la quarta volta il governo del Paese.
   All’inaugurazione della prima Camera eletta col suffragio quasi universale maschile (1913), dopo  circa tre lustri di governo, Giolitti non fu affatto scosso da chi, come il socialista Giuseppe Raimondo, ne annunciava il tramonto o, come Arturo Labriola (futuro ministro del Lavoro nel suo V governo, 1920-1921), sentenziava che vi era «da una  parte un’Italia rivoluzionaria nazionalista e dall’altra un’Italia socialista, ma non c’e(ra) più un’Italia giolittiana». Lo statista sapeva bene che vi era la cattolica, maggioritaria nel Paese, e che solo il cosiddetto “patto Gentiloni”, approdo della sospensione non expedit da parte di Pio X sin dal 1904 (come chiarito da Gianpaolo Romanato nella biografia di Pio X), aveva scongiurato divenisse più clericale di quanto, per contrapposti motivi, molti volevano. Conscio che l’Italia aveva necessità di riforme profonde nell’amministrazione della giustizia, nel sistema scolastico e nei rapporti tra capitale e lavoro, lo statista affermò che esse andavano varate subito ma avrebbero dato frutti solo sul lungo periodo. Per evitare che «il partito monarchico divent(asse) in molta parte d’Italia una minoranza» occorrevano però misure immediate e incisive. I fasci siciliani, i moti di Lunigiana del 1894 e la vasta sommossa/insurrezione del 1898 avevano indicato la via maestra: il riordino completo della fiscalità per scongiurare il declino della piccola proprietà, che costituiva «la più valida difesa dell’ordine sociale». Le classi dirigenti dovevano persuadersi che «senza qualche sacrificio esse non possono sperare durevole quella pace sociale senza cui non vi è sicurezza né per le persone né per gli averi». Lanciò un monito severo: «Io deploro quanto altri mai la lotta di classe; ma, siamo giusti, chi l’ha iniziata?».
Venti di guerra, tra irredentismo, espansione coloniale e crisi europea
Nel primo decennio del Novecento, mentre una moltitudine di movimenti, gruppi ideologici, circoli letterari, artistici e riviste davano voce alla “rivolta ideale” e dai salotti molti si appellavano alla “piazza” contro il grigiore del governo, Giolitti varò leggi speciali per accelerare il risanamento di regioni e plaghe arretrate. Al conterraneo Luigi Facta spiegò che l'Italia doveva evitare di avventurarsi in una guerra con l'impero austro-ungarico perché avrebbe dovuto dirottarvi le sue risorse e sottrarle allo sviluppo del Mezzogiorno, interrompendo l'unificazione effettiva, così provocando la rivoluzione e la crisi della monarchia: obiettivo dei repubblicani che, fece notare, erano i precipui alfieri dell'irredentismo.
   Il 28 luglio 1911 il ministro degli Esteri Antonino Paternò Castello di San Giuliano mandò a Giolitti e al sovrano il “memoriale” segretissimo sulla “probabilità” che entro pochi mesi l’Italia potesse essere “costretta a compiere la spedizione militare in Tripolitania”. Ne nasceva la «probabilità (probabilità non certezza) che il successo di tale spedizione darebbe al prestigio dell’Impero Ottomano, spinga all’azione contro di esso i popoli balcanici, entro e fuori l’impero, oggi più che mai irritati contro il regime centralista giovane-turco, ed affretti una crisi, che potrebbe determinare e quasi costringere l’Austria ad agire nei Balcani». All’orizzonte gonfiava la tempesta della guerra europea, temuta, schivata, sempre incombente. Chi avrebbe dato fuoco alla miccia?
   Il programma del settembre 1900 per l’unione dei partiti liberali giunse a una seconda svolta. Dopo l'incontro segreto del 16 settembre nel Castello di Racconigi, ove il re fissò con lui l'agenda dell'impresa di Libia, e dopo la dichiarazione di guerra all'impero turco ottomano, il 7 ottobre 1911 Giolitti ne spiegò i motivi al Teatro Regio di Torino: «Politica democratica non è sinonimo di politica fiacca, di politica impotente; la storia di tutti i popoli e gli avvenimenti che succedono sotto i nostri occhi dimostrano invece che i governi i quali sanno di rappresentare tutte le classi sociali sono i più gelosi custodi dei grandi interessi del loro paese; appunto perché non rappresentano interessi di persone o di limitate classi, ma quelli di tutto il popolo, essi sentono più vivamente il dovere di non pensare solamente alle questioni di immediato interesse, ma di assicurare anche il lontano avvenire del paese. La politica estera non può, come la politica interna, dipendere interamente dalla volontà del governo e del Parlamento ma, per assoluta necessità, deve tenere conto di avvenimenti e di situazioni che non è in poter nostro di modificare e talora neanche di accelerare o ritardare. Vi sono fatti che si impongono come una vera fatalità storica, alla quale un popolo non può sottrarsi senza compromettere in modo irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del governo di assumere tutte le responsabilità, poiché una esitazione o un ritardo può segnare l’inizio della decadenza politica, producendo conseguenze che il popolo deplorerà per lunghi anni, e talora per secoli.»  
