Proposte Associazione di Studi Storici Giovanni Giolitti-Associazione Studi Storici Giovanni Giolitti

Proposte

 L'ESTATE DI VITTORIO EMANUELE III?
CONVEGNO A VICOFORTE CON IL PRINCIPE AIMONE DI SAVOIA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 1 Ottobre 2023 pagg. 1 e 6.
 DIDASCALIA: La copertina del
                            volume (ed. BastogiLibri), pubblicato
                            dall'Associazione di studi storici Giovanni
                            Giolitti e della Associazione di Studi sul
                            Saluzzese, e il programma del Convegno di
                            Vicoforte, che si vale dell'adesione di
                            enti, istituti, centri di studio e della
                            Associazione Nazionale ex Allievi della
                            Nunziatella. Nel programma l'Italia è
                            prospettata quale appariva dagli
                            anglo-americani che ne iniziarono
                            l'occupazione da Sicilia, Calabria e
                            Taranto. Impiegarono oltre otto mesi ad
                            arrivare a Roma e diciotto a raggiungere la
                            pianura padana dal novembre 1944 lasciata in
                            balia dei tedeschi e del suo alleato
                            Mussolini: i tempi tragici della guerra
                            civile.  Un innovativo convegno di studi...
  Sabato 7 ottobre 2023 il principe Aimone di Savoia presenzia in Vicoforte (Cuneo) a un convegno di studi sul “L'estate di Vittorio Emanuele III: 25 luglio-19 ottobre 1943”.
   In poche settimane l'Italia voltò pagina. La svolta fu decisa personalmente dal Re. Da tempo privo di sostegno di politici ante-fascisti e, meno ancora, di gerarchi come Galeazzo Ciano, invano sondati dal ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone per imprimere una piega diversa al corso della storia, confidando in militari fedelissimi, a cominciare dai Carabinieri, il 25 luglio Vittorio Emanuele III esercitò i poteri della Corona, mai intaccati. Sostituì al governo Benito Mussolini con il Maresciallo Pietro Badoglio, che, su sua direttiva, smantellò il regime fascista e puntò a portare l'Italia al di fuori della guerra. Con la “resa senza condizioni” (3 settembre), dettata dagli anglo-americani a nome delle Nazioni Unite, l'Italia perse la piena sovranità. Però con il trasferimento da Roma a Brindisi (9 settembre) il Re salvò la continuità dello Stato. In gran parte occupata dai tedeschi e per l'altra sottoposta agli anglo-americani, l'Italia rimase divisa tra Repubblica sociale italiana, proclamata da Benito Mussolini, policentrica e vassalla della Germania, e il Regno, unico potere riconosciuto legittimo dalle Nazioni Unite, ormai avviate alla vittoria.
Cobelligerante dal 13 ottobre, il governo di Vittorio Emanuele III riorganizzò le Forze armate, impegnate nella lotta di liberazione, e l'amministrazione pubblica, ma non ebbe la collaborazione dei partiti, in massima parte avversi al re e alla monarchia. Sottoposta a pesanti bombardamenti, invasa e bersaglio di rivalse estere antiche e nuove, l'Italia faticò a imboccare la via della riscossa ma risalì la china e, a parte la tragica amputazione sul versante orientale, mantenne quasi tutti i confini conseguiti con le guerre per l'indipendenza. Grazie all'iniziativa di Vittorio Emanuele III la sua sorte fu ben diversa da quella riservata dai vincitori alla Germania e ai suoi satelliti nell'Europa orientale, per decenni  sottoposti all'Unione sovietica, con il consenso dei partiti comunisti, a cominciare da quello italiano. 
Dal luglio 1943 al maggio 1945 il Paese visse i tempi più tragici dall'unità. 

Nel convegno del 7 ottobre (in programma dalle 10 alle 19 a Casa Regina Montis Regalis di Vicoforte, accesso libero) ne parlano, documenti alla mano, storici di diverso orientamento, uniti nella ricerca della verità dei fatti attraverso le carte d'archivio: Giuseppe Catenacci, presidente onorario dell'Associazione ex Allievi della Nunziatella, il col. Carlo Cadorna, figlio del generale Raffaele, comandante del Corpo Volontari della Libertà, i generali Tullio Del Sette, già comandante dei Carabinieri, e Antonio Zerrillo, Aldo Ricci, p. sovrintendente dell'Archivio Centrale dello Stato, i docenti Raffaella Canovi, GianPaolo Ferraioli, Rossana Mondoni con Daniele Comero, Massimo Nardini, Tito Lucrezio Rizzo, già Consigliere della Presidenza della Repubblica, Gianpaolo Romanato, Giorgio Sangiorgi. Con Gianni Rabbia presiedono Alessandro Mella e Gianni S. Cuttica.
Il convegno è promosso dall’Associazione di studi storici Giovanni Giolitti e dall'Associazione di studi sul Saluzzese, presieduta da Attilio Mola, con la adesione di enti e istituti.
La scelta di Vicoforte non è casuale. Nel suo Santuario dal 2017 riposano le spoglie di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena, traslate per iniziativa della principessa Maria Gabriella di Savoia, propiziata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

...e un volume sul lungo Regno di Vittorio Emanuele III...
 A margine del convegno viene presentato un volume sul lungo regno di Vittorio Emanuele III. Esso raccoglie gli Atti dei convegni di studi svolti a Vicoforte il 9 ottobre 2021 su “Il Re Soldato per il Milite Ignoto: la riscossa della monarchia statutaria (1919-1921)” e il 1° ottobre 2022 su “La crisi politica italiana del 1922”, a prosecuzione del percorso intrapreso con il convegno “Da Caporetto alla Vittoria” (Saluzzo, 2017-2018) e con quelli su “Il lungo regno di Vittorio Emanuele III”, scandito in “L'età vittorioemanuelina/giolittiana,1900-1921” (Vicoforte,28-29 settembre 2018),  “Corona e regime: gli anni del consenso, 1922-1937” (Vicoforte 8 ottobre 2019) e “Gli anni delle tempeste: meditazioni, ricordi e congedo, 1938-1946” (Vicoforte, 10 ottobre 2020).
   Nei loro contributi gli autori sintetizzano e innovano opere pubblicate in saggi e volumi. La serie dei convegni focalizza specifici “momenti” della prima metà del Novecento e, al tempo stesso, supera la segmentazione del lungo periodo in “eventi” che vanno collocati nella visione complessiva dello Stato. I “centenari” e/o i “periodi” via via individuati non sono tributo convenzionale a una data o a “episodi” ma fanno percepire la genesi e i capisaldi dello Stato (corona, parlamento, politica estera, forze armate,  movimenti e partiti politici, vita culturale, dinamica economica e sociale...).
   All'inizio del Novecento, aperto dal regicidio, il regno d'Italia contava appena quarant'anni dalla proclamazione e solo da trenta aveva annesso Roma, coronamento del progetto enunciato nel marzo 1861 da Camillo Cavour ma anche causa della sua drastica “condanna”, anzi “scomunica”, da parte di Pio IX. All'opposto di quanto recentemente affermato da Ernesto Galli della Loggia, non vi fu affatto una “conventio ad excludendum” dei cattolici dalla direzione dello Stato (“Corriere della Sera”, 21 settembre 2023, p.32). Contrariamente a quanto proposto da molti ecclesiastici di prestigio, come  Luigi Tosti, abate d Montecassino, e il teologo Carlo Passaglia, deputato di Montecchio e autore della “Petizione a Pio IX e ai Vescovi” sottoscritta da novemila sacerdoti fautori dell'immediata conciliazione tra la Chiesa e il Regno d'Italia il pontefice provocò la  secessione dei cattolici dalla vita politica nazionale. A quella lacerazione altre se ne aggiunsero. Mentre Giuseppe Garibaldi, “primo massone d'Italia” e da tanti democratici optarono per “Italia e Vittorio Emanuele”, la soluzione sabauda fu rifiutata dai repubblicani intransigenti, numericamente esigui e tuttavia influenti in ambenti settari, e dai socialisti che in tutte le loro componenti rifiutarono le sollecitazioni ad assumere responsabilità di governo più volte avanzate, anche dal liberal-democratico Giovanni Giolitti.

   L'ampio ventaglio di temi messi a fuoco nel volume evidenzia la centralità della monarchia statutaria nel regno d'Italia e, di conseguenza, della condotta del Re. Dopo il decennio di fine Ottocento, nel cui corso si susseguirono una decina di governi talora di brevissima durata (l'ultimo ministero presieduto dal marchese Antonio Starrabba di Rudinì resse solo quattro settimane), il regime parve trovare stabilità con la coalizione presieduta dal democratico bresciano Giuseppe Zanardelli, subentrato all'ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato. La “svolta liberale” di inizio secolo si sostanziò nella fiducia accordata al nuovo governo da parte della Camera eletta nel giugno 1900, mentre presidente del Consiglio era il generale Luigi Pelloux, già ministro della Guerra (1892-1893), e poi a quello dal novembre 1903 presieduto da Giolitti.
    Il regio decreto 14 novembre 1901, n. 466 sulle “materie da sottoporsi al Consiglio dei ministri” chiarì che il suo presidente rappresentava il gabinetto, manteneva l'unità d'indirizzo politico e amministrativo di tutti i ministeri e curava l'adempimento “degli impegni presi dal governo nel discorso della Corona, nelle sue relazioni con il Parlamento e nelle manifestazioni fatte al paese”. Precisò che il ministro degli Esteri conferiva col presidente del Consiglio su tutte le note e comunicazioni che impegnassero la politica del governo nei rapporti con quelli esteri. Dal 1892 al 1922 nessun presidente del Consiglio fu titolare degli Esteri, a differenza di quanto era accaduto con Camillo Cavour e Francesco Crispi (ma solo nel 1889-1891) e avvenne poi con Benito Mussolini che assunse Esteri e Interno. Il regio decreto del 1901 non rafforzò né la camera elettiva né il governo ma il presidente del Consiglio, interlocutore privilegiato del sovrano. Fu un passo avanti verso la futura legge istitutiva del “capo del governo” (24 dicembre 1925, n. 2263). A differenza di quanto solitamente viene detto, questa non intaccò affatto le prerogative statuarie del re. Essa infatti sancì: “Il Capo del governo è nominato e revocato dal Re ed è responsabile verso il Re dell'indirizzo generale politico del governo”.
   L'evoluzione del regime monarchico conferì maggior peso alla dirigenza politica. Erano gli anni delle riflessioni di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels sulle élites e sui partiti. Proprio per la preminenza delle “personalità” chiamate a reggere le sorti del Paese la storiografia parve chiamata a dedicare speciale attenzione ai profili politico-istituzionali del Re, dei suoi più stretti collaboratori (a cominciare dai ministri della Real Casa e dai suoi primi aiutanti di campo), dei presidenti del Consiglio e dei maggiorenti delle Camere. A lungo furono invece privilegiati altri temi, prevalentemente socio-economici. Le “dottrine politiche” prevalsero sull'azione di chi esercitò il potere, la rappresentazione travalicò i “fatti”. Alcuni dei dodici presidenti che si susseguirono alla guida dei venti ministeri alternatisi tra il 1900 e il 1922 ancora attendono biografie esaustive. Nell'ordine si alternarono, talora per brevi periodi, Saracco, Zanardelli, Giolitti, Alessandro (Sandrino) Fortis (due ministeri), Sidney Sonnino, Giolitti, Sonnino, Luigi Luzzatti, Giolitti, Salandra, Paolo Boselli, Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti (due governi consecutivi), Giolitti, Ivanoe Bonomi e Luigi Facta (due ministeri per un insieme di otto mesi): una ridda di ministri e sottosegretari che conduce a riflettere sulla centralità del Re nel regime statutario configurato quale “triangolo scaleno”, come documentato in saggi compresi nel volume. Mancano biografie scientifiche di personalità eminenti (inclusi ministri di vaste vedute ma al governo per breve periodo, Leone Wollemborg), volutamente rimaste al di fuori del governo (Ettore Ferrari) ma non delle istituzioni (è il caso di Ernesto Nathan, che tentò l'elezione alla Camera e fu sindaco di Roma con il sostegno personale del Re e del presidente Giolitti).  
   Al tempo stesso vi era e vi è motivo di porre al centro dell'attenzione forma e sostanza dei poteri apicali dello Stato, immutati dalla promulgazione della Carta Albertina al 1944. Essi furono esercitati dal Re come e quando ritenne di doverlo fare: in specie il 27-30 ottobre 1922 quando incaricò Mussolini di formare il governo, il 25 luglio 1943 quando lo revocò e il 3-8 settembre quando, in nome del governo da lui nominato, il generale Giuseppe Castellano sottoscrisse a Cassibile la resa incondizionata dell'Italia agli anglo-americani operanti in nome delle Nazioni Unite. Con quell'atto Vittorio Emanuele III garantì la continuità dello Stato d'Italia al di là della sconfitta militare.

...il Re isolato.
   Usciti da mezzo secolo di opposizione, gli esponenti di movimenti e partiti pregiudizialmente anti-statutari (ma anche molti “democratici”) non gli riconobbero alcun merito, rifiutarono di collaborare con il governo e posero imperiosamente la questione istituzionale. Il “lungo regno” di Vittorio Emanuele III formalmente si protrasse sino all'annuncio del trasferimento al figlio Umberto di Piemonte di tutte le prerogative regie, nessuna esclusa (12 aprile 1944), all'insediamento del principe a Luogotenente del regno (5 giugno), all'abdicazione del sovrano e alla sua partenza “per l'estero”, non “in esilio” (9 maggio 1946).
   Secondo la narrazione subito prevalsa e tuttora perdurante, sino al governo presieduto da Ferruccio Parri, già comandante delle formazioni partigiane “Giustizia e Libertà” (giugno 1945), l'Italia non aveva conosciuto alcuna vera democrazia. Tale affermazione fu confutata da Benedetto Croce, già stigmatizzato da Palmiro Togliatti al rientro dell'Unione sovietica di Stalin. A quel modo il filosofo si consegnò a sua volta all'emarginazione politica. La guida culturale ed “etica” dei decenni seguenti non furono più le sue opere ma i “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci, fortunosamente fatti pervenire a Togliatti da Piero Sraffa, figlio di un illustre docente universitario iniziato a una loggia del Grande Oriente d'Italia. 
   Senza pretesa di prevalere sui luoghi comuni stratificati nella narrazione mediatica e nella manualistica scolastica, gli atti dei convegni di studio raccolti in volume documentano, rettificano e offrono motivo di riflessione innovativa. L'Italia che ne emerge risulta quale venne ideata e realizzata dal Risorgimento: protagonista a pieno titolo di una storia dell'Europa che nel 1914 imboccò la discesa agl'inferi con l'inizio della nuova guerra dei trent'anni, conclusa nel 1945 con la sua lunga e tutt'oggi perdurante eclissi politico-diplomatico-militare. In tale ambito Vittorio Emanuele III emerge quale protagonista della grande storia. Rimane in attesa di essere pienamente compreso.
    Aldo A. Mola 

DIDASCALIA: La copertina del volume (ed. BastogiLibri), pubblicato dall'Associazione di studi storici Giovanni Giolitti e della Associazione di Studi sul Saluzzese, e il programma del Convegno di Vicoforte, che si vale dell'adesione di enti, istituti, centri di studio e della Associazione Nazionale ex Allievi della Nunziatella. Nel programma l'Italia è prospettata quale appariva dagli anglo-americani che ne iniziarono l'occupazione da Sicilia, Calabria e Taranto. Impiegarono oltre otto mesi ad arrivare a Roma e diciotto a raggiungere la pianura padana dal novembre 1944 lasciata in balia dei tedeschi e del suo alleato Mussolini: i tempi tragici della guerra civile.

MAFALDA DI SAVOIA ASSIA
UNA TRAGEDIA ITALIANA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 24 settembre 2023 pagg. 1 e 6.
Povera foglia frale...
Mafalda di Savoia a Racconigi
                                      con la
                                      Famiglia Reale   Il 28 agosto 1944 la principessa Mafalda di Savoia (“Muti”, in famiglia), consorte di Filippo langravio d'Assia, morì dopo una tardiva operazione al braccio sinistro, ustionato sino all'osso,  per fermare la cancrena generata dagli spezzoni di bombe che l'avevano ferita. L'intervento ebbe luogo in un ambulatorio improvvisato nel campo di concentramento tedesco di Buchenwald. Il 24 precedente migliaia di fortezze volanti partite da basi remote bombardarono a tappeto le Officine Gustloff e i dintorni. Il premier inglese Churchill, in visita a Napoli, voleva dare una lezione alla Germania, già piegata dalla sconfitta inflittale dai sovietici a Kursk. Nessuno degli incursori immaginava che al bordo del campo vivesse la figlia del Re d'Italia Vittorio Emanuele III, catturata a Roma il 22 settembre 1943 per ordine di Hitler e lì detenuta dall' 8 ottobre.
  “Povera foglia frale...” la Principessa lasciò la vita terrena.
  Ricordare la tragedia di Mafalda di Savoia-Assia significa compiere un passo avanti verso la conciliazione della memoria storica. Più serenità, più responsabilità. Ne scrisse il saggista imperiese Renato Barneschi in “Frau von Weber” (1982), autore di una accurata biografia della Regina Elena, “Rosa d'Oro della Carità”.
Casa Savoia per l'indipendenza e l'unità d'Italia
   Il 18 marzo 1983 morì a Ginevra Umberto II, iniquamente condannato all’esilio perpetuo dalla Repubblica italiana, che gli interdisse il suolo patrio, da lui invocato almeno per chiudevi la vita terrena. Scelse di essere deposto nell’Abbazia di Altacomba, antico sepolcreto della Casa. A quel modo mandò il suo ultimo messaggio agli italiani: dovevano e debbono farsi carico della propria storia, tutta. Nel feretro volle con sé il sigillo regio. Il suo duplice mònito non fu raccolto. Nel tempo sono stati pubblicati tanti diari di suoi stretti collaboratori, compreso quello di Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, egregiamente curato da Francesco Perfetti (ed. Mondadori), Ma La storia dell'ultimo Re rimane da scrivere.
  Tanti suoi sedicenti ammiratori hanno trascorso quarant'anni a frammentarsi in movimenti e gruppuscoli sempre più irrilevanti. Eppure basta rievocare la tragica fine di Mafalda di Savoia-Assia per chiudere finalmente la polemica retrospettiva contro la Casa che sin da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, sul trono dal 1831, legò le sue sorti alla lotta per indipendenza, unità e libertà degli italiani. Nella fortuna e nelle sfortune. Ne fu esempio lo stesso Carlo Alberto, che il 23 marzo 1849, la sera della battaglia di Novara, abdicò e partì per il Portogallo, ove morì di consunzione il 28 luglio, appena cinquantunenne. Al protomedico Alessandro Riberi, mandatogli dal figlio, Vittorio Emanuele II, bisbigliò quasi scusandosi: “Le voglio bene, ma muoio”. Suo  nipote, Umberto I, fu assassinato a Monza il 29 luglio 1900, poco dopo aver insediato il governo liberale guidato dall'ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato. Poi fu la volta di Vittorio Emanuele III, che abdicò, partì per l'Egitto il 9 maggio 1946 e vi morì il 28 dicembre 1947, e, appunto, di suo figlio, Umberto II, che lasciò la Patria per il Portogallo il 13 giugno 1946 senza ritorno, inseguito da una pessima dichiarazione polemica di Alcide De Gasperi, capo provvisorio dello Stato, presidente del consiglio dei ministri e ministro degli Esteri: un caso unico nella storia d'Italia.
Una principessa nella tempesta
    Vicende dimenticate, deformate da letture faziose, con cesure, censure e ampie zone d’ombra.
Fra le molte rimane ingiustificabile il lungo oblio riservato a Mafalda. La sua vicenda basta da sola a dire quanto una livorosa polemistica non vuol sentire: nel dramma della seconda guerra mondiale Casa Savoia fu tutt’uno con le famiglie italiane anche nella sofferenza e nel lutto.
   Un anno prima della tragica morte, il 28 agosto 1943, Mafalda era partita da Roma per raggiungere la sorella, Giovanna, consorte dello zar dei bulgari, Boris III, che rientrato da un tempestoso incontro con Hitler, ammalò d’improvviso, probabilmente avvelenato perché non approvava le misure contro gli ebrei e intendeva separare il proprio paese dall'alleanza con i tedeschi. Il principe Filippo d'Assia, sposato da Mafalda di Savoia nel Castello di Racconigi il 23 settembre 1925, dopo l’attentato del 20 luglio 1944 al Fuehrer era in stato d’arresto.
    Per la principessa Mafalda il viaggio di rientro in Italia fu un'odissea. Alla stazione ferroviaria di Sinaia, in Romania, venne informata della svolta in atto in Italia (proclamazione dell'armistizio, trasferimento della Casa Reale e del governo da Roma in Puglia) e invitata a rimanere. Forte del suo coraggio e convinta dell'immunità di moglie del principe d'Assia proseguì per raggiungere i figli, a Roma. L'aereo predisposto per il suo trasferimento da Budapest a Bari atterrò a Pescara. Da lì Mafalda raggiunse fortunosamente la Città Eterna. Proprio il suo rango di Prinzessin agli occhi dei nazisti, ferocemente antimonarchici, era invece un'aggravante, come ricorda Frédéric Le Moal nella biografia di Vittorio Emanuele III (trad. Gorizia, LEG). Mentre il figlio maggiore, Maurizio, già in Germania, era a portata di mano di Hitler, la regina Elena lasciando Roma ne aveva affidato i minori Enrico, Otto ed Elisabetta al sostituto segretario di Stato della Santa Sede, Giambattista Montini, che però li allontanò perché sopraggiungevano nipoti suoi. Anche i principini d’Assia finirono a loro volta in Germania.
   Nella Città Eterna caduta sotto il controllo di Kappler, Mafalda finì in un tunnel senza uscite. Si fidò dei germanici sino a recarsi alla loro ambasciata ove (le era stato assicurato) sarebbe stata chiamata al telefono dal consorte Filippo. Lì, invece, fu arrestata (22 settembre 1943) e tradotta in Germania. Nel campo di Buchenwald, che aveva per insegna “A ciascuno il suo”, inizialmente fu assegnata alla stanza 9 della baracca 15. 
Quando il Re seppe.
Come centinaia di migliaia di connazionali ignari della sorte dei loro cari (dispersi, prigionieri,...), i sovrani, il principe ereditario Umberto e tutti i suoi famigliari e amici rimasero in attesa di notizie. Era prigioniera in mani studiatamente crudeli. Della sua atroce fine il 14 aprile 1945 dettero notizia i  giornali, anche con commenti inopportuni, prima che Vittorio Emanuele III ne fosse informato. Scrissero crudamente che Mafalda di Savoia-Assia era morta per le ferite riportate nel bombardamento del lager in cui era rinchiusa. L’aiutante di campo di Umberto di Piemonte, Luogotenente del Regno, ne informò subito il generale Paolo Puntoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, affinché i sovrani “non leggessero la tremenda notizia sui giornali”. Puntoni ne riferì immediatamente al Re. Nel Diario (ed. Palazzi, poi il Mulino) annotò che il sovrano “come sempre (...) non lasci(ò) trapelare alcun turbamento” e continuò la conversazione in corso con Brunoro De Buzzaccarini. Un quarto d’ora dopo, Vittorio Emanuele III s’appartò per riferirne alla Regina. Ma quell’informazione era davvero esatta? Seguirono settimane di angoscia, sino a quando il 2 maggio, proprio il giorno della fine della guerra in Italia per la resa dei tedeschi agli anglo-americani, tramite i canali informativi della Santa Sede, giunse la conferma. Quando ne ebbe certezza, il Re assunse “quell’atteggiamento che, per chi non lo conosce a fondo, può sembrare cinico; e io so – scrisse Puntoni – che egli soffre terribilmente...”.
  Liberati, come il padre, al crollo del nazismo, Maurizio ed Enrico d’Assia furono poi ripetutamente a Villa Jela, ad Alessandria d’Egitto, ove Vittorio Emanuele III prese dimora dopo la partenza dall’Italia per l’estero (9 maggio 1946). Lo ricordò l'ultimo aiutante di campo del Re, Tito Torella di Romagnano nel suo limpido memoriale “Villa Jela” (ed. Garzanti).
   Della morte della principessa (vittima della deportazione, del bombardamento anglo-americano, del probabilmente voluto ritardo nella cura delle gravissime ferite) non si doveva parlare tra fine della guerra e il referendum istituzionale poi fissato per il 2-3 giugno1946. La morte di Mafalda in campo di concentramento provava che Casa Savoia aveva duramente pagato la sua opposizione al dominio nazista. Dal settembre 1943 la Corona aveva trasformato il conflitto in lotta di liberazione. Ancora una volta, come Carlo Alberto aveva promesso a Massimo d'Azeglio, essa aveva posto a servizio della Patria la persona del sovrano, i suoi figli e i suoi beni. Eppure doveva rimanere misconosciuta la figura di Mafalda, delicata e forte a un tempo, dedita alla beneficenza al pari della madre, Elena. Per quotidiani ed emittenti radiofoniche  incitanti all’odio e al disprezzo di tanti “antifascisti” (che nei confronti della monarchia usarono gli stessi argomenti dei più fanatici “repubblichini” di Salò) la morte di Mafalda in un campo di concentramento nazista sparigliava le carte. Lo stesso valeva per la sorte della figlia minore dei sovrani, Maria, di cui ha scritto la principessa Maria Gabriella di Savoia in La vita a Corte in Casa Savoia. Né se ne poté scrivere dopo il referendum, frutto di migliaia di brogli largamente documentati in documenti mai confutati.
   Il silenzio su Mafalda coprì due altri aspetti della verità. Anzitutto la pietas di padre Herman Joseph Tyl. Questi ne riconobbe la salma, con sollecitudine la sottrasse al forno crematorio, cui era destinata, e la fece avviare a Weimar ove fu sepolta come “donna sconosciuta”. Nel lager del resto la Principessa era stata registrata sotto il nome di “frau von Weber”. Sette marinai di Gaeta internati a Weimar però ne individuarono la sepoltura e la segnarono. Fu la conferma della fraternità nel dolore, propria degli italiani. Ma anche questo doveva passare sotto silenzio, come ha ricordato Mariù Safier nella oggi introvabile biografia di Mafalda, scritta con penna lieve e ricchezza documentaria (Mafalda di Savoia Assia dal bosco dell'ombra, poi arricchita in Mafalda di Savoia Assia. Un ostaggio nelle mani di Hitler, ed. Bastogi).
 Ricomporre la Memoria
  Quasi ottant'anni dopo il cambio istituzionale del giugno 1946 la straziante sorte di Mafalda di Savoia-Assia s'impone quale parte integrante Mariu Safier Mafalda di
                                      Savoiadella storia dell’Italia del Novecento. I sovrani, il principe ereditario, tutta Casa Savoia portarono il lutto al braccio, come milioni di connazionali. Erano gli stessi che all’inizio del secolo avevano scommesso su un progresso civile, morale e sociale ininterrotto, senza traumi bellici. Poi però l'Italia dovette fare i conti con la Grande Guerra e nel ventennio seguente fronteggiare la grande depressione economica con l’IRI, le bonifiche, il rilancio industriale e manifatturiero, sempre nella certezza che il lavoro premia più delle avventure belliche. La concordia deve prevalere sull'odio, sull'invidia di classe, sulle falsità spacciate per storiografia, come deplora Angelo Squarti Perla nel saggio Le menzogne di chi scrive la storia, di imminente pubblicazione per la BastogiLibri.
   Quell’Italia commise vari errori, e anche gravi. Ma in una monarchia statutaria responsabile degli errori non è solo il Re (né, meno ancora, un sovrano costituzionale e “isolato” quale fu Vittorio Emanuele III) sibbene l’intera dirigenza, a cominciare dalla Camera dei deputati, dal 1919 eletta a suffragio universale maschile e quindi de cittadini che dal 1924 in poi votarono compattamente a favore del Partito nazionale fascista, anche quando divenne “partito unico”. Nessuno si oppose all'intervento in uerra del 10 giugno 1940. Osò dirlo con franchezza il principe Aimone di Savoia, duca d'Aosta. Privato della carica militare, fu a sua volta costretto all’esilio. Lo scrisse suo figlio, Amedeo di Savoia, in Cifra Reale. 
   Il ricordo della figlia del Re morta nel campo di sterminio ove s’ergeva la Goethe Eiche, la Quercia di Goethe, costituisce dunque un invito perpetuo a riflettere sulla storia d'Italia del Novecento con passione, perché si tratta di pagine dolenti, ma finalmente anche senza pregiudizi né paraocchi. Casa Savoia, ne emerge con chiarezza, fu tutt’uno con ogni altra famiglia dell’“itala gente da le molte vite”. Il martirio di Mafalda ne è appunto il suggello.
   Vanno aggiunte poche altre osservazioni. Con la Grande Guerra crollarono gli imperi di Russia, Turchia, Austria-Ungheria e Germania. Il Regno d'Italia rimase l'unica monarchia costituzionale rilevante nell'Europa di terraferma. Vittorio Emanuele continuò la “grande politica” degli avi, con il conferimento del Collare dell'Ordine della Santissima Annunziata e alleanze dinastiche. A parte le nozze della primogenita Jolanda (“Anda”) con il conte Carlo Calvi di Bergolo, nel 1925 “Muti” andò in sposa al luterano Filippo d'Assia, Filippo, che operava per traghettare la Germania dal caos postbellico verso la stabilità. La terzogenita, Giovanna, sposò  l'ortodosso Boris III, zar dei Bulgari. La Santa Sede non gradì né l'uno né l'altro matrimonio. Ma il Re, che nel 1896 aveva sposato Elena di Montenegro, di famiglia ortodossa, pensava anzitutto all'Italia nel difficile quadro europeo (l'URSS non era uno stato amico...) e alla libertà di coscienza di tutti gli italiani. Nella sua difficile opera non venne affatto aiutato dai “politici” né da altri.
  Un re vissuto in solitudine (come Vittorio Emanuele III drammaticamente fu dal 1938 in poi) è paradigma per i capi dello Stato d'Italia, talvolta “sotto assedio” anche dopo l'avvento della Repubblica.
Aldo A. Mola  

