
Lo
Stato d'Italia è
uno “stato di
diritto” da
quando, nel 1861,
il Regno fece
proprio lo Statuto
albertino del 4
marzo 1848 il cui
articolo 24
recita: “Tutti i
regnicoli,
qualunque sia il
loro titolo o
grado, sono uguali
dinnanzi alla
legge. Tutti
godono egualmente
i diritti civili e
politici, e sono
ammessibili alle
cariche civili e
militari, salvo le
eccezioni
determinate dalle
leggi”. La
confessione
religiosa cessò di
essere
discriminante. Col
tempo la libertà
di coscienza
garantita dallo
Statuto divenne
costume condiviso,
grazie a uno
stuolo di spiriti
universali. Non
accadde
altrettanto in
regimi teocratici,
che subordinano i
diritti dei
cittadini a una
confessione
religiosa. Lo
spiegò Garibaldi
nei suoi romanzi,
scritti “per il
popolo”.
La scimitarra
sull'Europa...
Nei suoi ultimi
anni Giuseppe
Garibaldi (Nizza,
4 luglio
1807-Caprera 2
giugno 1882)
affinò il proprio
pensiero politico.
Nel 1860, messa a
segno l'impresa
dei Mille, senza
la quale l'unità
d'Italia non
sarebbe mai nata,
vaticinò gli Stati
Uniti d’Europa.
Dal 1870, dopo la
guerra
franco-germanica,
in cui combatté a
fianco dei
francesi contro il
militarismo
prussiano, e la
“Commune” del 1871
(da lui
deprecata), invocò
la “debellatio”
dell’impero turco
che opprimeva
l’Europa
orientale. Unì
motivi religiosi e
culturali a
ragionamenti
politici tuttora
attuali. Se ancor
oggi
Costantinopoli è
Istanbul lo si
deve alla
“diplomazia” di
Londra e Parigi: è
la pesante eredità
della Guerra dei
Trent'anni
(1914-1945),
quando i
vincitori, pur in
presenza dello
sfascio
dell'impero
ottomano,
lasciarono ad
Ankara la
cosiddetta
“Turchia europea”
per interdire alla
Russia l'accesso
dal Mar Nero al
Mediterraneo
attraverso gli
Stretti. La miopia
si paga nei
secoli. Se la
cosiddetta Unione
Europea
(irrilevante sotto
il profilo
politico e quindi
militare) volesse
per Costantinopoli
una sorte
migliore, dovrebbe
accogliere la
Turchia che ha
cancellato la
memoria di Ataturk
e aspira a
restaurare il
Califfato
islamico.
Garibaldi aveva
idee chiare
sulla Sublime
Porta…
C’è un Garibaldi
quasi sconosciuto.
Molto oltre il
corsaro, il
guerrigliero, il
generale, vi è il
politico: alfiere
della fratellanza
universale e,
proprio perciò,
strenuo fautore
della lotta per
sottrarre l’Europa
alla dominazione
dei turchi e
all'invadenza
dell’Islam.
Garibaldi ne
scrisse
ripetutamente nel
suo ultimo
decennio, il meno
studiato e
pressoché
sconosciuto. Così
la sua lotta
contro il dominio
ottomano su
qualunque lembo
d’Europa e contro
la propagazione
dell’islamismo
(ideato sei secoli
dopo il
cristianesimo e
che non ha mai
fatto i conti con
la Rivoluzione
francese) rischia
di rimanere
ignorata. È un
Garibaldi scomodo.
Perciò vi sono
buone ragioni per
parlarne. Il
Generale mostrò
senno politico
superiore a quello
che di rado e
avaramente gli
viene
riconosciuto. Il
suo
anticlericalismo
radicale,
solitamente
ritenuto
circoscritto alla
chiesa cattolica,
investì ogni forma
di intrusione
delle religioni
nella vita civile
e nella libertà
delle persone. La
sua lotta per la
liberazione dello
spazio
euro-mediterraneo
dai “turchi” andò
però molto oltre
l’ambito
religioso. Fu
lotta politica,
legata alla
valutazione
positiva
dell’espansione
degli europei
Oltremare e della
colonizzazione
dell’Africa
settentrionale
(programma
condiviso da
Mazzini) da parte
della “civiltà
occidentale”,
razionale, fondata
sull'intreccio di
scienze,
produzione,
mercato, progresso
civile. Garibaldi
non ingabbiava il
Libero Pensiero in
pochi meridiani e
paralleli: per lui
era patrimonio
universale.
