Proposte Associazione di Studi Storici Giovanni Giolitti-Associazione Studi Storici Giovanni Giolitti

Proposte

6 APRILE 1924. QUANDO VINSE IL "LISTONE" FASCISTA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 7 Aprile 2024 pagg. 1 e 4.
I SOLDI, NON LA LIBERTÀ: LA VERA POSTA IN GIOCO
Gli italiani furono ingenue vittime del tiranno o suoi volonterosi complici quando nelle elezioni del 1924, 1929, 1934… e sino al crollo nella guerra del 1940-43 plaudirono il Capo che, come il pifferaio di Hamelin li stava conducendo alla rovina? La “narrazione” compiacente li ha dipinti come vittime del regime che li ridusse ad automi. Vent’anni dopo, il 12 gennaio 1944, il glaciale vicepresidente del Consiglio del popolo sovietico Andrea Juanuarevic Vyshinsky, pubblico accusatore nei processi ai “traditori del partito” fucilati su ordine di Stalin, in un colloquio a Salerno con Renato Prunas, segretario generale degli Affari Esteri del governo Badoglio, disse che «tutti i popoli erano almeno in parte responsabili dei loro governi e il popolo italiano pagava molto duramente gli errori e le colpe del regime che si era per vent’anni prescelto». Bando, dunque, alla pretesa innocenza perduta per colpa di Mussolini.....

QUIRINALE, PARLAMENTO, POPOLO SOVRANO

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 10 Marzo 2024 pagg. 1 e 6.
Hieronymus Bosch, “L'imbonitore”.
                                  Se la comunicazione elettorale degrada
                                  a gara tra mimici, la “politica” scade
                                  ad avanspettacolo. Gli elettori ridono
                                  ma non votano.Oportet ut scandala eventiant?
L'Italia è alle prese con l'ennesimo “scandalo”. Per venire a capo del “verminaio” di spioni, anziché affidarsi alla magistratura, persino il ministro di Grazia e Giustizia ventila una“commissione parlamentare d'inchiesta” che (dati gli umori partitici prevalenti) potrebbe finire con sei diverse relazioni, cioè altrettante “mezze verità”, come accadde per la P2. Dall'Unità il Paese ha contato decine di “scandali” per i motivi più disparati. Rimane celebre quello della Banca Romana, che coinvolse centinaia di notabili e costrinse Giolitti a rassegnare le dimissioni da presidente del Consiglio e a trasferirsi in visita alla figlia a Charlottenburg (Berlino) nel timore di un mandato di cattura. Gli subentrò Francesco Crispi, proprio il “politico più coinvolto nell'“affare”. Altro clamore suscitò lo scandalo dell'espansione edilizia di Roma, costato le dimissioni da ministro della Real Casa di Urbano Rattazzi jr, detto “sub-urbano”. Poi si susseguì una filza di scandali sino all'avvento del governo di Mussolini, che si valse del sottosegretario all'Interno, Aldo Finzi, per imbrigliare le Case di gioco: un boccone ghiottissimo. A tacere dell'uso della criminalità politica (lo ricorda lo storico Gianpaolo Romanato nell'equilibrato volume “Giacomo Matteotti: un italiano diverso”, ed. Bompiani), nel 1925-1926 il regime imbavagliò e annientò l'informazione e l'opposizione. Neppure dieci anni dopo Mussolini nominò suo genero Galeazzo Ciano, ministro plenipotenziario, a capo dell'Ufficio stampa e propaganda, nel 1935 trasformato nell'altrettanto sfacciato Ministero della cultura popolare (brevius Minculpop), che impose ai giornali “fogli d'ordine” e “veline”. Le ruberie continuarono, ma vennero celate, mentre gli ingenui sconsolati lamentavano: “Ah, se il duce sapesse...”. Il capo del governo sapeva benissimo: intercettava (persino se stesso), schedava, ricattava,“perdonava”.
   Con l'avvento della Repubblica gli scandali hanno continuato a inondare le cronache: da quello italo-vaticano del 1948 intestato a monsignor Edward Prettner Cippico (1905-1983) all'importazione di banane e sino all'“affare” della Loggia massonica “Propaganda” n. 2, che precorse di un decennio Tangentopoli e l'effimero successo di “Mani pulite”. Per usura della fantasia si susseguirono P3, P4 e l'immaginaria superloggia “Ungheria”, gioia e mestizia di un magistrato in pensione, nonché complicati intrecci finanziari, politici, giornalistici. Dinnanzi al labirinto degli scandali i cittadini si ritraggono. Anziché cercar di capire disertano i seggi elettorali. Gli astenuti ormai superano il livello di guardia della democrazia, che è sinonimo di potere dei cittadini, vanificato in assenza di partecipazione alla vita politica almeno col voto.
   A poco giova osservare che in altri Stati (dittatoriali, autoritari, sovranisti, populisti, gerontocratici, come gli USA, o allucinati da fondamentalismi teocentrici), le cose non vanno molto meglio o persino peggio. Accadeva già in passato. Mentre in Italia imperversava il già citato scandalo della Banca Romana al di là dell'Atlantico esplose quello del Canale di Panama, dalle dimensioni di gran lunga maggiori. In conclusione, ogni Paese, anche se a sovranità limitata qual è l'Italia dal 1943, deve curare i propri mali senza attendere panacee dagli altri.
   In tale quadro, che sembra opera di Hieronymus Bosch, nel corso di 163 anni l'Italia si è fondata su due sole certezze: lo Statuto albertino, in vigore dal 1861 al 1947 quale eredità del Regno di Sardegna, e la Costituzione repubblicana dal 1948 a oggi, pesantemente manipolata nel Titolo V ma immutata negli altri: principi fondamentali, diritti e doveri dei cittadini, parlamento, presidente della repubblica. Segno che meno si tocca, meglio è. Insomma, malgrado tutto e al netto dell'enfasi mediatica che annuncia gli scandali come stazioni di una ineluttabile “via crucis” nostrana, la corruzione corrode la superficie ma non intacca i pilastri portanti dello Stato d'Italia.
   Forse per comprendere i poli della sua storia giova ricordare le “osservazioni” di Vittorio Emanuele III e di Luigi Einaudi, due “grandi Vecchi” della prima metà del secolo scorso susseguitisi a capo dello Stato. Un monarca e un monarchico. In una delle ore più critiche della storia, mentre il Paese era alle prese con la sconfitta militare e in cerca di nuova collocazione nella comunità internazionale, il re disse sommessamente: “La nazione può fare sempre quello che vuole”. Non era affatto abdicazione al proprio ruolo, bensì la sua rivendicazione. Toccava proprio a lui, dopo lungo silenzio, farsi interprete della “voce che saliva dal popolo” ed esercitare le sue prerogative di propria scienza e coscienza, come osservò Einaudi.
È il compito di chi, per eredità dinastica o elezione, ha sulle spalle il “brut fardèl”dello Stato.
I “richiami” del Presidente Mattarella
   Il 5 marzo il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha richiamato l'attenzione dei cittadini sui capisaldi del suo “mandato”. Lo ha fatto nell'incontro con una delegazione di Casagit, acronimo di Cassa autonoma di assistenza integrativa dei giornalisti italiani, ora giunta a mezzo secolo di vita. Ha elogiato le “autonome iniziative dei cittadini, che si preoccupano di adoperarsi per interessi generali”. In quell'ambito la Casagit è benemerita perché concorre alla sicurezza sociale, garante “di libertà, tranquillità, serenità e di libertà di azione di coloro che vi si rivolgono”. Il suo ruolo è dunque duplice. Opera a beneficio dei giornalisti e quindi (secondo “richiamo” presidenziale) della “libertà di stampa, […] fondamentale per la nostra democrazia come per qualunque democrazia. Che vede nella nostra Costituzione una tutela netta, chiara, indiscutibile, a fronte della quale vi è una assunzione di responsabilità da parte dei giornalisti: la lealtà, l'indipendenza dell'informazione, la libertà di critica nel rispetto della personalità altrui, il rispetto dei fatti”: tutti temi oggi al centro di vivaci dibattiti nelle Aule parlamentari, nei periodici e tra quanti dai giornali, come dai “media” radiotelevisivi e magari anche dai cosiddetti “social”, ancora si attendono di conoscere i “fatti” (chi, quando, dove), senza insinuazioni né interpretazioni avventate o apprezzamenti indebiti.
   Visti gli interlocutori, nel breve intervento il Presidente ha dato per noti (e praticati) i capisaldi costituzionali della libertà di informazione: che non è solo di chi informa, ma anche di chi viene (o dovrebbe venire) informato da quanti appartengono all'Ordine dei giornalisti, nato al tempo del regime ma oggi fondato su un codice etico particolarmente esigente. Esso affonda radici e motivazioni nella Costituzione ma anche nello Statuto albertino. Nella sua levigata brevità all'articolo 28 questo stabilì: “La Stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi”. Molto più analitico, l'articolo 21 della Costituzione dice: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica”. Ai tempi dell'Assemblea costituente (giugno 1946-dicembre1947) in Italia vi era una sola emittente radiofonica e non esisteva la televisione. Decenni dopo la “legge Mammì” e successivi adeguamenti normativi, qualche nuovo comma potrebbe allineare l'art. 21 alla realtà odierna e con quanto prospetta l'oligopolio planetario dell'informazione.
   Se ne sente bisogno anche per meglio connetterlo e con l’art. 33: “L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento”: una libertà che, per non ridursi a mero enunciato, dovrebbe essere garantita dalla disponibilità di mezzi. Invece la ricerca scientifica e, conseguentemente, molti settori delle sue conquiste e delle sue applicazioni (dalla produzione farmaceutica a quella bellica) sono sorretti e controllati dai destinatari delle sue “invenzioni”, nazionali e soprattutto multinazionali, sicché (osserva taluno) ricercatori e docenti sono succubi anziché liberi.
   Infine i citati articoli 21 e 33 della Carta dovrebbero (ma il condizionale è d'obbligo) dare forza e vigore al secondo comma dell’articolo 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori (ma i costituenti avrebbero fatto meglio a scrivere: i cittadini) all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
   Il Presidente Mattarella ha colto motivo dalla qualità dei partecipanti all'incontro, saliti al Colle non solo quali delegati di Casagit ma “anche nella veste insopprimibile di giornalisti e quindi tramite tra le istituzioni e i nostri concittadini”. Ha quindi fatto notare, affinché trapelasse al di là del Quirinale, che “frequentemente il Presidente della Repubblica viene invocato con difformi, diverse motivazioni”. Con il consueto garbo ma con fermezza e una vena di umorismo ha ricordato chi gli si rivolge chiedendo con veemenza: “Il Presidente non firmi questa legge perché non può condividerla, perché è gravemente sbagliata”, mentre altri osservano: “Il Presidente della Repubblica ha firmato quella legge e quindi l'ha condivisa, l'ha approvata, l'ha fatta propria”.
   Agli uni e agli altri, ai presenti e a futura memoria, Mattarella ha scandito: “Il Presidente della Repubblica non firma le leggi, ne firma la promulgazione, che è cosa ben diversa”. La promulgazione, ha aggiunto, è l'atto “indispensabile per la pubblicazione ed entrata in vigore delle leggi, con cui il Presidente della Repubblica attesta che le Camere hanno entrambe approvato una nuova legge, nel medesimo testo e che questo testo non presenta profili evidenti di incostituzionalità”.
   Costituzionalista e già docente universitario di Diritto parlamentare, Mattarella ha rinviato i delegati di Casagit, e non solo loro, alle prerogative del Presidente della Repubblica, tra i cui compiti fondamentali vi è “che ciascuno rispetti la Costituzione. A partire da sé stesso, naturalmente, e che ciascuno la rispetti nel colloquio e nel confronto tra gli organi costituzionali. Sarebbe grave se uno di questi, e tra questi il Presidente della Repubblica, pretendesse di attribuirsi compiti che la Costituzione assegna ad altri poteri dello Stato. E questa è una indicazione di democrazia...”. Poiché va escluso che egli abbia mai travalicato i propri poteri, molti si sono domandati se stesse avanzando un generico e astratto “caso di scuola” o si riferisse a una realtà incombente, a qualche aspirante travalicatore: un interrogativo lecito a fronte del ben noto disegno di riforma della Costituzione che prevede l'elezione diretta del presidente del Consiglio dal profilo politico superiore a quello del Capo dello Stato.
Dallo Statuto alla Costituzione: le prerogative del Capo dello Stato
   Come riflessione a margine del richiamo di Mattarella al mandato presidenziale, giova ricordare sinteticamente i poteri del primo magistrato della Repubblica. Eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri e dai delegati delle regioni (art. 83 della Costituzione) “è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale. Può inviare messaggi alle Camere. Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione. Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo […]. Ha il comando delle Forze Armate, presiede il Consiglio supremo di difesa, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere. Presiede il Consiglio superiore della magistratura. Può concedere la grazia e commutare le pene. Conferisce le onorificenze della Repubblica (art. 87 della Carta)”. “Sentiti i loro presidenti, può sciogliere le Camere”.
   Per molti aspetti i suoi poteri ricalcano lo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Savoia il 4 marzo 1848, poi esteso al regno d'Italia. Il re, esso recita, “è il capo supremo dello Stato; comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra […] nomina a tutte le cariche dello Stato” (come il presidente della Repubblica che “nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato”), “può far grazia e commutare le pene”. Per altri, però, sovrasta l'antico sovrano.
Il “Capo” e la formazione delle leggi
   Quali sono i poteri del Capo dello Stato nella formazione delle leggi? A tale riguardo la Costituzione vigente si differenzia dallo Statuto. Questo stabilì che “il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal Re e dalle due Camere: il Senato e quella dei deputati”. In Repubblica, invece, “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Concluso l'iter della loro elaborazione (esame da parte delle commissioni, esistenti con altro nome in età monarchica) e approvate dalle Aule, “le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica” entro un mese (salvo urgenza), ed “entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione”, salvo il termine fissato dalle leggi stesse.
   A differenza di quanto era in potere del Re, il Presidente “prima di promulgare la legge può, con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione”. Se queste la confermano (ovviamente negli identici termini) essa deve essere promulgata. Il presidente, inoltre, può accompagnare la promulgazione con osservazioni scritte: i dubia, che non ne inficiano l'applicazione ma costituiscono una pubblica riserva. Gli articoli 76 e 77 della Carta vigente intendono arginare gli abusi del governo, che non può legiferare “se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”, né può, “senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria”, fermo restando che detti decreti “perdono efficacia sin dall'inizio se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione”: vincolo perentorio ma aggirato da governo con l'emanazione di nuovi decreti legge di pari tenore o facendo ricorso ai famigerati decreti del presidente del Consiglio dei ministri, che non sono soggetti a voto parlamentare e, come tutti ricordano, imperversarono a fronte della epidemia.
La “sanzione”: condivisione giuridica o “morale”?
   Nell'intervento pronunciato dinnanzi alla delegazione della Cagevit, ma implicitamente rivolto al Paese, il Presidente Mattarella ha sottolineato la differenza tra il regime vigente e quello statutario su un punto sensibile e rilevante: la sanzione delle leggi da parte del Capo dello Stato. Nell'attuale ordinamento, in forza del comma 5 del già citato articolo 87 della Carta, il Presidente “promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti”. Per lo Statuto, invece, “il Re solo sanziona[va] le leggi e le promulga[va]”. La “sanzione” (sinonimo di approvazione) conterrebbe la “condivisione” delle leggi da parte del sovrano, che se ne assumeva quindi la paternità, una sorta di corresponsabilità non solo politica ma “morale”, per così dire “a cospetto della storia”. Prendendo le distanze dal passato, Mattarella che ha tenuto a precisare: “Quando il Presidente promulga una legge non fa propria la legge, non la condivide, fa semplicemente il suo dovere”. Da “notaio”. Diverso era il regime statutario, perché “quando le Camere approvavano la legge, il re prima di promulgarle doveva apporre la sua sanzione, cioè la sua condivisione nel merito, perché aveva anche attribuito il potere legislativo. Fortunatamente non è più così. Il Presidente della Repubblica non è un sovrano, fortunatamente, e quindi non ha questo potere. Ha soltanto quello che ho descritto”. Sembra tutto chiarissimo e impeccabile; ma qualche osservazione è possibile.
  Nel regime statutario cos’era effettivamente la regia “sanzione”? Va richiamato quanto già ricordato: il potere legislativo era esercitato dal re e dalle Camere, una vitalizia e di nomina regia, l'altra elettiva. Lo Statuto presupponeva l'armonia dei tre soggetti, ma l'articolo 56 prevedeva l'eccezione: “Se un progetto di legge è stato rigettato da uno dei tre poteri legislativi, non potrà più essere riprodotto nella stessa sessione”. Poteva dunque insorgere contrapposizione tra l'una e l'altra Camera. Ma poteva sorgerne anche tra il Parlamento e il Re o viceversa? Si sarebbe aperto un conflitto non solo tra la Corona e le Camere, ma tra il re e il corpo elettorale, che rappresentava tutti i cittadini. Il caso non si verificò mai. All'indomani dell'avvento dello Statuto, nel turbine seguito alla sconfitta nella guerra contro l'impero d'Austria e a fronte della rumorosa riluttanza di una parte dei deputati ad approvare l'oneroso trattato di pace imposto da Vienna, il ventinovenne Vittorio Emanuele II sciolse la Camera e si rivolse agli elettori con il cosiddetto Proclama di Moncalieri, scritto dal presidente del Consiglio Massimo d'Azeglio. Ottenne quanto necessario: l'elezione di deputati consapevoli e responsabili.
   La sanzione intesa come esercizio di una possibile riserva nei confronti delle leggi semplicemente si essiccò, anche a fronte dell'articolo 3 della legge 23 aprile 1854, n. 1731 (ribadita il 21 aprile 1861), che impose la promulgazione entro la sessione parlamentare. La “sanzione” risultò dunque preliminare meramente rituale rispetto a promulgazione, pubblicazione e ordine di osservanza della legge. Enfatizzare il valore della sanzione come condivisione vuol dire richiamare la narrazione sulla connivenza tra il re e i capo del governo durante il regime. La questione è più complessa. Fermo restando che i poteri del sovrano rimasero immutati (come Vittorio Emanuele III mostrò nel pomeriggio del 25 luglio, quando revocò Mussolini e lo sostituì con Badoglio) a cospetto di leggi particolarmente per lui disgustose il re prese atto che erano state approvate senza alcuna obiezione da parte delle Camere e poiché queste, piaccia o meno, erano espressione dei cittadini, negare la sanzione avrebbe comportato un conflitto devastante tra la Corona e il governo, che aveva il pieno controllo del Parlamento e del Paese. Erano gli anni di quel “consenso” che si sfarinò solo nel corso della guerra, con moto accelerato nel 1943. Il re era isolato. Così come potrebbe accadere anche al Presidente della Repubblica, qualora gli venisse contrapposta una figura istituzionale direttamente investita dal “popolo”.
   Ma i problemi veri, oggi, sono anche altri. Anzitutto la lentezza, carenza e caoticità dei decreti attuativi di leggi formulate in maniera confusa e contraddittoria e quindi destinate a risultare irrilevanti o, peggio ancora, a far proliferare il contenzioso. E se le Camere approvassero una legge in netto contrasto con il sentire morale del Capo dello Stato, quali strumenti avrebbe quest’ultimo per negarne la promulgazione? A fronte della crescente astensione degli elettori, la “volontà” delle Camere è sempre più lontana da attuare il comma 2 dell'articolo 1 della Carta: “La sovranità appartiene al popolo...”. Se esso non partecipa, si autoesclude; ma anche le istituzioni ne risultano indebolite. Alla fin fine tutti debbono fare i conti con la Storia.
Aldo A. Mola