DIDASCALIA: La principessa Mafalda di Savoia (Roma, 19 novembre 1902 – Buchenwald, 28 agosto 1944), sposata con il langravio Filippo d'Assia. 
  Oltre alle biografie citate nell'articolo va ricordata quella scrittane da Cristina Siccardi e Domenico Agasso. V. anche il volume “Villa Polissena” a cura di Mariù Safier.  




VITTORIO EMANUELE III 
E LA GUERRA DI LIBERAZIONE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 17 settembre 2023 pagg. 1 e 6.
Nicola
                                        Bellomo da Wikipedia
Didascalia
Dalla resa senza condizioni (Cassibile, 3/8 settembre 1943) a quella dei tedeschi in Italia (Caserta, con effetto dal 2 maggio 1945) l'Italia si trovò nella tenaglia di diverse guerre: gli anglo-americani da un parte, i tedeschi dall'altra, le aspirazioni dei francesi a valicare le Alpi occidentali e possedere Valle d'Aosta e parte del Piemonte, le rivendicazioni e  l'avanzata degli jugoslavi sul confine orientale e infine la contrapposizione tra il governo del re, riconosciuto dalle Nazioni Unite, quello della Repubblica sociale e il movimento di liberazione, dalle molteplici componenti, talora subordinate a direttive di Stati in guerra contro l'Italia. Fu il caso del Partito comunista italiano.

La riorganizzazione del Regio Esercito
  In quel groviglio direttamente e indirettamente il re e il suo governo dettero impulso alla lotta di liberazione del territorio nazionale dagli occupanti germanici e dai loro alleati interni.  Lo scontro armato tra reparti del regio esercito e tedeschi iniziò il 9 settembre a Roma, nelle Puglie e in molte città dell'Italia centro-settentrionale: un ventaglio di battaglie troppo a lungo dimenticate a vantaggio della narrazione secondo la quale i primi e gli unici a combattere contro i tedeschi e i fascisti repubblicani sarebbero stati i nuclei di partigiani. Ripercorrere i “fatti” non significa certo sminuire il valore morale e anche militare delle scelte compiute dall'antifascismo, dalle prime “bande”, dalla “resistenza” e dalla “guerra partigiana” prima e dopo il sino al suo riconoscimento  da parte del governo del re. 
   Il giorno stesso del trasferimento del re, del principe ereditario, di Badoglio, del comandante Supremo Vittorio Ambrosio e dei capi di stato maggiore delle tre armi la Capitale fu teatro di conflitto tra militari e tedeschi. Tra i più coraggiosi e determinati furono i Granatieri di Sardegna,  che, anche senza “ordini superiori” si batterono per l'Italia.   
     Sempre il 9 armato il generale Nicola Bellomo, da poco al comando della piazza di Bari, guidò di persona la lotta contro circa 300 guastatori germanici per il controllo del porto e prevalse con l'aiuto del LI battaglione Allievi ufficiali bersaglieri imponendo al nemico la capitolazione e la ritirata. Lo stesso giorno iniziò a Taranto lo sbarco della I divisione inglese aerotrasportata. L'11 settembre 1943 a Barletta, il comandante della piazza Francesco Grasso affrontò i germanici, che prevalsero, lo costrinsero alla resa, trucidarono civili e ne rimasero padroni sino al 24. Nel frattempo il generale Antonio Basso, comandante delle forze italiane in Sardegna, impose ai tedeschi l'evacuazione dall'isola, con scontri e caduti da entrambe le parti, in specie nei pressi di Oristano e alla base navale della Maddalena. Di concerto con i partigiani della Corsica e poi con truppe di “Francia libera” sbarcate nell'isola il generale Giovanni Magli affrontò i tedeschi in aspri combattimenti (29 settembre-4 ottobre), costringendoli alla resa o all'imbarco verso il continente.
   
  Pochi giorni dopo l'arrivo a Brindisi sia il re sia il principe ereditario Umberto di Piemonte passarono in rassegna corpi dell'esercito. Il 18 settembre Badoglio chiese di affiancare reparti italiani contro i tedeschi, ma cozzò contro il rifiuto anglo-americano. Il 28 settembre, vigilia della notifica a Malta dell'“armistizio lungo” da parte del generale Eisenhower, fu costituito il I Raggruppamento motorizzato di 5.000 uomini agli ordini del generale Vincenzo Dapino, a fine gennaio 1944 sostituito dal generale Umberto Utili. La riorganizzazione dell'esercito fu accelerata con la dichiarazione di guerra alla Germania (13 ottobre), il riconoscimento dell'Italia quale co-belligerante. Caduto prigioniero degli inglesi in Tunisia, su sollecitazione del re (che lo aveva avuto aiutante di campo) e richiesta di Badoglio agli Alleati, il maresciallo Giovanni Messe venne rilasciato e, capo di stato maggiore generale, affiancato dal generale Paolo Berardi quale capo di stato maggiore dell'esercito, guidò la riscossa. 

Guerra di liberazione  
   A lungo è stato affermato che il re fu riluttante a dichiarare guerra contro la Germania. In una lettera “segreta” del 2 ottobre 1943 (classificata 1854/Op) fu invece il comandante supremo Ambrosio e esprimere pesanti riserva al ministro della real casa Pietro d'Acquarone. “I vantaggi degli Alleati per la nostra dichiarazione d'armistizio – egli scrisse- sono stati di per se stesso enormi. (…) Inoltre la nostra collaborazione in questo mese è stata della massima intensità (…) senza nessuna contropartita, salvo la promessa dii attenuare le condizioni di pace. La rottura delle relazioni col Giappone è da escludere. Se a noi è permesso, al massimo, di essere cobelligeranti, vuol dire che possiamo collaborare per cacciare i tedeschi dal nostro suolo, ma non abbiamo nessuna ragione di combattere i giapponesi. Per questo occorrerebbe una vera alleanza politica, che non è concessa”. Data l'estrema debolezza delle forze disponibili, la dichiarazione di guerra sarebbe stata “semplicemente platonica”. Gli anglo.americani avevano agito “senza alcun riguardo” e “generata una crisi gravissima in Italia e nei Balcani. Dobbiamo evitare che si ripeta questo passivo senza contropartita”. 
   Sin dall'incontro con Badoglio a Malta il generale Eisenhower aveva sollecitato il governo italiano a dichiarare guerra alla Germania, sia per accattivarsi l'opinione pubblica nel campo alleato, sia per tutelare i militari caduti prigionieri dei tedeschi, che, diversamente, li avrebbero trattati “da franchi tiratori e, come tali, sottoposti ad esecuzione sommaria”. Con molto realismo il “capo missione” Noel Mason Mac Farlane osservò che sarebbe stato “necessario servirsi di alcuni uomini che erano stati in passato associati con il fascismo dato che esso era durato vent'anni”. Chi non aveva avuto la tessera del PNF o non aveva tributato qualche omaggio al regime? La classe dirigente (non politica ma anche solo “ amministrativa”, di industrie, banche, aziende pubbliche e private) non si improvvisa dall'oggi al domani. Non si poteva fare nell'Italia i cui docenti universitari, tranne una dozzina, avevano giurato fedeltà al regime. Dal canto suo Badoglio dichiarò che il re intendeva “invitare i capi dei diversi partiti -cioè i partiti politici- così come si sono ora costituiti in Italia, con speciale riferimento a quelli che hanno la maggiore influenza sul popolo” e avrebbe dato al governo “un carattere liberale”. Come “militare” precisò che non si intendeva di partiti e di politici.  
   Dal settembre 1943 la ricostruzione del regio esercito fu la premessa per riaffermare l'autorità del governo nelle province di sua immediata competenza. Però il sovrano, il principe ereditario e le forze dell'ordine registravano quotidianamente la diffidenza e le soperchierie degli Alleati contro i militari italiani e la popolazione civile. Soldati inglesi, spesso “alquanto avvinazzati”, strappavano il tricolore da edifici pubblici, irrompevano in postriboli picchiando a sangue quanti vi si trovavano. Nel caffè “Roma” di Mola di Bari un inglese “alquanto brillo” sputò sul ritratto del re. Un altro infranse quello di Badoglio. Per “contenere” inglesi, autori di rapine e violenze d'ogni genere, gli alpini usarono le mani e i carabinieri le armi. Ma la prevaricazione era pressoché quotidiana. Il Comando dell'esercito ordinò pertanto che la sorveglianza sull'ordine fosse affidata a pattuglioni di otto uomini perché le pattuglie tradizionali venivano sopraffatte da militari “alleati”.
   Il 6 dicembre 1943 la regina Elena vide di persona automezzi inglesi investire intenzionalmente civili e sollecitò indennizzi (Archivio Cnetrale dello Stato,Presidenza del Consiglio dei Ministri, Governo del Sud, 1943-1944, Casa Reale).
   La lotta per la riaffermazione della sovranità nazionale era una schermaglia quotidiana. La riscossa passava anche attraverso gesti emblematici. L'11 novembre, per esempio, Badoglio ordinò ai prefetti di esporre il tricolore per festeggiare il genetliaco del re. Risalire la china impegnava sul fronte delle armi come nella vita civile. Allo scopo tra Alleati e Comando dei carabinieri si convenne la necessità di distinguere tra chi era stato fascista “per costrizione” (la tessera del partito era stata tutt'uno con quella “del pane”) e i fanatici del regime. Venne deliberata la formazione di “comitati” civici composti da un ufficiale dei carabinieri, un podestà, un magistrato, un sacerdote (“se di sicuri sentimenti”) e da alcuni cittadini “equi ed imparziali”. Il colonnello dei carabinieri Romano dalla Chiesa ricordò in un rapporto del 4 novembre che la resistenza ai militi dell'arma era “delitto grave”; al tempo stesso vietò l'uso di bombe a mano contro dimostranti. Gli alpini a loro volta svolsero importante ruolo di contenimento contro ogni forma di disordine.
   Dal Corpo Italiano di Liberazione nel luglio del 1944, dopo la liberazione di Roma e la nomina  di Umberto di Savoia a Luogotenente del Re, nacquero 6 Gruppi di Combattimento (Friuli, Cremona, Legnano, Folgore, Mantova e Piceno) per un insieme di circa 60.000 uomini. Però gli Alleati non consentirono che avessero nome di divisioni e costituissero un'Armata. Il 27 dicembre 1943 il governo dichiarò l'adesione alla Carta Atlantica del 14 agosto 1941 ma sull'Italia, malgrado la cobelligeranza, la resistenza anti-nazifascista e la guerra partigiana, continuavano a incombere le clausole della resa e le crescenti rivendicazioni di molti Stati, a cominciare da Francia, Jugoslavia e Grecia. Nel dicembre 1944, dopo lunga trattativa tra il governo e la delegazione del CLN Alta Italia, le formazioni partigiane  furono riconosciute come Corpo Volontari della Libertà agli ordini del generale Raffaele Cadorna. 
Il crepuscolo di Vittorio Emanuele III
Nel frattempo gli anglo-americani decisero la sorte di Vittorio Emanuele III, con il plauso dei partiti riconosciuti dalla Commissione alleata di controllo: democratico liberale, socialista, comunista, d'azione, democrazia cristiana, democrazia del lavoro, democratici dei lavoratori italiani, partito liberale. Il peggioramento del clima  antimonarchico venne segnalato dal ministro dell'Areonautica generale Renato Sandalli il 15 marzo 1944. Il PWB (Psychological Warfare Branch) aveva fatto cassare l'articolo “Agli ordini del loro Re” dal “Giornale dell'Aeronautica”. Il ministro avvertì che il sovrano, la monarchia in genere e il governo stesso non dovevano più essere menzionati pena la soppressione del periodico. La proibizione era motivata con la giustificazione che le “Autorità Alleate” non volevano influire sulla situazione interna italiana. Sandalli, però, aggiunse lapidariamente: “fatti del genere danneggiano la coesione morale delle FF.AA.”. Quegli stessi Alleati  non arginarono mai le rabbiose polemiche quotidiane contro il sovrano, la Casa di Savoia e dell'idea di monarchia da parte dei fautori della repubblica, nei giornali e nei “comizi”. Erano tempi nei quali ai militari, ai dirigenti, funzionari e pubblici impiegati veniva impartita l'amara direttiva: nei contrasti con gli Alleati gli italiani avevano torto anche quando avevano ragione.
Pochi giorni prima del convegno ciellenistico di Bari (26-28 gennaio 1944), che sotto il profilo istituzionale era un sodalizio privato, Vittorio Emanuele III consegnò il suo programma al capo della Missione alleata Noel Mason-Mac Farlane. Vi riprese molti spunti del verbale della conferenza di Malta tra Eisenhower e Badoglio. Il governo in carica sarebbe rimasto in esercizio sino alla liberazione di Roma; a quel punto sarebbe stato formato un ministero con rappresentanti di partiti ed entro quattro mesi sarebbe stata eletta la Camera dei deputati. Il Parlamento avrebbe discusso ed eventualmente riformato le istituzioni “anche totalmente”. Non escludeva, quindi, il cambio istituzionale. Il paese sarebbe stato consultato (referendum confermativo, dunque) e la Corona avrebbe seguito la volontà della nazione. Era l’unica via compatibile con lo Statuto. Il re, però, non fece i conti col fatto che gli anglo-americani non avevano alcuna fretta di arrivare a Roma. A Ravello, per esempio, i loro ufficiali gozzovigliavano giorno e notte, come annotava scandalizzato il generale Puntoni. Non solo. Militari inglesi a Caserta “demolivano nicchie cadaveri et asportavano teschi poggiandoli banchi scuola et collocandone uno sulla testa statua” (Rapporto del comandante dei carabinieri Giuseppe Pièche, 28 maggio 1944, in ACS).
La Luogotenenza del regno
All’inizio dell’aprile 1944 De Nicola escogitò la proposta atta a mettere d’accordo CLN, governo e Alleati: il passaggio dei poteri da Vittorio Emanuele III al principe di Piemonte quale luogotenente. Essa fu diramata ai giornali prima che il re ne fosse informato. Fu messo dinnanzi ai “fatti compiuti”. Dopo travagli vari il sovrano accettò di trasmettere le prerogative della Corona, ma in Roma, quando fosse stata liberata. A Puntoni re Vittorio tracciò un bilancio di quanto fosse “difficile e pesante il mestiere del re”: il “brut fardèl” consegnato da Vittorio Emanuele II a Umberto I. “Solo mio nonno ne è uscito bene” egli confidò. “Carlo Alberto dovette abdicare, mio padre fu assassinato. Non avevo nessuna intenzione di succedere a mio padre e l’avevo quasi convinto ad accogliere il mio progetto di rinunciare alla Corona. Ma fu ucciso e io, in quell’ora tragica, non potei rifiutarmi di salire sul trono. Se l’avessi fatto avrebbero detto che ero un vile.”  
  Pochi giorni dopo Badoglio varò il nuovo governo, con la partecipazione dei partiti del CLN (22 aprile - 18 giugno 1944). A cospetto di Vittorio Emanuele III i ministri giurarono “sul proprio onore”. Poteva il re imporre loro di usare la formula statutaria? Fra di essi vi erano Togliatti, Sforza, Giulio Rodinò di Miglione, Adolfo Omodeo (che da ministro della Pubblica istruzione epurò una quantità di galantuomini), Alberto Tarchiani, Fausto Gullo...: tutti repubblicani accesi e talvolta chiassosi. Il 5 giugno si consumò l’ennesimo sgarbo nei confronti di Vittorio Emanuele III da parte del “suo” governo. Con pretesti risibili (compresa la transitabilità delle strade), gli venne negato di raggiungere Roma per celebrarvi il trasferimento di “tutte le prerogative Regie, nessuna eccettuata” al principe ereditario in veste di suo luogotenente. Che era quindi “del re”, non “del regno”. I primi a non rispettare la promessa “tregua istituzionale” furono anzitutto i ministri, che, a differenza del sovrano e del luogotenente, avevano il sostegno degli Alleati.