Considerava sua
missione
propugnarlo
ovunque. A quel
modo fu “eroe dei
due mondi”,
etichetta
altrimenti futile.
Nelle
Memorie Garibaldi
ricordò la sua
lunga dimora a
Costantinopoli,
una pagina avvolta
nel mistero. I
biografi la
saltano a pie'
pari. Ammalatosi
in uno dei tanti
viaggi in Oriente
(di quale morbo?),
vi rimase più del
previsto e si
trovò alle
strette: «La
guerra accesa tra
la Russia e la
Porta (cioè
l’impero turco,
detto Sublime
Porta, NdA)
contribuì a
prolungare il mio
soggiorno. In tale
periodo mi
successe per la
prima volta di
impiegarmi a
precettore di
ragazzi, offertomi
dal signor Diego,
dottore in
medicina, e che mi
presentò alla
vedova Timoni, che
ne abbisognava.
Entrai in quella
casa maestro di
tre ragazzi, e
profittai di tale
periodo per
studiare un po’ di
greco, dimenticato
poi, siccome il
latino che avevo
imparato nei
prim’anni.» I
maligni
imbastirono molte
insinuazioni su
quella lunga
stagione.
Garibaldi ci tornò
con una pennellata
quando, molti
decenni dopo. In
una pagina di
appunti fustigò
“Il prete”: «Si
chiami egli prete,
Ministro,
dervista,
Calogero, Bonzo,
Papas, qualunque
nome egli abbia, a
qualunque
religione egli
appartenga, il
prete è un
impostore, il
prete è la più
nociva di tutte le
creature, perché
egli più di nessun
altro è un
ostacolo al
progresso umano,
alla fratellanza
degli uomini e dei
popoli. Io ho
percorso la
superficie del
globo. In Turchia
fui obbligato di
fuggire davanti ad
una folla di
ragazzi e di
donne, perché i
preti dicevan loro
ch’io era un
maledetto! In Cina
mi successe lo
stesso, e voi
giunti a Canton,
la più frequentata
e commerciale
delle città
Chinesi, non
potete visitarla
perché sareste
lapidato dalla
moltitudine
suscitata dai
preti.»
… e
sull'islamismo
L’avversione di
Garibaldi nei
confronti
dell’islamismo non
è una cappella
laterale della sua
vastissima
basilica
anticlericale. Non
è dottrinale,
teologica. È
propriamente
politica.
Dall’infanzia
aveva appreso, e
non solo per
racconti popolani
ma per esperienze
vissute, il
pericolo dei
“pirati”. Nizza,
la sua città,
ricordava
devastanti
incursioni delle
flotte turche nel
Cinquecento,
propiziate
dall’alleanza tra
Parigi e Istanbul
(dal 1453
soggiogata da
Maometto II)
contro il Sacro
romano impero di
Carlo V e la
Spagna di Filippo
II: un gioco
diplomatico
continuato con
Luigi XIV sino a
Napoleone III
(alleato con
Londra, Parigi e
l’impero turco
contro la Russia
di Nicola I: la
“guerra di Crimea”
decantata dalla
storiografia
italocentrica per
l’intervento del
regno di Sardegna
a fianco del
Sultano). Sulla
fine degli Anni
Venti
dell’Ottocento la
pirateria
barbaresca
rimaneva così
minacciosa e
dannosa da indurre
la Francia di
Carlo X, il
Piemonte di Carlo
Felice e le Due
Sicilie di
Francesco I di
Borbone a una
spedizione navale
comune. Vi si
distinse Carlo
Mameli dei
Mannelli, padre di
Goffredo.
Nel
1827, ricorda il
dotto
garibaldologo e
confratello
Maurice Mauviel,
il “Cortese”,
brigantino sul
quale viaggiava il
ventenne
Garibaldi, fu
assalito da
corsari. Il
comandante,
Semeria, ordinò
agli uomini di non
opporre resistenza
per non avere la
peggio. In seguito
il giovane
nizzardo subì due
altri assalti
pirateschi,
mortificanti e
umilianti. Gli
rimasero fissi
nella memoria. Ne
scrisse in Manlio,
romanzo
contemporaneo, al
quale lavorò sino
all’ultimo giorno.
Vi descrisse i
Riffegni (abitanti
del Riff,
sull’Atlante
marocchino, da lui
ben conosciuto nel
1849) e l’Assalto
di pirati alla
nave “Libertà”
che, al comando
del capitano
Schiaffino, eroe
della repubblica
Romana, recava
“Manlio”, di soli
cinque anni, verso
lo stretto di
Gibilterra alla
volta dell’America
meridionale. In
quelle pagine
Garibaldi non
parla di “arabi”,
né di “turchi”. Vi
scrisse: «Come il
leone, il Riffegno
è bello e forte.