   Profondamente radicato nella tradizione del Vecchio Piemonte, ove il lavoro era terreno di sfida civile dai tempi delle Associazioni agrarie di metà Ottocento, animato da una visione biblica del cammino dei popoli, all'inaugurazione dell'ospedale per l'infanzia “Regina Elena” in Cuneo il 14 agosto 1914 Giolitti meditò ad alta voce. Bisognava «procurare alla Patria cittadini futuri sani ed equilibrati, perché bastano due generazioni ben curate e ben educate a far rifiorire i destini di una Nazione». Lo stesso giorno, «in un momento angoscioso per tutta l’Europa e grave per il nostro Paese», dal seggio di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo egli dichiarò la solidarietà al governo presieduto da Antonio Salandra: «Senza distinzione di partiti, appoggeremo lealmente e fortemente in quella via che creda di seguire per la tutela dei nostri diritti e per assicurare all’Italia il posto che le spetta nel mondo.» Non era un’apertura di credito illimitata. Cinque giorni prima aveva infatti confidato al ministro degli Esteri, San Giuliano, la priorità di «coltivare i nostri buoni rapporti con l’Inghilterra, e fare quanto ci è possibile per limitare o abbreviare la durata e le conseguenze del conflitto». Senza entrarvi. Gli eventi ebbero tutt’altro corso: la firma dell'arrangement di Londra all’insaputa del Parlamento e del governo stesso (26 aprile 1915), la denuncia dell'alleanza con Berlino e Vienna (3 maggio), la dichiarazione di guerra contro l’Impero austro-ungarico in nome del “sacro egoismo” (23 maggio con effetto dall'indomani).
   Da quando il 17 maggio 1915 dovette lasciare precipitosamente Roma perché il governo non ne garantiva l’incolumità da un attentato mortale ormai in corso di attuazione, lo statista riparò a Cavour. Al di là di quanto disse nello scambio epistolare e in confidenze anziché dal seggio di deputato, Giolitti parlò dallo scranno di presidente del consiglio provinciale. Il 5 luglio 1915 dichiarò: «Quando il Re chiama il paese alle armi, la provincia di Cuneo, senza distinzioni di parti e senza riserve, è unanime nella devozione al Re, nell’appoggio incondizionato al Governo, nell’illimitata fiducia nell’esercito e nell’armata», impegnati in un conflitto dal quale dipendeva «l’avvenire dell’Italia per un lungo periodo della sua storia». Ma a differenza di Salandra e del ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, aveva chiaro che la guerra sarebbe durata anni. Nella forzata solitudine constatava l’imparità dei governi al “più grave disastro dell'umanità dopo il diluvio universale” anche a giudizio del premier britannico David Lloyd George. Chi avrebbe riacceso i lumi sull'Europa? La sua vita di statista era finita?
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Giovanni Giolitti (1842-1928), statista della Nuova Italia. Se ne legge un profilo nella rivista “Cosmopolis” dell'Università di Perugia.




IL TRICOLORE ITALIANO
230 ANNI  DI STORIA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 15 gennaio 2023 pagg. 1 e 6.

La straziante impiccagione del ventiduenne “Giò” De Rolandis alla Montagnola di Bologna (23 aprile 1796).    La storia del Tricolore italiano è stata appassionatamente narrata da Ito De Rolandis in Orgoglio tricolore. L’avventurosa nascita della nostra bandiera (Lorenzo Fornaca Ed. - L’Artistica, Savigliano, 2008), con prefazioni dei sindaci di Asti e di Castell’Alfero, Angelo Marengo, di Mercedes Bresso, Aldo Mola e scritti di altri autori: Amedeo di Savoia, Duca d'Aosta, Marco Bortolotti, Fausto Carpani, Sabina Fornaca, Corrado Testa e Guido Peila, che ripercorre le gesta di Giuseppe De Rolandis in “L'Ussaro sul Tetto” di Jean Jono, dal quale venne tratto il film diretto da Jean-Paul Rappenau e interpretato da “Fernandel” (Fernando Contandin, nativo di Perosa Argentina, il celebre “don Camillo”). Il volume di Ito De Rolandis è suggellato dalla fotografia di  Carla Bruna Tedeschi (poi moglie di Sarkozy) recante il tricolore italiano nella cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali di Torino (2006).    Quello approvato a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797 è solo uno dei tricolori ideati per la Nuova Italia. La loro molteplicità esprime un sentimento diffuso dei cittadini italiani di ieri e di oggi: di varie confessioni religiose ed etnie, accomunati dall’orgoglio dei propri diritti e dal senso dei doveri verso lo Stato. A beneficio della memoria del “défroqué” Giuseppe Compagnoni va ricordato che nell'Assemblea della Repubblica Cispadana proprio lui si dichiarò contrario all'elevazione del cattolicesimo a   “religione dello Stato”. Dopo la Restaurazione non riprese l'abito talare; visse a Milano campando della propria prodigiosa attività di studioso. Scrisse anche una storia degli Stati Uniti d'America in 29 volumi. Era la “Terra promessa”...
Didascalia
    L'Italia ha tante “feste”, civili e religiose. Forse troppe. Non sempre le “sente”. Poco importa avere una festa in più ma capire a chi, a che cosa e perché rendere omaggio con dispensa retribuita dal lavoro. Il 7 gennaio di ogni anno viene celebrato il Tricolore. È una “ricorrenza” nazionale, con epicentro a Reggio nell'Emilia perché, si dice, lì per la prima volta il verde il bianco e il rosso furono adottati per il vessillo di uno Stato, precisamente la minuscola Repubblica Cispadana nata su impulso dei francesi capitanati da Napoleone Buonaparte, comandante dell'Armata d'Italia mandata dal Direttorio di Parigi a sconfiggere gli Asburgici e i suoi alleati, a cominciare dal re di Sardegna.