Didascalia: Hieronymus Bosch, “L'imbonitore”. Se la comunicazione elettorale degrada a gara tra mimici, la “politica” scade ad avanspettacolo. Gli elettori ridono ma non votano. 


150° di Luigi Einaudi
ATTUALITÀ DI LUIGI EINAUDI


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 3 Marzo 2024 pagg. 1 e 6.

Luigi Einaudi. Su di lui si vedano Riccardo Faucci, Einaudi, Torino, Utet, 1986; Francesco Forte-Paolo Silvestri, “Einaudi”, in Dizionario del Liberalismo Italiano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015 e Tito Lucrezio Rizzo, Il Capo dello Stato dalla Monarchia alla Repubblica, Roma, Herald, 2024 (1^ ed. 2022).Taluno vorrebbe giustapporre i poteri del presidente del Consiglio dei ministri a quelli che la Costituzione conferisce al Capo dello Stato. Nel 150° della nascita di Luigi Einaudi (Carrù, 24 marzo 1874 - Roma, 30 ottobre 1961) ricordiamo il suo esempio di primo Presidente effettivo della Repubblica italiana: monarchico, liberale ed europeista.


   Il 12 maggio 2018 il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, rievocò Luigi Einaudi nel 70° del suo insediamento alla Presidenza della Repubblica italiana. Guidato dal nipote Roberto, architetto, ne visitò la tomba nel cimitero di Carrù (Cuneo) e la villa in Dogliani, dalla celebre biblioteca. Nella sala del consiglio municipale ricordò che a lui, liberale, e al democristiano Alcide De Gasperi toccò «il compito di definire la grammatica della democrazia italiana appena nata».

   Accolta in spirito di servizio la proposta di elezione alla suprema carica dello Stato, recatagli da Giulio Andreotti su incarico di De Gasperi (in alternativa al divisivo Carlo Sforza e in contrapposizione a Vittorio Emanuele Orlando, sostenuto dalle sinistre), pur privilegiando l'esercizio della “moral suasion” anche con lettere private, Einaudi unì discrezione e fermezza nella rivendicazione delle prerogative di Presidente, «a partire dall'esercizio del potere previsto dall'art.87 della Costituzione, che regola la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa». Rinviò al Parlamento due leggi «perché comportavano aumenti di spesa senza copertura finanziaria, in violazione dell'art. 81 della Costituzione». Erano somme modeste, ma contava il principio.

   Dopo le elezioni del 1953, Einaudi rifiutò il successore di De Gasperi indicatogli dalla Democrazia Cristiana, all'epoca partito di maggioranza, e nominò Giuseppe Pella, già apprezzato ministro del Tesoro, che guidò un governo tripartito (DC, repubblicani e socialdemocratici), con Mario Scelba all'Interno. A futura memoria, il 12 gennaio 1954 Einaudi lesse ad Aldo Moro e a Stanislao Ceschi, presidenti dei gruppi parlamentari democristiani, la “nota verbale” sulla corretta interpretazione dell'art. 92 della Carta («Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio»), motivata dal «dovere del Presidente della Repubblica di evitare si pongano precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore, immuni da ogni incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce». È un dovere anche oggi incombente.

   Strenuo avversario dell'“assemblearismo” («il governo di assemblea vuol dire tirannia del gruppo di maggioranza») e del “mandato imperativo” (escluso dall'art. 67 della Costituzione), da senatore del Regno osteggiò la legislazione liberticida: come nel 1928, quando fu conferita al Gran consiglio del fascismo la compilazione della lista dei deputati alla Camera, e nel 1938, quando respinse le leggi razziali. Fu «un patriota – disse Mattarella – consapevole di contribuire, con la sua testimonianza, lui, di orientamento monarchico, al consolidamento della Repubblica democratica».

   Un passo dell'intervento presidenziale rimarrà memorabile perché, attraverso le parole di Einaudi Sergio Mattarella ha fatto intendere la propria missione. Riferendosi all'azione di Vittorio Emanuele III per portare l'Italia al di fuori della catastrofe nell'estate 1943, Einaudi osservò che la prerogativa sovrana «può e deve rimanere dormiente per lunghi decenni e risvegliarsi nei rarissimi momenti nei quali la voce unanime, anche se tacita, del popolo gli chiede di farsi innanzi a risolvere una situazione che gli eletti del popolo da sé non sono capaci di affrontare o per stabilire l'osservanza della legge fondamentale, violata nella sostanza anche se ossequiata nell’apparenza». Nell'ora decisiva, il 25 luglio 1943, il Re esercitò i poteri statutari revocando Benito Mussolini da capo del governo. Fu l'inizio del nuovo corso storico.


Un profilo dello Statista

Luigi Einaudi fu eletto presidente effettivo della Repubblica italiana al quarto scrutinio l'11 maggio 1948, con 518 suffragi su 871 votanti. Liberale, monarchico e piemontese, prevalse sul siciliano Vittorio Emanuele Orlando, parimenti liberale, monarchico, “presidente della Vittoria”.

   Einaudi non aveva studiato da capo dello Stato. Aveva studiato. Perso a dodici anni il padre, crebbe in casa dello zio, Francesco Fracchia, notaio a Dogliani. Allievo dei Padri Scolopi a Savona, fu cattolico praticante, ma senza ostentazione e rispettoso di altre confessioni. Per capirne le radici bisogna visitarne le terre d’origine, le stesse di Giovanni Giolitti e di Marcello Soleri. Il suo mondo era ispirato dai principi all’epoca comuni non solo alla classe dirigente ma a tutte le persone perbene, anche umili genere natae. I loro motti eranoaiuta te stesso” e “volere è potere”, divulgati  dal naturalista Michele Lessona.

   Laureato in giurisprudenza a Torino appena ventenne, dopo un impiego alla Cassa di Risparmio di Torino dal 1896 Einaudi collaborò al quotidiano “La Stampa”. Professore all’Istituto Tecnico “Franco Andrea Bonelli” di Cuneo e al “Germano Sommeiller” di Torino, divenne il maggiore economista liberale del Novecento. Autore di opere prestigiose (Un principe mercante. Studi sull'espansione coloniale italiana e saggi sulla finanza nello Stato sabaudo e sulle imposte), scrisse nella “Critica sociale” di Filippo Turati e di Claudio Treves e nella “Riforma sociale” diretta a Torino da Salvatore Cognetti de' Martiis. Collaboratore dal 1903 del quotidiano“Corriere della Sera” diretto da Luigi Albertini e dal 1922 dell'“Economist”, Einaudi polemizzò aspramente contro i “trivellatori dello Stato” e rimproverò a Giolitti di utilizzare il potere per mediare tra le parti sociali e garantire una costosa “stabilità di governo” a vantaggio di troppi “clienti” e di opportunisti. Docente di scienza delle finanze a Pisa nel 1902, lo stesso anno fu chiamato dall'Università di Torino, ove poi ebbe cattedra ad vitam.

   Credeva nella “bellezza della lotta”, cui intitolò un saggio nel 1923. Interventista nel 1914-1915, il 6 ottobre 1919 fu nominato senatore da Vittorio Emanuele III su proposta del presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti. Rievocò le sue esperienze alla Camera Alta in un saggio del 1956 pubblicato nella “Nuova Antologia”. Nel 1922 appoggiò il governo di coalizione nazionale presieduto da Benito Mussolini, che ventilò il proposito di averlo ministro delle Finanze affinché potesse attuare i suoi insegnamenti: ridurre drasticamente la spesa pubblica “clientelare”, ripristinare il prestigio dello Stato, assicurare i servizi, azzerare mafie, camorre e tagliare le unghie agli opposti corporativismi (imprenditori “pescicani” e sindacati parassitari). Al fervore scientifico unì la passione civile per le libertà. Già direttore delI'Istituto di Economia “Ettore Bocconi” di Milano, pubblicò una raccolta di saggi per il giovane editore torinese Piero Gobetti, vittima del regime. All'indomani della morte del deputato socialista Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), aggredito da una squadraccia fascista, Einaudi deplorò pubblicamente “il silenzio degli industriali”.

   Le sue opere erano note ormai anche oltre Atlantico. Come Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati, nel 1918 egli aveva giustapposto al sogno della Società delle Nazioni la più realistica e urgente Federazione europea per scongiurare che dal collasso degli imperi nascessero devastanti nazionalismi. Da altro versante ne scrisse in Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, in controcanto con Benedetto Croce. Sarebbe però errato ritenere che Einaudi fosse un “liberista assoluto”. Tra le sue massime spicca «l’uomo libero vuole che lo Stato intervenga». Il suo era “liberalismo senza aggettivi”. Come ha ricordato Tito Lucrezio Rizzo nel suo profilo biografico, Einaudi ammonì: «la scienza economica è subordinata alla legge morale».