Non so se, figlio
dell’Atlas, egli
si debba chiamare
di stirpe
caucasea.
Ignorante, fiero,
feroce, e
considerando tutto
ciò che non è
mussulmano,
eretico e niente
più d’un cane, il
Riffegno è
naturalmente
pirata; e molti
furono gli
equipagi (sic) di
legni mercantili
sgozzati quando
trattenuti dalle
calme presso
coteste coste
inospitali.»
Manlio non è un
romanzetto
qualunque. È il
“testamento
politico” di
Garibaldi. Un suo
capitolo è un
susseguirsi di
colpi e di grida,
culminanti in una
sorta di seconda
Lepanto
liberopensatrice:
«Marsala! Marsala
rispondeva un
garibaldino
all’Allah Urrah
degli Ottomani e
si lanciava
seguito dai suoi
alla riscossa dei
difensori della
prora.» La
battaglia navale
vi viene infine
risolta da “Vero”,
che,
precedentemente
ferito e curato
dal piccolo
Manlio, lascia
febbricitante la
cabina ove è
ricoverato al
grido
«All’armi…Qui non
si tratta di bende
ma della pele
(sic!) Avanti
fratelli!».
“Vero” (nel quale
Garibaldi si
identifica) a
colpi di revolver
e di «un
coltellaccio che
teneva in cintura
fece strage
orrenda tra i
barbareschi, e
così i compagni,
spinti
dall’esempio del
valoroso capo e
per la propria
conservazione».
Estirpare il
fondamentalismo
dall'Europa...
Sarebbe però
meschino ridurre
il pensiero di
Garibaldi
sull’insanabile
incompatibilità
fra impero turco e
civiltà europea a
mero riflesso di
vicissitudini
personali. Esso
esprime una
visione
geopolitica di
ampio orizzonte,
nell’ambito della
guerra secolare
tra diritti
dell'uomo e del
cittadino civili e
islam.
Prosatore
esondante,
Garibaldi sapeva
controllare la
penna quando
necessario. Perciò
i suoi scritti
vanno centellinati
e capiti, più e
meglio di quanto
sinora sia stato
fatto. Il 5 maggio
1873 scrisse al
fido Timoteo
Riboli, medico,
massone, fondatore
della lega per la
protezione degli
animali: «Mentre
l’Europa
progredisce che fa
l’Italia? Non
accenneremo ai
miserabili suoi
governanti già
condannati dal
disgusto
universale, ma
bensì alla parte
virile e generosa
che forma la sua
democrazia,
prodotto delle
cento chiesuole in
cui la dividono i
suoi
Archimandriti,
Massoni,
Mazziniani,
Internazionalisti,
sono egualmente
fautori
dell’indolenza
democratica in
Italia, e quindi
del trionfo
effimero ma reale
dell’oppressione e
della menzogna…».
Pigiava su tasti
suonati da tempo:
riforme per
guarire la “gran
piaga della
miseria”, rifiuto
del programma
dell’Internazionale
(confisca della
proprietà privata
e dei diritti
ereditari…) e
condanna della
scioperomania che
avrebbe
precipitato
l’Italia nel
disastro.
Non
parlava per sé.
“Agricoltore”
(come si
classificò alla
Camera), Garibaldi
era una “filosofia
politica in
azione”, campione
di una guerra di
liberazione
culturale e
politica, come
osservò Aldo G.
Ricci in
“Obbedisco. Un
eroe per scelta e
per destino” (Ed.
Palombo). Per lui
l’Occidente era
contrapposto alla
Turchia in un
conflitto di
civiltà. Lo
scrisse il 4 marzo
1876 a Ferdinando
Dobelli,
rispondendo
all’appello della
gioventù slava:
«La diplomazia del
ventre fu incapace
di prevenire
l’iniziativa del
macello umano. I
preti nel connubio
dei turchi e
satolli del loro
oro, hanno
lanciato l’anatema
contro i seguaci
della croce. Ed i
settari del palo,
dopo d’aver
lottato per
tenerlo in piedi,
devono oggi
conformarsi allo
slancio degli
schiavi che
preferirono la
morte al
servaggio. E voi,
ricordatevi di
tutti gli oltraggi
ricevuti dai
feroci ed osceni
discendenti di
Maometto. Il turco
deve passare il
Bosforo e solo
alcuni ottomani,
senza preti,
potranno
convivere, se
onesti, coi loro
antichi schiavi.