   Come ogni anno anche nel 2023 è stato ripetuto che il tricolore, simbolo di unità e di indivisibilità dell'Italia, è stato voluto dalla Costituente quale vessillo della Repubblica. La quale, dunque, adottò la bandiera esistente, ma ne cancellò lo scudo sabaudo che vi campeggiava dal 1848. Quel tricolore aveva un secolo. L'attuale ne ha 75. Norme successive vietarono l'esposizione del tricolore originario che (ha ricordato il messaggio del presidente Sergio Mattarella) era stato innalzato dagli avi per dar vita all'unità italiana. Insomma, si festeggia un “prima” (una “repubblica” vassalla della Francia) e un “poi”, quella attuale, ma non si ricorda in debite forme che il Tricolore è nato come bandiera del Regno di Sardegna e poi di quello d'Italia.    
   L’eliminazione dell'emblema della Casa che dal 23 marzo 1848 si fece carico delle guerre per l'indipendenza, l'unità e la libertà degli italiani non cambia la verità dei fatti. Perciò quel passato merita di essere sinteticamente ricordato. Si scopre così che nel 1848 Carlo Alberto di Savoia Carignano non inventò il tricolore ma lo ricevette “per li rami”da due studenti universitari che lo avevano ideato e ne erano morti più di mezzo secolo prima. Il Tricolore dunque nacque e dovrebbe rimanere insegna della gioventù, dell'Italia che è Nuova se riconosce l'Antica, le sue radici.

  La «Bandiera dei tre colori/ è sempre stata la più bella/ noi vogliamo sempre quella/noi vogliam la libertà…». Canti del Risorgimento. Come la “Bella Gigogin” che oggi verrebbe vietata per oltraggio al pudore. Chiusi per sempre nel baule dei ricordi perduti? La bandiera italiana garrisce nell'Italia delle “cento città” se il suo passato viene recuperato senza cesure né censure. Vent'anni fa l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi restituì smalto al Tricolore e incitò con l’esempio personale a intonare il “Canto nazionale”, la cui “storia” merita di essere ripercorsa, tanto più che qualcuno vorrebbe addirittura inserirlo nella Costituzione. E' un inno neoguelfo. Cade bene.
  Dopo la prima guerra mondiale uomini saggi al governo della cosa pubblica, come Giovanni Giolitti e Benedetto Croce, d'intesa con Vittorio Emanuele III puntarono diritto all’obiettivo vero: la Festa delle Bandiere (celebrata all'Altare della Patria il 4 novembre 1920) era tutt'uno con la legge sulla cittadinanza e l’obbligo dell’istruzione (altra cosa dall’istruzione obbligatoria). Da lì bisogna ripartire. Intorno alla genesi del Tricolore molto è stato scritto, ma con lacune vistose e per obiettivi spesso di parte. Se davvero si vuole che esso unisca, tempo è venuto di ricordarne almeno per sommi capi la lunga storia, dire chi per primo lo ideò, che cosa forse volle esprimere, quali ne furono le molteplici vicissitudini.
   Una prima certezza è che il variegato “tricolore” adottato dalla Repubblica Cispadana il 7 gennaio 1797 ha poco a che vedere con quello del 1848-2023. Esso era a bande orizzontali. Quattro punte di freccia convergenti indicavano l'unione delle sue “terre”: Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, alle quali poi si aggiunsero un po' di Romagna, la Garfagnana, Massa e Carrara, accorpate in una “repubblica” del tutto artificiosa, dai confini improbabili e dalla brevissima durata. Alle spalle esso aveva stendardi reggimentali, modellati sull'esempio di quelli della francese Armata d'Italia e ornati da cifre e da simboli esoterici.
   Nel corso della caotica assemblea che il 7 gennaio 1797 ne decise l'adozione, il tricolore della Cispadana ebbe un fautore curiosissimo: Giuseppe Compagnoni (Lugo, 1754-Milano, 1833). Ordinato prete per volontà della famiglia, letterato di qualche nomea, questi era stato tra gli inquirenti del processo a carico di Giuseppe Balsamo, sedicente Alessandro conte di Cagliostro, condannato a morte con pena commutata nel carcere a vita, da scontare nel “pozzetto” della fortezza di San Leo ove morì poco prima dell’arrivo dei francesi liberatori. Compagnoni apprese che nel rito egizio Cagliostro usava nastri verdi bianchi e rossi. Nessuno sa dire perché. E nessuno ha mai spiegato perché, deposto l'abito talare e passato nelle file dei rivoluzionari, per lo stendardo della repubblica cispadana Compagnoni abbia suggerito proprio quei colori. Sappiamo invece per certo che né lui né Cagliostro furono gli inventori del Tricolore. Lo scrisse il “Messaggere Torinese” del 19 febbraio 1848 che per editoriale pubblicò il necrologio di Giuseppe De Rolandis.
  Tricolore (su modello francese) fu la bandiera del Regno italico, retto dal figlio adottivo di Napoleone I, Eugenio di Beauharnais, sotto tutela dell'imperatore. Iniziato alla Carboneria (la cui bandiera era azzurra, rossa e nera), Giuseppe Mazzini, fondatore della “Giovine Italia” nel 1831, tornò a innalzare il tricolore verde, bianco e rosso, ma nuovamente a bande orizzontali.