Il linciaggio di Donato Carretta: una pagina orrenda dell'Italia liberata
Quale fosse il clima dominante nell'Italia liberata fu chiaro il 18 settembre 1944 nell'aula della Corte di Assise di Roma. Riunito in alta corte di giustizia il tribunale doveva giudicare l'ex questore Pietro Caruso e il suo segretario Roberto Occhetto, accusati di aver consegnato ottanta prigionieri politici ai nazisti per la rappresaglia in risposta all'attentato di via Rasella. Il processo richiamò l'attenzione internazionale. Il colonnello Pollock e il tenente Atkinson capitanavano la polizia militare, presente in aula anche a tutela di quanti filmavano l'evento, destinato all'opinione pubblica internazionale a prova del cammino democratico dell'Italia liberata. La folla irruppe nell'aula chiedendo di avere in pasto i due imputati “per farli a pezzi”. Per sua sventura, spinto dalla canea, vi finì anche Donato Carretta, vicedirettore del carcere di Regina Coeli, noto per mitezza, comprensione e speciale attenzione proprio nei riguardi dei politici detenuti. Individuato, fu percosso. Fatto uscire dall'aula, venne picchiato. Rifugiato in un'automobile grazie a carabinieri e a vigili urbani, ne venne estratto. Fu gettato sui binari del tram in attesa che la prima vettura in arrivo lo schiacciasse. Il conducente arrestò il mezzo. Rischiò di essere aggredito. La scampò esibendo la tessera del partito comunista. La folla riprese il corpo sanguinante di Carretta, lo martoriò e lo gettò a Tevere dalla spalletta di Ponte Umberto. Riavutosi, lo sventurato tentò di nuotare verso l'altra riva ma fu raggiunto e finito a colpi di remo da tre energumeni. Riportato in strada, il cadavere venne trascinato dal Lungotevere Sant'Angelo a Regina Coeli, contro il cui portone fu scaraventato e poi appeso a testa in giù all'inferriata di destra, sotto gli occhi dei suoi familiari.
  Carlo Sforza, sedicente conte, dichiarò di capire perfettamente che “scene di quel genere” potessero aver luogo. Però il linciaggio di Donato Carretta non fu una “scena” ma un crimine. Nessuno si premurò di identificarne e perseguire i colpevoli. Era una “prova generale” della “giustizia plebea” poi evocata e minacciata da Togliatti in consiglio dei ministri all'indomani del referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946 se quella dei codici non avesse risposto alle attese delle “masse”, cioè dei partiti rivoluzionari. Con abile spregiudicatezza Togliatti ventilò la minaccia di aprire i conti della storia a carico di quanti avevano a suo tempo favorito l'avvento del governo Mussolini e concorso ad avviare verso i regime. Che cosa dire degli eredi del partito popolare italiano che ne aveva fatto parte con ministri e sottosegretari, incluso Giovanni Gronchi. E dei “liberali”? De Gasperi capì...
 L'unica via per scansare la gogna era associarsi alla lotta senza quartiere contro la monarchia e i suoi sostenitori e oscurare la verità, come fece Luigi Salvatorelli nel libello “Casa Savoia nella storia d'Italia” in cui affermò che Vittorio Emanuele II era “responsabile moralmente, politicamente e legalmente di tutti i misfatti del fascismo”, contrapposto al “popolo”, innocente e operoso. Di lì la sua damnatio memoriae perpetua.                                                                                                                                        
   Un panorama dei combattimenti degli italiani contro i tedeschi dal 9 settembre in coerenza con la direttiva del governo Badoglio v. Pier Carlo Sommo-Alberto Turinetti di Priero (a cura di), “1943-1945. Dai Gruppi di Combattimento al nuovo Esercito Italiano”, “quaderno”  della Mostra  di uguale titolo, Torino, Anarti, 1922. Lo stato d'animo di un ufficiale della Divisione Granateri di Sardegna che combatté 40 ore consecutive alle per “obbedire alle sacre leggi della Patria” e impedire l'irruzione dei germanici nel cuore della Capitale (dall'estrema periferia a Porta San Paolo e al Colosseo) v. l'esemplare “memoria” di Luigi Franceschini, “Cinquanta anni dopo”, www.granatierdisardegna.it 

DIDASCALIA: Il generale Nicola Bellomo (Bari,2 febbraio 1881-Nisida,11 settembre 1945), decorato della Grande Guerra nel settembre 1945  cacciò i tedeschi dal porto di Bari. Arrestato dagli inglesi il 28 gennaio 1944 per presunto crimine di guerra ai danni di loro prigionieri, fu condannato a morte da un tribunale speciale britannico e fucilato.Lo Stato d'Italia gli conferì la Medaglia d'Argento al Valor Militare.
MAFALDA DI SAVOIA ASSIA
UNA TRAGEDIA ITALIANA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 24 settembre 2023 pagg. 1 e 6.
Povera foglia frale...
Mafalda di Savoia a
                                            Racconigi con la Famiglia
                                            Reale   Il 28 agosto 1944 la principessa Mafalda di Savoia (“Muti”, in famiglia), consorte di Filippo langravio d'Assia, morì dopo una tardiva operazione al braccio sinistro, ustionato sino all'osso,  per fermare la cancrena generata dagli spezzoni di bombe che l'avevano ferita. L'intervento ebbe luogo in un ambulatorio improvvisato nel campo di concentramento tedesco di Buchenwald. Il 24 precedente migliaia di fortezze volanti partite da basi remote bombardarono a tappeto le Officine Gustloff e i dintorni. Il premier inglese Churchill, in visita a Napoli, voleva dare una lezione alla Germania, già piegata dalla sconfitta inflittale dai sovietici a Kursk. Nessuno degli incursori immaginava che al bordo del campo vivesse la figlia del Re d'Italia Vittorio Emanuele III, catturata a Roma il 22 settembre 1943 per ordine di Hitler e lì detenuta dall' 8 ottobre.
  “Povera foglia frale...” la Principessa lasciò la vita terrena.
  Ricordare la tragedia di Mafalda di Savoia-Assia significa compiere un passo avanti verso la conciliazione della memoria storica. Più serenità, più responsabilità. Ne scrisse il saggista imperiese Renato Barneschi in “Frau von Weber” (1982), autore di una accurata biografia della Regina Elena, “Rosa d'Oro della Carità”.
Casa Savoia per l'indipendenza e l'unità d'Italia
   Il 18 marzo 1983 morì a Ginevra Umberto II, iniquamente condannato all’esilio perpetuo dalla Repubblica italiana, che gli interdisse il suolo patrio, da lui invocato almeno per chiudevi la vita terrena. Scelse di essere deposto nell’Abbazia di Altacomba, antico sepolcreto della Casa. A quel modo mandò il suo ultimo messaggio agli italiani: dovevano e debbono farsi carico della propria storia, tutta. Nel feretro volle con sé il sigillo regio. Il suo duplice mònito non fu raccolto. Nel tempo sono stati pubblicati tanti diari di suoi stretti collaboratori, compreso quello di Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, egregiamente curato da Francesco Perfetti (ed. Mondadori), Ma La storia dell'ultimo Re rimane da scrivere.
  Tanti suoi sedicenti ammiratori hanno trascorso quarant'anni a frammentarsi in movimenti e gruppuscoli sempre più irrilevanti. Eppure basta rievocare la tragica fine di Mafalda di Savoia-Assia per chiudere finalmente la polemica retrospettiva contro la Casa che sin da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, sul trono dal 1831, legò le sue sorti alla lotta per indipendenza, unità e libertà degli italiani. Nella fortuna e nelle sfortune. Ne fu esempio lo stesso Carlo Alberto, che il 23 marzo 1849, la sera della battaglia di Novara, abdicò e partì per il Portogallo, ove morì di consunzione il 28 luglio, appena cinquantunenne. Al protomedico Alessandro Riberi, mandatogli dal figlio, Vittorio Emanuele II, bisbigliò quasi scusandosi: “Le voglio bene, ma muoio”. Suo  nipote, Umberto I, fu assassinato a Monza il 29 luglio 1900, poco dopo aver insediato il governo liberale guidato dall'ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato. Poi fu la volta di Vittorio Emanuele III, che abdicò, partì per l'Egitto il 9 maggio 1946 e vi morì il 28 dicembre 1947, e, appunto, di suo figlio, Umberto II, che lasciò la Patria per il Portogallo il 13 giugno 1946 senza ritorno, inseguito da una pessima dichiarazione polemica di Alcide De Gasperi, capo provvisorio dello Stato, presidente del consiglio dei ministri e ministro degli Esteri: un caso unico nella storia d'Italia.
Una principessa nella tempesta
    Vicende dimenticate, deformate da letture faziose, con cesure, censure e ampie zone d’ombra.
Fra le molte rimane ingiustificabile il lungo oblio riservato a Mafalda. La sua vicenda basta da sola a dire quanto una livorosa polemistica non vuol sentire: nel dramma della seconda guerra mondiale Casa Savoia fu tutt’uno con le famiglie italiane anche nella sofferenza e nel lutto.
   Un anno prima della tragica morte, il 28 agosto 1943, Mafalda era partita da Roma per raggiungere la sorella, Giovanna, consorte dello zar dei bulgari, Boris III, che rientrato da un tempestoso incontro con Hitler, ammalò d’improvviso, probabilmente avvelenato perché non approvava le misure contro gli ebrei e intendeva separare il proprio paese dall'alleanza con i tedeschi. Il principe Filippo d'Assia, sposato da Mafalda di Savoia nel Castello di Racconigi il 23 settembre 1925, dopo l’attentato del 20 luglio 1944 al Fuehrer era in stato d’arresto.
    Per la principessa Mafalda il viaggio di rientro in Italia fu un'odissea. Alla stazione ferroviaria di Sinaia, in Romania, venne informata della svolta in atto in Italia (proclamazione dell'armistizio, trasferimento della Casa Reale e del governo da Roma in Puglia) e invitata a rimanere. Forte del suo coraggio e convinta dell'immunità di moglie del principe d'Assia proseguì per raggiungere i figli, a Roma. L'aereo predisposto per il suo trasferimento da Budapest a Bari atterrò a Pescara. Da lì Mafalda raggiunse fortunosamente la Città Eterna. Proprio il suo rango di Prinzessin agli occhi dei nazisti, ferocemente antimonarchici, era invece un'aggravante, come ricorda Frédéric Le Moal nella biografia di Vittorio Emanuele III (trad. Gorizia, LEG). Mentre il figlio maggiore, Maurizio, già in Germania, era a portata di mano di Hitler, la regina Elena lasciando Roma ne aveva affidato i minori Enrico, Otto ed Elisabetta al sostituto segretario di Stato della Santa Sede, Giambattista Montini, che però li allontanò perché sopraggiungevano nipoti suoi. Anche i principini d’Assia finirono a loro volta in Germania.
   Nella Città Eterna caduta sotto il controllo di Kappler, Mafalda finì in un tunnel senza uscite. Si fidò dei germanici sino a recarsi alla loro ambasciata ove (le era stato assicurato) sarebbe stata chiamata al telefono dal consorte Filippo. Lì, invece, fu arrestata (22 settembre 1943) e tradotta in Germania. Nel campo di Buchenwald, che aveva per insegna “A ciascuno il suo”, inizialmente fu assegnata alla stanza 9 della baracca 15. 
Quando il Re seppe.
Come centinaia di migliaia di connazionali ignari della sorte dei loro cari (dispersi, prigionieri,...), i sovrani, il principe ereditario Umberto e tutti i suoi famigliari e amici rimasero in attesa di notizie. Era prigioniera in mani studiatamente crudeli. Della sua atroce fine il 14 aprile 1945 dettero notizia i  giornali, anche con commenti inopportuni, prima che Vittorio Emanuele III ne fosse informato. Scrissero crudamente che Mafalda di Savoia-Assia era morta per le ferite riportate nel bombardamento del lager in cui era rinchiusa. L’aiutante di campo di Umberto di Piemonte, Luogotenente del Regno, ne informò subito il generale Paolo Puntoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, affinché i sovrani “non leggessero la tremenda notizia sui giornali”. Puntoni ne riferì immediatamente al Re. Nel Diario (ed. Palazzi, poi il Mulino) annotò che il sovrano “come sempre (...) non lasci(ò) trapelare alcun turbamento” e continuò la conversazione in corso con Brunoro De Buzzaccarini. Un quarto d’ora dopo, Vittorio Emanuele III s’appartò per riferirne alla Regina. Ma quell’informazione era davvero esatta? Seguirono settimane di angoscia, sino a quando il 2 maggio, proprio il giorno della fine della guerra in Italia per la resa dei tedeschi agli anglo-americani, tramite i canali informativi della Santa Sede, giunse la conferma. Quando ne ebbe certezza, il Re assunse “quell’atteggiamento che, per chi non lo conosce a fondo, può sembrare cinico; e io so – scrisse Puntoni – che egli soffre terribilmente...”.
  Liberati, come il padre, al crollo del nazismo, Maurizio ed Enrico d’Assia furono poi ripetutamente a Villa Jela, ad Alessandria d’Egitto, ove Vittorio Emanuele III prese dimora dopo la partenza dall’Italia per l’estero (9 maggio 1946). Lo ricordò l'ultimo aiutante di campo del Re, Tito Torella di Romagnano nel suo limpido memoriale “Villa Jela” (ed. Garzanti).
   Della morte della principessa (vittima della deportazione, del bombardamento anglo-americano, del probabilmente voluto ritardo nella cura delle gravissime ferite) non si doveva parlare tra fine della guerra e il referendum istituzionale poi fissato per il 2-3 giugno1946. La morte di Mafalda in campo di concentramento provava che Casa Savoia aveva duramente pagato la sua opposizione al dominio nazista. Dal settembre 1943 la Corona aveva trasformato il conflitto in lotta di liberazione. Ancora una volta, come Carlo Alberto aveva promesso a Massimo d'Azeglio, essa aveva posto a servizio della Patria la persona del sovrano, i suoi figli e i suoi beni. Eppure doveva rimanere misconosciuta la figura di Mafalda, delicata e forte a un tempo, dedita alla beneficenza al pari della madre, Elena. Per quotidiani ed emittenti radiofoniche  incitanti all’odio e al disprezzo di tanti “antifascisti” (che nei confronti della monarchia usarono gli stessi argomenti dei più fanatici “repubblichini” di Salò) la morte di Mafalda in un campo di concentramento nazista sparigliava le carte. Lo stesso valeva per la sorte della figlia minore dei sovrani, Maria, di cui ha scritto la principessa Maria Gabriella di Savoia in La vita a Corte in Casa Savoia. Né se ne poté scrivere dopo il referendum, frutto di migliaia di brogli largamente documentati in documenti mai confutati.
   Il silenzio su Mafalda coprì due altri aspetti della verità. Anzitutto la pietas di padre Herman Joseph Tyl. Questi ne riconobbe la salma, con sollecitudine la sottrasse al forno crematorio, cui era destinata, e la fece avviare a Weimar ove fu sepolta come “donna sconosciuta”. Nel lager del resto la Principessa era stata registrata sotto il nome di “frau von Weber”. Sette marinai di Gaeta internati a Weimar però ne individuarono la sepoltura e la segnarono. Fu la conferma della fraternità nel dolore, propria degli italiani. Ma anche questo doveva passare sotto silenzio, come ha ricordato Mariù Safier nella oggi introvabile biografia di Mafalda, scritta con penna lieve e ricchezza documentaria (Mafalda di Savoia Assia dal bosco dell'ombra, poi arricchita in Mafalda di Savoia Assia. Un ostaggio nelle mani di Hitler, ed. Bastogi).
 Ricomporre la Memoria
  Quasi ottant'anni dopo il cambio istituzionale del giugno 1946 la straziante sorte di Mafalda di Savoia-Assia s'impone quale parte integrante Mariu Safier Mafalda di
                                            Savoiadella storia dell’Italia del Novecento. I sovrani, il principe ereditario, tutta Casa Savoia portarono il lutto al braccio, come milioni di connazionali. Erano gli stessi che all’inizio del secolo avevano scommesso su un progresso civile, morale e sociale ininterrotto, senza traumi bellici. Poi però l'Italia dovette fare i conti con la Grande Guerra e nel ventennio seguente fronteggiare la grande depressione economica con l’IRI, le bonifiche, il rilancio industriale e manifatturiero, sempre nella certezza che il lavoro premia più delle avventure belliche. La concordia deve prevalere sull'odio, sull'invidia di classe, sulle falsità spacciate per storiografia, come deplora Angelo Squarti Perla nel saggio Le menzogne di chi scrive la storia, di imminente pubblicazione per la BastogiLibri.
   Quell’Italia commise vari errori, e anche gravi. Ma in una monarchia statutaria responsabile degli errori non è solo il Re (né, meno ancora, un sovrano costituzionale e “isolato” quale fu Vittorio Emanuele III) sibbene l’intera dirigenza, a cominciare dalla Camera dei deputati, dal 1919 eletta a suffragio universale maschile e quindi de cittadini che dal 1924 in poi votarono compattamente a favore del Partito nazionale fascista, anche quando divenne “partito unico”. Nessuno si oppose all'intervento in uerra del 10 giugno 1940. Osò dirlo con franchezza il principe Aimone di Savoia, duca d'Aosta. Privato della carica militare, fu a sua volta costretto all’esilio. Lo scrisse suo figlio, Amedeo di Savoia, in Cifra Reale. 
   Il ricordo della figlia del Re morta nel campo di sterminio ove s’ergeva la Goethe Eiche, la Quercia di Goethe, costituisce dunque un invito perpetuo a riflettere sulla storia d'Italia del Novecento con passione, perché si tratta di pagine dolenti, ma finalmente anche senza pregiudizi né paraocchi. Casa Savoia, ne emerge con chiarezza, fu tutt’uno con ogni altra famiglia dell’“itala gente da le molte vite”. Il martirio di Mafalda ne è appunto il suggello.
   Vanno aggiunte poche altre osservazioni. Con la Grande Guerra crollarono gli imperi di Russia, Turchia, Austria-Ungheria e Germania. Il Regno d'Italia rimase l'unica monarchia costituzionale rilevante nell'Europa di terraferma. Vittorio Emanuele continuò la “grande politica” degli avi, con il conferimento del Collare dell'Ordine della Santissima Annunziata e alleanze dinastiche. A parte le nozze della primogenita Jolanda (“Anda”) con il conte Carlo Calvi di Bergolo, nel 1925 “Muti” andò in sposa al luterano Filippo d'Assia, Filippo, che operava per traghettare la Germania dal caos postbellico verso la stabilità. La terzogenita, Giovanna, sposò  l'ortodosso Boris III, zar dei Bulgari. La Santa Sede non gradì né l'uno né l'altro matrimonio. Ma il Re, che nel 1896 aveva sposato Elena di Montenegro, di famiglia ortodossa, pensava anzitutto all'Italia nel difficile quadro europeo (l'URSS non era uno stato amico...) e alla libertà di coscienza di tutti gli italiani. Nella sua difficile opera non venne affatto aiutato dai “politici” né da altri.
  Un re vissuto in solitudine (come Vittorio Emanuele III drammaticamente fu dal 1938 in poi) è paradigma per i capi dello Stato d'Italia, talvolta “sotto assedio” anche dopo l'avvento della Repubblica.
Aldo A. Mola  

DIDASCALIA: La principessa Mafalda di Savoia (Roma, 19 novembre 1902 – Buchenwald, 28 agosto 1944), sposata con il langravio Filippo d'Assia. 
  Oltre alle biografie citate nell'articolo va ricordata quella scrittane da Cristina Siccardi e Domenico Agasso. V. anche il volume “Villa Polissena” a cura di Mariù Safier.  




VITTORIO EMANUELE III 
E LA GUERRA DI LIBERAZIONE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 17 settembre 2023 pagg. 1 e 6.
Nicola Bellomo da
                                              Wikipedia
Didascalia
Dalla resa senza condizioni (Cassibile, 3/8 settembre 1943) a quella dei tedeschi in Italia (Caserta, con effetto dal 2 maggio 1945) l'Italia si trovò nella tenaglia di diverse guerre: gli anglo-americani da un parte, i tedeschi dall'altra, le aspirazioni dei francesi a valicare le Alpi occidentali e possedere Valle d'Aosta e parte del Piemonte, le rivendicazioni e  l'avanzata degli jugoslavi sul confine orientale e infine la contrapposizione tra il governo del re, riconosciuto dalle Nazioni Unite, quello della Repubblica sociale e il movimento di liberazione, dalle molteplici componenti, talora subordinate a direttive di Stati in guerra contro l'Italia. Fu il caso del Partito comunista italiano.

La riorganizzazione del Regio Esercito
  In quel groviglio direttamente e indirettamente il re e il suo governo dettero impulso alla lotta di liberazione del territorio nazionale dagli occupanti germanici e dai loro alleati interni.  Lo scontro armato tra reparti del regio esercito e tedeschi iniziò il 9 settembre a Roma, nelle Puglie e in molte città dell'Italia centro-settentrionale: un ventaglio di battaglie troppo a lungo dimenticate a vantaggio della narrazione secondo la quale i primi e gli unici a combattere contro i tedeschi e i fascisti repubblicani sarebbero stati i nuclei di partigiani. Ripercorrere i “fatti” non significa certo sminuire il valore morale e anche militare delle scelte compiute dall'antifascismo, dalle prime “bande”, dalla “resistenza” e dalla “guerra partigiana” prima e dopo il sino al suo riconoscimento  da parte del governo del re. 
   Il giorno stesso del trasferimento del re, del principe ereditario, di Badoglio, del comandante Supremo Vittorio Ambrosio e dei capi di stato maggiore delle tre armi la Capitale fu teatro di conflitto tra militari e tedeschi. Tra i più coraggiosi e determinati furono i Granatieri di Sardegna,  che, anche senza “ordini superiori” si batterono per l'Italia.   
     Sempre il 9 armato il generale Nicola Bellomo, da poco al comando della piazza di Bari, guidò di persona la lotta contro circa 300 guastatori germanici per il controllo del porto e prevalse con l'aiuto del LI battaglione Allievi ufficiali bersaglieri imponendo al nemico la capitolazione e la ritirata. Lo stesso giorno iniziò a Taranto lo sbarco della I divisione inglese aerotrasportata. L'11 settembre 1943 a Barletta, il comandante della piazza Francesco Grasso affrontò i germanici, che prevalsero, lo costrinsero alla resa, trucidarono civili e ne rimasero padroni sino al 24. Nel frattempo il generale Antonio Basso, comandante delle forze italiane in Sardegna, impose ai tedeschi l'evacuazione dall'isola, con scontri e caduti da entrambe le parti, in specie nei pressi di Oristano e alla base navale della Maddalena. Di concerto con i partigiani della Corsica e poi con truppe di “Francia libera” sbarcate nell'isola il generale Giovanni Magli affrontò i tedeschi in aspri combattimenti (29 settembre-4 ottobre), costringendoli alla resa o all'imbarco verso il continente.
   
  Pochi giorni dopo l'arrivo a Brindisi sia il re sia il principe ereditario Umberto di Piemonte passarono in rassegna corpi dell'esercito. Il 18 settembre Badoglio chiese di affiancare reparti italiani contro i tedeschi, ma cozzò contro il rifiuto anglo-americano. Il 28 settembre, vigilia della notifica a Malta dell'“armistizio lungo” da parte del generale Eisenhower, fu costituito il I Raggruppamento motorizzato di 5.000 uomini agli ordini del generale Vincenzo Dapino, a fine gennaio 1944 sostituito dal generale Umberto Utili. La riorganizzazione dell'esercito fu accelerata con la dichiarazione di guerra alla Germania (13 ottobre), il riconoscimento dell'Italia quale co-belligerante. Caduto prigioniero degli inglesi in Tunisia, su sollecitazione del re (che lo aveva avuto aiutante di campo) e richiesta di Badoglio agli Alleati, il maresciallo Giovanni Messe venne rilasciato e, capo di stato maggiore generale, affiancato dal generale Paolo Berardi quale capo di stato maggiore dell'esercito, guidò la riscossa. 