Invalido, io invio
un saluto del
cuore ai fieri
campioni della
libertà
orientale.» Non
nutriva dunque
alcuna ostilità
nei confronti
della popolazione
turca ma ne aveva
contro il regine
teocratico che la
opprimeva.
Il Solitario
contro
l'oscurantismo
Contro la “pax”
immobilistica
dettata dal
Congresso di
Vienna nel 1815,
ribadita da quello
di Parigi del 1856
e dal concerto
europeo che di
conflitto in
conflitto
riportava il
Vecchio Continente
ai confini e alle
logiche della
Restaurazione,
Garibaldi pose il
problema delle
“nazioni senza
stato”, dei popoli
inchiodati alle
tavole di
spartizione delle
grandi potenze. In
lui vibrava il
Risorgimento, lo
spirito che aveva
fatto nascere
l’Italia a Stato
indipendente,
unica nazione
emersa per somma
di fortune dalla
Restaurazione del
1814-15 e dalla
repressione della
primavera dei
popoli
(1848-1849).
Agli
occhi di Garibaldi
la presenza della
Turchia in Europa
era una cappa di
piombo sulla
storia. Bisognava
liberarsene. Non
per motivi etnici,
ma perché bastione
del
fondamentalismo
oscurantista.
L’occasione sembrò
profilarsi dal
1875 con le
rivolte
antiturche, dalla
Bosnia alla
Bulgaria, represse
dalla Sublime
Porta grazie al
sostegno della
Gran Bretagna,
sospinta dai suoi
soliti calcoli
geopolitici e da
interessi
finanziari. Il 17
luglio 1877
Garibaldi scrisse
al marchese
Filippo Villani:
«Mandare i Turchi
in Asia, ecco il
provvedimento
efficace per gli
schiavi
dell’Europa
Orientale; ogni
altra misura sarà
una tappa di
guerra.» Ma
bisognava vincere
gli intralci della
diplomazia, come
ruvidamente vergò
nel Romanzo
contemporaneo: «In
questi ultimi
tempi, massime per
la questione
orientale, si è
manifestato nel
mondo quanto di
lurido esiste
ancora nell’umana
famiglia.
L’Austria ha fatto
il suo dovere di
aquila o piuttosto
d’avvoltoio,
sostenendo
sordamente la
causa
dell’oppressore e
accatastando ogni
specie d’ostacoli
all’Europa
Orientale.
Essenzialmente
tiranna essa ha
fatto quanto
doveva. Ma
l’Inghilterra, la
terra universale
d’asilo,
l’emancipatrice
degli schiavi, non
doveva, guidata da
un Ebreo [lord
Disraeli, NdA]
lasciarsi condurre
all’esterminio dei
poveri servi ed al
sostegno di
tiranni
esecrabili. No! Ed
io racapricio
pensandovi! […] E
i preti? Peste
dell’umana
famiglia, hanno
fatto causa comune
coi massacratori
degli innocenti.»
Nel
Manlio Garibaldi
passò dalle
staffilate contro
il clero a quelle
specifiche contro
«il Turco, che più
cristiani uccide e
più titoli
acquista ai
godimenti ed alla
gloria
dell’immorale suo
paradiso e,
codardo come sono
generalmente gli
uomini sanguinari,
si diverte a
impalare,
mutilare,
squartare uomini
inermi, donne,
bambini!!!».
Sospinto
dall’orrore, il
“Solitario” (come
Garibaldi si
autodefinì in
Clelia) sognò una
guerra di
liberazione del
Mediterraneo dal
dominio turco, a
cominciare
dall’isola di
Creta: «Giunta la
flotta italiana
sulla rada di
Canea, v’incontrò
la turca, composta
di cinque
corazzate e se ne
impadronì. Mi si
chiederà con quale
diritto. Ed io
risponderò: collo
stesso diritto con
cui Maometto
Secondo si
impadroniva di
Costantinopoli ed
i pirati turchi
delle nostre
donne, bambini,
uomini, etc., per
farne degli
schiavi…» Non
erano sfoghi
letterari ma
ragionamenti
politici. Al
marchese Villani
il 15 marzo 1878
da Caprera
scrisse: «Dunque
dopo tanto sangue
versato risulterà
nell’Europa
Orientale uno di
quei mostruosi
pasticci di cui la
diplomazia va
famosa. Cosa è
questa lunga
Turchia che dal
Bosforo si
estenderà
all’Adriatico,
passando sul corpo
della Bulgaria
quasi
indipendente, o
tra questa e la
Serbia da una
parte, la
Macedonia e la
Tessalia
dall’altra, le di
cui popolazioni se
hanno un’ombra di
dignità dovranno
mantenersi in uno
stato perenne
d’insurrezione?