   In “Le bandiere dell'Esercito”, sontuoso volume pubblicato nel 1985 dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'esercito, di cui fu a lungo operoso  e lungimirante capo, il generale Oreste Bovio documenta che fu Re Carlo Alberto di Sardegna ad adottare il tricolore, che sventolò per un secolo quale vessillo nazionale. L’articolo 77 dello Statuto promulgato il 4 marzo 1848 recitava: «Lo Stato conserva la sua bandiera: e la coccarda azzurra è la sola nazionale.» Ma neppure tre settimane dopo, il 23 marzo, quando dichiarò guerra all’Impero d’Austria convinto di avere a fianco gli altri Stati dell’Italia d’allora (Regno delle Due Sicilie, Stato della Chiesa, Granducato di Toscana..., che invece via via si defilarono), Carlo Alberto lanciò un proclama «ai popoli della Lombardia e della Venezia» per annunciare che correva in loro aiuto. «Per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell’unione italiana – aggiunse – vogliamo che le nostre truppe, entrando sul territorio della Lombardia e della Venezia, portino lo scudo di Savoia sovrapposto alla bandiera tricolore  italiana.» Proprio “italiana”, si badi bene: non “del Regno di Sardegna”. Come anni prima in un gelido colloquio mattutino aveva promesso a Massimo d’Azeglio, venuta l’ora, Carlo Alberto scelse l’Italia. Lo seguì suo figlio, Vittorio Emanuele II, che distribuì personalmente i tricolori di combattimento ai reggimenti in partenza per la Crimea: una guerra decisiva per imporre all’Europa la questione italiana. Da allora il tricolore e l’Italia furono tutt’uno. Il 25 marzo 1860, dieci giorni dopo la proclamazione del Regno d'Italia da parte del parlamento, un apposito decreto stabilì  misure e caratteri della «bandiera di cui deve far uso il Regio Esercito»: col verde all’asta, il bianco e il rosso, scudo sabaudo e stemma sormontato dalla corona per le navi da guerra.
   A quel vessillo guardarono generazioni di italiani, sino alla svolta del 1946-1947.

   Il Museo degli Studenti voluto in Bologna, la Dotta, dal Rettore dell’Università, Fabio Roversi Monaco, conserva il primo tricolore italiano: la coccarda disegnata da Giovanni Battista De Rolandis (1774-1796), nativo di Castell’Alfero, ora in provincia di Asti. Iscritto alla facoltà di teologia dell’Università di Bologna e ospitato al collegio Piemontese “La Viola”, ove era docente Giuseppe Compagnoni, “Giò” De Rolandis conobbe Luigi Zamboni, di qualche anno più anziano, studente nella facoltà di legge. Insieme cospirarono per l’idea d’Italia. La coccarda sommò i colori comunali (di Asti, Milano, Cuneo e tante altre città...) con il verde. Nessuno sa esattamente perché. Forse il verde (poi distintivo della massoneria in Italia) era il colore della speranza o della giustizia, il colore della Pentecoste (cantata da Alessandro Manzoni, forse “iniziato” in gioventù) e di altre solennità della chiesa cattolica? Di sicuro sappiamo che i loro sogni vennero presto stroncati. Su delazione di un altro studente inizialmente loro compagno di cospirazione i due furono indagati, ma  con esito favorevole. Continuarono nel loro disegno e per segno distintivo fecero cucire coccarde grandi “il doppio di un baiocco di rame” con i colori della città, bianco e rosso, e “del cavadino verde”.
  La cospirazione venne dispersa. Zamboni e De Rolandis fuggirono, ma furono arrestati sul confine col granducato di Toscana. Consegnati alla polizia bolognese vennero processati, con i metodi del tempo, dal tribunale presieduto da Federico Pistrucci noto come “la mano sinistra del Maligno” e più volte sottoposti a torture efferate, comprese le pinze infuocate in parti delicate e nella schiena. Antonio Aldini, illustre giureconsulto, apprezzato da Napoleone che lo elevò a cariche apicali, in loro difesa escluse che la coccarda fosse  segnacolo di rivoluzione e di subordinazione dei giovani a progetti di “agenti” francesi, come Aurelio Saliceti. Lo fece per scagionarli e sottrarli alla tragica sorte che li attendeva. Il 18 agosto 1795 Zamboni venne rinvenuto impiccato in una celletta ove non poteva neppure stare in piedi. Strozzato? De Rolandis subì sevizie orrende affinché confessasse chi erano i suoi ispiratori, mandanti e complici. Dopo estenuanti interrogatori che lo sfinirono fu condannato a morte. Attese il supplizio stringendo tra le mani il Vangelo. Prima di essere portato alla forca, gli vennero “recise le forze”, cioè fu evirato. Condotto esangue alla Montagnola di Bologna, venne appiccato. Per inettitudine del boia, il cappio non funzionò “a dovere”. Contro le regole, l'esecuzione fu ripetuta. Lo sciagurato gli balzò sulle spalle per affrettarne la morte. Una incisione ricorda la sua tragica fine. Chi si indigna delle infamie praticate da integralisti odierni dovrebbe deplorare quelli che venivano usate in Italia dopo la Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e del cittadino. Ne scrisse Ito De Rolandis in Orgoglio tricolore, ove vengono ricostruite le vicende di altri due componenti della sua famiglia, Giuseppe, medico di fiducia di Carlo Alberto, e Secondo, che si occupò di egittologia, incluso lo studio della stele di Rosetta.