Guerra di liberazione  
   A lungo è stato affermato che il re fu riluttante a dichiarare guerra contro la Germania. In una lettera “segreta” del 2 ottobre 1943 (classificata 1854/Op) fu invece il comandante supremo Ambrosio e esprimere pesanti riserva al ministro della real casa Pietro d'Acquarone. “I vantaggi degli Alleati per la nostra dichiarazione d'armistizio – egli scrisse- sono stati di per se stesso enormi. (…) Inoltre la nostra collaborazione in questo mese è stata della massima intensità (…) senza nessuna contropartita, salvo la promessa dii attenuare le condizioni di pace. La rottura delle relazioni col Giappone è da escludere. Se a noi è permesso, al massimo, di essere cobelligeranti, vuol dire che possiamo collaborare per cacciare i tedeschi dal nostro suolo, ma non abbiamo nessuna ragione di combattere i giapponesi. Per questo occorrerebbe una vera alleanza politica, che non è concessa”. Data l'estrema debolezza delle forze disponibili, la dichiarazione di guerra sarebbe stata “semplicemente platonica”. Gli anglo.americani avevano agito “senza alcun riguardo” e “generata una crisi gravissima in Italia e nei Balcani. Dobbiamo evitare che si ripeta questo passivo senza contropartita”. 
   Sin dall'incontro con Badoglio a Malta il generale Eisenhower aveva sollecitato il governo italiano a dichiarare guerra alla Germania, sia per accattivarsi l'opinione pubblica nel campo alleato, sia per tutelare i militari caduti prigionieri dei tedeschi, che, diversamente, li avrebbero trattati “da franchi tiratori e, come tali, sottoposti ad esecuzione sommaria”. Con molto realismo il “capo missione” Noel Mason Mac Farlane osservò che sarebbe stato “necessario servirsi di alcuni uomini che erano stati in passato associati con il fascismo dato che esso era durato vent'anni”. Chi non aveva avuto la tessera del PNF o non aveva tributato qualche omaggio al regime? La classe dirigente (non politica ma anche solo “ amministrativa”, di industrie, banche, aziende pubbliche e private) non si improvvisa dall'oggi al domani. Non si poteva fare nell'Italia i cui docenti universitari, tranne una dozzina, avevano giurato fedeltà al regime. Dal canto suo Badoglio dichiarò che il re intendeva “invitare i capi dei diversi partiti -cioè i partiti politici- così come si sono ora costituiti in Italia, con speciale riferimento a quelli che hanno la maggiore influenza sul popolo” e avrebbe dato al governo “un carattere liberale”. Come “militare” precisò che non si intendeva di partiti e di politici.  
   Dal settembre 1943 la ricostruzione del regio esercito fu la premessa per riaffermare l'autorità del governo nelle province di sua immediata competenza. Però il sovrano, il principe ereditario e le forze dell'ordine registravano quotidianamente la diffidenza e le soperchierie degli Alleati contro i militari italiani e la popolazione civile. Soldati inglesi, spesso “alquanto avvinazzati”, strappavano il tricolore da edifici pubblici, irrompevano in postriboli picchiando a sangue quanti vi si trovavano. Nel caffè “Roma” di Mola di Bari un inglese “alquanto brillo” sputò sul ritratto del re. Un altro infranse quello di Badoglio. Per “contenere” inglesi, autori di rapine e violenze d'ogni genere, gli alpini usarono le mani e i carabinieri le armi. Ma la prevaricazione era pressoché quotidiana. Il Comando dell'esercito ordinò pertanto che la sorveglianza sull'ordine fosse affidata a pattuglioni di otto uomini perché le pattuglie tradizionali venivano sopraffatte da militari “alleati”.
   Il 6 dicembre 1943 la regina Elena vide di persona automezzi inglesi investire intenzionalmente civili e sollecitò indennizzi (Archivio Cnetrale dello Stato,Presidenza del Consiglio dei Ministri, Governo del Sud, 1943-1944, Casa Reale).
   La lotta per la riaffermazione della sovranità nazionale era una schermaglia quotidiana. La riscossa passava anche attraverso gesti emblematici. L'11 novembre, per esempio, Badoglio ordinò ai prefetti di esporre il tricolore per festeggiare il genetliaco del re. Risalire la china impegnava sul fronte delle armi come nella vita civile. Allo scopo tra Alleati e Comando dei carabinieri si convenne la necessità di distinguere tra chi era stato fascista “per costrizione” (la tessera del partito era stata tutt'uno con quella “del pane”) e i fanatici del regime. Venne deliberata la formazione di “comitati” civici composti da un ufficiale dei carabinieri, un podestà, un magistrato, un sacerdote (“se di sicuri sentimenti”) e da alcuni cittadini “equi ed imparziali”. Il colonnello dei carabinieri Romano dalla Chiesa ricordò in un rapporto del 4 novembre che la resistenza ai militi dell'arma era “delitto grave”; al tempo stesso vietò l'uso di bombe a mano contro dimostranti. Gli alpini a loro volta svolsero importante ruolo di contenimento contro ogni forma di disordine.
   Dal Corpo Italiano di Liberazione nel luglio del 1944, dopo la liberazione di Roma e la nomina  di Umberto di Savoia a Luogotenente del Re, nacquero 6 Gruppi di Combattimento (Friuli, Cremona, Legnano, Folgore, Mantova e Piceno) per un insieme di circa 60.000 uomini. Però gli Alleati non consentirono che avessero nome di divisioni e costituissero un'Armata. Il 27 dicembre 1943 il governo dichiarò l'adesione alla Carta Atlantica del 14 agosto 1941 ma sull'Italia, malgrado la cobelligeranza, la resistenza anti-nazifascista e la guerra partigiana, continuavano a incombere le clausole della resa e le crescenti rivendicazioni di molti Stati, a cominciare da Francia, Jugoslavia e Grecia. Nel dicembre 1944, dopo lunga trattativa tra il governo e la delegazione del CLN Alta Italia, le formazioni partigiane  furono riconosciute come Corpo Volontari della Libertà agli ordini del generale Raffaele Cadorna. 
Il crepuscolo di Vittorio Emanuele III
Nel frattempo gli anglo-americani decisero la sorte di Vittorio Emanuele III, con il plauso dei partiti riconosciuti dalla Commissione alleata di controllo: democratico liberale, socialista, comunista, d'azione, democrazia cristiana, democrazia del lavoro, democratici dei lavoratori italiani, partito liberale. Il peggioramento del clima  antimonarchico venne segnalato dal ministro dell'Areonautica generale Renato Sandalli il 15 marzo 1944. Il PWB (Psychological Warfare Branch) aveva fatto cassare l'articolo “Agli ordini del loro Re” dal “Giornale dell'Aeronautica”. Il ministro avvertì che il sovrano, la monarchia in genere e il governo stesso non dovevano più essere menzionati pena la soppressione del periodico. La proibizione era motivata con la giustificazione che le “Autorità Alleate” non volevano influire sulla situazione interna italiana. Sandalli, però, aggiunse lapidariamente: “fatti del genere danneggiano la coesione morale delle FF.AA.”. Quegli stessi Alleati  non arginarono mai le rabbiose polemiche quotidiane contro il sovrano, la Casa di Savoia e dell'idea di monarchia da parte dei fautori della repubblica, nei giornali e nei “comizi”. Erano tempi nei quali ai militari, ai dirigenti, funzionari e pubblici impiegati veniva impartita l'amara direttiva: nei contrasti con gli Alleati gli italiani avevano torto anche quando avevano ragione.
Pochi giorni prima del convegno ciellenistico di Bari (26-28 gennaio 1944), che sotto il profilo istituzionale era un sodalizio privato, Vittorio Emanuele III consegnò il suo programma al capo della Missione alleata Noel Mason-Mac Farlane. Vi riprese molti spunti del verbale della conferenza di Malta tra Eisenhower e Badoglio. Il governo in carica sarebbe rimasto in esercizio sino alla liberazione di Roma; a quel punto sarebbe stato formato un ministero con rappresentanti di partiti ed entro quattro mesi sarebbe stata eletta la Camera dei deputati. Il Parlamento avrebbe discusso ed eventualmente riformato le istituzioni “anche totalmente”. Non escludeva, quindi, il cambio istituzionale. Il paese sarebbe stato consultato (referendum confermativo, dunque) e la Corona avrebbe seguito la volontà della nazione. Era l’unica via compatibile con lo Statuto. Il re, però, non fece i conti col fatto che gli anglo-americani non avevano alcuna fretta di arrivare a Roma. A Ravello, per esempio, i loro ufficiali gozzovigliavano giorno e notte, come annotava scandalizzato il generale Puntoni. Non solo. Militari inglesi a Caserta “demolivano nicchie cadaveri et asportavano teschi poggiandoli banchi scuola et collocandone uno sulla testa statua” (Rapporto del comandante dei carabinieri Giuseppe Pièche, 28 maggio 1944, in ACS).
La Luogotenenza del regno
All’inizio dell’aprile 1944 De Nicola escogitò la proposta atta a mettere d’accordo CLN, governo e Alleati: il passaggio dei poteri da Vittorio Emanuele III al principe di Piemonte quale luogotenente. Essa fu diramata ai giornali prima che il re ne fosse informato. Fu messo dinnanzi ai “fatti compiuti”. Dopo travagli vari il sovrano accettò di trasmettere le prerogative della Corona, ma in Roma, quando fosse stata liberata. A Puntoni re Vittorio tracciò un bilancio di quanto fosse “difficile e pesante il mestiere del re”: il “brut fardèl” consegnato da Vittorio Emanuele II a Umberto I. “Solo mio nonno ne è uscito bene” egli confidò. “Carlo Alberto dovette abdicare, mio padre fu assassinato. Non avevo nessuna intenzione di succedere a mio padre e l’avevo quasi convinto ad accogliere il mio progetto di rinunciare alla Corona. Ma fu ucciso e io, in quell’ora tragica, non potei rifiutarmi di salire sul trono. Se l’avessi fatto avrebbero detto che ero un vile.”  
  Pochi giorni dopo Badoglio varò il nuovo governo, con la partecipazione dei partiti del CLN (22 aprile - 18 giugno 1944). A cospetto di Vittorio Emanuele III i ministri giurarono “sul proprio onore”. Poteva il re imporre loro di usare la formula statutaria? Fra di essi vi erano Togliatti, Sforza, Giulio Rodinò di Miglione, Adolfo Omodeo (che da ministro della Pubblica istruzione epurò una quantità di galantuomini), Alberto Tarchiani, Fausto Gullo...: tutti repubblicani accesi e talvolta chiassosi. Il 5 giugno si consumò l’ennesimo sgarbo nei confronti di Vittorio Emanuele III da parte del “suo” governo. Con pretesti risibili (compresa la transitabilità delle strade), gli venne negato di raggiungere Roma per celebrarvi il trasferimento di “tutte le prerogative Regie, nessuna eccettuata” al principe ereditario in veste di suo luogotenente. Che era quindi “del re”, non “del regno”. I primi a non rispettare la promessa “tregua istituzionale” furono anzitutto i ministri, che, a differenza del sovrano e del luogotenente, avevano il sostegno degli Alleati.

Il linciaggio di Donato Carretta: una pagina orrenda dell'Italia liberata
Quale fosse il clima dominante nell'Italia liberata fu chiaro il 18 settembre 1944 nell'aula della Corte di Assise di Roma. Riunito in alta corte di giustizia il tribunale doveva giudicare l'ex questore Pietro Caruso e il suo segretario Roberto Occhetto, accusati di aver consegnato ottanta prigionieri politici ai nazisti per la rappresaglia in risposta all'attentato di via Rasella. Il processo richiamò l'attenzione internazionale. Il colonnello Pollock e il tenente Atkinson capitanavano la polizia militare, presente in aula anche a tutela di quanti filmavano l'evento, destinato all'opinione pubblica internazionale a prova del cammino democratico dell'Italia liberata. La folla irruppe nell'aula chiedendo di avere in pasto i due imputati “per farli a pezzi”. Per sua sventura, spinto dalla canea, vi finì anche Donato Carretta, vicedirettore del carcere di Regina Coeli, noto per mitezza, comprensione e speciale attenzione proprio nei riguardi dei politici detenuti. Individuato, fu percosso. Fatto uscire dall'aula, venne picchiato. Rifugiato in un'automobile grazie a carabinieri e a vigili urbani, ne venne estratto. Fu gettato sui binari del tram in attesa che la prima vettura in arrivo lo schiacciasse. Il conducente arrestò il mezzo. Rischiò di essere aggredito. La scampò esibendo la tessera del partito comunista. La folla riprese il corpo sanguinante di Carretta, lo martoriò e lo gettò a Tevere dalla spalletta di Ponte Umberto. Riavutosi, lo sventurato tentò di nuotare verso l'altra riva ma fu raggiunto e finito a colpi di remo da tre energumeni. Riportato in strada, il cadavere venne trascinato dal Lungotevere Sant'Angelo a Regina Coeli, contro il cui portone fu scaraventato e poi appeso a testa in giù all'inferriata di destra, sotto gli occhi dei suoi familiari.
  Carlo Sforza, sedicente conte, dichiarò di capire perfettamente che “scene di quel genere” potessero aver luogo. Però il linciaggio di Donato Carretta non fu una “scena” ma un crimine. Nessuno si premurò di identificarne e perseguire i colpevoli. Era una “prova generale” della “giustizia plebea” poi evocata e minacciata da Togliatti in consiglio dei ministri all'indomani del referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946 se quella dei codici non avesse risposto alle attese delle “masse”, cioè dei partiti rivoluzionari. Con abile spregiudicatezza Togliatti ventilò la minaccia di aprire i conti della storia a carico di quanti avevano a suo tempo favorito l'avvento del governo Mussolini e concorso ad avviare verso i regime. Che cosa dire degli eredi del partito popolare italiano che ne aveva fatto parte con ministri e sottosegretari, incluso Giovanni Gronchi. E dei “liberali”? De Gasperi capì...
 L'unica via per scansare la gogna era associarsi alla lotta senza quartiere contro la monarchia e i suoi sostenitori e oscurare la verità, come fece Luigi Salvatorelli nel libello “Casa Savoia nella storia d'Italia” in cui affermò che Vittorio Emanuele II era “responsabile moralmente, politicamente e legalmente di tutti i misfatti del fascismo”, contrapposto al “popolo”, innocente e operoso. Di lì la sua damnatio memoriae perpetua.                                                                                                                                        
   Un panorama dei combattimenti degli italiani contro i tedeschi dal 9 settembre in coerenza con la direttiva del governo Badoglio v. Pier Carlo Sommo-Alberto Turinetti di Priero (a cura di), “1943-1945. Dai Gruppi di Combattimento al nuovo Esercito Italiano”, “quaderno”  della Mostra  di uguale titolo, Torino, Anarti, 1922. Lo stato d'animo di un ufficiale della Divisione Granateri di Sardegna che combatté 40 ore consecutive alle per “obbedire alle sacre leggi della Patria” e impedire l'irruzione dei germanici nel cuore della Capitale (dall'estrema periferia a Porta San Paolo e al Colosseo) v. l'esemplare “memoria” di Luigi Franceschini, “Cinquanta anni dopo”, www.granatierdisardegna.it 

DIDASCALIA: Il generale Nicola Bellomo (Bari,2 febbraio 1881-Nisida,11 settembre 1945), decorato della Grande Guerra nel settembre 1945  cacciò i tedeschi dal porto di Bari. Arrestato dagli inglesi il 28 gennaio 1944 per presunto crimine di guerra ai danni di loro prigionieri, fu condannato a morte da un tribunale speciale britannico e fucilato.Lo Stato d'Italia gli conferì la Medaglia d'Argento al Valor Militare.
VITTORIO EMANUELE III: 
DA PROTAGONISTA A RE ISOLATO