   Di vasto respiro e profondità documentaria e critica spiccano due sue opere degli Anni Trenta: La condotta economica e gli effetti sociali della guerra (1933) e Teoria della moneta immaginaria nel tempo da Carlomagno alla rivoluzione francese (1936). Dopo l'arresto e la breve detenzione dei figli Giulio e Roberto (il terzo, Mario, era migrato negli Stati Uniti d'America) e la forzata chiusura della “Riforma sociale”, Einaudi fondò la dotta “Rivista di storia economica”, pubblicata dalla casa editrice di suo figlio Giulio e protratta sino al 1943. Nel 1938 fu tra i dieci senatori che votarono contro la legge “per la difesa della razza italiana”. Avversò l'antisemitismo e l'incipiente vassallaggio ideologico-diplomatico-militare di Mussolini nei confronti della Germania di Adolf Hitler. Tenuto, come tutti i pubblici dipendenti, a dichiarare la propria “stirpe” rispose che la sua gente era da sempre “ligure”, con apporti di altre genti nel corso del tempo.

   Dopo molte edizioni dei fondamentali Principii di scienza della finanza, condensò decenni di studi in Miti e paradossi della giustizia tributaria (1938). Come ha scritto Ruggiero Romano, fu «il più grande demitizzatore» italiano del Novecento, non solo su teorie e pregiudizi economicistici, ma anche nella vita sociale: abolizione di maiuscole, titoli vanesi e formalismi pomposi ostentati per celare il vuoto.


La Ricostruzione

Al crollo del regime mussoliniano (25 luglio 1943) Einaudi fu nominato rettore dell'Università di Torino, mentre Filippo Burzio assunse la direzione della “Stampa”. Con la proclamazione della resa senza condizioni (8 settembre 1943), quando l'Italia rimase “divisa in due” (formula di Croce), appreso di essere ricercato riparò in Svizzera. Vi collaborò a “L'Italia e il Secondo Risorgimento” (Lugano) e pubblicò, tra altro, I problemi economici della Federazione europea. Chiamato a Roma dagli Alleati e dal governo presieduto da Ivanoe Bonomi, d'intesa con il ministro del Tesoro Marcello Soleri, il 4 gennaio 1945 fu nominato governatore della Banca d'Italia in successione a Vincenzo Azzolini, arrestato per presunta collusione con gli occupanti germanici in danno della Banca stessa. Quale direttore generale volle Donato Menichella, che non conosceva di persona ma la cui formidabile competenza sulle relazioni tra banca e industria molto apprezzava. Lo attese un compito immane. Aveva pubblicato Lineamenti di una politica economica liberale. Il governo era sotto tutela della Commissione Alleata di Controllo. L'amministrazione locale era a sua volta subordinata ai governatori militari. L'Italia meridionale era inondata dalle “Am-Lire”. La moneta circolante era quasi venti volte superiore a quella d'anteguerra. L'inflazione galoppava. Il prodotto interno in molte regioni era dimezzato. In tante plaghe la popolazione era alla fame. I sei partiti rappresentati nel Comitato Centrale di Liberazione Nazionale e nel consiglio dei ministri erano divisi, nell'immediato e nelle prospettive ultime. Il capo del governo, Pietro Badoglio, aveva sciolto la Camera dei fasci e delle corporazioni, paralizzando il Parlamento, bicamerale; l'alto commissario per l'epurazione aveva privato quasi tutti i senatori del rango e dei diritti politici e civili. Il governatore della Banca d'Italia dovette quindi valersi di cariche e di poteri ulteriori per risalire la china.

   Nominato membro della Consulta Nazionale che preparò la Costituente, Einaudi fu eletto alla Assemblea Costituente (2-3 giugno 1946) tra i deputati del Partito liberale italiano. Nel 1947, dopo il viaggio negli Stati Uniti d'America, De Gasperi lo volle vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio. Con apposito decreto fu confermato governatore della Banca d'Italia e poté tessere la tela quotidiana della Ricostruzione. Consapevole delle drammatiche difficoltà nelle quali versava il Paese, anziché vagheggiare progetti tanto vasti quanto inattuabili, puntò realisticamente a interventi “a pezzi e bocconi”, come narrato da Antonio d'Aroma, suo fido segretario particolare. Doveva ristrutturare un edificio occupato da persone che non potevano esserne allontanate: la burocrazia. Per attuare il risanamento monetario a suo avviso non esistevano “mezzi taumaturgici”. Lasciò che il tempo facesse tramontare propositi irrealistici, quali il “cambio della lira”, che avrebbe provocato la fuga dei pochi capitali disponibili e scoraggiato investimenti dall'estero. In un paio d'anni le speculazioni si esaurirono e l'inflazione si ridusse a indici accettabili, con la ripresa della produzione e del mercato, favorita dai giganteschi prestiti americani senza oneri (Piano Marshall).

   Contrario a imposte straordinarie e contrarissimo a tasse patrimoniali che avrebbero colpito media e piccola proprietà, mirò alla riesumazione della classe media, della scuola (pubblica o privata, purché seria) e alla valorizzazione di quanti servivano lo Stato con dedizione . Monarchico libero da feticismi, poté presto salutare il plebiscito del “quarto partito”: i risparmiatori, spina dorsale della Nuova Italia.

   Alla Costituente pronunciò discorsi appassionati e taglienti. Componente della Commissione dei Settantacinque che, presieduta da Meuccio Ruini, redasse la bozza della Carta, ottenne l'approvazione dell'articolo 81, che recita: «Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.»


L'eredità di un Capo dello Stato europeista

Nominato membro di diritto del Senato della Repubblica (22 aprile), all'indomani delle elezioni, prese parte all'inaugurazione della prima legislatura, chiamata a eleggere il Capo dello Stato. Alle 6 del mattino dell’11 maggio 1948 Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, andò a informarlo che al quarto scrutinio De Gasperi lo avrebbe fatto votare presidente della Repubblica per superare lo stallo sul nome di Carlo Sforza, già tre volte invano sostenuto dalla Democrazia cristiana. Il settantaduenne statista non gli ricordò di aver votato monarchia; lo aveva fatto anche Andreotti. Osservò invece che, claudicante e minuto qual era, avrebbe dovuto sfilare dinnanzi ai corazzieri. Fu eletto e nessuno trovò alcunché da obiettare. I corazzieri non avevano dimenticato Vittorio Emanuele III: poco marziale, ma “Re Soldato”.

   Capo dello Stato, Einaudi lasciò memoria del suo operoso settennato in Lo scrittoio del Presidente e in Prediche inutili. Improntò l'esercizio del ruolo a discrezione e continuità. Istituì il Segretariato Generale, nel solco del Ministero della Real Casa e all'insegna dell’austerità. All'inizio del 1945 aveva tracciato le linee del liberalismo: «Quando al figlio del povero saranno offerte le medesime opportunità di studio e di educazione che sono possedute dal figlio del ricco; quando i figli del ricco saranno costretti dall'imposta a lavorare, se vorranno conservare la fortuna ereditata; quando siano soppressi i guadagni privilegiati derivanti da monopolio, e siano serbati e onorati i redditi ottenuti in libera concorrenza con la gente nuova, e la gente nuova sia tratta anche dalle file degli operai e dei contadini, oltre che dal medio ceto; quando il medio ceto comprenda la più parte degli uomini viventi, noi non avremo una società di uguali, no, che sarebbe una società di morti, ma avremo una società di uomini liberi.»

   Qual è l'eredità di Einaudi? Quando sentiva (talora da persone “vicine”) vagheggiare di ideologie “sovietiche” neppure rispondeva: batteva il bastone per terra per dire che era impossibile dialogare. Anch'egli auspicò riforme mai attuate ma sempre attuali, a cominciare dall'abolizione del valore legale dei titoli di studio.

    Cultore profondo del “senso dello stato” che, spiegò Benedetto Croce, ministro dell’Istruzione nel V governo presieduto da Giolitti (1920-1921), non è solo “liberismo”, è “liberalismo”, Einaudi ne indicò i fondamenti nella tradizione civile sorta dalla cultura classica e dall'illuminismo, alla cui riscoperta critica si dedicarono egli stesso, bibliofilo appassionato, e Franco Venturi. Da presidente dell’Associazione dei piemontesi a Roma nel 1961 promosse i due poderosi volumi della Storia del Piemonte (ed. Casanova). Alla rievocazione del passato quale alimento irrinunciabile per la costruzione della Nuova Europa dedicò saggi memorabili, quali Andiamo in Piemonte! (pubblicato nel 1949 da “Il Ponte”, diretto da Piero Calamandrei) e Piccolo mondo antico, affidato a “Nuova Antologia”, la rivista che lo ebbe collaboratore sin dal 1900 e nella quale raccolse le finissime riflessioni Di alcune usanze non protocollari attinenti alla Presidenza della Repubblica (agosto 1956).

   Quali pionieri e numi tutelari del federalismo europeo vengono solitamente citati Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman, autore del piano che dette vita alla Comunità europea del carbone dell'acciaio. Tra i profeti e artefici della Nuova Europa, ancora lontanissima da una vera unità d'intenti, va però posto e ricordato in primo luogo proprio Luigi Einaudi, capace di conciliare concretezza e profezia, sulla base dello studio storico, della scienza della finanze e dell'economia politica, senza la quale la politica economica è vaniloquio.


DIDASCALIA: Luigi Einaudi. Su di lui si vedano Riccardo Faucci, Einaudi, Torino, Utet, 1986; Francesco Forte-Paolo Silvestri, “Einaudi”, in Dizionario del Liberalismo Italiano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015 e Tito Lucrezio Rizzo, Il Capo dello Stato dalla Monarchia alla Repubblica, Roma, Herald, 2024 (1^ ed. 2022).