   Il Tricolore dunque è simbolo universale. Come scrisse Angelo Brofferio nel “Messaggere Torinese”, in punto di morte Giuseppe De Rolandis «voleva un’ultima volta rallegrarsi colla vista dell’italiana coccarda che, agonizzando, salutava ancora». Nel 1862 Augusto Aglebert pubblicò “I primi martiri della libertà italiana e l'origine della bandiera tricolore o congiura e morte di Luigi Zamboni di Bologna e Gio. Battista De Rolandis di Castel d'Alfero presso Asti tratta da documenti autentici”. Altri seguirono sulla sua traccia sino alle iniziative promosse da Ito (Ippolito) De Rolandis, giornalista d'assalto e saggista indomito (al liceo era soprannominato “Tritolo”) di concerto con il rettore dell'Università di Bologna, Fabio Roversi Monaco e un amico di fiducia.

   Con l’avvento della Repubblica, dal tricolore venne tolto lo scudo sabaudo, che vi aveva campeggiato per un secolo. Quando se ne celebra la festa sarebbe dunque doveroso esporre anche una delle bandiere “storiche”, di quelle in uso da Carlo Alberto a Umberto II, proprio per ricordare chi siamo e da dove veniamo (dove si vada nessun lo sa): dalla Repubblica cisalpina del 1796, anche un po’ da Cagliostro e dall'ambiguo Compagnoni, dai moti costituzionali del 1820-21, del 1831, dalle guerre per l'indipendenza e per l'unione degli italiani, nel 1848, nel 1859-1860, nel 1866, nel 1870 e nel 1915-1918 e anzitutto da due studenti antesignani della patria italiana. È una storia lunga e sofferta. Va ripercorsa e ricordata nella sua complessità.
   Il Tricolore, a conclusione, non è nato nel 1946 o con la Costituzione del 1° gennaio 1948. Ha quasi 230 anni di vita vissuta. È giusto innalzarlo, non solo per eventi sportivi, e indossarlo quale coccarda, come avvenne nell'ormai lontano 2011 quando su iniziativa dell'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano venne festeggiato il 150° dell'“unità nazionale”, ovvero della proclamazione del regno d'Italia. Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, propone che il giorno della venga elevata a festa civile. Quell'Italia era l'unica in quel momento possibile: ancora senza Venezia, Trento, Trieste. Roma sembrava inarrivabile perché il papa-re, Pio IX, era tutelato da Napoleone III, anticamente carbonaro, cospiratore, “fosco figlio di Ortensia”, favorevole all'“unione” degli italiani ma non alla loro “unità”. La festa del tricolore sarebbe finalmente occasione di una riflessione corale sullo Stato d'Italia, sulla “cittadinanza” e sulle loro radici in una civiltà millenaria, patrimonio fondamentale per l’Europa ventura.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA. La straziante impiccagione del ventiduenne “Giò” De Rolandis alla Montagnola di Bologna (23 aprile 1796).
   La storia del Tricolore italiano è stata appassionatamente narrata da Ito De Rolandis in Orgoglio tricolore. L’avventurosa nascita della nostra bandiera (Lorenzo Fornaca Ed. - L’Artistica, Savigliano, 2008), con prefazioni dei sindaci di Asti e di Castell’Alfero, Angelo Marengo, di Mercedes Bresso, Aldo Mola e scritti di altri autori: Amedeo di Savoia, Duca d'Aosta, Marco Bortolotti, Fausto Carpani, Sabina Fornaca, Corrado Testa e Guido Peila, che ripercorre le gesta di Giuseppe De Rolandis in “L'Ussaro sul Tetto” di Jean Jono, dal quale venne tratto il film diretto da Jean-Paul Rappenau e interpretato da “Fernandel” (Fernando Contandin, nativo di Perosa Argentina, il celebre “don Camillo”). Il volume di Ito De Rolandis è suggellato dalla fotografia di  Carla Bruna Tedeschi (poi moglie di Sarkozy) recante il tricolore italiano nella cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali di Torino (2006).
   Quello approvato a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797 è solo uno dei tricolori ideati per la Nuova Italia. La loro molteplicità esprime un sentimento diffuso dei cittadini italiani di ieri e di oggi: di varie confessioni religiose ed etnie, accomunati dall’orgoglio dei propri diritti e dal senso dei doveri verso lo Stato. A beneficio della memoria del “défroqué” Giuseppe Compagnoni va ricordato che nell'Assemblea della Repubblica Cispadana proprio lui si dichiarò contrario all'elevazione del cattolicesimo a   “religione dello Stato”. Dopo la Restaurazione non riprese l'abito talare; visse a Milano campando della propria prodigiosa attività di studioso. Scrisse anche una storia degli Stati Uniti d'America in 29 volumi. Era la “Terra promessa”...



A TESTA ALTA
1943-1945 CONTINUITÀ E RISCOSSA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 8 gennaio 2023 pagg. 1 e 6.
  
 
Vittorio Emanuele III passa in rassegna a Brindisi reparti del riorganizzato Regio Esercito Italiano.