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 10 settembre 2023 pagg. 1 e 6.
Didascalia
9 settembre 1943: quando Vittorio Emanuele III salvò lo Stato
Il trasferimento del governo e dei Reali da Roma a Brindisi via Pescara il 9 settembre 1943 fu e rimane oggetto di valutazioni contrastanti, spesso condizionate da fattori ideologici e dall'inclinazione ad addebitare alla Corona, anziché al governo, il collasso delle forze armate. Pesò la disputa, anche giudiziaria, sulla cosiddetta “mancata difesa di Roma” e l'insinuazione di quanti, come il giornalista Ruggero Zangrandi, asserirono che tra Badoglio e i tedeschi sarebbe corsa un baratto segreto per permettere il deflusso della colonna di autovetture da Roma verso la costa adriatica. In realtà il 9 settembre il maresciallo Albert Kesselring non aveva deciso se ordinare o meno la ritirata delle divisioni germaniche dalle regioni meridionali. Dopo il 10 settembre puntò a riorganizzare a proprio vantaggio i militari italiani premendo sul maresciallo Ugo Cavallero, “suicidato” presso il comando tedesco a Frascati proprio perché rifiutò di assumere la guida di un esercito anti-monarchico. Come lui, anche Kesserling sapeva che la Corona costituiva il punto di riferimento dei militari che avevano giuramento fedeltà al re. La nascente Repubblica sociale italiana, tenuta a balia dai germanici, a sua volta puntò sulle categorie dell'onore e della fedeltà. Contro le sue attese esse rimasero cardini di tanti soldati, anche “sbandati”, come poi degli Internati Militari Italiani in Germania, che infatti aderirono alla RSI in misura modesta e più per rientrare comunque in Italia che per fiducia nel nuovo regime mussoliniano, come documenta il volume di Avagliano e Palmieri (il Mulino, 2020).
 Con il passaggio da Roma a Brindisi il re non salvò la “sua” Corona ma lo Stato: unico interlocutore delle Nazioni Unite. Col realismo di chi conosceva novecentocinquant’anni di storia della Casa, costellata di glorie e di tracolli, Vittorio Emanuele III prese atto che la guerra era perduta, accettò l'armistizio e fece in modo che la sconfitta divenisse premessa per la riscossa. L’Italia era caduta.  Però grazie alla sua iniziativa cadde sul fianco meno doloroso: a Occidente.
 Nei “quarantacinque giorni” tra il 25 luglio e l'8 settembre, che poi furono meno di trenta se si contano dalla decisione di chiedere la “concessione” della resa, ancora una volta il re fu lasciato solo dai “politici”. Era già era accaduto nel 1922 e dal 1924. Dopo il 25 luglio 1943, come vantò Ivanoe Bonomi in Diario di un anno, i rappresentanti dei partiti antifascisti moderati in via di riorganizzazione (i democristiani De Gasperi, Spataro, Gronchi; i liberali Casati e Bergamini; Ruini, Della Torretta e Bonomi stesso per la Democrazia del lavoro) decisero di astenersi da ogni collaborazione con il governo Badoglio. Proprio De Gasperi spiegò che sarebbe stato un errore compartecipare alla “partita passiva”, cioè alla conclusione dell’armistizio. Poiché la resa avrebbe creato “responsabilità penose per i suoi negoziatori” era meglio farla cadere interamente ed esclusivamente sulle spalle di Vittorio Emanuele III. Comunisti, socialisti e partito d’azione, fondato nell’estate 1942, erano sic et simpliciter per l’abolizione della monarchia. 
Che cosa avrebbe dunque potuto fare il re di diverso rispetto a ciò che fece? Attendere a Roma l’avanzata degli anglo-americani? Nello sbarco a Salerno, questi vennero inchiodati dalla ferma reazione germanica. Subirono perdite elevatissime e capirono che i tedeschi non erano affatto rassegnati a ritirarsi se non combattendo. Gli alleati risalirono la penisola lento pede, cozzando contro tutte le “difese inerti” (catene montuose, fiumi, carenza di rotabili e di ferrovie...) e rimasero bloccati per mesi dinnanzi a Montecassino, la cui Abbazia fu completamente distrutta da bombardamenti inglesi con inflisse un duro colpo all’immagine dei “liberatori”, già fortemente vulnerata dalla loro condotta dei militari a Napoli e poi dei marocchini francs-tireurs “francesi”. Era dai tempi del bizantino Belisario che nessuno si era proposto di conquistare l’Italia via terra anziché “per manovra”, come ormai si poteva fare con sbarchi sulle coste e supporto aereo.
Il Principe ereditario doveva rimanere a Roma?
Che cosa avrebbe dovuto fare il principe Umberto di Piemonte? Come militare doveva ubbidire agli ordini del capo del governo. Quale erede della Corona  doveva attenersi a quelli non meno perentori del padre. Anziché seguire Badoglio e il sovrano, avrebbe dovuto/potuto rimanere a Roma o in clandestinità nei suoi pressi per guidarvi la resistenza. Dove e come avrebbe posto base? Avrebbe dovuto fare quotidianamente conto con l'ostilità della maggior parte degli antifascisti antimonarchici nei confronti dei quali i moderati, militari a parte, furono sempre succubi. Proprio la sorte dei militari risulta emblematica. Fu il caso del colonnello Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo (Roma, 1901-1944) e delle decine di collaboratori del Fronte militare clandestino, talora catturati su delazione, ferocemente seviziati, rinchiusi nel carcere di Regina Coeli e poi assassinati alle Fosse Ardeatine nella rappresaglia eseguita da Kappler su ordine perentorio di Hitler in risposta all’attentato di via Rasella (23 marzo). Vi vennero sterminati quasi al completo i dirigenti monarchici e dell’estrema non comunista (“Bandiera Rossa”), oltre a ebrei, una ventina di massoni (tra i quali Placido Martini, gran maestro designato) e a detenuti del tutto apolitici. In alternativa, rimanendo a Roma e sempre che fosse riuscito a sfuggire alla prigionia a differenza di quanto accadde alla sorella, Mafalda (catturata dai tedeschi con un inganno e deportata in Germania, ove morì in campo di concentramento), e a Francesca Maria, (a sua volta “internata”), il principe ereditario avrebbe potuto/dovuto rifugiarsi nei Sacri Palazzi, come il generale Bencivenga (massone), Soleri (temporaneamente) e altri molti? Per farci che cosa?
La storia della “Resistenza Monarchica”, alla quale hanno dedicato pagine documentate Domenico De Napoli, Francesco Garzilli, Marco Grandi e per il cui studio rimangono fondamentali le memorie di Edgardo Sogno, fondatore della organizzazione partigiana “Franchi”, e quelle di Alfredo Pizzoni, presidente del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, insegna ad abundantiam che per i militari rimasti in armi contro i tedeschi non esistevano “santuari”. Fu la sorte del generale Giuseppe Perotti, capo del comando militare del CLN Piemonte, arrestato, torturato, condannato a morte (alla lettura della sentenza ordinò ai coimputati: “Signori ufficiali, in piedi. Viva l'Italia!”), e di tante “missioni” paracadutate nelle zone prevalentemente controllate da formazioni comuniste. Risultano generose fantasie le pretese di quanti ritengono che il principe avrebbe dovuto farsi paracadutare al Nord per prendere la guida di formazioni partigiane.
La sicurezza delle residenze sabaude prima e dopo il 25 luglio
Nell'Italia centro-settentrionale persino le residenze sabaude non erano mai state del tutto inviolabili. La loro sicurezza aveva costituito motivo di preoccupazione per il primo aiutante di campo del re da molto prima della guerra, per il ripetersi di minacce e di tentativi d’attentato di cui i giornali ovviamente non parlarono, ma sono copiosamente documentati nelle carte dell'Archivio Centrale dello Stato. Non era sicuro neppure il Palazzo Reale di Torino. Per esempio, il primo aiutante di campo del principe di Piemonte, generale Clerici, il 29 marzo 1931 informò il pari grado del re che il servizio di guardia aveva rinvenuto sotto il portico della piazzetta reale antistante piazza San Giovanni “un pacco avvolto in un giornale” alla base di una colonna. Due agenti di pubblica sicurezza lo svolsero e non tardarono a scoprire che si trattava di ordigno esplosivo a orologeria, rapidamente portato lontano da persone e fabbricati ed esploso alle 6 e 18 mattutine. Era un “tentativo terroristico, anziché un vero e proprio attentato” conclusero gli inquirenti. Il colonnello comandante la divisione di Torino dei Reali Carabinieri dispose pertanto misure di  sorveglianza: pattuglie fisse e campanelli elettrici nelle garitte del giardino reale per consentire ai carabinieri in servizio l’immediata richiesta di soccorsi. Due anni dopo, un furto di galline nel giardino fece constatare quanto fosse agevole introdursi nella residenza reale. “Poiché le condizioni del bilancio non consentono assolutamente di affrontare la spesa di lire Diecimila (...) per collocare lungo il muro un dispositivo di allarme”, si propose una “semplice intensificazione del servizio di vigilanza”, ma, in  carenza di uomini, si optò per la riduzione dell’abbondante vegetazione contro muro, al fine di scoraggiarne lo scavalcamento abusivo. Per garantire la sicurezza del sovrano bastava potare le siepi? 
 Se tali “incidenti” si ripetevano in tempi “normali”, molto più allarmante fu l’irruzione di militari tedeschi nella tenuta di San Rossore (Pisa), verificatasi il 29 luglio 1943, quattro giorni dopo il fermo di Mussolini e mentre l'Italia “continuava la guerra” a fianco della Germania. Dapprima venne sospettato l’approdo di mezzi anfibi, poi vi planarono due aerei “di nazionalità tedesca tipo S. S. L. U. (Cicogna)”, atterrati e ripartiti prima che sopraggiungessero le guardie di vigilanza. Alle 20 e 30 dello stesso giorno un altro aereo tedesco atterrò e decollò in pochi minuti. Identificato, l’equipaggio accampò avarie. Ma il 12 settembre le SS di Otto Skorzeny mostrarono che cosa si potesse fare con un aereo di quel genere, prelevando Mussolini da Campo Imperatore sul Gran Sasso. Infine quattro ufficiali a bordo di auto dalla targa debitamente annotata forzarono agevolmente il blocco dell'unico carabiniere di guardia a uno degl’ingressi di San Rossore e perlustrarono la tenuta. E si era solo a fine luglio, non dopo l’8 settembre. Sin dal 15 giugno, del resto, il comandante della direzione generale trasporti dello stato maggiore dell’esercito informò l'aiutante di campo del Re, Paolo Puntoni, che era stato interdetto il transito e lo scarico di convogli germanici negli scali di Pisa e di San Rossore, nonché la “sosta” di treni e carri contenenti carburanti ed esplosivi. Ormai ci si preparava alla resa dei conti con l'ex alleato. Molto di più si potrebbe sapere se parte del carteggio riservatissimo del primo aiutante non fosse stato “ritirato” per ignota destinazione dal Servizio Informazioni Militari (SIM) il 25 luglio 1946, dopo la partenza di Umberto II dall'Italia. 
La Corona sotto assedio
Il 29 settembre Badoglio sottoscrisse a Malta il cosiddetto “armistizio lungo” (44 punti contro i 12 di Cassibile), duramente peggiorativo delle già pesanti condizioni imposte il 3 settembre. Secondo H. Hardy Butcher, Eisenhower “non volle firmare l’atto conclusivo di quello che aveva definito un crooked deal, uno sporco affare”. Tale “strumento di resa” risultò talmente lesivo per l'Italia che, subentrato a Badoglio a capo del governo, Bonomi chiese rimanesse segreto. La sua propalazione avrebbe avvilito i militari del regio esercito, sconcertato i partigiani nelle regioni del centro-nord e fornito argomenti alla Repubblica sociale italiana.
  Dal 12 settembre 1943 la monarchia dovette fare i conti con tre insidie concatenate. Prelevato da Campo Imperatore sul Gran Sasso d’Italia ove era sotto labile sorveglianza e trasferito in Germania, Mussolini accettò di assumere la guida dello “Stato repubblicano d'Italia”, poi Repubblica sociale italiana: ove l'Italia da sostantivo retrocesse ad aggettivo (e tale rimane). Accettò, anche per attutire la rappresaglia germanica e propiziare la continuità amministrativa delle regioni comunque occupate dai tedeschi. Il 18 il duce tenne alla radio un discorso “di eccezionale violenza contro il re e Badoglio”. Giorno dopo giorno rovesciò valanghe di recriminazioni contro la monarchia, accusata di aver profittato degli unici veri protagonisti del Risorgimento: Mazzini, Pisacane, la Sinistra storica...: argomenti usati anche dagli antifascisti antimonarchici. 
Il secondo avversario della Corona, come accennato, fu il Comitato centrale di liberazione nazionale che, riunito in clandestinità, disconobbe il governo Badoglio, non rappresentativo dei partiti antifascisti, lo accusò di aver abbandonato Roma nelle mani dei tedeschi e deliberò unilateralmente di “deferire al libero voto del popolo (quindi a plebiscito, o come poi si disse a referendum, NdA), convocato al cessare delle ostilità, la decisione sul problema istituzionale” (5 ottobre 1943).
In terzo luogo dovette fare i conti con gli americani, che premevano per l’abdicazione del sovrano senza valutarne le ripercussioni sia nell'Italia centro-settentrionale, sia nelle regioni già libere da occupazione germanica e sul corso di una guerra dalla durata imprevedibile, nel cui corso avevano bisogno della collaborazione dell'unico Stato dItalia esistente: il regno. Il disorientamento dilagava anche in ambienti moderati. Sotto la data 17-22 dicembre Bonomi annotò nel Diario l' “atteggiamento dei liberali”, comunicatogli da Nicolò Carandini. Se il re si fosse ostinato “a restare” avrebbero accettato “anche la situazione rivoluzionaria”. Per “lasciare aperta la possibilità di difendere eventualmente il principio monarchico nella futura costituente” i liberali volevano “una monarchia pulita e non un cencio sporco come l'attuale sovrano”. 
 Il re prevedeva tali insidie. Dovette però fare i conti con una quarta minaccia, più grave e pericolosa perché arrivava dall’interno del mondo sul quale aveva ritenuto di far leva, non nell’interesse personale ma dello Stato. Il 24 ottobre Badoglio si fece tramite dei “precisi intendimenti” dei partiti antifascisti animati, tra altri, da Carlo Sforza (senatore e Collare della SS. Annunziata). Rientrato dagli Stati Uniti “pieno di rancore e di ambizione”, questi agiva di concerto con democristiani napoletani (Giulio di Rodinò e Angelo Raffaele Jervolino) e persino con liberali. A loro inderogabile avviso il re doveva abdicare subito; il principe ereditario doveva rinunciare alla successione e passare la corona al nipote, Vittorio Emanuele principe di Napoli, di soli sette anni e quindi vegliato da un reggente, nella persona di Badoglio stesso. Il rifiuto, aggiunse il maresciallo, avrebbe portato alla caduta della monarchia.
La proposta era statutariamente irricevibile. Il re la respinse, sdegnato. Il reggente era previsto dallo Statuto solo “durante la minore età del Re”. In caso di passaggio della corona a Vittorio Emanuele, principe di Napoli, nato nel 1937, la reggenza andava conferita al prossimo parente maschio (il duca Aimone d’Aosta, il conte di Torino o un altro principe sabaudo) oppure alla regina madre, Maria José, che però era in Svizzera con i figli, sempre a rischio di colpi di mano da parte dei nazisti. Solo in mancanza di qualunque erede dinastico le Camere, “convocate entro dieci giorni dai ministri” avrebbero nominato il reggente. Sennonché lo scioglimento della Camera voluta da Badoglio e l'impossibilità di convocare il Senato per cause di forza maggiore avevano paralizzato il Parlamento. Secondo l'articolo 16 dello Statuto le disposizioni relative alla reggenza erano “applicabili al caso in cui il re maggiore si trovi nella fisica impossibilità di regnare”. In un paese allo sbando Vittorio Emanuele III tutto era tranne che “fisicamente impedito”. Infine, quando pure avesse deciso di abdicare, avrebbe potuto farlo per sé, non per il figlio.
Badoglio fece persino approntare una curiosa serie di francobolli del valore di 50 centesimi. La sua firma vi sovrastava dal basso in alto la Lupa di Roma. Stampati dalla tipografia Richter di Napoli sulla fine del 1943, non vennero mai “emessi”. Già una volta il maresciallo ci aveva provato: nel 1929, quando “firmò” un francobollo da 50 centesimi con effigie di Vittorio Emanuele III. La sovrastampa fu eseguita dallo stabilimento Raimondi di Napoli sotto sorveglianza della direzione delle Poste e telegrafi di Napoli. Già allora ne fu vietata l’emissione. D’altronde il maresciallo non era il solo a cercar di mettere la “firma” sull’Italia. Anche Benedetto Croce fece la sua parte. Per i giorni 27 e 28 gennaio 1944 venne indetto a Bari un convegno dei Comitati di liberazione nazionale. Il 7 gennaio Sforza dichiarò a De Nicola, senatore exurgens e flammis del lungo sonno attraverso il regime, di essere disposto a trangugiare una luogotenenza del “sovrano fellone”, ma non a favore di Umberto. “Escluso naturalmente anche l’ex re nazifascista di Croazia”, cioè Aimone duca d'Aosta, aggiunse Sforza, “ogni altro principe p(oteva) essere accettato sia come reggente, sia come luogotenente”. Al congresso di Bari Croce sferrò un durissimo attacco alla persona di Vittorio Emanuele III, intimandone l’abdicazione immediata. L’8 maggio, quando ormai tutto era consumato, in una postilla a futura memoria, il filosofo rivendicò direttamente e primariamente a se stesso 1’“eliminazione del re” di cui Sforza menava vanto: operazione alla quale egli lavorò “in segreto, e diplomaticamente, con De Nicola”. Scrivendo di sé in terza persona aggiunse: “Croce confessa e conferma di non essere dal suo passato preparato a governare il suo paese, ma non si sente privo di buon senso pratico...”. In quegli stessi giorni, però, rientrato da Mosca via Algeri, Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano, preparò l'offensiva politico-culturale contro di lui, tanto da metterlo nella mortificante condizione di non ripresentarsi in consiglio dei ministri, adducendo la fatica del viaggio. 
  Malgrado tutte le difficoltà e ostilità da Brindisi temporaneamente “capitale del regno”, Vittorio Emanuele III dette impulso alla lotta di liberazione, in atto, come si dirà, sin dallo stesso 9 settembre 1943 
 
DIDASCALIA Vittorio Emanuele III passa in rassegna un reparto del Regio Esercito in riorganizzazione (Trani, settembre 1943). Sulla ricostituzione delle Forze Armate dopo la resa di Cassibile  v. tra i molti AA. AA., “Otto settembre 1943” , Atti del Convegno di studi di Milano, 8 settembre 1983,  a cura di Aldo A. Mola, Ministero della Difesa, 1985. 

 

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 27 agosto 2023 pagg. 1 e 6.

Didascalia

Il Re fuggiasco?

Il Quaderno n. 4157 di “La Civiltà Cattolica” invita all'ascolto di un podcast sull'8 settembre 1943 e le sue conseguenze. “Dopo aver proclamato l'armistizio – scrive il quindicinale della Compagnia di Gesù – il generale Pietro Badoglio fuggì da Roma insieme a Vittorio Emanuele III alla volta di Brindisi, in Puglia”. All'opposto, aggiunge, benché consapevole di essere bersaglio di Adolf Hitler, Pio XII non si mosse e si prodigò a favore della popolazione. Con tutta la deferenza che si deve alla “più antica rivista in lingua italiana”, l'affermazione è errata e la comparazione tra la condotta del re e quella del papa è improponibile. Sovrano della Città del Vaticano, il Vicario era sommo pontefice della Chiesa cattolica: inviolabile. Vittorio Emanuele III era re di uno Stato in guerra coi tedeschi, ormai nemici, in casa e senza sostegno militare da parte dei vincitori decisi a cancellare l'Italia dal novero delle potenze. Non fuggì affatto. Si trasferì all'interno del territorio nazionale per esercitare i poteri della Corona e salvare la continuità dello Stato.

   Per comprenderlo occorre ricordare in quali circostanze e con quali ripercussioni si arrivò alla “resa incondizionata”, altra e peggiore cosa rispetto a un “armistizio”, che è frutto di trattativa. Come noto, di propria iniziativa e con la collaborazione efficace di una ristretta cerchia di militari, alle 17 del 25 luglio 1943 il re revocò Benito Mussolini e lo sostituì con il maresciallo Pietro Badoglio. “Fermato” (non “arrestato”) dai carabinieri, il duce scrisse a Badoglio di essere pronto a collaborare.

   Nel volgere di pochi giorni il nuovo governo smantellò il regime. Sciolse il Partito nazionale fascista e il Gran consiglio del fascismo e impose alla Milizia volontaria di sicurezza nazionale di sostituire i fasci con le stellette. A quel modo evidenziò di non dovere nulla ai gerarchi che avevano approvato l'ordine del giorno approntato da Dino Grandi, Giuseppe Bottai, Luigi Federzoni, convinti di ridimensionare Mussolini senza rinunciare al proprio ruolo.

   La svolta del 25 luglio fu la premessa di tre obiettivi concatenati: mostrare che l'Italia si liberava dal fascismo, uscire dalla guerra, manifestamente perduta, e arginare la prevista “vendetta” della Germania. Con i suoi mezzi il governo poteva attuare solo il primo dei tre obiettivi. Gli altri due erano nelle mani degli anglo-americani e di Hitler. La defascistizzazione venne facilitata vietando ogni manifestazione di partito. In un paese in guerra occorreva scongiurare insorgenze di fascisti e di avversari della monarchia.

Resa: un ultimatum

 Salvaguardato l'ordine interno, Vittorio Emanuele III autorizzò la ricerca del contatto con il Comando alleato per stipulare la fine delle ostilità. Tra le molte “testimonianze” spicca il “Diario” del generale Giuseppe Castellano, militare di piena fiducia del re. Dopo complessi preparativi e scartate altre opzioni, il 12 agosto Castellano partì in treno per Lisbona sotto il falso nome di “Raimondi”. Poiché non conosceva l'inglese fu accompagnato dal console Franco Montanari. Il 15 agosto fece tappa a Madrid ove si fece ricevere dall'ambasciatore inglese Samuel Hoare, che dal 1917 era stato nel servizio segreto militare britannico a Roma, aveva simpatia per l'Italia e propiziò la sua missione. Giunto a Lisbona la sera del 16, Castellano prese contatto con il Comando anglo-americano. La mattina del 19 agosto l'ambasciatore inglese Campbell lo invitò a colloquio per le 22:30. Castellano si trovò dinnanzi l'incaricato d'affari George Kennan e il generale Smith, rappresentanti di Eisenhower, comandante alleato nel Mediterraneo, e il brigadiere britannico Strong. Nessuno gli tese la mano. Smith gli lesse i termini della resa imposta dagli Alleati all'Italia e una pagina con le decisioni del presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt, e del premier britannico, Winston Churchill. L'Italia doveva rispondere a Londra e ad Algeri, sede del Quartier generale alleato, entro e non oltre il 30 agosto.

   Nella lunga conferenza di Quebec il 18 agosto gli anglo-americani stilarono la Dichiarazione sulle condizioni della “cessazione delle ostilità” da parte dell'Italia. Essa prospettò una modifica migliorativa delle condizioni della resa in misura “dell'apporto dato dal governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra”. Con la Dichiarazione gli anglo-americani introdussero un soggetto nuovo accanto (ma non alternativo o antagonista) rispetto al regio governo: il popolo italiano.

   Castellano tornò a Roma con il testo della “resa”: dodici “condizioni” su vari aspetti collaterali alla “cessazione immediata di ogni attività ostile da parte delle Forze Armate italiane”. Quelle fondamentali erano le ultime tre. “In cauda venenum...”.Vanno rilette: “Il Comandante in capo delle Forze alleate si riserva il diritto di prendere qualsiasi misura che egli ritenga necessaria per la protezione delle Forze Alleate per la prosecuzione della guerra, e il governo italiano si impegna a prendere quelle misure amministrative o di altro carattere che potranno essere richieste dal Comandante in capo, e in particolare il Comandante in capo stabilirà un governo militare alleato in quelle parti del territorio italiano ove egli lo riterrà necessario nell'interesse militare delle Nazioni alleate”. Era riconosciuta la sovranità del re e del suo governo. Al di là dell'undicesima condizione (“Il Comandante in capo delle Forze alleate avrà pieno diritto di imporre misure di disarmo, di smobilitazione e di smilitarizzazione”) la dodicesima lasciava però intravvedere il baratro:“Altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario che l'Italia dovrà impegnarsi ad eseguire saranno trasmesse in seguito”.

   Le “altre condizioni” non furono comunicate a Castellano ma al generale Giacomo Zanussi, inviato a Lisbona da Roma in carenza di notizie da e su “Raimondi”. Sotto la data del 29 agosto Castellano annotò che “su suggerimento di Acquarone il re sembra pronto ad accettare i termini dell'armistizio”. Dopo giorni convulsi e ripetuti contatti e viaggi da Roma alla Sicilia e ritorno, il 3 settembre il generale di brigata Castellano sottoscrisse a Cassibile “per il Maresciallo Pietro Badoglio, capo del governo italiano” le condizioni presentate dal maggior generale Walter B. Smith per il Comandante in capo delle Forze alleate Dwight D. Eisenhower e illustrate dal generale Harold Alexander, come recita il processo verbale. Alla firma, suggellata dalla cordiale stretta di mano tra il Comandante e Castellano, presenziarono Harold McMillan, ministro residente britannico presso il Quartier generale alleato ad Algeri; Robert Murphy, rappresentante personale del presidente degli USA; Royer Dick, commodoro della Reale marina britannica, capo di stato maggiore del Comandante in capo del Mediterraneo; Lowell W. Rooks, maggior generale dell'esercito USA, sottocapo di stato maggior presso il Quartier generale delle Forze alleate; il brigdiere Kenneth Strong, sottocapo di stato maggiore generale presso il Quartier generale delle Forze alleate e Franco Montanari, interprete ufficiale italiano.

   Nel corso della riunione furono a lungo discusse l'azione degli italiani contro i tedeschi all'annuncio della resa e le numerose richieste navali anglo-americane. I presenti misero nel conto che Vittorio Emanuele III e Badoglio potessero cadere prigionieri dei tedeschi. Pertanto Alexander chiese che il re e Badoglio registrassero su disco la proclamazione dell'“armistizio” e che copia della registrazione fosse consegnata agli Alleati, “sicché in caso di emergenza si potrebbe fare l'annuncio”. Proprio per fronteggiare quella emergenza, precisò Castellano, il generale Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore generale, progettava di lasciare Roma, per tenersi pronto annunciare la resa anche da una emittente fuori Roma. Il “disco” con la registrazione sarebbe stata recata personalmente alla sede Eiar di Torino dal generale Ambrosio nel suo altrimenti inspiegabile viaggio proprio nell'imminenza dell’annuncio stesso.

   Il verbale della riunione di Cassibile mette a nudo la curiosa “visione” di quanti intendevano impartire lezioni di incivilimento agli italiani. Alexander si dichiarò convinto che “gli italiani dovevano combattere per il loro paese. I contadini italiani armati (da chi? NdA) combatterebbero bravamente con la guerriglia organizzata” e che “non si doveva rimandare nessuna opportunità di uccidere i tedeschi”. Pensava inoltre che i “sindacati operai” avrebbero potuto bloccare o facilitare il transito ferroviario, secondo necessità. Probabilmente vedeva l'Italia come una delle “colonie” di cui aveva cognizione. Castellano non lo assecondò.

   Tra le questioni non secondarie affrontate a Cassibile vi furono il giorno e l'ora dell'annuncio della “cessazione delle ostilità”. Al riguardo gli interlocutori di Castellano furono evasivi. Dissero che l’annuncio sarebbe stato dato da Eisenhower alle 18:15 e da Roma alle 18:30, senza però precisare la data. Castellano replicò quanto aveva già chiarito a Lisbona. “Un preavviso di poche ore del giorno D era insufficiente. Gli occorreva un preavviso di parecchi giorni”. Non parlava inglese ma aveva idee molto chiare. Alexander replicò che “non poteva rischiare perdita di sicurezza” e non rivelò dove e quando sarebbe avvenuto lo sbarco anglo-americano sulla costa tirrenica dell'Italia.

   A conclusione dell'incontro Castellano fu trattenuto a Cassibile con la promessa di “una sede quanto possibile confortevole”. Eisenhower non presenziò e non firmò. Preferì tenersi al di fuori dallo “sporco affare” o dall’“inganno reciproco”: eloquente titolo, quest’ultimo, di un’opera ricca di documenti e di fondamentale importanza sull'Otto settembre scritta dalla storica Elena Aga Rossi. In mancanza di indicazioni precise, a Roma prevalse la certezza che la fine delle ostilità sarebbe stata annunciata il 12 settembre o addirittura il 16, come Badoglio scrisse in una lettera ricordata da Angelo Squarti Perla nel suo recente e documentatissimo saggio “Le menzogne di chi scrive la storia” (ed. Gambini).

   A ingannare furono soprattutto gli anglo-americani, che parlavano a nome delle Nazioni Unite senza però che il loro alleato principale, l'URSS di Stalin, fosse informato. Avevano le loro buone ragioni, perché guardavano al di là del conflitto nel Mediterraneo. In gioco vi era la guerra degli USA contro il Giappone e per la difesa dell'impero coloniale da parte di Londra. I termini della resa, dunque, non dipesero dalla volontà di Vittorio Emanuele III ma dalla Conferenza di Casablanca che, su richiesta di Stalin, aveva deciso l'imposizione della resa senza condizioni.

Lontano da Roma, non dagli italiani  

   I giorni tra la firma della resa e il suo annuncio furono pochi e convulsi: dal 3 all'8 settembre. Senza bisogno di conoscerne nei dettagli i piani, il re e il governo sapevano bene che i tedeschi non avrebbero avuto alcun riguardo nei loro confronti. Se se ne fossero impadroniti li avrebbero eliminati o quanto meno deportati e sottoposti a umiliazioni. Sarebbe stata una “lezione” per i capi di Stato e di governo tentennanti. Al rientro da Berlino Boris III, zar dei Bulgari e genero di Vittorio Emanuele III (ne aveva sposato la figlia Giovanna), morì di morbo mai spiegato. Avvelenamento?

   I tempi e gli spazi per salvare lo Stato erano sempre più stretti. In vista dell'ora e del giorno dell'annuncio, venne deciso l'allontanamento da Roma. Scartato l'aereo, il mezzo di trasporto all'epoca più insicuro e dalle conseguenze irreversibili in caso di “incidente”, fu previsto il trasferimento dei Reali e del governo da Civitavecchia alla Sardegna, saldamente presidiata da forze italiane. Sennonché quel porto divenne insicuro come tante altre piazze ormai sotto controllo o minacciate da vicino dai tedeschi, che dal 26 luglio avevano fatto irruzione in Italia con il pretesto di aiutarla nella lotta contro gli allora comuni nemici.

   A ridosso dell'annuncio della resa giunsero a Roma due alti ufficiali per verificare con il Maresciallo Badoglio la fattibilità del lancio di una divisione paracadutata a sostegno di quelle italiane per contrastare i tedeschi che ormai la premevano. Come più volte narrato, Badoglio li ricevette in vestaglia e chiarì che i campi di aviazione vicini alla Capitale non erano in grado di propiziare il progetto. In realtà aveva chiaro che gli anglo-americani non avevano alcuna possibilità di attestarsi nei dintorni di Roma e che tutto si doveva fare tranne che trasformare la Città Eterna in campo di battaglia, senza probabilità di rinforzi di lungo periodo. Come noto, gli americani sbarcarono nella piana di Salerno e incapparono nella tenace risposta dei germanici. A Roma giunsero solo il 5 giugno 1944.

   Fecero la guerra che conveniva loro. Essi consideravano l'Italia un teatro secondario del conflitto in corso. Più tedeschi erano trattenuti nel Paese dei Limoni meno essi ne avrebbero dovuti fronteggiare allo sbarco in Normandia, progettato prima ancora di dare l'assalto alla Sicilia e alla Calabria.

   La resa fu infine comunicata alle 19 dell'8 settembre. L'annuncio fu preceduto alle 17 da una convulsa riunione (“una specie di consiglio della Corona” annotò Puntoni) nel corso della quale qualcuno prospettò addirittura di sconfessare la firma di Cassibile e sostituire Badoglio. Per intervento del maggiore Luigi Marchesi, che ne ha scritto ripetutamente, “il buon senso finisce per prevalere, si arriva però a una conclusione davvero deludente: l'armistizio è accettato ma Badoglio che rappresenta il governo non impartisce alcuna disposizione per fronteggiare gli avvenimenti che incalzano” (Puntoni). Nel volgere di poche ore il Re e Badoglio misero a punto l'unico piano possibile: lasciare Roma per un lembo d'Italia libero da tedeschi (che vi vennero anzi cacciati con le armi: come avvenne a Bari e in altre città) e non ancora raggiunto dagli anglo-americani, e quindi libero dalla loro diretta ingerenza. Ci volle il comprovato sangue freddo del Re Soldato per affrontare la prova.