IL “CANTO NAZIONALE”
CATTOLICI E RISORGIMENTO ITALIANO

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 18 Febbraio 2024 pagg. 1 e 6.
Il Collegio di
                                                  Carcare, ove Goffredo
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                                                  Mameli v. Marco Albera
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                                                  Saecularia sexta
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                                                  Università a Torino.
                                                  Sei secoli di storia,
                                                  Torino, Elede, 2005.Più luce sui Padri Scolopi chiede da Carcare il sindaco Mirri
Il “Canto nazionale”, noto anche come “Inno di Mameli”, rientra fra i tabù. Vietato scriverne per non incappare in “scomuniche”. Gradito o meno, esso deve piacere e va cantato perché “è così che si deve fare”. Il suo culto rientra tra i “precetti della Repubblica”. Viene sorbito come i medicinali, senza porsi domande.“Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole / e più non dimandare...” scriveva padre Dante Alighieri, principe di liberi pensatori, esuli, perseguitati e (come lui) condannati al rogo in contumacia. Sulla sua traccia, lo storico scevro da preconcetti ricerca documenti, li contestualizza e li propone al lettore affinché costui possa formare la sua valutazione senza pregiudizi dogmatici, con la “ragione”, che ignora gli “idola tribus”.
   Di quando in quando la genesi del Canto nazionale è stata messa in connessione con il Collegio casalanziano di Carcare (Savona), ove, come inoppugnabilmente documentato, Goffredo Mameli fu ospite nel settembre 1846. Poiché, però, qualcuno ha ipotizzato che i suoi versi siano debitori nei confronti dello scolopio Atanasio Canata, sia le biografie sia le evocazioni filmiche di Mameli hanno ritenuto prudente tacitare ogni curiosità facendo calare il più compatto silenzio sulla sua presenza nel Collegio scolopico di Carcare, il quale è invece giustamente fiero di aver formato nelle sue aule tanti insigni patrioti di metà Ottocento. Esso non fu l'unico, ben inteso. Da secoli le Scuole Pie fondate dallo spagnolo san Giuseppe Casalanzio (1557-1648) svolgevano anche in Italia un ruolo educativo d'avanguardia e di eccellenza. Fra i tanti spiccarono nel collegio San Giovannino di Firenze due docenti di Giosue Carducci, maestro e vate della Terza Italia: Eugenio Barsanti (inventore del motore a scoppio) e Francesco Donati, il “Cecco Frate” reiteratamente visitato dall'“allievo”, massone mai pentito, campione dell'anticlericalismo ma al tempo stesso rispettoso della fede verace, come emerse dal suo muto dialogo con Giuseppe Verdi a Palazzo Doria in Genova. Secondo Annie Vivanti, testimone oculare, dopo lungo silenzio Carducci confidò sommesso: «Io credo in Dio». «E Verdi fece sì, solennemente, con la candida testa.»
    Per evitare il rischio di fare i conti con la verità dei fatti, la “finzione” su Goffredo Mameli recentemente proposta da un canale televisivo della RAI si è attenuta alla regola: “quieta non movere”. Però, come noto, si pecca di pensieri, parole, opere e omissioni. Non si può certo pretendere che uno “sceneggiato” sia un documentario. Ma non può neppure essere troppo o del tutto lontano dalla verità, per non mancare alla sua “missio”: informare, proponendo allo spettatore la complessità degli eventi e dei personaggi evocati e così assolvere, almeno a grandi linee, al proposito “pedagogico”, vanto della televisione italiana dai suoi esordi agli Anni Sessanta. In quella lunga e rimpianta stagione, nella trasposizione di classici della letteratura, di vicende e di protagonisti della storia essa non si prese le licenze poi divenute comuni nei film, quali il famoso “Nell'anno del Signore” di Luigi Magni (1969), che dipinse il cardinale Agostino Rivarola più feroce e iniquo di quanto fu ed erroneamente addebitò a lui la condanna alla ghigliottina dei carbonari Leonida Targhini e Angelo Montanari, accusati senza prove di un “fatto di sangue” (tema di una pièce teatrale di Valeria Magrini, in programma a Ravenna per iniziativa della Fondazione Ravenna Risorgimento, presieduta da Eugenio Fusignani, nel centenario del loro supplizio).
   Veduta la “fiction”, il sindaco di Carcare, Rodolfo Mirri, non l'ha presa bene. Fedele alla sua formazione professionale di arbitro calcistico (con tanto di “Fischietto d'oro”) e fautore del giusto equilibrio, da tempo rivendica al suo Comune il rango di “città del Canto Nazionale” al pari di Genova che, con mezzi di gran lunga più possenti, ne pretende il monopolio. Per cogliere le sue buone ragioni è opportuno ricordare in sintesi chi fu Goffredo Mameli, i suoi rapporti con il Collegio scolopico di Carcare e i riferimenti storici presenti nel “Canto”, fondamentali per fissarne in maniera attendibile la datazione.
Goffredo Mameli. Chi era costui? Come nacque un eroe.
Nato a Genova nel 1827 da Giorgio Mameli, nobile cagliaritano, capitano di vascello, valoroso combattente contro i pirati nordafricani e fedelissimo dei sovrani sabaudi, e da Adele Zoagli, di cui si dice fosse invaghito Giuseppe Mazzini, sui dieci anni Goffredo fu iscritto alle Scuole Pie di Genova. Il 29 giugno 1843, all’Università, il giovane Mameli ebbe un alterco col diciottenne Giuseppe Lullin e venne punito con un anno di allontanamento dai corsi. Nell'agosto 1846, diciannovenne, fu ammesso al primo anno di legge. In settembre lo scolopio Raffaele Ameri lo condusse con sé in “vacanza di riflessione” da Genova al Collegio di Carcare, ove era già stato allievo un suo fratello. Del viaggio Goffredo dette conto in lettere assai sgrammaticate. A Carcare conobbe il focoso padre Atanasio Canata (Lerici, 1811 - Carcare, 1867), drammaturgo e poeta apprezzato da Alessandro Manzoni, ispiratore di prestigiosi discepoli, quali Pietro Sbarbaro, deputato, massone, autore di libelli famosi, Anton Giulio Barrili e il celebre Giuseppe Cesare Abba, garibaldino e futuro senatore del Regno, che lo ricorda con affetto nelle celebri “Noterelle di uno dei Mille”.
   A Carcare Goffredo si ambientò bene, come padre Ameri scrisse al confratello Agostino  Muraglia. Goffredo stesso il 9 settembre 1846 lo confermò a Giuseppe Canale. Arrivato stanco morto, “dopo cena mi posi a letto, che sogno che avevo non potea più tener gli occhi aperti. Del resto faccio di tutto per passare il tempo senza anoiarmi, mi provo a giocar al pallone alla palla, così comincio così finisco il giorno... qui ogni momento si prega, cosa buonissima ma che guasta le ginochia”. Forse per la stanchezza, forse per la fretta, all’epoca scriveva così.
   Com’è, come non è, il 10 novembre 1847, tramite l'amico Ulisse Borzino, Goffredo mandò un Canto al musicista Michele Novaro, che in quel momento, a Torino, era  in casa di Lorenzo Valerio, capofila della Sinistra democratica. Quando glielo consegnò, Borzino disse: “Te lo manda Mameli”, senza riferimenti al suo autore. “Col cuore in tumulto”, narrò molti anni dopo, Novaro corse a casa e, cappello in testa, scrisse freneticamente le note di quello che dovrebbe quindi esser detto l’“Inno di Novaro”, poiché di solito i canti sono ricordati dal nome del compositore e non da quello del paroliere, per quanto prestigioso. È il caso, tra i molti, dell'Inno alla gioia, che tutti ricordano dal nome di Ludwig van Beethoven mentre rimane in ombra quello, pur famoso, di Schiller, autore del testo. Nella concitazione Novaro rovesciò la lucerna sul foglio mandatogli da Mameli, sicché il  manoscritto originale andò irrimediabilmente perduto.
   Del Canto abbiamo un paio di copie. La prima, conservata al Museo del Risorgimento di Genova, inizia: “Evviva l’Italia / l’Italia s’è desta...”. Nella seconda (Museo del Risorgimento di Torino) si legge invece “Fratelli d’Italia...”, ma anche “Evviva l’Italia / dal sonno s’è desta...”. Fra le copie a stampa pubblicate nel 1848, quella della tipografia Andrea Rossi di Modena precisa: “Parole di Mammelli, musica del Maestro Novella (Piemontesi)”.
   In attesa della visita di leva, da Novi Ligure il 15 ottobre 1847, cioè proprio pochi mesi prima di inviare il Canto a Novaro, Goffredo espose il suo ideale di vita in una lettera alla madre: “Io qui me la passo benissimo, mangio per quattro, dormo molto, non faccio nulla, penso meno e questo è l'ideale del mio Paradiso, credo che voialtri farete altrettanto”. Rifiutò l’arruolamento nelle file dell'esercito sardo e, contro l'esborso concordato, si fece surrogare. All'epoca era consentito. Il benestante pagava e si liberava dalla noia del “servizio” e dal rischio della mobilitazione. Il meno abbiente si accollava l'una e l'altro, ma controvoglia. Perciò, come documentano Piero Pieri nella storia militare del Risorgimento e il generale Oreste Bovio in quella dell'esercito italiano i “dispersi in battaglia” erano quasi sempre più numerosi di morti e feriti. Semplicemente, prendevano il largo.
   Nel dicembre 1848, dopo rapida maturazione politica, Mameli accorse volontario a Roma per difendere la Repubblica proclamata il 9 febbraio 1849 su proposta di Giuseppe Garibaldi e di Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino, già promotore dei Congressi degli scienziati Italiani che tra il 1838 e il 1847 furono il volano dell'idea di Italia e gettarono le basi dell'unione culturale partendo dalle “scienze esatte”, meno compromettenti, per arrivare passo dopo passo a questioni scolastiche, pedagogiche e politiche. Il 3 giugno 1849, durante una sortita, un commilitone inferse un colpo di baionetta nella gamba sinistra di Mameli. Tra cure troppo sommarie e la calura estiva, la ferita  suppurò e andò in cancrena. Mazzini, triumviro della Repubblica con Carlo Armellini e Aurelio Saffi, gli scrisse che doveva rassegnarsi all'amputazione per salvare la vita e continuare la sua missione. Confortato da padre Ameri e dal barnabita Alessandro Giavazzi, Goffredo affrontò la terribile prova. Il 2 luglio Garibaldi decise di uscire da Roma alla volta di Venezia alla testa di duemila volontari, cui promise lacrime e sangue. Il 3 l'Assemblea suggellò la Costituzione della Repubblica Romana: un testo limpido ed esemplare, solennemente letto in Piazza del Campidoglio quale eredità della lunga resistenza dei volontari accorsi in aiuto della Repubblica contro i 30.000 uomini inviati da Luigi Napoleone, principe-presidente della repubblica francese, a restaurare Pio IX, di concerto con gli austriaci e i borbonici del Regno delle Due Sicilie. Il 4 luglio i francesi entrarono in Roma. Goffredo morì il 6. Padre Ameri gl’impartì il viatico e ne curò la sepoltura. Il Risorgimento era e rimaneva cristiano.
   In Inferno, Purgatorio e Paradiso d’Italia  scitto negli anni seguenti padre Canata lamentò un duplice disinganno: la rottura dell’unità d’azione di cattolici e patrioti e il furto di una poesia. Parlando di sé egli scrisse: “A destar quell’alme imbelli / meditò robusto un canto;/ ma venali menestrelli/ si rapian dell’arpe il vanto: / sulla sorte dei fratelli / non profuse allor che pianto, / e aspettando nel suo cuore/ si rinchiuse il pio cantore”. Secondo una tradizione mai spenta a Carcare si riferiva al Canto nazionale da lui dato o dettato a Mameli. Ma perché né lui né altri docenti lo indicarono nominativamente? Come spiegato dallo scolopio Luciano Giacobbe, lo fecero per pietà cristiana nei confronti di un giovane che aveva pagato con la vita i suoi generosi ideali e che, contro la verità dei fatti, veniva dipinto come mangiapreti. Da una parte vi era e vi è la matrice cattolica del Risorgimento, dall’altra la deformazione della storia, che ne fece un’impresa genericamente anticlericale, a tutto vantaggio di chi lo dipinge come complotto massonico.
   Del resto, chiunque ne sia l'autore, la genesi e il contenuto del Canto parlano da sé. Esprimono un pensiero adulto e profondamente  religioso: “Uniamoci, amiamoci;/ l’unione e l’amore/ rivelano ai popoli/ le vie del Signore”. Parole di un Maestro. Nella versione dell'inno conservata alla Società economica di Chiavari, il canto inizia “Oh Figli d’Italia...”. Non è la voce di un ventenne, ma di un docente che dalla cattedra si rivolge ai discepoli, di un sacerdote che parla da un pulpito ideale ai “fratelli”: un termine, codesto, tipico delle congregazioni religiose e in specie dei francescani in tutte le loro articolazioni, molto prima che fosse assunto dagli iniziati a logge massoniche e a vendite carbonare.
Storia e poesia nel Canto degli Italiani
Per datare la genesi del Canto, particolare attenzione meritano i suoi cenni a fatti storici: pochi, ma tutti molto allusivi. Alcuni si riferiscono alla storia antica e moderna. Il primo è quell'“elmo di Scipio” che suscitò il commento sarcastico di Giosue Carducci e che, tuttavia, è meno banale e retorico di quanto paia. Rinvia, infatti, alla riscossa di Roma contro il cartaginese Annibale, vittorioso al Ticino, alla Trebbia, al lago Trasimeno e a Canne, la sconfitta più cocente subita dalla Roma dei consoli. Per reagire alla sequenza di rovesci i Romani si spinsero a invocare gli Spiriti Ctoni praticando sacrifici umani. Seppellirono vivi due Greci e due Galli. La Roma evocata dall'inno è quella dei condottieri, cantata da Virgilio nell'Eneide: “parcere subiectis” e “debellare superbos”, monda dall'addebito (che le venne mosso nell'Agrippa da Publio Cornelio Tacito) di vantarsi portatrice di pace dove faceva il deserto: uno scambio di ruoli possibile solo elevando la storia a missione universale, divina, come nella visione apocalittica dei Quattro Imperi. In secondo luogo il Canto invoca la fusione dell'“italia gente da le molte vite” (Carducci) in un unico popolo, ridestato dal torpore e dalla servitù. Con parole pressoché identiche lo aveva già spiegato il criptogiansenista Alessandro Manzoni nel famoso coro dell'“Adelchi”. L'ispirazione è manifestamente ecclesiastica. È il pensiero di Vincenzo Gioberti (Torino, 1801 - Parigi, 1852), presbitero e cospiratore nei Cavalieri della Libertà, poi autore del “Primato morale e civile degli italiani” (1843), un'opera scritta di getto, caotica, alimentata dalla passione più che dalla ragione e nondimeno fondamentale per la diffusione dell'idea di Italia. Su suo impulso uscirono decine di migliaia di poesie, canti, manifesti, fogli volanti e opuscoli inneggianti agli italiani, non più “volgo disperso che nome non ha” (parole di Manzoni) ma avviati a una “unione”, confederazione o “lega” (almeno doganale, come proponeva il principe di Canino) presieduta dal papa.
   In una lettera scritta all'autore di questa “noterella” vent'anni addietro da Cornigliano (Genova), padre Luciano Giacobbo sintetizzò così il percorso dei padri di Carcare e più in generale della provincia religiosa scolopica della Liguria: «Esso affondava le sue origini nella seconda metà del Settecento, quando buona parte dei padri italiani avevano abbracciata la teologia giansenista. Agli inizi dell'Ottocento questa era sfociata in un atteggiamento morale rigoristico e in una posizione concreta antigesuitica, antitemporale e democratica, che nel corso del secolo poi si andò strutturando in ideologia patriottica caratterizzata dall'adesione sincera al giobertismo.» Quello, appunto, espresso da padre Canata nelle sue opere e che prorompe dal Canto degli italiani. La cui penultima strofa, densa di richiami storici, è la più suggestiva. Promette la vittoria dei “vinti” sull'Aquila imperiale dell'Austria, che nel tempo, in combutta con i russi (“cosacchi”), aveva bevuto il sangue degli italiani come quello dei polacchi. Quando? Nel 1799-1800, allorché gli austro-russi irruppero nell'Italia settentrionale e vi abbatterono le precarie repubbliche instaurate su impulso di Napoleone e del Direttorio di Parigi, e ancora nel 1830, con la repressione dell'insorgenza polacca. Nel febbraio-marzo 1846 la Galizia polacca visse un'altra stagione di disordini, oscura e contraddittoria, sostanziata nel massacro di circa duemila “nobili” da parte dei contadini polacchi, rapidamente schiacciati dagli asburgici, che occuparono Cracovia con il consenso di tutta l'Europa liberal-moderata. L'ultima strofa del Canto, infine, mescola i “liberi comuni” in lotta contro Federico Barbarossa (Legnano: un mito rinfrescato da Luigi Tosti, abate di Montecassino), il fiorentino Francesco Ferrucci, celebrato da Massimo d'Azeglio, e il genovese Giovanni Battista Perasso, detto  “Balilla”, il “ragazzo di Portoria” che, secondo la tradizione, il 5 dicembre 1746 scatenò la rivolta della Superba contro gli austriaci scagliando il sasso contro la testa di un armigero arrogante, in quel momento alleato di Carlo Emanuele III di Savoia (ma il testo si guarda bene dal dirlo).
   I quattro assenti dal Canto sono Carlo Alberto di Savoia, l'“italo Amleto” il cui orientamento “italiano” nel 1846 era ancora tutto da decifrare, mentre divenne trasparente nel 1847; Pio IX, che fu eletto papa il 16 giugno 1846; Mazzini, con buona pace di quanti ritengono che il cosiddetto Inno di Mameli sia pregno del suo magistero; e la “repubblica”, di cui invano vi si cercherebbe l'eco. Quanto ai Vespri siciliani, va ricordato che nel 1282 essi quelli furono un'insorgenza contro i Francesi, ma non per la fondazione di un regno indipendente, bensì a favore degli Aragonesi (“padrone lontano, briglia sciolta”).
   Una domanda attende risposta: perché nel Canto si parla di “fatti” del 1846 ma non v'è traccia alcuna del 1847? Questo fu un anno denso di eventi drammatici e di cambiamenti: l'occupazione austriaca di Ferrara, la sanguinosa guerra in Svizzera tra i cantoni cattolici e quelli protestanti, conclusa con la vittoria dei secondi e la trasformazione, a nome immutato, della confederazione elvetica in federazione, il varo di riforme da parte di Pio IX e la svolta di Carlo Alberto a sostegno della causa italica. Se davvero l'Inno fu scritto alla vigilia del pellegrinaggio a Oregina del dicembre 1847 (come ripetuto dalla “finzione” televisiva) com'è che di quei “fatti” così numerosi e importanti nulla si dice , mentre il mitico “ Balilla” venne evocato nel 1846, in coincidenza con il Congresso degli scienziati italiani celebrato in Genova?
   Ha dunque ragione il sindaco di Carcare Rodolfo Mirri a volerci vedere più chiaro. Allo scopo, dopo aver esposto le ragioni del suo Comune al Presidente Sergio Mattarella, per la mattina del 13 aprile l'Arbitro ha in progetto un convegno di studi per approfondire i legami tra Mameli e Carcare, che vuol anche dire tra il giovane patriota e gli Scolopi, da padre Ameri ad Atanasio Canata. Sono previsti interventi del Comune di Lerici e della saggista Bruna Magi: non per togliere a Mameli e all'Inno la meritata gloria, ma per dare “unicuique suum”, in nome della verità dei fatti.
Aldo A. Mola


DIDASCALIA: Il Collegio di Carcare, ove Goffredo Mameli fu ospite dei padri Scolopi e conobbe il poeta e drammaturgo Atanasio Canata.
  Per un sintetico profilo di Mameli v. Marco Albera e Manlio Collino,  Saecularia sexta Album. Studenti e Università a Torino.  Sei secoli di storia, Torino, Elede, 2005. 