Didascalia
   “A testa alta” è l'insegna del “CalendEsercito 2023” (ed. Giunti) per l'80° dell'estate 1943, «uno dei momenti più tragici della storia nazionale». Fotografie e documenti scandiscono i mesi dalla firma della resa a Cassibile (3 settembre) alla co-belligeranza dell'Italia a fianco delle Nazioni Unite e alle due battaglie di Monte Lungo che videro in campo il I Raggruppamento Motorizzato del Regio Esercito a fianco degli Alleati. Come scrive il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, generale di CdA Pietro Serino, «in soli 98 giorni l'Esercito italiano seppe reagire, tornare a combattere e a vincere per liberare il proprio Paese, dimostrando una saldezza morale che ci fa dire, con orgoglio, A testa alta!». Pubblicato con la direzione del Colonnello Giuseppe Cacciaguerra, molto più che mero “almanacco” il “CalendEsercito 2023” è una miniera di informazioni e di spunti per ricerche e approfondimenti. Ricorda al lettore i combattimenti di Porta San Paolo a Roma, ove i civili affiancarono le Divisioni “Granatieri di Sardegna” e “Sassari”, mentre a Monterotondo reparti della “Piave” e della “Re” contrastavano l'aviolancio di paracadutisti tedeschi, e la lunga serie di combattimenti su tutto il territorio nazionale, in Sardegna, Corsica, oltre che nelle regioni quasi subito libere (Puglia e Calabria) a prezzo di duri combattimenti e l'impegno ovunque possibile oltre confine. Documenta inoltre il Fronte Militare Clandestino del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, caduto prigioniero, torturato a via Tasso, assassinato alle Fosse Ardeatine con tanti altri militari,via via sino alla Riscossa, che dà titolo alle Memorie del generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà, punto di arrivo del coordinamento tra Regio Esercito e formazioni partigiane unite “dal” e “nel” Tricolore.
   A differenza di quanto talvolta è stato scritto, in quei frangenti non morì affatto la Patria. La direttiva del capo del governo, Pietro Badoglio, all'annuncio dell'armistizio per i militari era chiaro: le forze armate italiane cessavano «ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».
   Come avvenne la Riscossa e chi la guidò? In Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio (il Mulino, 2021) Paolo Cacace conferma che la revoca di Benito Mussolini da capo del governo e la sua sostituzione con il maresciallo Badoglio furono iniziativa personale di Vittorio Emanuele III, assecondato dal ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone e dalla ristretta cerchia di militari di sua assoluta fiducia, a cominciare da Giuseppe Castellano. Il 25 luglio il Gran Consiglio del fascismo a maggioranza “esortò” il re a esercitare i poteri statutari, senza però mettere in discussione il regime. Perciò Mussolini chiese udienza al re e nel pomeriggio si recò a Villa Savoia convinto che quasi nulla sarebbe cambiato. Fu la Corona a decidere tempi e modi della “svolta”, anche sbrigativi, come il “fermo” del duce, che si dichiarò pronto a collaborare con Badoglio. Come osservò Luigi Einaudi, citato dal presidente Sergio Mattarella a Dogliani il 12 maggio 2018, chi detiene la somma dei poteri può lasciarli apparentemente dormienti per vent'anni, salvo valersene quando percepisce che è giunto il momento di usarli. Così fece il re.
Di seguito fu lui ad autorizzare la ricerca del contatto con il Comando nemico per ottenere che all'Italia, ormai in un tunnel dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, fosse concessa la “resa senza condizione”, deliberata dagli anglo-americani a carico dei vinti nella Conferenza di Casablanca su richiesta ultimativa di Stalin. L'obiettivo fu raggiunto in meno di un mese con la firma a Cassibile della resa (surrender), documentata da Elena Aga Rossi in L'inganno reciproco (ACS, 1982). Lo strumento sottoscritto dal generale Giuseppe Castellano, datato “Sicilia, 3 settembre 1943” è esplicito: la resa fu concessa (o imposta) al “governo del Re”, ovvero a Vittorio Emanuele stesso. Il “Comandante in capo” dei vincitori si riservò di stabilire «un Governo militare alleato in quelle parti del territorio italiano ove egli lo riterrà necessario nell'interesse militare delle Nazioni alleate» e di dettare «altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario che l'Italia dovrà impegnarsi ad eseguire», analiticamente contenute nell'“armistizio lungo” consegnato dal generale Dwight Eisenhower a Badoglio a Malta il 29 settembre 1943. Però con la resa la monarchia ottenne tre vantaggi preziosi per l'Italia: lo Stato non fu debellato ma riconosciuto; a differenza della sorta poi toccata alla Germania, non ne venne previsto lo smembramento; la sua forma istituzionale non fu messa in discussione. Per gli inglesi, al riguardo più lungimiranti degli americani, la monarchia costituiva una garanzia.
Il verbale del colloquio svoltosi il 29 settembre a margine della firma precisò la cornice degli eventi successivi. Il vincitore incitò il vinto a dichiarare guerra alla Germania, a «immettere nuovi elementi nel suo governo», previo il placet del generale Mason Mac Farlane e, “parlando da soldato”, a destinare alla lotta contro la Germania le “divisioni migliori”. Badoglio precisò che «per la legge italiana solo il re può dichiarare guerra» e scegliere i nuovi membri del governo. Assicurò la massima collaborazione anche in vista dell'ingresso in Roma (dato per imminente da Eisenhower, ma avenuto otto mesi dopo), accolse con freddezza l'annuncio del ritorno in Italia del “conte” Carlo Sforza, gran collare della SS. Annunziata e senatore ma accesamente repubblicano, auspicò di essere considerato “un collaboratore completo” e, su direttiva del Re, che lo aveva avuto aiutante di campo, chiese di «prendere contatto col maresciallo Messe, ora prigioniero di guerra in Inghilterra». Ne ha scritto brillantemente il generale Antonio Zerrillo nel volume Il lungo regno di Vittorio Emanuele III (BastogiLibri, 2021).