   Come annotò Paolo Puntoni, ritenuta impossibile la difesa della Capitale fu decisa la partenza. “Il Re scrive Puntoni – convinto ormai che tutto sia stato predisposto per la partenza del governo al completo, aderisce a malincuore a lasciare Roma. Il suo intento è di garantire la continuità dell'azione del governo in collegamento con gli alleati e di impedire che la Città Eterna subisca gli orrori della guerra”. Alle 5:10 del 9 settembre la berlina guidata dall'autista Giovanni Baraldi lasciò il ministero della Guerra. Recava il Re, la Regina, il tenente colonnello De Buzzaccarini e Puntoni, che sbrigativamente raccomandò al colonnello Mario Stampacchia di distruggere, all'occorrenza, il carteggio riservato e quello segreto. Di seguito mossero la vettura della regina, con a bordo Badoglio, Mario Valenzano, suo nipote e segretario particolare, e il duca d'Acquarone. In una terza presero posto il principe ereditario con il generale Emilio Gamerra e due ufficiali d'ordinanza. Altre automobili seguirono alla spicciolata. La “piccola colonna” (Puntoni) si mosse senza scorta perché il plotone di autoblindo inviato dal Ministero della Guerra al Quirinale era rimasto nella Reggia.

   La berlina del Re innalzava lo stendardo del Capo dello Stato. Come è stato ripetutamente osservato, chi fugge non alza le insegne. Il viaggio del re alla volta di Pescara via Avezzano e Popoli non fu una fuga ma il trasferimento dalla capitale per evitare la cattura e assicurare quanto era necessario: la persona e la funzione del re e del “suo” governo, garante dell'esecuzione della resa. Gli Alleati erano implicitamente tenuti a concorrere alla loro sicurezza, ma non consta che se ne siano curati. Nei limiti e nei modi documentati, Vittorio Emanuele III mostrò che la Corona operava in autonomia. Non per caso era stata respinta la proposta che si rifugiasse su una nave dei vincitori, cioè in territorio nemico. Un passo di quel genere avrebbe comportato l'abdicazione dalla libertà di capo dello Stato d'Italia.

   È stato osservato che il trasferimento avvenne con gravi omissioni da parte del capo del governo e dei capi di Stato maggiore delle tre Armi. Lo hanno ribadito Filippo Stefani in “8 settembre 1943: Gli armistizi dell'Italia” (Marzorati) e gli autori delle relazioni svolte in numerosi convegni di studio promossi dal Ministero della Difesa e da altre Istituzioni. L'Archivio Centrale dello Stato conserva copiosissima documentazione sulle minute misure via via assunte dagli Uffici competenti per prevenire e scongiurare le conseguenze più gravi. Valgono d'esempio le “istruzioni” impartite per il trasferimento della principessa Maria José, delle tre figlie e del principe di Napoli, Vittorio Emanuele, all'epoca di 7 anni, dal Cuneese al Castello di Sarre e da lì in Svizzera.

   In sintesi il Re lasciò Roma ma non l'Italia né gli italiani. Imbarcato a Pescara sulla corvetta “Baionetta” la sera del 9 settembre egli giunse a Brindisi alle 14:30 del 10 mentre già era in corso la lotta armata di liberazione contro gli occupanti germanici. Alle 9 mattutine dell'11 il sovrano presiedette un “consiglio” e dette lettura del messaggio di Eisenhower a Badoglio volto a stabilire subito la collaborazione tra truppe anglo-americane e governo italiano. Il Re rivolse un proclama agli italiani. Non dipendeva da lui arginare la reazione germanica. Si attendeva che il Paese seguisse ma, come vedremo, tra lui e gli italiani si interpose il Comitato di liberazione nazionale, ancora informale, ma decisivo per il futuro della monarchia in Italia. (*)

Aldo A. Mola

(*) Su regìa dello storico Marco Patricelli, il 9 settembre, nella Sala “Gabriele d'Annunzio” del Centro “Aurum” di Pescara, si svolge il convegno “La resa, la fuga, la patria”, con interventi di Roberto Olla, Ernesto Galli della Loggia, Lutz Klinkhammer, Francesco Perfetti, Luciano Zani, Mimmo Franzinelli e dei capi degli Uffici storici delle quattro Armi: gen. Antonino Neosi (Carabinieri), amm. Gianluca de Meis (Marina), ten. col. Edoardo Grassia (Aeronautica), ten. col. Emilio Tirone (Esercito), presente il ministro per la Cultura, Gennaro Sangiuliano.


Rosmini e l'Italia
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 27 agosto 2023 pagg. 1 e 6.
con un saggio di S.A.R. la Principessa Maria Gabriella di Savoia

 

Un Saggio della Principessa Maria Gabriella di Savoia

Antonio Rosmini  Serbati (Rovereto, 1797-Stresa, 1855) fu il massimo filosofo italiano e teologo apprezzato da quattro papi  della prima metà dell'Ottocento: Pio VII, Pio VIII, Gregorio XVI e Pio IX, che lo volle nella speciale “commissione” per la proclamazione del dogma dell'Immacolata Concezione benché ne avesse già condannato alcune opere. Il suo libro “Le cinque piaghe della Santa Chiesa” è sempre attuale. Nell'ultimo capitolo Rosmini afferma che la Chiesa deve vivere di offerte libere, non di tributi imposti dallo Stato ai cittadini, deve rinunciare a privilegi e pubblicare i suoi bilanci.  Appena stampata (nel 1848, ma era stata scritta nel 1832) l'opera finì nell'Indice dei libri proibiti. Su delibera del Santo Uffizio, nel 1887 papa Leone XIII condannò quaranta “proposizioni” del filosofo. A quei tempi l'Italia era divisa in due dalla questione romana. Pio IX aveva scomunicato Vittorio Emanuele II che, un boccone dopo l'altro, con l'annessione di Roma del 20 settembre 1870, aveva debellato lo Stato Pontificio e si era insediato al Quirinale. 

   Rosmini, cattolico adulto, filosofo di polso e pensatore ammirato da Alessandro Manzoni, Niccolò Tommaseo e dalla schiera di cattolici liberali del suo tempo, nella seconda metà del Novecento venne debitamente rivalutato anche dalla Chiesa. Il 18 novembre 2007 fu celebrata a Novara la sua beatificazione, decretata da Benedetto XVI al termine di una “causa” iniziata nel 1994.  

   La sua fattiva influenza sul pensiero e sugli istituti di Carità è stata approfondita dal Simposio organizzato a Stresa dal Centro internazionale di studi rosminiani (21 al 25 agosto) con interventi, tra altri, di Ernesto Galli della Loggia, Luca Mana, Federica La Manna, Vittorio Sgarbi, Ettore Gotti Tedeschi, Alberto Mingardi, Giovanni Maria Vian e dell'on. Daniela Ruffino. Nel Simposio, ispirato da liberalità rosminiana, si è parlato anche di carboneria massoneria e società segrete. Il Simposio è iniziato con la presentazione degli “Scritti autobiografici. Diari” di Rosmini: un volume in ogni senso poderoso, curato da padre Ludovico Maria Gadaleta, che, con suor Benedetta Lisci, è il punto di riferimento costante degli studi rosminiani.  

   Particolarmente apprezzata è stata l'ampia relazione svolta dalla Principessa Maria Gabriella di Savoia su “Rosmini e Casa Savoia” anche perché Carlo Alberto di Sardegna, il Re dello Statuto, nel 1848 affidò a Rosmini la delicata missione presso Pio IX per rinsaldare i rapporti tra il “Piemonte” e lo Stato Pontificio dopo l'Allocuzione del 29 aprile con la quale il papa si era dissociato dalla guerra contro l'Impero d'Austria.  

    Per la sua importanza proponiamo ai lettori del “Giornale del Piemonte e della Liguria” la Relazione della Principessa, presidente della Fondazione Umberto II e Maria José e custode della memoria storica di Casa Savoia. 

Aldo A. Mola

CARLO ALBERTO E ANTONIO ROSMINI
DUE PROFETI DELLA CONCILIAZIONE 

di Maria Gabriella di Savoia

Didascalia

Carlo Alberto di Savoia (1798-1849), Re di Sardegna, e Antonio Rosmini  Serbati (1797-1855) sono due protagonisti della storia della prima metà dell'Ottocento.  Carlo Alberto fu acclamato Re d'Italia sul campo di battaglia di Goito nel 1848. Per consenso generale, Rosmini fu il massimo filosofo e teologo della Chiesa cattolica. Le loro biografie mostrano tratti accomunanti che, pur nella diversità dei ruoli svolti, ne  fanno emergere le “virtù eroiche”. Carlo Alberto sentì  di essere chiamato dalla Provvidenza a realizzare la missione sognata da generazioni di patrioti: avviare l'indipendenza e l'unità dell'Italia. Anche nel pensiero di Rosmini, sintetizzato nella formula “Adorare, Tacere, Gioire” la Provvidenza è centrale.     

     Entrambi si sentirono votati al rigore, al sacrificio e a un ruolo di profeti. Di Carlo Alberto lo scrisse Giosue Carducci nell'Ode “Piemonte”. Di Rosmini lo affermò Papa Paolo VI in un udienza concessa alle suore rosminiane.

 La predestinazione

   In Carlo Alberto la dedizione a una missione metastorica fu instillata sin dall’infanzia dal pastore Jean-Pierre Vaucher che molto incise sulla sua inclinazione all’introspezione spinta sino alle soglie del misticismo. Ne scrisse egli stesso in lettere confidenziali e in appunti. Nel corso di viaggi e cerimonie, circondato dalla folla che gli mostrava affetto e devozione anche con chiassose feste tradizionali, il sovrano si chiudeva in se stesso. Sentiva la struggente sete  di solitudine di cui scrisse con sensibilità il suo primo biografo, Costa di Beauregard, in La Jeunesse  du Roi Charles Albert:lo prologue d’un règne.   

   Carlo Alberto medesimo confidò le sue certezze a Quelques unes des nombreuses graces que le Seigneur  me fit. Vi ricordò di essere stato  salvato da due tentativi di avvelenamento, due rischi di morire tra le fiamme, due incidenti durante giochi  infantili, due volte dal pericolo di spezzarsi collo e reni, due di rimanere sotto il calesse ribaltato, due gravi incidenti di caccia, due rischi di naufragio, due di cadere vittima di attentati, due per la caduta improvvisa del cavallo sotto di sé: la prima volta mentre accompagnava Vittorio Emanuele I, da poco restaurato a Torino sul trono del regno di Sardegna, mentre si recava  a Superga nella festa del nome di Maria; la seconda  mentre audacemente saltava un largo fossato e il cavallo mancò la presa sul terreno... 

  Se la Provvidenza, anzi il Seigneur (come Carlo Alberto scrisse) in tante occasioni gli aveva mostrato così benevola attenzione voleva dire che era preservato per una missione altissima: unire l’antica e la nuova storia, superare   contrasti apparentemente invalicabili, avviare verso sintesi e nuove forme di conciliazione. Non per caso il suo motto fu “Tutto migliorare e tutto conservare”.

Il Re dello Statuto e della guerra per l'indipendenza

    Asceso al trono trentatreenne, il Principe di Carignano prese su di sé la storia della Casa e ne portò la croce: “cilicio ed estasi” è stato scritto della sua complessa personalità studiata da Francesco Cognasso e da Narciso Nada, da Romolo Quazza e da Giorgio Falco, storico acuto della preparazione dello Statuto promulgato il 4 marzo 1848. 

   Proprio lo Statuto, apprezzato dal Presidente Emerito della Repubblica, senatore Francesco Cossiga, che ne volle la ristampa anastatica, fu l’approdo del percorso intrapreso dal re sin dall’adolescenza. Il re volle la Carta quale fondamento e cornice di un’era novella. Va ricordato che sin dal novembre 1847, quattro mesi prima della promulgazione dello Statuto, con regie patenti Carlo Alberto rese elettivi i consigli comunali, provinciali e divisionali: migliaia e migliaia di cittadini furono chiamati a  scegliere liberamente la classe dirigente locale. E questa divenne i vivaio dei futuri componenti della Camera del Regno di Sardegna e poi di quello d'Italia. 

  Il marzo 1848 annunciò la Nuova Italia fondata sull'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi qualunque sia la loro confessione religiosa e sulla adozione del “tricolore nazionale” in luogo della bandiera azzurra della, ma con lo scudo sabaudo nel bianco. Entrambi fondamenti dell'unità nazionale durarono un secolo, nella buona e nella cattiva sorte.

  Al centro di una storia segnata da tumulti, insurrezioni, rivoluzioni, guerre, tra “primavera dei popoli” e conflitti dinastici, Carlo Alberto consumò l'ultima stagione della sua parabola tra il marzo e il luglio 1849. A differenza di quanto solitamente si crede, la battaglia di Novara fu provò il valore dell’Armata sarda. I “piemontesi” inflissero agli asburgici perdite superiori a quelle subite, come documenta Piero Pieri nella Storia militare del Risorgimento. Però Carlo Alberto ebbe chiaro che il suo Regno aveva risorse materiali e militari del tutto inferiori rispetto all'Impero d'Austria. Esso contava però su una forza morale superiore: lo Statuto, che aveva aperto definitivamente la via verso l'unità e l'indipendenza. Per salvare la sua missione e consegnarla al futuro, doveva abdicare e offrirsi quale esempio supremo di sacrificio a cospetto dell’Europa sia dei sovrani sia dei movimenti “popolari” e dei travagli spirituali che da decenni animavano le pagine di Silvio Pellico e di Vincenzo Gioberti, dei Tapparelli d’Azeglio (Roberto, Massimo e il loro fratello gesuita, Luigi) e di Antonio Rosmini Serbati.

  Carlo Alberto lasciò in eredità al figlio Vittorio Emanuele II le grandi riforme avviate sin dall'ascesa al trono in ogni settore della vita pubblica e sociale: Consiglio di Stato, istruzione, promozione delle comunicazioni, fondamentali per lo sviluppo dell'economia, riassetto della burocrazia e delle Forze armate e promozione di istituti caritativi d'avanguardia. Attuò una immensa opera di ammodernamento senza clamori, anticipando il corso della storia.    

Rosmini filosofo, teologo e protagonista “politico”: fede e libertà

   Per quanto possa sconcertare, in tempi recenti sono comparsi profili dei Regni di Carlo Felice e di Carlo Alberto nei quali il nome di Rosmini neppure compare. Eppure il trentennio  di storia che lo ebbe protagonista tra il marzo 1821 e il 1849 non sono comprensibili se si smarriscono i suoi fondamenti religiosi e ideali e se ne trascurano le figure di riferimento. Tra queste  Antonio  Rosmini Serbati si staglia al di sopra di ogni altra.  Il discendente del principe Tomaso Francesco di Carignano lo sentì vicino, affine,  più dei molti e pur  importanti teologi e filosofi a lui coevi. 

   Anzitutto colpisce un dato apparentemente esterno ma suggestivo. Carlo Alberto fu il Savoia dei quattro re: nel corso della sua vita si susseguirono sul trono i tre fratelli, Carlo Emanuele IV, Vittorio Emanuele I e Carlo Felice, e poi, alla conclusine del suo ventennio di regno, tra il 1831 e il 1849, iniziò quello di suo figlio, Vittorio Emanuele II, che in un un decennio condusse il Piemonte dalla sconfitta alla proclamazione del regno d'Italia, nel marzo 1861. 

  A sua volta Rosmini fu l’ecclesiastico dei quattro papi: Pio VII,  il cui Panegirico egli pronunciò a Rovereto nel 1823  subito suscitando l’allarme dell’Austria;  Pio VIII,  che ne incoraggiò gli studi e la pubblicazione del Nuovo saggio sull’origine delle idee, pilastro portante del suo sistema filosofico e, conseguentemente, della sua concezione della società ; Gregorio XVI, che Rosmini conobbe e apprezzò, ricambiato, sin dal suo primo viaggio a Roma;  e infine Pio IX, che nel 1849 egli seguì nell’esilio da Roma a Gaeta e a Napoli con l’affetto filiale di chi nel Pontefice vide sempre il Vicario di Cristo. 

   Questa certezza è il caposaldo indispensabile per comprenderne ragione e fede, i sentimenti e la pienezza della forza argomentativa da Rosmini versata nel Trattato della coscienza morale, nella Filosofia del diritto e nel celebre saggio su Le cinque piaghe  della Santa Chiesa: opera che fece da spartiacque  nella sua operosa esistenza e per molti aspetti conserva una straordinaria attualità.

   Colpisce l’assonanza del suo itinerarium mentis in Deum con quello di Carlo Alberto. Mentre il principe di Carignano viveva nascostamente nel Castello di Racconigi attendendo il suo astro tra memorie e libri, dal nativo Trentino Rosmini si trasferì a Milano. Scelse di vivere presso  San Sepolcro, la chiesa che sin dal nome distintivo costituiva una lezione quotidiana. Da lì si sentì chiamato al Santo Calvario di Domodossola: uno spazio propizio alla meditazione.

   Come Carlo Alberto si sentì e rimase re, biblicamente responsabile nei confronti dei  sudditi, così concentrazione su filosofia e teologia Rosmini trasse forza per avviare opere di carità: rafforzate anche dal suo incontro con il cattolicesimo subalpino, in un’età segnata da fervide  iniziative, come ricordano le congregazioni religiose volute da Giuseppe Cottolengo, e da Giulietta Falletti di Barolo, nata Colbert (ma a questi pochi esempi molti altri potrebbero essere aggiunti).

   In Religione cattolica  e Stato nazionale dal Risorgimento al secondo dopoguerra lo storico Francesco Traniello ha richiamato l’attenzione sulla pastoralità dell’impegno dei cattolici soprattutto piemontesi di metà Ottocento, a cominciare da Vincenzo Gioberti, solitamente considerato un democratico “acceso” ma in realtà poco fiducioso nella spontanea bontà dell’uomo. Anche per Gioberti  la virtù  è frutto di conquista, autodisciplina, sacrificio.

  Altrettanto valeva per Carlo Alberto, che aveva senso drammatico della storia e del prezzo che il suo corso esige. Lo scrisse con “parole non caduche “ (la definizione è dello storico  Francesco Salata): “Peu de grands exemples ont sauvé milliers de personnes, ont raffermé la discipline dans l’armée et preservé nostre pays des scènes de désordres qui ont désolé et ensanglanté d’autres nations”. 

  Su quelle premesse, nella certezza che l’interlocutore sapesse cogliere l’animo di chi lo elesse a proprio tramite, Carlo Alberto inviò Antonio Rosmini a Pio IX, in veste di “messo straordinario”, per gettare le basi di un concordato tra il regno di Sardegna e il Sacro Soglio e verificare la fattibilità della ventilata confederazione degli Stati italiani con presidenza del Santo Padre. Rosmini era chiamato ad attuare il sogno dei cattolici liberali, per i quali l’unione degli italiani era nell’ appartenenza alla Chiesa, senza necessità di unificazione sotto una medesima corona. Le tragiche vicende della lotta politica in Roma spezzò sul nascere ogni speranza. L’assassinio di Pellegrino Rossi (15 novembre 1848) anziché mostrò il crudo volto del primato del del terrorismo politico, a tutto vantaggio di chi, come il cardinale Antonelli, era contrario a vere riforme dello Stato pontificio in direzione liberale e costituzionale.

  Chiusa ogni ipotesi di un governo da lui presieduto e del conferimento del cappello cardinalizio quale  meritato riconoscimento della sua opera teologica, filosofica e di organizzatore dell’Istituto della Carità, a Rosmini non rimase che tornare a Stresa: spettatore  dell’ultima dolente fase del regno di Carlo Alberto.

   Se ne deve concludere che egli sia stato uno “sconfitto”? In una visione di breve periodo ci si potrebbe o dovrebbe rassegnare ad ammetterlo. Ma in una osservazione storica di più ampio respiro va constatato che nell’ultimo lustro di vita Rosmini rimase il punto di riferimento carismatico per Alessandro Manzoni, Niccolo Tommaseo e per uno stuolo di cattolici come lui convinti della conciliabilità tra fede e liberalismo. Tra i molti basti ricordare il grande Cesare Balbo, autore delle Meditazioni storiche in cui riprese e approfondì le Speranze d’Italia, e Massimo d’Azeglio.

    Padre Atanasio Canata, autore del Canto nazionale e docente nel collegio scolopico di Carcare,  a metà del “decennio  di preparazione” dominato da Camillo Cavour,  osservò che fra il 1853 e il 1855 morirono decine e decine di cattolici-liberali di grande autorevolezza: Cesare Balbo, Silvio Pellico, Antonio Rosmini appunto e molti molti ancora, quasi un’epoca si stesse chiudendo e le loro vite risultassero superflue. Così non fu. Infatti  le loro opere, gli scritti e gli esempi di vita, continuarono ad alimentare il dialogo tra l’Italia nascente e la Chiesa, tra il pensiero cattolico e quello di liberali che, va osservato, non furono mai irreligiosi né meno ancora anticristiani.  

   Risulta significativo che nessuno abbia mai proposto di abolire o modificare l’articolo 1 dello Statuto e che dal canto suo nei momenti fondamentali, soprattutto nelle ore più difficili, la Chiesa di Roma non abbia mai fatto mancare il sostegno diretto e netto al giovane regno d’Italia: a conferma del magistero morale e culturale dei due giganti solitari, Carlo Alberto e  Rosmini.

   In tale contesto va infine ricordata la proposta  avanzata dal re di Sardegna all’illustre filosofo di traslare le salme dei Principi sabaudi da Superga alla Sacra di San Michele: sperone erto a vegliare sull’integrità del regno proprio nella valle che ne aveva veduto gli albori quasi un  millennio prima.

  Antonio Rosmini fu il pensatore di riferimento  di altri quattro papi: Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. Se papa Leone XIII nel 1887 aveva condannato all'Indice quaranta sue “proposizioni”, sin dal Concilio ecumenico vaticano II, su impulso di monsignor Luigi Bettazzi, iniziò la sua riscoperta a valorizzazione, coronata con la beatificazione pronunciata da papa Benedetto XVI e celebrata a Novara il 18 novembre 2007. La Chiesa ha riconosciuto le sue virtù eroiche. 

   Vi è motivo di sperare che  in una visione matura del cammino umano altrettanto faccia la storiografia con la figura e l'opera di Re Carlo Alberto: non “italo Amleto”, né “Re tentenna” ma profeta della Nuova Italia, capace di conciliare fede e libertà, storia nazional e missione universale come prospettato dal pensiero di Antonio Rosmini.      