3 SETTEMBRE-13 OTTOBRE 1943
RISALIRE LA CHINA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 14 gennnaio 2024 pagg. 1 e 6.
Pietro
                                                          Badoglio
                                                          (Grazzano
                                                          Monferrato,
                                                          poi Grazzano
                                                          Badoglio, 28
                                                          settembre
                                                          1871-1°
                                                          novembre 1956,
                                                          marchese del
                                                          Sabotino, duca
                                                          di Addis
                                                          Abeba, capo
                                                          del governo
                                                          dal 25 luglio
                                                          1943 al 18
                                                          giugno 1944)
                                                          legge la
                                                          dichiarazione
                                                          di Guerra alla
                                                          Germania
                                                          (Brindisi, 13
                                                          ottobre 1943).
                                                          Alla sua
                                                          destra il
                                                          generale
                                                          Maxwell
                                                          Taylor. I
                                                          Verbali dei
                                                          suoi governi
                                                          sono
                                                          pubblicati a
                                                          cura di Aldo
                                                          G. Ricci
                                                          (Poligrafico
                                                          dello Stato).La lunga via della resa
Alle 11 del 3 settembre 1943 il capo del governo Pietro Badoglio autorizzò il generale Giuseppe Castellano a firmare alle 17 “l'accettazione delle condizioni d'armistizio”. Come il generale scrisse il 15 dicembre nella relazione all'“ispettore generale dell'Esercito” (la si legge nel vol. X della IX serie dei Documenti Diplomatici Italiani, DDI), nelle ore seguenti si svolse al Fairfield anglo-americano presso Cassibile «la prima riunione di carattere militare» presieduta dal generale Harold Alexander. Durò tutta la notte. Il generale statunitense Walter Bedell Smith, che aveva firmato per conto di Dwight Eisenhower, dette «in visione» a Castellano le «clausole aggiuntive alle condizioni di armistizio, di carattere militare, politico ed economico», redatte ancor prima dell'incontro di Lisbona del 19 agosto. Su un biglietto allegato al documento gli confermò che ad esse doveva estendersi «l’effetto della Carta di Quebec»: l'Italia avrebbe ottenuto un miglioramento delle durissime condizioni di resa (surrender) in misura del suo apporto alla lotta contro la Germania. Castellano ne fu rinfrancato, ma, trattenuto in Sicilia, non poté informarne il governo. Due giorni dopo il maggiore Luigi Marchesi, presente alla firma della resa, volò a Roma con lo scottante testo delle “clausole aggiuntive” e il biglietto di Smith. In una lettera per Ambrosio, Castellano precisò di non conoscere la data e il luogo dello «sbarco principale» programmato dagli anglo-americani ma di presumere che avrebbe avuto luogo «intorno al 12». Lo scenario prospettato nelle conversazioni tra lui e gli anglo-americani era però del tutto diverso da quanto effettivamente programmato dagli Alleati. Molto prima di arrivare alla firma, gli italiani avevano chiesto che in coincidenza con l'“armistizio” essi sbarcassero quindici divisioni molto a nord di Roma, per costringere i tedeschi a rapida ritirata dal Mezzogiorno. Gli alleati risposero che se fossero sbarcati con quella forza non avrebbero avuto motivo di concedere la resa: avrebbero occupato e debellato l'Italia, privandola di ogni riconoscimento. Tra il 4 e il 5 settembre gli anglo-americani ventilarono a Castellano l'aviolancio di una divisione di paracadutisti negli aeroporti di Cerveteri e di Furbara, a nord di Roma. Chiesero anche informazioni sulla navigabilità del Tevere per portare artiglierie e mezzi corazzati a tutela della capitale. Per accertarsi che tutto fosse predisposto il generale Maxwell Taylor si sarebbe recato in incognito a Roma.
   Mentre Castellano colloquiava con gli Alleati «su un’infinità di questioni» (propaganda, guerriglia, politica, impiego della flotta) Vittorio Emanuele III e Badoglio miravano a scongiurare che filtrasse qualunque indizio della resa. I tedeschi, che dal 6 agosto chiedevano al ministro degli Esteri Raffaele Guariglia informazioni sulla sorte di Mussolini, dal 24 agosto sospettavano che gli italiani avessero avviato trattative a Lisbona. A loro volta furono sospettati di aver ordito un complotto per rovesciare Badoglio, se non tramite la Wehrmacht per mezzo delle SS, uno “Stato nello Stato”. In quei frangenti Badoglio ordinò l'arresto del maresciallo Ugo Cavallero, senatore del regno, rilasciato per intervento del Re, e di Ettore Muti, ucciso durante la traduzione in carcere.
   Il 19 agosto a Lisbona Smith aveva spiegato “con cura” a Castellano che il loro “colloquio” aveva per tema la capitolazione militare, non un accordo per la partecipazione dell'Italia nella guerra con gli alleati. Aggiunse che il Re avrebbe potuto sottrarsi alla possibile cattura lasciando l'Italia «su una nave da guerra italiana» e che senza dubbio sarebbe stato necessario «un governo militare alleato su parte del territorio italiano». Il 30 agosto, poco prima che Castellano volasse a Termini Imerese per iniziare il triduo preparatorio alla resa, Badoglio gli dette le ultime istruzioni per ottenere lo sbarco delle famose quindici divisioni «tra Civitavecchia e Spezia» e la protezione del Vaticano. Precisò che sarebbero rimasti a Roma il Re, la Regina, il principe ereditario, il governo e il corpo diplomatico e chiese di «sapere l'epoca pressapoco allo scopo di prepararsi».
Le delusioni dei vinti
   A resa firmata Badoglio non ebbe risposta a nessuna delle sue domande. Rimase nella convinzione che tra la firma e il suo annuncio sarebbero trascorsi almeno dieci giorni, se non le due settimane ripetutamente sollecitate. Il 31 agosto Smith aveva proposto a Castellano che Vittorio Emanuele III si trasferisse su una nave italiana a Palermo. Gli Alleati l'avrebbero evacuata. Lì quindi poteva essere stabilita «una certa misura di sovranità italiana». Però l'isola era ormai sotto il pieno controllo anglo-americano; pertanto agli occhi del mondo sarebbe risultato che il Re cercava rifugio sotto l'ala del vincitore. Alternando toni ruvidi a quelli concilianti, Smith aggiunse che gli Alleati avrebbero comunque ignorato la pretesa unilaterale del governo italiano di considerare Roma “città aperta”. Benché cattolico, precisò che sarebbe stata bombardata «a seconda della situazione». Badoglio predispose pertanto il trasferimento dei Reali in Sardegna. Scartato per molti motivi l'impiego dell'aereo, ipotizzò il viaggio in nave da Civitavecchia. Sennonché la città fu occupata dai tedeschi, che ormai dilagavano ovunque da padroni, indifferenti alle proteste del comando supremo e dei comandanti locali.
   “Sic stantibus rebus” Badoglio percepì che gli anglo-americani non sarebbero giunti in forze sulla linea Livorno-Rimini dove, sia con la Dichiarazione di Quebec sia nei colloqui successivi, avevano fatto intendere di voler arrivare, oltre che a ridosso di Roma per metterla al sicuro dalla minaccia germanica. Perciò non dette credito alla missione di Maxwell Taylor che la sera del 7 settembre si presentò a Roma con il colonnello William Gardiner per verificare la fattibilità dell'aviolancio di paracadutisti alleati: una quota irrilevante rispetto alle forze tedesche attestate attorno alla città. Gli italiani avevano sopravvalutato gli Alleati; e questi a loro volta sopravvalutavano la reattività degli italiani contro i germanici. In assenza di ormai improbabili aiuti anglo-americani una battaglia in Roma si sarebbe risolta in una catastrofe per la Città Eterna, che racchiudeva al suo interno lo Stato della Città del Vaticano.
   La situazione fu sul punto di sfuggire completamente di mano.
   Alle 2 dell'8 settembre Badoglio scrisse ad Eisenhower che « dati cambiamenti e precipitare situazione esistenza forze tedesche in zona di Roma non è più possibile accettare l'armistizio immediato (DDI) ». Alle 11.30 il comandante delle forze anglo-americane, da Algeri (in realtà era a Biserta) rispose che avrebbe svergognato l'Italia agli occhi del modo pubblicando «full records of this affair». E aggiunse lapidario: «Today is X day, and I expect you to do your part». Se Badoglio si fosse tirato indietro – egli intimò – sarebbe stata la fine per il governo e per l'Italia. Era anche pronto a ordinare un massiccio bombardamento su Roma.
   Alle 18:25 il segretario generale agli Esteri informò il ministro Raffaele Guariglia che la radio di New York aveva comunicato che l'Italia aveva firmato l'armistizio e che tutte le truppe italiane avevano deposto le armi. In quei minuti era in corso un consulto (erroneamente narrato come “Consiglio della Corona”, organo mai esistito) tra Badoglio, Ambrosio, Guariglia, il generale Carboni, i ministri militari, quello della Real Casa duca d'Acquarone, l'aiutante di campo del Re Paolo Puntoni, il maggiore Marchesi, bene informato sull'orientamento degli Alleati, e il sovrano in persona. Carboni propose di sconfessare la resa e di continuare la guerra a fianco della Germania. Ottenne consensi. Fu il maggiore Marchesi a ricondurre alla ragione. Informò che gli Alleati avevano fotografato e filmato la firma di Cassibile e quindi l'Italia avrebbe perso ogni credibilità. Il Re decise che la resa andava annunciata. Alle 19:30 Badoglio comunicò ad Eisenhower che «la proclamazione [della resa] avrebbe avuto luogo come richiesto anche senza il vostro messaggio [intimidatorio, NdA], essendo per noi sufficiente l'impegno preso». Un'ora dopo l'Eiar emanò l'annuncio dell'“armistizio” per bocca di Badoglio e lo ripeté più volte. Alle 20:20 il maresciallo indirizzò a Hitler una lunga informativa che così concludeva: «Non si può esigere da un popolo di continuare a combattere quando qualsiasi legittima speranza, non dico di vittoria, ma financo di difesa si è esaurita. L'Italia ad evitare la sua totale rovina è pertanto obbligata a rivolgere al nemico una richiesta di armistizio.» Da tempo in sospetto ma sino a poche ore prima rassicurati che l'Italia avrebbe continuato la guerra al loro fianco, i comandi tedeschi in Italia vennero colti di sorpresa e non furono in grado di assumere subito una linea di condotta.
   Invece in poche ore Badoglio organizzò il trasferimento dei Reali, del principe ereditario, di Ambrosio, di alcuni ministri (il Re riteneva che fossero tutti avvertiti: farlo non era compito suo) e del loro seguito da Roma alla volta di Pescara. Dal ministero della Guerra, più sicuro rispetto al Quirinale, alle 5:10 del mattino del 9 la Fiat 2800 del Re uscì dal Palazzo e imboccò la via Tiburtina in direzione di Pescara, seguita da altre vetture, con le insegne bene in vista, come documentano le fotografie pubblicate da Angelo Squarti Perla in “Le menzogne di chi scrive la storia” (BastogiLibri). Il troppo celebrato Peter Tompkins in “Dalle carte segrete del Duce” asserisce che «il re e l'intero stato maggiore, macchiandosi di uno dei più vergognosi tradimenti della storia, fuggivano a Brindisi per mettersi sotto la protezione degli Alleati». In «Tagliare la corda. 9 settembre 1943. Storia di una fuga» (ed. Solferino) Marco Patricelli rincara la dose: «Fu una fuga, un abbandono, non fu un allontanamento e neppure un trasferimento […] Tagliando la corda, venne reciso senza gloria e nel peggiore dei modi immaginabili il nodo che aveva legato una dinastia e un intero sistema ai destini dell’Italia.» La realtà dei fatti è ben diversa. Il Re e Badoglio decisero di trasferirsi nella Puglia meridionale poiché lì non vi erano ancora Alleati e i militari italiani stavano cacciando i tedeschi, come a Bari, ove presero il controllo del porto guidati dal valoroso generale Nicola Bellomo. A Roma i Granatieri di Sardegna dalla notte dell'8 settembre si batterono contro i tedeschi per alto senso del dovere verso la Patria, come ricorda Luigi Franceschini in “50 anni dopo” (ed. fuori commercio, 1993). Altrettanto avvenne altrove. Risulta altresì destituita di fondamento l'insinuazione di un accordo segreto tra Badoglio e il maresciallo Kesselring che avrebbe lasciato sfilare il convoglio reale in cambio del “via libera” sulla capitale. La posta in gioco non era Roma ma lo Stato. Con la partenza da Roma per la Puglia il Re salvò la continuità dello Stato, riconosciuto dalle Nazioni Unite.
   In coincidenza con la proclamazione della resa, gli Alleati iniziarono lo “sbarco principale” nella piana di Salerno con forze inadeguate e rischiarono di essere rigettati in mare. Quarant'anni or sono lo documentò Massimo Mazzetti. Il pomeriggio del 9 il Re presiedette a Pescara la breve riunione dei vertici militari che decise la partenza per la Puglia, con imbarco la sera. Alle 21:50 il comando supremo italiano informò quello alleato: «We are moving to Taranto. We shall re-establish communications tomorrow 10 September, we repeat 10 September. Greetings». Alle 16:57 del 10 Eisenhower ripose a Badoglio: «L’intero futuro ed onore dell'Italia dipendono da ciò che le sue forze armate sono ora pronte a fare. Se l'Italia, dal primo all'ultimo uomo, si alza ora prenderemo ogni tedesco per la gola. Vi propongo con urgenza a fare perciò un richiamo squillante a tutti gli italiani amanti della Patria.» Il presidente degli USA e il premier britannico Churchill lo stesso giorno si congratularono con Badoglio che l'11 assicurò da Brindisi «tutto quello che è possibile è, e sarà fatto con quello stesso spirito e con quella stessa tenacia che esplicammo insieme sui campi di battaglia d'Italia e di Francia durante la grande ultima guerra». Il 15 esortò il capo della Missione militare alleata in Italia, Mason MacFarlane, a far sapere al mondo «che gli Alleati considerano ormai l'Italia come uno Stato che collabora spontaneamente sul piano militare».
In margine all'“armistizio lungo”
   Risalire la china era però un cammino ancora irto di ostacoli. Proprio perché ebbe cognizione diretta e gli venivano documentate le angherie degli Alleati ai danni degli italiani, il 21 settembre Vittorio Emanuele III scrisse a Roosevelt e a Giorgio VI di Gran Bretagna invitandoli ad affrettare il suo ritorno suo in Roma: «L’esercizio del potere civile su di una notevole parte del territorio nazionale consentirebbe, fornendo una maggior scelta di uomini politici, la ricostruzione politica del Paese da completarsi col ritorno al regime parlamentare da me sempre auspicato.» A quel modo sarebbe stato contrastato efficacemente «il nuovo governo fascista, sia pure illegalmente costituito».
   Da pochi giorni, infatti, prelevato il 12 settembre a Campo Imperatore sul Gran Sasso da un “commando” tedesco, trasferito in Germania e riportato in Italia sotto controllo di Hitler, Mussolini aveva proclamato lo Stato fascista repubblicano, poi Repubblica sociale italiana. Rimane senza risposta l'interrogativo sulla mancata custodia dell'ex dittatore da parte di Badoglio. È possibile che questi fosse sicuro della sua innocuità sulla base della lettera scrittagli il 26 luglio da Mussolini stesso, desideroso di trasferirsi in qualsiasi momento a Rocca delle Caminate. Mentre gli dichiarò «da parte mia non solo non gli verranno create difficoltà di sorta, ma sarà data ogni possibile collaborazione», l'ex duce gli augurò il successo del grave compito al quale si accingeva «per ordine ed in nome di S.M. il Re, del quale durante 21 anni sono stato leale servitore, e tale rimango».
   Alle 10:50 del 29 settembre nel quadrato della nave britannica “Nelson” ancorata a Malta Eisenhower e Badoglio sottoscrissero i 44 articoli del cosiddetto armistizio lungo, scritto in agosto contemporaneamente a quello corto e immutabile. In 65 minuti, comprensivi di una pausa per sorbire bibite, Badoglio, Ambrosio, Roatta, Sandalli e De Courten per l'Italia, Eisenhower, l'ammiraglio Cunningham e i generali Alexander, MacFarlane e Gort per gli anglo-americani, a margine della firma si confrontarono sulle prospettive. Il comandante in capo degli Alleati esortò Badoglio a dichiarare guerra alla Germania per tutelare i militari altrimenti passibili di fucilazione come “partigiani”. Il maresciallo assicurò che ne avrebbe riferito al Re, poiché la dichiarazione di guerra era sua prerogativa esclusiva e propose il rientro in Italia di Dino Grandi, suscitando perplessità dell'interlocutore, che a sua volte esortò a ricevere e a valorizzare Carlo Sforza, poco gradito al Re per le sue dichiarazioni antimonarchiche (ancorché fosse Collare della SS. Annunziata e senatore). Di concerto con Alexander aggiunse «di poter ritenere che la liberazione di Roma sarà abbastanza presto». Avvenne il 5 giugno1944. Badoglio chiese anche di far parlare da Londra il maresciallo Giovanni Messe, già aiutante di campo del Re (e massone, anche se nessuno lo disse). Eisenhower assentì malgrado gli inglesi.
   Nelle settimane seguenti gli Alleati ostacolarono in molti modi la riscossa del regno d'Italia, lesinando gli aiuti per la riorganizzazione dell'esercito. Il 13 ottobre Vittorio Emanuele III dichiarò guerra alla Germania. Come l'indomani scrisse Badoglio, così si chiuse «il periodo di armistizio e quello di cooperazione, durato complessivamente trentacinque giorni, per entrare nel terzo periodo, quello della co-belligeranza». Il maresciallo sintetizzò il quadro nel campo militare, alternanza di pagine negative («difesa sfortunata di Corfù e Cefalonia») e positive, e in quello politico con «il concorso alla causa dei vari partiti di patrioti nelle Nazioni invase». Nessun cenno alla situazione interna. Agli occhi dei più questa risultava deludente. E non solo perché il Comitato centrale di liberazione presieduto da Ivanoe Bonomi gli negava ogni collaborazione ma soprattutto perché, come il 4 ottobre scrisse il primo segretario di legazione, Antonio Venturini, «la grande maggioranza della gente (militari, funzionari, uomini di governo, intellettuali, privati di ogni genere, ecc.) ha l'impressione – e questa impressione va sempre più estendendosi – che il Governo sta seguendo una politica dilatoria e che, per ora, preferisca non affrontare numerosi problemi che assillano la vita del paese».
   Aveva veduto lungo Vittorio Emanuele III quando il 7 settembre confidò all'aiutante di campo che l'azione di Badoglio era «indecisa e poco sincera. Non è certamente un uomo all'altezza del momento». Paolo Puntoni ne ebbe conferma la sera dell'8 allorché il re osservò: «l’armistizio è accettato, ma Badoglio che rappresenta il governo non impartisce alcuna disposizione per fronteggiare gli avvenimenti che incalzano».
   Anche in regime di cobelligeranza il futuro, dunque, rimaneva fosco.
Perché per anni gli italiani avevano plaudito “Lui”?
   Ma la “responsabilità” non era solo di chi governava e meno ancora del Capo dello Stato, re costituzionale. Investiva tutti i cittadini. Dal 1913 i maschi erano titolari del diritto di voto. Eleggevano la Camera, che a sua volta conferiva o negava la fiducia ai governi. Non erano “innocenti”, come non lo erano i partiti nei quali si riconoscevano. Tutti avevano avuto le loro responsabilità, anche nell'avvento e nella durata del regime mussoliniano dal 3 gennaio 1925 alla catastrofe dell'estate 1943. Ci rifletté Benedetto Croce confidando al Diario le sue riflessioni su Mussolini, «di corta intelligenza», privo di sensibilità morale, vanitosissimo, sempre fra il pacchiano e l'arrogante. «Ma egli – aggiunse – chiamato a rispondere del danno e dell'onta in cui ha gettato l'Italia, con le sue parole e la sua azione come con tutte le sue arti di sopraffazione e di corruzione, potrebbe rispondere agli italiani come quello sciagurato capopopolo di Firenze, di cui parla Giuseppe Villani, il qual rispose ai suoi compagni d'esilio che gli rinfacciavano di averli condotti al disastro di Montaperti: “E voi, perché mi avete creduto?”» Le piazze stracolme di folla plaudente al duce sono motivo perenne di riflessione e un monito sempre attuale.
Aldo A. Mola