I punti di debolezza: il CLN contro la monarchia
Lo scenario istituzionale e politico italiano era però profondamente diverso da quello ventilato dal Comandante alleato. Il Comitato dei partiti antifascisti operante clandestinamente in Roma da metà agosto 1943, contrario a condividere il “passivo” della guerra e deciso a scaricarne la peso esclusivamente sulla Corona, assunto il nome di Comitato (Centrale) di liberazione nazionale tra fine settembre e inizio ottobre, rifiutò ogni collaborazione con il governo Badoglio, riservando gelida accoglienza alla proposta di collaborazione avanzata dal colonnello Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo. Lo ricorda Ivanoe Bonomi in Diario di un anno, 2 giugno 1943-10 giugno 1944. Il CLN propugnò l'immediata abdicazione del re, la rinuncia del principe Umberto alla successione e il conferimento della Corona al principe di Napoli, Vittorio Emanuele, di appena sette anni, sotto tutela di un reggente di nomina politica, contro la lettera dello Statuto. Anche molti liberali si accodarono e per bocca di Carandini fecero sapere di essere per «assemblea costituente più abdicazione».
   Per decretazione d'urgenza varata da Badoglio a inizio agosto furono sciolti il Partito nazionale fascista, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, il Gran consiglio del fascismo e tutte le organizzazioni del passato regime, ma anche la Camera dei fasci e delle corporazioni in vista dell’elezione di una nuova Camera dei deputati entro quattro mesi dalla fine della guerra. Pertanto, data la natura bicamerale del Parlamento, il Senato fu paralizzato e il re risultò istituzionalmente sovraesposto. La “monarchia rappresentativa”, fondata sull'equilibrio tra i poteri, risultò sospesa.
Sotto il profilo politico la parola passò dalle istituzioni vigenti a forze autoconvocate, come il congresso dei CLN, radunatosi a Bari il 28-29 gennaio 1944. Nel suo corso venne ribadita la richiesta di immediata abdicazione di Vittorio Emanuele III, da alcuni liberali liquidato addirittura come “cencio sporco”. Per gli anglo-americani, pur diversi nella loro grammatica politico-istituzionale, lo Stato d'Italia era quello impersonato dal re e dal governo di sua nomina. Se mai avessero avuto motivo di dubitarne (ma non ne esistono documenti probanti) a rafforzarli nella loro posizione fu la costituzione della Repubblica sociale italiana incardinata su Mussolini e succuba della Germania. Malgrado tutto, all'indomani della resa e del trasferimento del re, del principe ereditario e del governo da Roma a Brindisi, nei modi che tante polemiche hanno suscitato e ancora sollevano, i vertici delle Forze Armate furono a fianco del sovrano. Il 26 settembre 1943 Vittorio Emanuele III ordinò l'organizzazione del Raggruppamento “Piemonte”: un primo nucleo di circa 5.000 uomini. Cinque giorni dopo la dichiarazione di guerra alla Germania (13 ottobre), lo passò in rassegna nei pressi di Manduria. La riorganizzazione dell'Esercito molto deve alla tenacia di Giovanni Messe, ultimo Maresciallo d'Italia, biografato da Luigi Emilio Longo nel volume pubblicato dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito (2006) e, successivamente, dal già citato generale Zerrillo.
Il 15 novembre il Raggruppamento fu autorizzato a muovere verso la linea del fronte di combattimento. Sulle fiancate degli automezzi il colonnello Valfrè di Bonzo fece istoriare lo scudo sabaudo. A inizio dicembre venne aggregato alla 36^ divisione statunitense del II corpo d'armata e (come scrisse Gabrio Lombardi) fu incaricato di espugnare il «dosso allungato, scoperto e roccioso, spezzato in una lunga serie di ondulazioni di altezza crescente»: Montelungo. Lì, l'8 e il 16 dicembre 1944, ebbero luogo le sue prime prove con attacchi ripetuti a reparti della divisione “Goering”. Subì pesanti perdite. Il primo giorno perse 4 dei 5 ufficiali in linea. Mostrò che «l'antiquo valore/ne l'italici cor non [era] ancor morto». Lo stesso principe Umberto di Piemonte si levò in volo di ricognizione per fornire precise informazioni sul nemico, meritandosi la Silver Star, la prima delle due onorificenze conferitegli dagli anglo-americani, i quali gli attribuirono poi anche la Legion of Merit.
La riorganizzazione delle Forze Armate, a cominciare dal Regio Esercito, avvenne in quei mesi difficili per tutti. Il motto del Re e del Principe ereditario, dal 5 giugno 1944 Luogotenente del Regno, fu “Viva l'Italia”. Continuò a garrire il tricolore che dal 1848 ne aveva guidato la lunga marcia verso l'indipendenza e l'unità nazionale, come ha scritto lo storico militare gen. Oreste Bovio nell’insuperata Storia dell'Esercito italiano e in In alto la Bandiera.
Per saperne di più: mostre, convegni, studi...
Dal rovesciamento del regime fascista all’instaurazione dalla Repubblica (19 giugno 1946) si susseguirono sei diversi governi. Nell'ordine, il maresciallo Pietro Badoglio ne presiedette tre diversi dal 25 luglio 1943 al 18 giugno 1944; Ivanoe Bonomi (ex socialista riformista, democratico, esponente della Democrazia del lavoro) ne guidò due sino al 21 giugno 1945. A lui seguì il breve governo presieduto da Ferruccio Parri, comandante delle formazioni partigiane “Giustizia e libertà”, esponente del Partito d'azione, dal quale si separò nel congresso del febbraio 1946 per dar vita alla Concentrazione democratica repubblicana con Ugo La Malfa. Il 10 dicembre gli subentrò il democristiano Alcide De Gasperi, a capo di un governo formato da ministri dei sei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale (comunisti, socialisti, azionisti, democratici del lavoro, democristiani, liberali), con esclusione del Partito repubblicano italiano capitanato da Randolfo Pacciardi.