Maria Gabriella  di Savoia


ROSMINI E L'ITALIA
Antonio Rosmini  Serbati (Rovereto, 1797-Stresa, 1855) fu il massimo filosofo italiano dell'Ottocento e teologo di fiducia di quattro papi. La sua opera “Le cinque piaghe della Santa Chiesa” (scritta nel 1832 e pubblicata nel 1848), più che mai attuale, finì subito nell'Indice dei libri proibiti. Nel 1887 papa Leone XIII condannò altre sue quaranta “proposizioni”. Ma erano i tempi dell'Italia divisa in due dalla questione romana. Rosmini, pensatore di vasta apertura, ammirato da Alessandro Manzoni, Niccolò Tommaseo e dalla schiera di cattolici liberali del suo tempo, nella seconda metà del Novecento fu caro ad altri quattro pontefici, da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II. Il 18 novembre 2007 venne celebrata a Novara la sua beatificazione, decretata da Benedetto XVI.  
   La sua fattiva influenza sul pensiero e sugli istituti di Carità è proposta all'attenzione dal I Simposio organizzato dal Centro internazionale di studi rosminiani aperto ieri al Palazzo dei Congressi di Stresa e in corso sino a venerdì con interventi, tra altri di Ernesto Galli della Loggia, Federica La Manna, Vittorio Sgarbi, Ettore Gotti Tedeschi, Alberto Mingardi, Giovanni Maria Vian e on. Daniela Ruffino. Alle 15 di oggi la Principessa Maria Gabriella di Savoia illustra i rapporti Rosmini e Casa Savoia. Carlo Alberto di Sardegna, il Re dello Statuto, nell'autunno del 1848 gli affidò una delicata missione per ottenere il sostegno di Pio IX alla sua impresa: dare agli italiani indipendenza e unità. Si parlerà anche di carboneria, massoneria e società segrete.
    Il Simposio è iniziato con la presentazione degli “Scritti autobiografici. Diari” di Rosmini in edizione nazionale: opera poderosa curata da padre Ludovico Maria Gadaleta, con suor Benedetta Lisci punto di riferimento costante degli studi rosminiani.  
Aldo A. Mola






ALLA SCOPERTA DELL'ITALIA -PAESE D'EUROPA



Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 20 agosto 2023 pagg. 1 e 6.

Didascalia
Imperversano due “giochi di società” spacciati per alta politica: narrare fatti e misfatti di albergatori e ristoratori, delusioni e soddisfazioni di vacanzieri alle prese con il conto dell'oste e il caro-benzina. Di rado si sente parlare di quel che si è visto e memorizzato. Perché è stato tutto fotografato, ma non osservato, intravisto ma non contemplato, archiviato per riflessioni che non troveranno posto nelle giornate ordinarie come non ne hanno avuta nella breve pausa dalla quotidianità. Forse il concetto di “vacanza” appartiene al passato remoto: quando era l'agognata sosta dal lavoro. Era raccoglimento. Ora sta divenendo l'opposto: frenesia di massificazione.Perciò accade che a ri-scoprire e a ri-velare lo straordinario patrimonio di civiltà dei popoli d'Italia siano soprattutto gli stranieri che vi si affacciano da terre sempre più remote. Sono attratti dal mistero di un Paese i cui abitanti per millenni hanno pietrificato idee proprie e assimilato le altrui, sopravvivendo a secoli di invasioni, dominazioni e forzata decadenza , salvo riprendersi con i lenti ritmi intuiti da Giambattista Vico: corsi e ricorsi...   I milioni di persone che anche quest'anno animano il Bel Paese rendono omaggio, forse inconsapevole, all'Ente Nazionale per l'Incremento delle Industrie Turistiche, poi ENIT, fondato dallo Stato poco più di un secolo addietro: una delle tante intuizioni dell'Italia uscita dalla Grande Guerra, bisognosa di pacificazione degli animi e intreccio dell'“ora et labora”, come insegnano non solo gli Ordini monastici, da sempre filo conduttore dell'Europa, ma anzitutto l'“Ecclesiaste”.   La promozione del turismo non è un'invenzione dell'altro ieri, meno ancora del “regime” e del Dopolavoro fascista. La sua organizzazione da parte dei pubblici poteri nacque all'indomani della Grande Guerra, mentre ancora incombevano le conseguenze demografiche e sociali della “febbre spagnola”, che si abbatté sull'Europa, mieté vittime e se ne andò prima che se ne capisse l'origine per combatterla con mezzi efficaci.   All'origine il turismo promosso dallo Stato mirò a conciliare grandi numeri e riservatezza. La balneazione alternava ampie spiagge e calette; l'ascesa alle vette faceva tappa nei rifugi già frequentati dalla Regina Margherita. A ognuno per il gusto suo. Era l'Italia di Sidney Sonnino, il misantropo ministro degli Esteri che studiava Dante Alighieri nel solitario Romito affacciato a picco sul Tirreno e spazzato dai venti. Ed era quella di Vittorio Emanuele III, il Re che a Roma viveva appartato a Villa Savoia e al Quirinale si recava come si va in ufficio: per studiare e firmare leggi e decreti e per “incontri di lavoro” con capi di stato, di governo e di partiti; ma appena possibile si rifugiava a San Rossore e amava la quiete assoluta della spiaggia di Gombo e dell'isola di Montecristo.   Già all'epoca andavano di gran moda i borghi selvaggi e solatii. Dalle scuole elementari gli italiani avevano appreso ad amarli da “L'ora di Barga” di Giovanni Pascoli, inno alla solitudine, all'abbraccio con i ricordi, con la natura, ed esortazione alla Grande Visitatrice a non avere fretta. Era un mondo che amava il riserbo e non ostentava né i malanni né la “morte”. Ne aveva vista anche troppa con i quindici milioni di vite annientate dalla Grande Guerra, che nessuno aveva voluto ma nessuno aveva saputo predire né impedire: come quella ora in corso sul “fronte orientale”, scintilla di chissà quali devastanti incendi se non la si ferma in tempo.   Quella era l'Italia dei “buoni sentimenti” che negli Anni Settanta-Ottanta del Novecento furono sguaiatamente irrisi da chi li liquidò come sfizio borghese. Eppure da lì, se mai ce la farà, potrebbe ripartire l'Italia di domani. Potrà tornare a immergersi nel piccolo mondo antico, riscoprire le “buone cose di pessimo gusto” (care a Guido Gozzano): la miriade di borgate, villaggi, rive di fiumi e torrenti miracolosamente scampati al miope sfruttamento da parte di chi prima o poi dovrà pur fare i conti con la propria ingordigia, ignara di “scienza della politica”.   Da sempre gli italiani avevano sotto gli occhi il proprio Paese, ma forse la sua immagine era offuscata dalla fretta quotidiana, sbiadita nei ricordi di un'infanzia cancellata nella corsa collettiva a un futuro senza meta: il cosiddetto “progresso”. Il cui drammatico limite è l'opposto di quanto si creda. Non è veramente progressista perché non ha basi scientifiche; è frutto di improvvisazione, anziché di progettazione e di “piani”, che vanno approntati e approvati anziché rinviati in nome di un liberismo/liberistico senza capo né coda, come quello oggi dilagante, impossibile nello Stato moderno.   Oggi, dunque, dopo anni di normative stressanti tanti italiani che per decenni le avevano anteposto lidi remoti, raggiunti con viaggi faticosi e infine deludenti (stessa spiaggia, stesso mare...), ripetono con Vincenzo Monti: “Bella Italia, amate sponde/ pur vi torno a riveder./ Trema in petto e si confonde/ l'alma oppressa dal piacer”. “Gran traduttor dei traduttor d'Omero” (come lo bollò malignamente Ugo Foscolo), il politicamente versipelle Monti (pontificio, liberaloide, francofilo, poi allineato con il ritorno di Astrea, cioè del dominio asburgico sul Lombardo-Veneto) rientrava in Italia al seguito di Napoleone Bonaparte da un breve esilio a Parigi. La sua “contemplazione dell'Italia” andava comunque al di là delle ideologie.   La “dottrina Monti” sull'impareggiabile bellezza dell'Italia fu condivisa da Alessandro Manzoni, che nei “Promessi sposi” cesellò cammei raffinatissimi (come “Addio monti, cime ineguali...”), poi “mandati a memoria” da generazioni di studenti; e da Giacomo Leopardi, che blindò le sue emozioni nella corazza di versi glaciali, come “Vaghe stelle dell'Orsa...”, esempio per il Savio che non si concede il lusso di “sentimenti” perché sa che “sunt lacrimae rerum”.A codificare l'immagine dell'Italia non fu un illuminista ma don Antonio Stoppani (Lecco, 1824-Milano, 1891), partecipe da seminarista alle Cinque Giornate di Milano, ammiratore di Manzoni e del teologo Vincenzo Gioberti, autore di opere di fama europea su paleontologia e glaciologia. Tra i fondatori dell'Istituto geologico del regno, don Stoppani concorse alla redazione della carta geologica dell'Italia, importante anche per la vulcanologia e lo studio dei terremoti. Primo presidente del Club Alpino Italiano, promosso da Quintino Sella, a sua volta uomo dal multiforme ingegno, nel 1875 pubblicò Il Bel Paese, dalla subito vasta fortuna. Lasciate tra parentesi le dispute pro e contro il potere temporale dei papi, le gare tra i partiti dell'epoca (clan regionali e clientele di notabili), don Stoppani cantò le bellezze dell'Italia e incitò ad averne cura. Ognuno doveva fare la propria parte quando la rete ferroviaria era appena albeggiante rispetto a quella dei Paesi molto più industrializzati e i viaggi si facevano su birocci, a cavallo o “pedibus calcantibus”.   Ai tempi di don Stoppani l'Italia contava quasi trentamila parroci e circa centomila “religiosi”. Se tra questi ci fossero stati due-tremila don Stoppani, “a viso aperto e sorridente” come lui, il Paese avrebbe fatto un balzo in avanti di cent'anni. Non avrebbe avuto alcun bisogno del Sessantotto per capire che una cosa sono i costumi, un'altra le “credenze” e una terza è la “fede”; e che le virtù non si misurano dai centimetri dei pantaloni e delle gonne.L'Italia delle cento città del fratello StrafforelloQuella era l'Italia delle cento città, descritta provincia per provincia, un circondario dopo l'altro, comune per comune da Gustavo Strafforello (Porto Maurizio, 1820-1903), massone, poligrafo, traduttore del famoso Self-Help di Samuel Siles col fortunato titolo “Chi si aiuta, il Ciel lo aiuta”: manuale psico-sociale di grande successo in un'epoca che vide trionfare la scuola e le forze armate quali ascensori sociali, sull'esempio di quanto nei secoli aveva fatto la Chiesa cattolica al cui vertice si susseguirono non solo esponenti di famiglie potenti (dai Della Rovere ai de Medici...) ma anche popolani come i santi Celestino V e Pio V, nato a Bosco Marengo.   La Patria descritta da Strafforello in dispense da 60 centesimi l'una fece conoscere a una miriade di lettori geografia, attualità economica e imprenditoriale, storia e paesaggi, con tanto di carte geo-storiche, piante topografiche delle città, ritratti di personaggi famosi, monumenti e vedute di ogni terra d'Italia. Un vero e proprio capolavoro che divulgò la conoscenza del Bel Paese e implicitamente invitò a esplorarlo “de visu” dopo averlo conosciuto per scritto e da nitide incisioni, o magari sfogliando le sontuose pagine dell'“Illustrazione Italiana”.Checché qualcuno dica, gli italiani, come gli spagnoli, gli inglesi e via continuando, non sono mai stati una “nazione” ma furono e sono crogiolo di popoli. La “nazione” è un'invenzione regressiva della Rivoluzione francese: quella della Convenzione repubblicana, che partorì il culto dell'Ente Supremo e il Terrore. Da Universale retrocesse a franco-centrica. Imbalsamò gli ideali dell'Ottantanove.   Con plaghe (e piaghe) di arretratezza e sottosviluppo documentate dai censimenti decennali, dopo la “nascita” nel 1861 l'Italia fu spesso indotta e/o costretta a fare il passo più lungo della gamba. Dopo aver immaginato di accaparrarsi la Nuova Guinea per farne una “colonia penale” sul pessimo esempio della francese Nuova Caledonia, andò alla conquista di un lembo di Mar Rosso e della remotissima Somalia e mirò a imporsi sull'impero d'Etiopia quando milioni di suoi abitanti migravano all'estero in cerca di lavoro: prima i liguri e i piemontesi, poi dal Veneto e dal Mezzogiorno... La “colonizzazione interna” consigliata a Francesco Crispi dal suo fraterno sodale Adriano Lemmi rimase un miraggio.   A insegnare le vie d'Italia erano poeti come Giosue Carducci che, già docente all'Università di Bologna, per visitarla si faceva nominare commissario a esami di maturità e vagava dall'una all'altra regione con pochi quattrini (glieli centellinava la scorbutica moglie) e con sommari di storia e geografia dai quali traeva alimento per odi famosissime come “Piemonte” e “Cadore”.   Dopo l'assassinio di Umberto I a Monza il 29 luglio 1900 (il suo anniversario passa sempre nell'indifferenza dei “media”, dimentichi che fu il secondo Capo dello Stato d'Italia) decollarono le associazioni per la promozione della coscienza unitaria. Nel 1894 a Milano, città sempre all'avanguardia, era stato fondato il Touring Club Italiano, seguito dal Regio Automobile Club Italiano (RACI) e via via dal Moto Club d’Italia e dall’Aereo Club d'Italia. Come già il CAI, anche i nuovi sodalizi ebbero nomi anglicizzanti. L'Italia della Belle Epoque, orgogliosa della propria identità, che affondava radici in millenni di civiltà latina, era europea, non temeva di utilizzare l'inglese Club, anziché Società o Associazione, così come denominava “meeting” gli incontri politici, che non dovevano degenerare in piazzate di minoranze facinorose ma fungere da confronto tra opinioni, affermazione di princìpi più convincenti se proposti in forma “civile” (che viene da “civis”, non da “plebs”).   La svolta decisiva per la riscoperta dell'Italia da parte dei suoi cittadini venne all'indomani della Grande Guerra, come documenta Ester Capuzzo in“Italiani. Visitate l'Italia. Politiche e dinamiche turistiche in Italia tra le due guerre mondiali” (ed. Luni), pubblicata nel centenario della fondazione dell'Ente Nazionale per l'Incremento delle Industrie Turistiche, l'ENIT. Basato su ampia ricerca archivistica e sulla scia degli eccellenti saggi di Annunziata Berrino, Eliana Perotti e Stefano Pivato, il volume di Capuzzo ha il pregio di non marchiare come “fascista” tutto quanto avvenne tra le due guerre, come invece fa chi ritiene che fra il 1922 e il 1943 l'Italia fu totalmente oppressa e compressa da un regime feroce e ottuso. La realtà è diversa. La promozione del turismo “di massa” in Italia, indubbiamente favorito e potenziato dal caleidoscopico “fascismo”, prese piede sull'esempio di quanto avveniva all'estero, sia in Stati retti da democrazie parlamentari quali Francia e Gran Bretagna sia nella Spagna di Alfonso XIII di Borbone, che prese a modello l'Italia di Vittorio Emanuele III.   Capuzzo documenta che il governo di Mussolini non inventò granché. Mise a buon frutto l'opera avviata da Luigi Luzzatti e soprattutto dal poliedrico Maggiorino Ferraris, deputato, senatore, proprietario della “Nuova Antologia”. Conterraneo di Giuseppe Saracco (non citato nel libro), promotore del lancio delle Terme della sua Acqui, dal 1902 Ferraris varò l'Associazione per il movimento dei forestieri, corroborata da politici come Luigi Rava e Pietro Lanza di Scalea, aperti alla libera circolazione di uomini e di idee. Negli stessi anni Orazio Raimondo gettò le basi delle fortune dell'estremo Ponente ligure, come narrato da Marzia Taruffi in “Uno cento mille Casinò di Sanremo. 1905-201” (ed. De Ferrari). Il volume ricorda anche il ruolo strategico degli Enti Provinciali per il Turismo, promossi da Fulvio Suvich, affiliato alla loggia “Propaganda massonica”. Per buona sorte gli EPT non vennero smantellati dopo il crollo del regime. Come altri enti parastatali (quali l'INPS) essi funsero anzi da volano della Ricostruzione.   Oggi dunque ri-scopriamo la Grande Italia. Ma va fatto nell'ottica della Grande Europa e in una visione planetaria dei problemi nostrani, senza chiusure italocentriche. Il protezionismo non paga mai. Alza steccati, impoverisce la circolazione delle idee e anche quella degli uomini, che ha fatto le fortune di tutte le grandi civiltà, a cominciare da quella greco-romana, per molti versi insuperata radice dell'Italia odierna.

 
Aldo A. Mola
L'estate è propizia per fare un passo avanti nella conoscenza della storia. È quanto annualmente propone il Concerto di Ferragosto dell'orchestra cuneese intitolata al violinista e compositore Antonio Bartolomeo Bruni (1751-1821). Il musicista e musicologo Giovanni Mosca ne ricordò figura e opere in “CN, Provincia Granda” curato da Luigi Botta e Franco Collidà (ed. Grandapress). Allievo di Gaetano Pugnani, migrato in Francia, che già all'epoca offriva spazi più ampi agli italiani di talento, già entusiasta degli ideali dell'Ottantanove nell'età napoleonica Bruni ascese a direttore d'orchestra dell'Opéra Comique e dell'Opéra Bouffe. Autore di inni alla Libertà e di commedie in musica di durevole successo, deluso dalla Restaurazione di Luigi XVIII nel 1816 si rifugiò nella villa “La Magnina”. Da lì contemplava la nativa Città dei Sette assedi, coscio che al mondo tutto passa e quasi orma non lascia. Lo aveva bene appreso quando si fece iniziare massone a Parigi e, come si legge nella “Storia di Cuneo, 1700-2000” (ed. L'Artistica, Savigliano, 2002), lo confermò in precedenti incursioni a Cuneo, ove, già col grado di “compagno”, venne solennemente ricevuto nella loggia “Heureuse Union” di Cuneo, che aveva membri onorari due generali e fratelli effettivi decine di alti ufficiali, sindaci, funzionari, il pittore Louis Pellegrino, il quartier mastro della Gendarmeria e, appunto, il “professeur de musique” Barthélémy Bruni. Essi si aggiunsero a Carlo Falletti di Villafalletto e a Charles Jubé, comandante del 53° squadrone di gendarmeria, acquartierato a Torino, fondatori dei “Maçons Réunis” di Cuneo, già iniziati alla “Réunion” di Savigliano, forte di oltre 150 affiliati, notabili italo-francesi del Dipartimento della Stura, crocevia d'Europa incorporato come tutto il Piemonte e la Liguria nell'Impero napoleonico. Nel 1810 Bartolomeo Bruni venne affiliato anche alla “Parfaite Union” di Cuneo, ove sedette “tra le colonne” in compagnia di due sacerdoti, Jean Fea, nativo di Peveragno, e di André Dho, del tutto indifferenti alla “scomunica”. Parenti di Napoleone e maggiorenti dell'impero erano notoriamente massoni.   Quegli anni convulsi furono anche segnati dal fervore delle arti e dall'avvento dell'Uomo Nuovo, fondato sul “Codice Napoleone”, su piani regolatori per liberare la vita cittadina dalle soffocanti e ormai inutili mura, sulla pubblica istruzione e sull'illusione che ogni nuova guerra sarebbe stata l'ultima e ne sarebbe scaturita la pace perpetua non solo tra i popoli ma anche tra l'Uomo e la Natura, un piede nel neopaganesimo, un altro nelle Scienze.   La storia continuò a strappi e a zig-zag, come in passato. Fu comunque l'epoca in cui i Grands Tours da privilegio dell'aristocrazia divennero comuni per uno stuolo di militari, burocrati, artisti e docenti che, tra logge e altre società segrete, cercavano di leggere il futuro rovistando nel passato. Segnarono una svolta positiva nella civiltà di un'Italia sempre più europea e universale, come, libera dal gravame del potere temporale, dopo il 1870 tornò a essere la Chiesa di Roma.
IL FRATELLO BARTOLOMEO BRUNI


 
A.A.M.

 GOVERNO LIBERALE?
AMMINISTRARE BENE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 6 agosto 2023 pagg. 1 e 6.

Didascalia

Elogio del Presidente Mattarella 

In visita a Torino il 2 agosto 2023 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha elogiato il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, esponente di Forza Italia, e il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, militante del Partito democratico, perché collaborano nella ricerca del “bene comune”. Si consultano, concertano e convergono sulle “cose da fare”. Il Presidente ha così riesumato il buon tempo antico, la civiltà del “Vecchio Piemonte”, che prese sulle spalle la missione di “fare l'Italia” e costruire lo Stato e la pubblica amministrazione. Ha proposto l'attualità del liberalismo classico italiano da Camillo Cavour e Urbano Rattazzi, da  Giovanni Lanza e Quintino Sella, sino  a Luigi Einaudi, monarchico e liberale, primo presidente effettivo della Repubblica.

   L'elogio della collaborazione tra amministratori pubblici dalle pur diverse “tessere di partito”, che non sono steccati invalicabili, è anche implicito invito a tutti gli “uomini di buona volontà” a seguire l'esempio di Cirio e Lo Russo, “rimboccarsi le maniche e” e “mettersi alla stanga”. Ma già Giovanni Paolo II aveva esortato i “romani de Roma”: “volemose bene, damose da fa”. Con i rimi attuali la Capitale sarà sicuramente in grado di dissipare immense risorse, non di accogliere il primo Giubileo del Terzo Millennio... Nell'esercizio della missione presidenziale (di cui molto ha scritto Tito Lucrezio Rizzo in “Parla il Capo dello Stato”, ed. Herald) il Presidente Mattarella ha supplito al silenzio di chi dovrebbe fare ogni giorno altrettanto: il presidente del Consiglio, che, capo dell'Esecutivo, deve porsi al di sopra dei partiti (compreso il suo e l'ondeggiante maggioranza che la sostiene), pensare meno ai voti (che, come foglie frali, vanno e vengono sospinti da venti sempre più umorali) e molto di più ad amministrare la “res publica”.

La missione di Vittorio Emanuele III 

In età monarchica il Capo dello Stato, figura ieratica, si rivolgeva agli italiani con l'esempio personale,  con Proclami e con i Discorsi della Corona pronunciati a ogni inizio di legislatura. Erano poi i presidenti del Consiglio a farsene interpreti all'insediamento del governo, con la richiesta di fiducia sul programma. Asceso al trono all'assassinio del padre Umberto I (29 luglio 1900), come previsto dall'articolo 22 dello Statuto, circondato dalla Corte e in presenza del governo e dei due rami del Parlamento, l'11 agosto 1900 Vittorio Emanuele III giurò fedeltà alla Carta albertina e pronunciò poche lapidarie parole, che meritano di essere rilette e meditate per coglierne i propositi. «Il mio primo pensiero – egli scandì – è pel mio popolo ed è pensiero di amore e di gratitudine. Quando un popolo ha scritto nel libro della storia una pagina come quella del nostro Risorgimento, ha diritto di tenere alta la fronte e di mirare alle più grandi idealità. Ed è a fronte alta che mi consacro al mio Paese. A noi bisogna la pace interna e la concordia di tutti gli uomini di buon volere per isvolgere le nostre forze intellettuali e le nostre energie economiche. Educhiamo le nostre generazioni al culto della patria, all'onestà operosa, al sentimento dell'onore, a cui si ispirano con tanto slancio il nostro esercito e la nostra armata, che vengono dal popolo e sono pegno di fratellanza che congiunge nell'unità e nell'amore della patria tutta intera la famiglia italiana. Impavido e sicuro ascendo al trono colla coscienza dei miei diritti e dovere di re. L'Italia abbia fede in me come io ho fede nei destini della patria e forza umana non varrà a distruggere ciò che i nostri padri hanno con tanta abnegazione edificato. È necessario vigilare e spiegare tutte le forze vive, per conservare intatte le grandi conquiste della Unità e della Libertà…».

   Chi si attendeva una svolta autoritaria in risposta al regicidio rimase profondamente deluso. Re scrupolosamente costituzionale, Vittorio Emanuele III enunciò non solo il programma del suo regno ma la “missione dell'Italia” osservata in quei mesi drammatici da studiosi stranieri come Giacomo Novikov, Bolton King e Thomas Okay. Il Re ne era depositario e custode. Toccava ai governi attuarla, con il consenso delle Camere: una, il Senato, di nomina regia; l'altra eletta da un corpo elettorale che nel primo dodicennio dell'età vittorioemanuelina balzò da 3 a 8 milioni di cittadini: tutti i maschi maggiorenni, anche se analfabeti.