Didascalia: Pietro Badoglio (Grazzano Monferrato, poi Grazzano Badoglio, 28 settembre 1871-1° novembre 1956, marchese del Sabotino, duca di Addis Abeba, capo del governo dal  25 luglio 1943 al 18 giugno 1944) legge la dichiarazione di Guerra alla Germania (Brindisi, 13 ottobre 1943). Alla sua destra il generale Maxwell Taylor. I Verbali dei suoi governi sono pubblicati a cura di Aldo G. Ricci (Poligrafico dello Stato).
 


25 LUGLIO 1943
FU “VENDETTA” MASSONICA?

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 31 Dicembre 2023 pagg. 1 e 6.

Sotto la
                                                          data del 24
                                                          luglio Bonomi
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                                                          affiancato da
                                                          Vittorio
                                                          Emanule
                                                          Orlando e da
                                                          Francesco
                                                          Saverio Nitti)
                                                          annotò: “Oggi
                                                          alle 17 viene
                                                          da me un noto
                                                          antifascista,
                                                          il dottor
                                                          Domenico
                                                          Maiocco
                                                          piemontese,
                                                          che è molto in
                                                          intimità con
                                                          il quadrumviro
                                                          De Vecchi.
                                                          Egli mi
                                                          conferma che
                                                          il Gran
                                                          consiglio del
                                                          fascismo si
                                                          convoca
                                                          proprio
                                                          nell'ora in
                                                          cui egli mi
                                                          parla e che le
                                                          deliberazioni
                                                          dell'assemblea
                                                          saranno di
                                                          eccezionale
                                                          importanza”.
                                                          Tramite
                                                          Maiocco, De
                                                          Vecchi
                                                          desiderava
                                                          fargli sapere
                                                          che sarebbe
                                                          stato
                                                          amichevolmente
                                                          invitato a far
                                                          parte del
                                                          nuovo governo
                                                          dopo la
                                                          prevista
                                                          revoca di
                                                          Mussolini.
                                                          Rispose che
                                                          gli pareva “un
                                                          romanzo”,
                                                          “sogno di
                                                          menti
                                                          oscurate”.
                                                          Iniziato
                                                          massone nel
                                                          1923 nella
                                                          loggia “Vita
                                                          Nova” di
                                                          Alessandria,
                                                          socialista e
                                                          perseguitato
                                                          dal regime,
                                                          Maiocco fondò
                                                          la Massoneria
                                                          Italiana
                                                          Unificata, già
                                                          auspicata da
                                                          Placido
                                                          Martini,
                                                          antifascista,
                                                          ucciso alle
                                                          Fosse
                                                          Ardeatine, e
                                                          ne fu gran
                                                          maestro,
                                                          riconosciuto
                                                          dal Supremo
                                                          Consiglio del
                                                          Rito scozzese
                                                          antico e
                                                          accettato
                                                          degli USA
                                                          (giurisdizione
                                                          sud). Ne ha
                                                          scritto il
                                                          generale
                                                          Antonino
                                                          Zarcone in “Lo
                                                          sconosciuto
                                                          messaggero del
                                                          colpo di
                                                          Stato” (ed.
                                                          Annales,
                                                          2015).L'editoriale di domenica scorsa ha chiarito che l'ordine del giorno Grandi-Bottai-Federzoni approvato a larga maggioranza dal Gran consiglio del fascismo alle 2.40 del 25 luglio 1943 non mirò affatto a smantellare il regime fascista né influì sulla decisione di Vittorio Emanuele III di revocare Benito Mussolini da capo del governo e di sostituirlo con il maresciallo Pietro Badoglio. Da tempo il Re aveva deciso di propria volontà, nella consapevolezza che per avviare trattative armistiziali con gli anglo-americani era necessario mettere fine al regime. Allo scopo si valse di una “trafila” di militari.