   Al ministero della Guerra si susseguirono nell'ordine i generali Antonio Sorice e Taddeo Orlando con Badoglio; il liberale Alessandro Casati con Bonomi, il democristiano Stefano Jacini con Parri e il repubblicano e massone Cipriano Facchinetti con De Gasperi. Nello stesso arco di tempo si susseguirono due soli Capi di Stato Maggiore Generale: il maresciallo d'Italia Giovanni Messe dal 18 novembre 1943 al 1° maggio 1945, quando gli subentrò il generale designato d'armata Claudio Trezzani. Capi di stato maggiore dell'Esercito furono i generali Mario Roatta sino al 18 novembre 1943; Paolo Berardi fino al 10 febbraio 1945, quando assunse il comando delle Forze Armate in Sicilia per contrastare l'Esercito volontario per l'indipendenza dell'isola; Ercole Ronco e infine il generale di divisione Raffaele Cadorna, già comandante del Corpo Volontari della Libertà, figlio di Luigi Cadorna, comandante supremo durante la Grande Guerra (su cui fa luce il volume Luigi e Carlo Cadorna, Caporetto? Risponde Cadorna, BastogiLibri, 2021).
   Capo di Stato Maggiore della Marina (carica abbinata a quella di sottosegretario della Marina) fu l'ammiraglio Raffaele De Courten; a Capo di Stato Maggiore dell'Areonautica si susseguirono i generali Pietro Piacentini e Mario Aymone Cat. Quattro furono i comandati generali dei Carabinieri: i generali Angelo Cerica fino al 9 settembre 1943, Giuseppe Pièche dal 15 novembre 1943 al 20 luglio 1944, Taddeo Orlando e dal 7 marzo 1945 Brunetto Brunetti. La loro opera si coniugò a quella dei comandanti del Corpo Italiano di Liberazione e, di seguito, dei Gruppi di Combattimento “Cremona” (gen. Clemente Primieri), “Friuli” (gen. Arturo Scattini), “Folgore” (Giorgio Morigi), “Legnano”, “Mantova”, “Piceno (gen. Emanuele Beraudo di Pralormo), impegnati nell'avanzata verso il Nord.
   “Nel decennale della Resistenza e del ritorno alla democrazia” il loro fondamentale contributo alla ricostruzione dell'Italia è stato documentato dal gen. Primieri in Il Secondo Risorgimento (Roma, Poligrafico dello Stato, 1955, con contributi di Aldo Garosci, Raffaele Cadorna, Costantino Mortati e altri) e, sulla scorta di ampia documentazione, dal generale Pierluigi Bertinaria nel convegno internazionale di studi (Milano 17-19-maggio 1984) La cobelligeranza italiana nella lotta di Liberazione dell'Europa, i cui atti sono stati pubblicati dal Ministero della Difesa-Comitato storico “Forze Armate e Guerra di Liberazione” (Roma, 1986).
   La complessa evoluzione dal Raggruppamento “Savoia” al CIL e ai Gruppi di Combattimento è stata documentata dalla Mostra al Mastio della Cittadella di Torino (C.so Galileo Ferraris), allestita dal 22 al 30 aprile per iniziativa di illustri personalità (i generali Pastorello, Cinaglia, Uzzo, Puliatti e altri) di concerto con il Museo Storico Nazionale di Artiglieria e l'Associazione Nazionale Artiglieri d'Italia. La Mostra è stata accompagnata da un minuzioso catalogo che, come ribadito dal “CalendEsercito 2023”, illustra la continuità dell'Esercito italiano dalla sua costituzione (1861) a oggi, evidenziando anche il ruolo svolto per 19 mesi dalle forze armate italiane, giunte a contare 450.000 uomini tra reparti combattenti e ausiliari; senza dimenticare gli 80.000 militari che operarono nelle formazioni partigiane sorte nell'Italia centro-settentrionale: non solo in quelle dichiaratamente monarchiche ma anche nelle file di Garibaldini, Giustizia e libertà, Matteotti e nelle brigate “bianche”, cioè di ispirazione democristiana o genericamente “cattolica”. Il panorama del contributo dato dai militari alla “Riscossa” (come Raffaele Cadorna intitolò le sue Memorie) non sarebbe completo se non venisse tenuto conto anche degli Internati Militari Italiani (la loro storia è stata recentemente documentata da Avagliano e Palmieri (ed. Mondadori) e dei prigionieri italiani negli USA e Gran Bretagna.
A ottant'anni dai “fatti”, la svolta voluta e attuata da Vittorio Emanuele III nell'estate 1943 viene ricomposta alla luce meridiana della verità storica. Meriterà di essere ulteriormente approfondita e soprattutto proposta all'attenzione di docenti e studenti anche attraverso programmi radiotelevisivi, che mettano a frutto le decine di volumi di Atti dei convegni promossi dagli Uffici storici militari e dall'Archivio Centrale dello Stato e i Verbali dei governi da Badoglio a De Gasperi curati da Aldo G. Ricci.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Vittorio Emanuele III passa in rassegna a Brindisi reparti del riorganizzato Regio Esercito Italiano. 


ARCHIVIO 2022
ARCHIVIO 2021
ARCHIVIO 2020
ARCHIVIO 2019
ARCHIVIO 2018
ARCHIVIO 2017