   Ministro dell'Interno dal febbraio 1901 e quattro volte presidente del Consiglio fra il novembre 1903 e il marzo 1914 in alternanza ad altri tre politici di vasta preparazione ed esperienza (Alessandro Fortis, ex repubblicano; Sidney Sonnino, di famiglia israelitica, come Luigi Luzzatti: due massoni su tre; Sonnino era anche dantista con inclinazioni esoteriche) il migliore interprete del pensiero e del metodo del Re fu il piemontese Giovanni Giolitti (1842-1928).  Deputato dal 1882, già una volta presidente dell'esecutivo (1892-1893), questi non sentì mai bisogno di costituire o di avere il sostegno di un “partito liberale”. Semmai si premurò di ottenere quello di radicali e socialisti (con o senza il viatico dei rispettivi partiti) e di cattolici che non avevano alle spalle un partito di riferimento ma, dopo il regicidio, con il consenso di Papa Pio X, accettarono di essere eletti alla Camera in convergenza con i liberali e votarono persino candidati massoni per scongiurare il successo di esponenti dell'estremismo anti-sistema. Anche per molti cattolici lo Stato sorto dal Risorgimento divenne patrimonio comune irrinunciabile.

Amministratori e politici: una “riunione di amici”

Giolitti stesso enunciò i capisaldi del “metodo liberale”, implicitamente elogiato dal Presidente Mattarella nella breve presenza in Augusta Taurinorum, cuore del Vecchio Piemonte.

   Per comprendere la sua concezione della “politica”, dell'esercizio del mandato parlamentare e la sua coerenza di monarchico e liberale al servizio dello Stato nelle Aule parlamentari e nell'amministrazione locale in continuità con gli uffici di pubblico impiegato ai ministeri di Grazia e Giustizia e delle Finanze, giova passare in rassegna i pochi discorsi da lui pronunciati al di fuori delle Camere dal 1886 al 1899. Non sono raccolti i suoi interventi nel consiglio di Rivoli Torinese (di cui fu componente e che lo ritrasse in un “medaglione”) mentre sono pubblicati quelli pronunciati nel Consiglio provinciale di Cuneo di cui fu componente dal 1886 al 1925. Quasi tutti furono raccolti in volume da Nino Valeri (Giolitti, Discorsi extraparlamentari, Einaudi, 1952).

   Dal 1882 al giugno 1900 Giolitti presentò via via il suo programma tramite i giornali o con discorsi in “banchetti elettorali”. Tornato ministro dell’Interno nel governo presieduto da Giuseppe Zanardelli (14 febbraio 1901), sospese quella forma di dialogo, che pur andava oltre i confini del collegio, quasi non avesse altro da aggiungere al discorso di Busca del 29 ottobre 1899, il più magistrale dai tempi di Camillo Cavour a giudizio di Urbano Rattazzi jr, che gliene aveva suggerito parola per parola le frasi principali.

   Lasciata il 16 marzo 1905 a Tittoni (poi sostituito da Sandrino Fortis) la guida del governo, per motivi di salute molto più gravi di quanto confidò al re e ricordò nelle Memorie, il 14 agosto Giolitti fu eletto presidente del Consiglio provinciale di Cuneo. In tale veste espose la sua visione di “buona amministrazione”: «Il nostro consesso – disse – non è che una riunione di amici che si stimano e si amano, animati dal solo intento di procurare il bene degli amministrati, non divisi da dissensi di natura politica, poiché tutti sono devoti alle patrie istituzioni; e, se qualche volta vi è lotta, ciò dipende unicamente dal fatto che ognuno vede le cose dal proprio punto di vista». Da quel seggio rese omaggi non rituali al re (13 agosto 1906, 10 agosto 1908, 14 agosto 1911, 14 novembre 1912, 12 novembre 1913).

   Uso a rivolgersi al Paese nei discorsi elettorali o in Parlamento, quando non era al governo e soggiornava in Piemonte senza l’opportunità di sedute del consesso provinciale cuneese, rarissime volte lo statista parlò in sedi non istituzionali. Il 2 ottobre 1910 pronunciò poche ma eloquenti parole all’inaugurazione della nuova sede della Cassa di Risparmio di Cuneo. Mentre a Roma, da lui propiziato e assecondato, era sindaco il mazziniano Ernesto Nathan, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia, e alla guida di comuni e province si moltiplicavano i “blocchi popolari” formati da liberali progressisti, radicali e socialriformisti (non di rado anche in Piemonte promossi da reti massoniche), nel silenzio “ossequioso e ammirante” dei presenti Giolitti scandì che la Cassa di Risparmio (sorta per impulso di massoni famosi, come il protomedico Luigi Parola, sindaco di Cuneo, deputato, venerabile della loggia “Roma”) era il punto di convergenza e di collaborazione “delle idee clericali e socialiste, moderate e radicali”. «La questione sociale, aggiunse, noi la risolviamo elevando le classi più umili a livello di quelle più ricche».

   Pochi giorni prima era stato ricevuto segretamente da Vittorio Emanuele III nel Castello di Racconigi. Si avvicinavano le celebrazioni del cinquantesimo del regno. Urgeva un cambio al vertice del governo. Da Cuneo Giolitti fece sapere di non avere alcuna avversione nei confronti di chi aveva veduto in Luigi Luzzatti l’argine laico contro l’avanzata dei cattolici deputati. Al tempo stesso, però, non coltivava alcun altro pregiudizio: «Ognuno valga per ciò che sa e per il lavoro che compie». Le ideologie appartenevano al passato remoto, anche perché premevano impegni che nessuno dei presenti immaginava, a cominciare dall’impresa di Libia. Non solo Marx era stato mandato in soffitta (o così gli pareva o sperava). La constatazione della conseguita “pace sociale” era premessa indispensabile per affrontare nuove severe prove, giacché, avrebbe detto dopo il suo avvio, «nessuna guerra moderna può svolgersi senza la decisa volontà del popolo che la fa»: criterio che lo condusse a scuotere il capo dinnanzi all’interventismo del 1914-1915, lontano dal “Paese che lavora”. Per lui le guerre dovevano essere solo “difensive” o “di liberazione”, come quella per l'indispensabile “quarta sponda” e la liberazione di Rodi e del Dodecanneso dal secolare dominio turco, sulla scia di Mazzini e di Giuseppe Garibaldi, che nelle “Memorie” piegò la missione civile dell'Italia sull'Africa settentrionale, di concerto con Londra.

   Anche da sedi periferiche lo statista mandò messaggi cifrati, attesi dal Re che il 30 marzo 1911, dopo il cinquantenario della proclamazione di Roma a capitale d’Italia (una data ancora disputata, lasciata celebrare a Luzzatti) gli affidò per la quarta volta il governo del Paese.

   All’inaugurazione della prima Camera eletta col suffragio quasi universale maschile (1913), dopo  circa tre lustri di governo Giolitti non venne affatto scosso da chi, come il socialista e massone Giuseppe Raimondo, ne annunciava il tramonto o, come Arturo Labriola (futuro ministro del Lavoro nel suo V governo, 1920-1921), sentenziava che vi era «da una parte un’Italia rivoluzionaria nazionalista e dall’altra un’Italia socialista, ma non c’e[ra] più un’Italia giolittiana». Lo statista sapeva bene che vi era la cattolica, maggioritaria nel Paese, e che solo il cosiddetto “patto Gentiloni”, approdo della linea avviata con la sospensione mirata del non expedit da parte di Pio X sin dal 1904 (come chiarito da Gianpaolo Romanato nella biografia del pontefice), aveva scongiurato divenisse più clericale di quanto, per contrapposti motivi, molti volevano. A quel punto, infatti, Giolitti poteva considerare in gran parte attuato il programma enunciato il 21 settembre 1900 in risposta a quello avanzato da Sidney Sonnino (Quid agendum) all’indomani del regicidio di Monza (“il più atroce dei delitti”, lo definì Giolitti stesso). Conscio che l’Italia aveva necessità di riforme profonde nell’amministrazione della giustizia, nel sistema scolastico e nei rapporti tra capitale e lavoro, lo statista cuneese affermò che queste andavano varate subito ma avrebbero dato frutti solo sul lungo periodo. Però per evitare che «il partito monarchico divent(asse) in molta parte d’Italia una minoranza» occorrevano misure immediate e incisive.

   I fasci siciliani, i moti di Lunigiana del 1894 e la vasta sommossa/insurrezione del 1898 avevano indicato la via maestra: il riordino completo della fiscalità per scongiurare il declino della piccola proprietà, che costituiva «la più valida difesa dell’ordine sociale». Le classi dirigenti, affermò Giolitti, dovevano persuadersi che «senza qualche sacrificio esse non possono sperare durevole quella pace sociale senza cui non vi è sicurezza né per le persone né per gli averi». Ai “conservatori” (che sono l'opposto dei “liberali”, per definizione e vocazione “innovatori”) lo statista lanciò un monito severo, quasi una provocazione: «Io deploro quanto altri mai la lotta di classe; ma, siamo giusti, chi l’ha iniziata?».

   

    Toccava appunto ai liberali cogliere lo spirare dei venti e promuovere le riforme: unico metodo per garantire lunga vita alle Istituzioni. Lo statista piemontese, bene orientato dal Re, si impegnò a fondo nella realizzazione di quel compito storico. Perciò la sua figura e il suo nome non potranno mai essere “confiscati” dai reazionari, suoi implacabili avversari.  

Aldo A. Mola 

DIDASCALIA : Giovanni Giolitti (1842-1928), nel 1913 ritratto da Antonio Piatti (2875-1962) per il Comune di Cuneo, di cui lo statista fu proclamato cittadino onorario. 

   Il dipinto dominò a lungo la sala del Consiglio comunale, dal quale fu poi rimosso. Nel centenario della estromissione di Giolitti dal Consiglio provinciale di Cuneo (1925, per volere del liberticida Mussolini) bene sarebbe riportarlo al suo posto.





STORIA SENZA RETE? Corsi e ricorsi della Civiltà

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 2 luglio 2023 pagg. 1 e 6.


Gli Astri? Pollice verso.
   Come finirà? Niente ispira e/o legittima ottimismo. L'unica certezza, anzi, è che si va di male in peggio. La Storia presenta il conto dei debiti non saldati. Lasciato alle spalle l'equilibrio del terrore (sempre meglio che la catastrofe), da quando sulla scena delle massime potenze Henry Kissinger inserì la Cina, il Mondo non si è affatto avviato al multilateralismo. Ma quel Segretario di Stato era un euro-americano. Prima di entrare nelle moschee, si levava le scarpe. Dopo di lui, un errore dopo l'altro il pianeta si è avviato verso l'anarchia internazionale. Ora è sull'orlo dell'abisso.   
   L'Organizzazione delle Nazioni Unite fu istituita il 25 aprile 1945, mentre in Europa la seconda guerra mondiale era ancora in corso. Nel Preambolo del suo Statuto (approvato il 26 giugno, cinquanta giorni prima delle bombe americane sul Giappone, e in vigore dal 24 ottobre seguente: l'identico giorno della Pace di Westfalia che nel 1648 mise fine alla Guerra dei Trent'anni) i “popoli” (non “Stati”) delle Nazioni Unite si impegnarono a “salvare le future generazioni dalle guerre; a riaffermare la fede nei fondamentali diritti dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell'uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne, e delle nazioni grandi e piccoli; a vivere in pace uno con l'altro da buoni vicini; a promuovere il rispetto per i diritti umani e per le libertà fondamentali di tutti gli uomini senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua e di religione”. Solo retorica o un bisogno profondo della “pace in terra agli uomini di buona volontà” annunciata millenni prima e accoratamente invocata da Giovanni XXIII?
  Però sin dalla nascita dell'ONU i componenti della sua “cupola”, cioè i membri del Consiglio di Sicurezza (USA, URSS, Gran Bretagna, Francia e Cina, quella di allora, non la Repubblica popolare che le subentrò) erano già preda di nuovi conflitti. Forti del diritto di veto, essi svuotarono l'Assemblea di potere effettivo. Le affidarono l'onere di varare costose “missioni di pace” per arginare  interminabili “guerre di teatro”, combattute in territori circoscritti, inizialmente con armi rudimentali, poi via via più sofisticate.
La risacca degl'imperi coloniali 
  Tra il 1945 e l'inizio degli Anni Sessanta la carta politico-militare del pianeta mutò drasticamente. La finzione prevalse sul Diritto delle genti. 
    Nel 1945 l'Europa era un cumulo di macerie. Gli imperi coloniali frettolosamente affastellati nel secolo precedente stavano crollando sotto l'impeto di Fronti di liberazione in parte eredi della lotta dei colonizzati contro i dominatori, in parte eterodiretti anche da chi, come anche gli USA, miravano a impossessarsi delle loro spoglie, piagate ma pingui di risorse naturali e di quelle “terre rare” oggi al centro degli appetiti delle grandi potenze e di “agenzie” dal profilo politico-militare ancora ambiguo. Nella seconda metà del Novecento gli “atlanti storici” sui quali si studiava erano ormai obsoleti e mendaci. Registravano i domini afroasiatici di Stati europei geo-militarmente ormai irrilevanti, come Paesi Bassi, Belgio e Portogallo. Lisbona contava ancora “piazze” in India e possedeva da secoli l'Angola e il Mozambico. Che cosa ci aveva mai fatto di civile e costruttivo ? Vi irruppero i guerriglieri che avevano “liberato” Cuba a beneficio di Castro, complice Ernesto Guevara”, il “Che”.     
   La sconfitta del 1943-1945 e il trattato di pace del 1947 liberarono l'Italia dal peso dell'impero coloniale. Conquistatolo pochi anni prima (1911-1936), lo Stato non ebbe tempo a radicarvisi, né modo e motivo di combattere per rimanervi. Così, una fortuna tra tante sventure, l'Italia non divenne approdo di un numero condizionante di ex “colonizzati” che invece si riversarono in altri Stati europei dopo il crollo dei loro imperi e vi si accamparono da estranei. Per l'Italia l' “Impero” rimase un “mito”, avvolto nelle leggende, al pari dell'“antica Roma”. Andò molto peggio ad altri Paesi del Vecchio Continente per i quali gli antichi domini risultarono una pesantissima palla al piede. Va anche aggiunto che il modello di imperialismo italiano, al netto dei toni magniloquenti di minoranze fanatiche, ebbe per fondamento l'universalismo latino (da Cicerone e Seneca al neognosticismo) e quello cristiano (da san Paolo a Pelagio). Da quando ebbero colonie, i governi della Nuova Italia nominarono alla loro guida i politici più colti. Ne furono governatori, ministri e sottosegretari  Ferdinando Martini, Enrico De Nicola, Gaetano Mosca, Gaspare Colosimo,  Francesco Saverio Nitti, Bartolomeo Ruini, Giovanni Amendola, in maggioranza massoni e teosofi. Il 31 ottobre 1922 Vittorio Emanuele III su proposta di Mussolini nominò ministro delle colonie il carducciano Luigi Federzoni, uomo del Risorgimento come poi Alessandro Lessona: tutt'altra pasta rispetto a rozzi ras di provincia, a ottusi federali e a Rodolfo Graziani, rapidamente sostituito con Amedeo di Savoia, duca d'Aosta, viceré d'Etiopia. 
L'alba nebbiosa della Nuova Europa
     
   Dalle due grandi guerre, scatenate da suoi Stati e divenute mondiali, l'Europa non apprese granché. “Lento pede” avviò un Mercato comune e Assemblee consultive di modesta valenza rappresentativa, come il Consiglio europeo, ma non varcò mai il Rubicone per fondere gli Stati nazionali in federazione politico-militare. La Nuova Europa morì in fasce per il voto contrario della Francia alla istituzione della Comunità europea di difesa (Ced), che avrebbe comportato un armamento sia pur minimo degli odiati “boches”. A parte pochi statisti lungimiranti (Schuman, Monnet, Adenauer, Degasperi...: tutti uomini “di confine” come ha è stato ricordato il 30 giugno 2023 in un video-convegno dell'Istituto Giorgio Galli di Milano presieduto da Daniele Comero) i “politici” della Nuova Europa camminavano con la testa volta all'indietro, ossessionati dalle guerre del Cinque-Novecento.
  Il 5 marzo 1946 fu l'inglese Winston Churchill alla presenza dell'americano Harry Truman a denunciare in Fulton (USA) che sull'Europa era calata la “cortina di ferro” da Stettino a Trieste e che era ora di armarsi contro il nuovo nemico: l'URSS di Stalin e i suoi accoliti annidati nei partiti comunisti dell'Europa occidentale. Divennero sospetti sia i “partigiani della pace” (non di rado succubi della propaganda filosovietica) e i fautori di una “terza via” riluttanti a schierarsi per l'ennesimo “Ordine Nuovo”. Quale? Anziché dar vita a una federazione, gli Stati europei entrarono alla spicciolata nella Nato, alleanza difensiva destinata ad ampliare sempre più (e in termini via via più erratici) il raggio delle sue “missioni”. Vi entrarono nella convinzione di sedervi da pari, non da “soci di minoranza” né, meno ancora, da  succubi. Però chi aveva perso la guerra dei trent'anni (1914-1945) non poteva chiedere di più né di meglio. Da molti Paesi aderenti la Nato venne intesa come la coperta che consentiva di risparmiare per la propria difesa e risalire la china dal baratro delle tante guerre, anche “civili”, che li avevano devastati, seminando odi inestinguibili al loro interno e nei rapporti internazionali.       
   Per decenni europeisti militanti s'incaponirono a includere la Gran Bretagna, sempre riluttante, scostante e infine contraria a riconoscersi in una comunità che prima o poi avrebbe richiesto agli inglesi di adottare l' “euro” al posto della sterlina. Inammissibile oltre Manica. L'“Inghilterra” accettò di accedere all'Unione Europea. Come in un pub. Quarant'anni dopo ne uscì, aprendo una discussione interminabile sul conto della “consumazione”. 
Alla ricerca della Storia perduta 
   L'Europa odierna è quella che è. Per quanto bizzarro (o buffo), l'unico suo tratto distintivo unitario è l'uso dell'anglo-americano quale “lingua franca”. Essa dispensa gli europei della terra ferma dall'apprendere l'idioma dei popoli confinanti con tutte le sue difficoltà e astruserie. Usando l'inglese i tedeschi non hanno motivo di scrivere in francese (un vero tormento), né i francesi debbono affaticarsi la trachea e i polmoni parlando in tedesco. Così gli “europei” finirono per conoscersi a vicenda sulla base di traduzioni dall'inglese dei loro stessi “classici”, proprio mentre i cinesi studiano il diritto romano, come insegna Tito Lucrezio Rizzo. 
   Ora l'Europa ha la guerra in casa. L'Ucraina è a due passi. Per rispondere all'aggressore, il suo “presidente/comandante”, perennemente “in divisa”, con toni sempre più minacciosi pretende i migliori aerei da combattimento e missili di lunga gittata, ai quali il nemico risponderà con armi ancor più potenti. Siamo in corsa verso il precipizio. L'opinione pubblica europea era e rimane impreparata dinnanzi a un “evento” che era nelle cose e che ha sorpreso solo gli imprevidenti immersi sino agli occhi nelle cronache delle lotte elettorali per un potere che non c'è. Senza politica estera e di difesa comune, l' “Europa” è semplicemente inesistente. Balbetta. Per un anno i suoi elettori verranno tempestati dalla gara tra partiti in lizza per i seggi dell'Europarlamento. Ad assetto istituzionale invariato, esso darà gli stessi risultati di quello ormai prossimo allo scioglimento. Tra modesto e mediocre. C'è poco da attendersi. Il generale Claudio Graziano, già presidente del Comitato Militare dell'Unione Europea, lo ha detto in tutti i modi e lo ha scritto in “Missione. Dalla Guerra fredda alla Difesa europea” (ed. Luiss). Per costruire un sistema difensivo adeguato a misura dell'Europa che non c'è occorrono due decenni; e per programmarne uno più avanzato ne occorrono altri venti. Ma ...la Storia non aspetta.   
  La Storia ha insegnato poco o niente. Perché il suo studio costa fatica. E' “magistra vitae” solo per chi la conosce. Anche i Libri, dal Vecchio e Nuovo Testamento al Corano alla Pace perpetua vaticinata da Immanuel Kant, rimangono ermeticamente chiusi. I pochi che se ne ricordano hanno le mani ripiegate sconsolatamente sulle ginocchia e le palpebre affaticate dalle quotidiane scene di guerra. Non orano e non lavorano, come il 30% dei “giovani” europei della generazione “ni-ni”. 
Senza rete
  Tra i segnali meno incoraggianti uno merita un cenno. Proprio in queste ore una rivista di storia nata quasi vent'anni addietro ha abbassato le vele, tirato i remi in barca e non si sa se riprenderà mai il largo. Ne ha dato notizia nel suo sito il direttore/amministratore.
  Perché parlarne? Edicole (sempre meno: fanno una vita d'inferno, giorno dopo giorno svuotate dalla comunicazione “in rete”) e grandi magazzini sono colme di riviste d'ogni genere. Nulla, però, di paragonabile alla celebre “Storia illustrata” e ai suoi predecessori ed emuli. L'ultimo nato della serie fu, appunto, il mensile “Storia in Rete”, nato per evoluzione da un “sito web” e grazie a un generoso sostegno.
   Nel suo numero Zero il direttore enunciò l'obiettivo del mensile: valorizzare le ricerche d'archivio per rimettere in movimento il dibattito sul passato. Era l'ottobre del 2005. Il n.1 uscì a novembre, il mese che si apre con la festa di tutti i santi e continua con la rievocazione dei morti. I suoi collaboratori pressoché fissi, alcuni inclusi nel Comitato scientifico originario (Aldo G. Ricci, Nico Perrone, ..) altri presenti nel mensile per quasi vent'anni con rubriche o articoli (il cartografo Emanuele Mastrangelo, lo storico Luciano Garibaldi..) ebbero l'obiettivo di andare  oltre gli steccati che da decenni dividevano la “storiografia” in fazioni ricalcanti le divisioni tra partiti e la sussunzione degli studi in Fondazioni dai nomi emblematici: l'Istituto Gramsci, lo Sturzo e via continuando... Venne ripetutamente osservato il vuoto di rappresentazione della tradizione liberale. Ma anche molti fascicoli di “Storia in Rete” finirono per replicare il dualismo che deprecava e intendeva superare. La rivista doveva rintuzzare la fatua accusa di “revisionismo”. Lo fece con articoli magistrali di Paolo Simoncelli e di tanti autori non incasellati in “scuole”e/o tifoserie, ma non sempre pose al centro la storia delle Istituzioni, quasi mai si occupò di corpo diplomatico, magistrature, conferenze episcopali. Quasi mai dell'assetto dell'Europa.  
  Ora anche “La Civiltà Cattolica”, quindicinale della Compagnia d Gesù, lancia l'allarme. Il modello liberal-democratico è in crisi proprio negli Stati europei che l'hanno tenuto a balia. Con l'eclissi del Centro la “politica” sbanda, deraglia, si decompone in lotte di quartiere tra movimenti quantitativamente minoritari, di recente costituzione, gonfi di pretese, privi di orizzonti. I toni si alzano anche nei luoghi più sacri, come le Aule parlamentari sovente semideserte. Vedere tanti “politici” strabuzzare gli occhi e usare parole e gesti veementi, giustificandoli quale frutto di passione proprio mentre occorrono ragionamenti pacati, non fa sperare in bene. 
Dunque, come finirà? Probabilmente male. Ma non è la prima volta. Sono i corsi e i ricorsi della Civiltà.
Aldo A. Mola