La trafila militare
Su impulso di Vittorio Emanuele III e di concerto con il ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone, il capo di stato maggior generale Vittorio Ambrosio col concorso di militari di piena fiducia, come il generale Giuseppe Castellano e il comandante generale dei carabinieri Angelo Cerica, allestì il piano per “far sparire” Mussolini: non per ucciderlo, come taluno interpreta, ma per “fermarlo” e isolarlo, in modo che non potesse capitanare o essere riferimento di opposizione alle decisioni del Re. Il progetto risultò analogo a quello prospettato da Ivanoe Bonomi (1873-1951) a Vittorio Emanuele III il 2 giugno. Revocato Mussolini e formato un governo militare, con a capo Ambrosio, Badoglio o il maresciallo Enrico Caviglia, glorioso e prestigioso ma “troppo vecchio” a giudizio del Re, secondo Bonomi occorreva “tenere in arresto” Mussolini, “per evitare che possa, con la milizia armata, gettare il Paese nella guerra civile”. Il nuovo governo doveva “invalidare l'alleanza con la Germania” perché non era “fra due Stati e due popoli, ma fra due regimi, fra due rivoluzioni”, la fascista (da chiudere con la revoca di Mussolini) e la nazionalsocialista, invisa alla maggioranza degli italiani. “La nazione ha sempre diritto di fare ciò che vuole” osservò il Re. Però non commentò l'ulteriore sollecitazione di Bonomi: se aggredita dai tedeschi col pretesto di “tradimento”, l'Italia doveva “chiedere l'aiuto anglo-americano ed entrare nell'alleanza delle Nazioni unite”. Parve stanco, sfiduciato e lamentò salute malferma. “Deluso”, Bonomi concluse che o dissimulava abilmente o non aveva un proposito chiaro. Identica impressione ne trasse il liberale Marcello Soleri che, ricevuto l'8 giugno, esortò il Re a un “intervento risolutivo” anche per scrollarsi di dosso l'addebito di connivenza con il fascismo, serpeggiante specialmente nei giovani. Il 16 luglio Soleri apprese da Acquarone che il sovrano aveva deliberato di formare un governo tecnico-militare guidato da Badoglio. Prevalsero due sole certezze: Vittorio Emanuele III rimaneva impenetrabile e quando avesse deciso avrebbe incaricato Badoglio di formare un governo tecnico-militare.
   Sulla preferenza di Badoglio rispetto ad Ambrosio e a Caviglia sono state ricamate molte narrazioni. Secondo una tra più suggestive il Re scartò Caviglia perché si sarebbe detto che “tornava la Massoneria”. L'affermazione è poco convincente perché Caviglia era cattolico praticante e quindi, per l'epoca, incompatibile con la “Setta Verde”. Benché avesse motivo di non fidarsene ciecamente, il Re optò per Badoglio poiché sapeva dei suoi contatti con gli inglesi, ai quali, documenta Elena Aga Rossi, aveva rivelato di non ritenersi più vincolato a Casa Savoia e pronto a sostituire Mussolini.
   Il voto del Gran consiglio colse di sorpresa gli antifascisti “moderati”. Quale linea dovevano tenere dopo il “colpo di Stato”? De Gasperi persuase tutti. Si trattava di “liquidare due diverse partite: l'abbattimento di Mussolini e del fascismo e la conclusione di un accordo con gli anglo-americani. La prima partita (era) attiva per gli uomini politici chiamati a liquidarla”. Essi avrebbero acquistato un titolo di benemerenza del Paese. La seconda invece era “passiva”. L'“accordo armistiziale” si prospettava difficile, gravido di “responsabilità penose per i suoi negoziatori”. Sarebbe stato un errore accollarsene la corresponsabilità. Meglio, quindi, rimanere “in attenta osservazione”. Va ricordato che i maggiorenti delle correnti (non ancora “partiti”) rappresentate da Bonomi e dai suoi sodali nel novembre 1922 avevano votato a favore del governo Mussolini. Capogruppo del partito popolare alla Camera dei deputati, De Gasperi aveva dichiarato il sostegno al duce. Casati (1881-1955) era stato ministro della Pubblica istruzione con Mussolini dopo il “delitto Matteotti”.
   Il 28 luglio in casa di Giuseppe Spataro le sei correnti (liberale, democratica, cattolica, di azione, socialista e comunista) incaricarono Bonomi di illustrare le “questioni” a loro avviso “urgenti” a Badoglio, capo del “governo militare del Paese, con pieni poteri” e il 29 si costituirono in comitato nazionale. Dalla “osservazione” passarono dunque al “colloquio” col Maresciallo, che però mostrava “molta inesperienza politica, ma molta buona volontà”.
Badoglio al potere 
Come documentano i Verbali del Consiglio dei ministri pubblicati e ottimamente curati da Aldo G. Ricci (“Governo Badoglio, 25 luglio 1943-22 aprile 1944”, ed. Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1994) nella sua prima riunione, il 27 luglio 1943, il governo approvò schemi di decreti legge che voltarono pagina nella storia d'Italia: soppressione del Partito nazionale fascista, del Gran consiglio del fascismo e del Tribunale speciale per la difesa dello Stato; scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni; sostituzione di Giacomo Suardo con il grande ammiraglio Paolo Thaon di Revel alla presidenza del Senato; nomina del generale Quirino Armelini al comando della Milizia volontaria di sicurezza nazionale, che assunse per distintivo le stellette dell'esercito al posto dei fasci; abrogazione delle norme contenenti limitazioni in dipendenza dello stato di celibi e un ampio movimento di prefetti. Mentre vennero collocati a riposo i più noti fiancheggiatori di Mussolini, altrettanti furono richiamati in servizio. Carmine Senise fu nominato capo della Polizia, militarizzata e sottoposta alla legge penale militare.
   Qualunque opinione si voglia avere su Badoglio, va constatato che una mole così ampia di misure di vasta portata ebbe lunga gestazione. Il divieto di fabbricazione, esposizione, commercio e diffusione di emblemi e distintivi di associazioni e partiti politici di qualunque specie e denominazione fu pprovato ma (come ricorda Ricci) non ebbe seguito. Altro premeva. Lo “stato di guerra” fu esteso a tutto il territorio nazionale e il capo di stato maggiore dell'esercito, Mario Roatta, diramò la circolare che vietò ogni manifestazione e ne ordinò lo scioglimento “manu militari”. Anche dimostrazioni di giubilo per la “caduta di Mussolini” vennero represse con morti e feriti. Badoglio ebbe due obiettivi: disperdere drasticamente prevedibili proteste a favore di Mussolini e del fascismo e mostrare all'estero che aveva il controllo dell'ordine pubblico e contava sul consenso del Paese. Quest'ultimo era particolarmente rilevante sia nei rapporti con la Germania, di cui l'Italia continuò a dirsi alleata dichiarando “la guerra continua” (formula suggerita da Vittorio Emanuele Orlando), sia per gli anglo-americani.
   Il 5 il governo tenne la seconda seduta, ricca di importanti misure: soppressione del fascio littorio (relatore Badoglio), funzionamento della giustizia (Gaetano Azzariti), del corpo diplomatico (Raffaele Guariglia), organico dei carabinieri (Renato Sorice), reintegrazione di docenti (Leonardo Severi, ministro suggerito da Bonomi, come anche Leopoldo Piccardi) e la devoluzione dei patrimoni di non giustificata provenienza, mentre i giornali (i cui direttori erano di nomina post-fascista) denunciavano i “profitti di regime”.
Verso la resa
Tutte le fonti documentarie, la memorialistica e persino la narrativa (valga d'esempio “Primavera di bellezza” di Beppe Fenoglio) descrivono l'Italia dell'agosto 1943 come Paese “in sospeso”. Sottoposti a massicci bombardamenti anglo-americani sulle città più importanti (Napoli, Milano, Torino, Foggia e, per la seconda volta, anche Roma) gli italiani anelavano alla pace. Il governo si trovò tra la dura incudine delle divisioni germaniche irrompenti col pretesto di soccorrere l'alleato e il pesante martello degli anglo-americani che premevano per costringere l'Italia alla resa senza condizioni come stabilito a gennaio nella conferenza di Casablanca. Il Re autorizzò l'avvio di trattative armistiziali. Con le necessarie cautele per non insospettire il diffidente alleato, iniziò la missione del generale Giuseppe Castellano che, via Madrid, raggiunse Lisbona, vi ebbe contatto con il Comando anglo-americano e ricevette le condizioni preliminari imposte dai vincitori (il cosiddetto “armistizio breve”) che, rientrato a Roma dopo viaggio altrettanto lungo, consegnò a Badoglio per il Re.
   Mentre continuavano i bombardamenti “pedagogici”, nel corso della conferenza di Quebec il 18 agosto 1943 il presidente degli Stati Uniti d'America Franklin Delano Roosevelt e il premier britannico Winston Churchill dichiararono che “la misura nella quale le condizioni (di resa) saranno modificate in favore dell'Italia dipenderà dall'entità dell'apporto dato dal Governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra”. Gli italiani avrebbero ricevuto tutto l'aiuto possibile delle Nazioni Unite ovunque avessero combattuto contro i tedeschi. Al momento dell'armistizio il governo di Roma doveva ordinare alla flotta e agli aerei di consegnarsi agli alleati. Dai porti del nord le navi dovevano recarsi “nei porti a sud della linea Venezia-Livorno”. Era quindi lecito ritenere che gli anglo-americani si sarebbero attestati a nord di Roma e di Firenze.
   L'11 agosto al Comitato delle correnti antifasciste Bonomi concluse che “se si dovrà chiamare il popolo per cacciare i tedeschi dall'Italia, si dovrà farlo quando gli anglo-americani avranno messo piede in Italia, non prima. Prima si sciuperebbe lo slancio popolare e si verserebbe inutile sangue” . Al tempo stesso decise il “distacco dal governo Badoglio”, che la pensava come loro.
La “trafila massonica”: realtà o fantasia?
Il 12 Bonomi lasciò Roma per Santa Marinella. Vi tornò il 19. Ricevutolo a colloquio il 20, più per sapere che per dire, Guariglia non lasciò trapelare alcunché sulla missione Castellano. Il 21 Bonomi incontrò con Ruini (1877-1970) Carlo Galli (1878-1966), nuovo ministro della Stampa e Propaganda. “Decidiamo di darci del tu, in ricordo dell'antica compagnanza” annotò nel “Diario”. Di quale natura era?
   Per comprenderlo occorre tornare ai loro anni giovanili. Laureato in legge, avviato a prestigiosa carriera diplomatica, il 24 maggio 1905 Galli fu ricevuto apprendista massone nella loggia “Rienzi” di Roma, una tra le più importanti non solo della capitale d'Italia. In quella stessa officina cinque anni prima con il grado di maestro era stato affiliato Ruini, futuro presidente della Commissione dei Settantacinque che stilò la “bozza” di costituzione della Repubblica italiana. In quell'incontro i due confratelli formarono con Bonomi un triangolo massonico? L'interrogativo si impone anche alla luce dell'opera di Paolo Cacace “Come muore un regime” (ed. il Mulino), ricco di riferimenti a massoni nel collasso del regime mussoliniano. Secondo lui, “a quanto pare” anche Bonomi era iniziato.
   È vero che il massone non è tenuto a dichiararsi pubblicamente tale ed è invece tenuto a non propalare i nomi dei confratelli, però Bonomi non ha mai fatto cenno alla propria iniziazione. Nel vasto repertorio “La massoneria nel Parlamento “ (ed. Morlacchi) Luca Irwin Fragale lo inserisce tra i deputati massoni, ma con molte riserve perché la sua appartenenza è asserita senza prove consistenti. Non solo. In risposta alla famigerata “inchiesta sulla Massoneria” condotta dall'“Idea nazionale” nel 1912 Bonomi dichiarò che “se la Massoneria insiste a mantenersi segreta e a circondarsi di riti e di formule che oggi fanno sorridere, essa obbedisce, forse inconsciamente, a quello spirito di mistero e di ossequio superstizioso che venne diffuso e mantenuto per tanti secoli dalla Chiesa”. Quanto all'“ideario” massonico rispose: “Non so, non avendovi mai appartenuto, se la Massoneria abbia una sua filosofia più incline al materialismo che allo spiritualismo, all'internazionalismo che al nazionalismo” e aggiunse: “ogni azione palese od occulta di partiti, di sette, di associazioni pubbliche o segrete nelle amministrazioni dello Stato è sempre profondamente dannosa”. Di varie personalità politiche e militari citate da Cacace come massoni si hanno prove sicure. N sono invece del tutto priva quelle di Badoglio, che Cacace classifica “massone coperto”, mentre Diaz risulterebbe “in odore di massoneria”, che non dice nulla di attendibile. Dalla nascita (1860/1864) allo scioglimento (1925) il Grande Oriente d'Italia (GOI) non ebbe mai massoni “coperti”. Quelli iniziati “sulla spada” dal gran maestro o suo delegato (come nel caso di Antonio Meucci) e gli stessi affiliati alla “Propaganda massonica” furono iscritti nei piedilista delle logge e poi nella Matricola generale dell'Ordine, lacunosa per difetto come molte cose umane.
     Massoni furono i generali Luigi Capello, Giacomo Carboni, Gustavo Pesenti e Ugo Cavallero, iniziato al GOI e poi regolarizzato nella Serenissima Gran Loggia d'Italia (GLI), lo stesso anno dell'iniziazione di Vittorio Valletta (1917). Lo furono l'avvocato Carlo Aphel (il cui “complotto” è stato spesso sopravvalutato) ed Elia Rossi Passavanti (la cui iniziazione non è citata da Cacace). Invece non lo furono affatto Marcello Soleri, i generali Giuseppe Castellano, Angelo Cerica e il grande Giuseppe Volpi di Misurata, contrariamente a quanto scrive Cacace, che non adduce prove. Malgrado le leggende, altrettanto va detto di tre dei quadrumviri. Balbo era notoriamente massone della GLI, ma in sonno da molto prima della “marcia”. Emilio De Bono non compare in alcun repertorio massonico. Michelino Bianchi, al pari del cattolico Cesare Maria De Vecchi, fu antimassone. Iniziato alla GLI fu invece il generale Fernando Soleti, forzatamente condotto a Campo Imperatore per garantire l'incolumità di Mussolini all'arrivo dei tedeschi capitanati da Otto Skorzeny.
   Ciò che più conta, al di là del massonismo di questo o quel gerarca o notabile, è l'assenza di un sia pur labile indizio di una rete che unisse i massoni in un disegno univoco. La genesi massonica del “combinato disposto” Gran consiglio/iniziativa del Re è una leggenda di frange della Repubblica sociale italiana, insufflate da uno spretato massofago professionale che non si nomina, incline a vedere ovunque la regìa occulta dei Figli della Vedova: capofila dei complottisti oggigiorno in servizio permanente effettivo. Per cercare di ridimensionare Mussolini e salvare se stessi i gerarchi partecipi al Gran consiglio del 24-25 luglio non avevano bisogno di essere assistiti dal Baphomet. Bastavano le notizie sull'avanzata degli anglo-americani in Sicilia e la tardiva cognizione dell’enormità degli errori commessi da Mussolini sin dalla guerra d'Etiopia e soprattutto dal 1938 in poi e infine con le dichiarazioni di guerra all'URSS e, non bastasse, agli USA: una potenza che non attendeva altro per entrare nel Mediterraneo a spese non solo delle ambizioni tardonazionalistiche del fascismo ma anche di Francia e Gran Bretagna, il declino dei cui imperi coloniali datò dalla fine della nuova guerra dei trent'anni (1914-1945).
La solitudine del Re
In conclusione, protagonista della svolta del luglio 1943 fu Vittorio Emanuele III che si valse di militari ligi al giuramento di fedeltà al Re. Nelle loro bandiere non comparvero mai i fasci littori che avevano invece inondato le amministrazioni pubbliche, statali e locali, dando all'estero l'immagine di una compattezza che rimase solo di facciata, come si vide nel 1943, proprio quando il partito aveva raggiunto il massimo storico degli iscritti. Perciò gli anglo-americani ostacolarono la riorganizzazione delle forze armate regie e isolarono il Re, con la connivenza non solo dei cattolici, che vi vedevano il nipote dello scomunicato Vittorio Emanuele II, debellatore dello Stato pontificio, ma anche di tanti “liberali” che sorsero a pretendere l'immediata abdicazione sua, la rinuncia di Umberto alla successione e il passaggio della corona a Vittorio Emanuele, principe di Napoli, di soli sette anni e quindi sotto tutela di un reggente antistatutario in assenza della Camera dei deputati e nell'impossibilità di adunare il Senato.
   Nel dicembre 1943 Nicolò Carandini dichiarò a Bonomi che i liberali volevano “una monarchia pulita e non un cencio sporco come è l'attuale sovrano”. Il colpo di Stato strisciante, dopo il discusso referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946, vide infine l'Italia inchiodata dalle durissime clausole del Trattato di pace impostole a Parigi il 10 febbraio 1947: il “passivo” ricadde su chi aveva pensato di scaricarlo su Vittorio Emanuele III, cittadino all'estero nella pienezza dei diritti civili e politici, e su Umberto II, migrato in Portogallo. 
Aldo A. Mola