Quando io dissi al
principio di
questa guerra: i
Turchi dover
passare il Bosforo
per poter ottenere
una pace durevole,
e tale è pure la
mia opinione
d’oggi, ma i
turchi che
intendano ciò
solo: il sultano,
le sue odalische,
i suoi eunuchi e
l’immensa caterva
di preti ottomani,
non già la
popolazione turca
onesta e laboriosa
che di quanti
popoli abitatori
del Levante è la
migliore. Tale
emigrazione
sarebbe
impossibile,
converrebbe però
non lasciar in
Europa un solo
prete turco, che
basterebbe a
seminar la
zizzania in tutta
la confederazione;
e le moschee
cambiar in scuole,
ove s’insegnerebbe
la religione del
vero.»
Garibaldi sperava
in un Congresso
che esercitasse
l’arbitrato
internazionale, la
ricerca di una
soluzione pattizia
dei conflitti nel
rispetto della
libertà dei
popoli, che
avrebbe comportato
con sé la libera
navigazione nel
Mar Nero (rumeno
perché
daco-romano) e
negli Stretti.
La pace di Santo
Stefano e il
congresso di
Berlino del 1878
dettero tutt’altri
risultati: la Gran
Bretagna
s’impadronì di
Cipro e ne fece
l’isola della
divisione, del
conflitto
permanente, quale
ancora rimane: un
equivoco irrisolto
nel Mediterraneo
orientale. E il
gran Malato
d’Oriente divenne
sempre più la
polveriera della
futura
conflagrazione
europea, esplosa
nell’estate 1914
dopo la guerra
italo-turca per la
sovranità sulla
Libia e tre guerre
balcaniche in due
anni: groviglio
inestricabile,
letto di procuste
sul quale la
diplomazia inetta
inchiodò l’area
balcanica.
Il
Solitario aveva
intravveduto e
suggerito la
soluzione, ma non
ne vide l’approdo
ultimo. Nel 1897
Creta insorse ma
l’Europa fu
solidale con la
Sublime Porta
nella repressione,
come deplorò
Giosue Carducci in
versi staffilanti.
La grande guerra
si concluse sul
versante orientale
con la pace di
Sèvres, che lasciò
gli Stretti ad
Ataturk (massone,
sì, ma, come tanti
altri “fratelli”,
solo sino a quando
gli fece comodo)
in cambio
dell’adozione
dell’alfabeto
latino e di una
parvenza di
“laicizzazione”.
La seconda guerra
mondiale lasciò le
cose com’erano,
per una somma di
errori e
nefandezze delle
diplomazie, oggi
incombenti
sull'Unione
Europea, a sua
volta incapace di
politica estera di
vasto respiro.
Aveva
ragione il
Solitario di
Caprera. Il cui
pensiero perciò
venne ignorato:
troppo scomodo,
sempre
attualissimo.
Aldo
A. Mola
DIDASCALIA:
La copertina
dell'edizione
anastatica di
“Clelia, il
Governo dei
preti” a cura di
A.A.M. nella
collana “Il
Feuilleton”
diretta da
Giovani Arpino
(Torino, Meb,
1973). In “La
mietitura del
turco” Giosue
Carducci
(1835-1907) nel
giugno 1897
sferzò l'ignavia
dell'Europa
centro-occidentale
(sempre uguale a
se stessa:
impotente) a
cospetto delle
stragi degli
armeni e dei
greci. Scrisse:
«Il Turco miete.
Eran le teste
armene/ che ier
cadean sotto il
ricurvo acciar:/
ei le offeriva
boccheggianti e
oscene/ a i
pianti
dell'Europa a
imbalsamar.//
(...) Il Turco
miete. E al
morbido tiranno/
manda il fior
delle elleniche
beltà./ I
monarchi di
Cristo
assisteranno /
bianchi eunuchi
a l'harem del
Padascià.»
In soccorso dei
greci si mosse
una legione di
volontari
garibaldini,
guidato da
Ricciotti
Garibaldi. Nella
battaglia di
Domokòs (17
maggio 1897)
cadde anche il
cinquantaduenne
forlivese
Antonio Fratti,
patriota e
deputato alla
Camera.