DIDASCALIA: Sotto la data del 24 luglio Bonomi (nell'illustrazione affiancato da Vittorio Emanule Orlando e da Francesco Saverio Nitti) annotò: “Oggi alle 17 viene da me un noto antifascista, il dottor Domenico Maiocco piemontese, che è molto in intimità con il quadrumviro De Vecchi. Egli mi conferma che il Gran consiglio del fascismo si convoca proprio nell'ora in cui egli mi parla e che le deliberazioni dell'assemblea saranno di eccezionale importanza”. Tramite Maiocco, De Vecchi desiderava fargli sapere che sarebbe stato amichevolmente invitato a far parte del nuovo governo dopo la prevista revoca di Mussolini. Rispose che gli pareva “un romanzo”, “sogno di menti oscurate”. Iniziato massone nel 1923 nella loggia “Vita Nova” di Alessandria, socialista e perseguitato dal regime, Maiocco fondò la Massoneria Italiana Unificata, già auspicata da Placido Martini, antifascista, ucciso alle Fosse Ardeatine, e ne fu gran maestro, riconosciuto dal Supremo Consiglio del Rito scozzese antico e accettato degli USA (giurisdizione sud). Ne ha scritto il generale Antonino Zarcone in “Lo sconosciuto messaggero del colpo di Stato” (ed. Annales, 2015).
 


CORRADO SFORZA FOGLIANI
LIBERALE DI NATURA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 17 Dicembre 2023 pagg. 1 e 6.
Corrado
                                                          Sforza
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                                                          dicembre 2022)
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                                                          Confedilizia,
                                                          della Banca di
                                                          Piacenza e di
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                                                          modello.Lunedì 11 dicembre 2023 per iniziativa del suo presidente avv. Giuseppe Nenna la Banca di Piacenza ha rievocato Corrado Sforza Fogliani che la guidò per decenni. L'incontro è stato aperto dall'intervento del senatore Pier Ferdinando Casini, che ne ha sottolineato il suo “rispetto delle istituzioni che nel Paese oggi è un principio in via di attenuazione”. Lo scrittore Marcello Simonetta lo ha definito un “Cosimo de' Medici dei nostri tempi”. Il nostro editorialista Aldo A. Mola ha tracciato il seguente sintetico profilo di Sforza Fogliani storico del Risorgimento italiano.   


Un genio poliedrico
   Nel “Ritratto” di Corrado Sforza Fogliani scritto in prossimità del suo 80° compleanno Carlo Giarelli osservò che un suo ritratto a tutto tondo richiedeva «non un semplice profilo, ma un'opera monumentale». Ne ricordò alcuni motti “di famiglia” che gli fecero da viatico e che dispensò ai suoi discepoli: «Non contate sul patrimonio e men che meno sul nome, ma fatevi una posizione personale»; ancora: «fare il passo che la gamba consente»; e, infine, «la vita è solo l'occasione per esprimere le nostre qualità morali».
   Uomo dal multiforme ingegno, avvocato, giurista, banchiere, raffinato esperto d'arte e cultore di tradizioni civili, nella lunga vita esemplare Sforza Fogliani spiccò per coerenza e generosità. La “fede nella libertà”, che all'osservatore disincantato potrebbe apparire contraddizione, gli arrivava dai secoli della sua Casa e dai genitori, che gli furono guida. Era radicata nella consapevolezza delle disparità economiche e sociali, quindi nello statuto intellettuale e costumale dei singoli ma al tempo stesso nella fiducia nell'incivilimento e, in definitiva, nella potenziale bontà di ogni uomo. Questo suo abito intellettuale si espresse in tutti i campi ai quali si dedicò dalla giovinezza alla maturità e all'età avanzata, contrassegnata dallo spiccato senso del tempo e della necessità di investire ogni suo istante nella costruzione di un mondo migliore di come l'aveva conosciuto nel corso della seconda guerra mondiale, negli anni difficili della ricostruzione, in quelli del “miracolo economico” e del passaggio dagli Stati nazionali alla prospettiva di un’Unione Europea in sempre faticosa ricerca di realizzazione.
   La coerenza si sostanziò nella “professione di fede”. Corrado Sforza Fogliani non tenne mai racchiusi in se stesso i principi cardinali di vita conquistati e assimilati dalla giovinezza. Dedicò anzi gran parte del tempo suo a promuoverli in tutti i modi possibili: con l'esempio nella vita professionale (lo ricordano i suoi “giovani di studio”, i dirigenti, funzionari e impiegati della Banca di Piacenza: il Tempio nel quale entrava per primo e dal quale usciva per ultimo) e con il fervore della “comunicazione”, dal giornalino studentesco negli anni del liceo agli articoli per quotidiani (in specie “il Giornale”), in riviste giuridiche e nei molti volumi sui temi, quali la proprietà, che lo ebbero Maestro di chiara fama: limpidi, concreti, precisi, basati su informazioni di prima mano e svolti secondo impianto logico, volto a con-vincere, a confrontarsi con il lettore per averne il consenso, non forzato ma per adesione alla sua proposta.
Le radici nella “piacentinità”
   Particolarmente significativo risulta il suo impegno di studioso di storia, motivato dalla consapevolezza dell'intreccio tra il “grande flusso” (l'espressione è di Riccardo Bacchelli, scrittore di primissimo piano oggi quasi dimenticato) e le vicende dei singoli uomini, fatte anche della fortuna che aiuta gli audaci. Lo sperimentò per sé dall'incontro giovanile, apparentemente fortuito ma in realtà necessario, con Luigi Einaudi, il cui magistero gli fu guida nei lunghi anni di alfiere del pensiero liberale e di componente del consiglio comunale di Piacenza, carica a lui così cara da volerla rinverdire in tempi recenti quasi per ripetere in quella sede l'heri dicebamus a cospetto di tanti repentini mutamenti di umori dell'elettorato.
   A tacere dei secoli precedenti, per Corrado Sforza Fogliani questa aveva radice e suggello nella scelta che il 10 maggio 1848 fece di Piacenza la Città primogenita della Nuova Italia: una decisione così netta e irrevocabile che nel 1860 non vi fu bisogno di ribadirla con l'elezione di una nuova assemblea, una seconda richiesta di adesione alla Corona sabauda e un plebiscito confermativo.
   Quell'atto politico si sostanziò nelle prime convulse elezioni di deputati di Piacenza alla Camera (quattro chiamate alle urne in soli dieci mesi) e poi venne ribadito da quelli eletti dopo il 1860: il marchese Giuseppe Mischi, l'avvocato Pietro Boschi, il professore Filippo Grandi, Raffaele Garilli, il generale Giacinto Carini, il consigliere di Stato Luigi Gerra, il conte Ludovico Marazzani, l'avvocato Ernesto Pasquali (eletto nel 1870 e in carica sino al 1890 quando Piacenza si riconobbe nel principe Emanuele Ruspoli). Nel frattempo il territorio venne rappresentato alla Camera Alta dai senatori Luigi Malaspina, Pietro Gioia (eletto deputato nel 1848), Pietro Salvatico, Giuseppe Mischi, Alessandro Cavagnari e dal celebre Giuseppe Manfredi (1828-1918), che si affacciò ventenne nell'agone politico con articoli in “Il Tribuno del popolo”, ascese a Procuratore generale in Roma (in quella veste   escogitò l'annullamento delle nozze di Giuseppe Garibaldi con la contessina Rosa Raimondi) e fu presidente del Senato dal 1908 alla morte: uno tra i massimi statisti della Nuova Italia, meritevole di essere riproposto all'attenzione.
   Protagonisti della storia locale e nazionale, sempre in una visione europea del processo in corso, quei parlamentari furono accuratamente indagati da Sforza Fogliani, che si erse ad “Avvocato dell'Italia liberale” e ne consegnò memoria nell'importante saggio su Piacenza nel Risorgimento pubblicato nella monumentale storia della città.
Promotore di studi e saggista
   Anche nel suo “mestiere di storico” attestò coerenza e profuse generosità. Presidente del Comitato piacentino dell'Istituto per la storia del Risorgimento italiano presieduto da Alberto Maria Ghisalberti, poi da Emilia Morelli e infine da Romano Ugolini, Sforza Fogliani promosse e orchestrò importanti convegni di studio e curò molteplici volumi collettanei tra i quali mi limito a ricordare gli Studi in onore di Giovani Forlini (1978), Ottocento piacentino e altri studi in onore di Giuseppe S. Manfredi (1980) e i più recenti Echi e riflessi piacentini dell'avvento della Sinistra al governo visti 130 anni dopo (2007), Piacenza e la Grande Guerra (2014) e La figura di Giovanni Raineri a settant'anni dalla morte (2015), atti del convegno svolto con pari titolo celebrato nel 2014 con prolusione di Aldo G. Ricci, sovrintendente dell'Archivio Centrale dello Stato e conclusioni di Sforza Fogliani su Raineri ministro delle Terre liberate. Di Raineri (1858-1944) promosse anche le Memorie di guerra e di governo, a cura dello stesso prof. Ricci (2016), nella cui premessa Sforza Fogliani ricordò il profondo legame dell'illustre statista con Luigi Luzzatti, pioniere delle banche popolari in Italia, e ne additò a modello la “ricetta contro la corruzione” adottata dal ministro Raineri nella ricostruzione all'indomani della Grande Guerra.
   Nei convegni e nei volumi che ne nacquero Sforza Fogliani si ritagliò uno spazio apparentemente minore e talvolta minimo, quasi manzoniano “cantuccio”, ma sempre su temi di ampio rilievo, trattati con finezza critica e non senza allusioni alla continuità dal passato remoto e prossimo all'età presente. Lo documentano, per esempio, le belle pagine sulle “Inquietudini dell'animo causate da controversie giudiziarie e suo soddisfacimento nel pensiero di Melchiorre Gioia”, in cui illustrò la lungimiranza dell'insigne giurista nel valutare la portata del danno psicologico inferto a chi venga fatto chiamare ingiustamente in giudizio e i modi del suo risarcimento, tra i quali lunghi viaggi ristoratori dell'animo del querelato a totale carico dell'incauto querelante. Altrettanto vale per il saggio su “Un processo di cent'anni fa per uno sciopero di lavoranti panettieri” dal quale l'Avvocato trasse motivo per deplorare l'interferenza di interessi corporativi (sia dei lavoranti, sia degli imprenditori) nella formazione e imposizione del prezzo che deve scaturire dal libero mercato.
   Dal 1959, centenario della seconda guerra per l'indipendenza, poco dopo seguita da quello della proclamazione del regno d’Italia, Sforza Fogliani intraprese un'opera poderosa: la cronologia della storia piacentina, tratta dallo spoglio della miriade dei fogli locali: “La Libertà”, “Il Progresso”, “L'Amico del Popolo”, “Il Piccolo”,... Si stava ponendo, all'epoca, la questione di metodo sui giornali quale fonte per la storiografia. Mentre rimaneva imprescindibile lo scavo degli archivi di enti pubblici (di Stato, provinciali, comunali, notarili...) e di privati (una miriade) e si affermava la valenza degli archivi ecclesiastici, i periodici assunsero peso peculiare, previo vaglio della loro veridicità. Questa, tanto più se commisurata con il giornalismo odierno, emergeva dal controllo reciproco tra le diverse testate, spesso impegnate in dispute animose, e da parte dell'opinione pubblica, che era, in definitiva, l'arbitro ultimo dell’attendibilità della carta stampata e decideva se riconoscersi o meno nei candidati ai consessi locali e alla Camera, sponsorizzati dai diversi e contrapposti giornali. Il modello ideale dell'opera intrapresa da Sforza Fogliani erano i cinque volumi di L'Italia dei cento anni (1800-1900) giorno per giorno di Alfredo Comandini. Al primo volume (1959-1883), edito da Li Causi, altri seguirono (1884-1893 e 1894-1899), curati da Sforza e dalla Consorte, Maria Antonietta De Micheli, come lui appassionata di storia, ed editi dal Comitato di Piacenza dell'Istituto per la storia del Risorgimento italiano.
   La loro esplorazione, forse inizialmente faticosa per il lettore odierno, assuefatto ai flash di agenzie e ai “messaggini”, risulta più che appagante per chi voglia immergersi in un ieri che contiene quasi tutto il presente, nei suoi aspetti più quotidiani e in quelli di lunga durata: l'organizzazione della sanità (la prima legge sulla pubblica igiene venne approvata nel 1890, trent'anni dopo l'unità, e si deve a Francesco Crispi e a Luigi Pagliani, che istituì i medici e i veterinari condotti), l'istruzione in ogni sua forma, la moltiplicazione di forme associative, le banche, l'amministrazione della giustizia e, s'intende, la dialettica politico-elettorale. Non mancano notizie gustose, come l'animoso contrasto tra Felice Cavallotti (eletto deputato di Piacenza nel 1895) e Luigi Illica, culminato in un duello nel cui corso (scrisse “L'Arena di Verona” ripresa dalla piacentina “La Libertà”) Cavallotti si spinse a mordere un polpaccio del rivale.
Il richiamo a Camillo Cavour
   Nel 150° dell'annessione di Roma (passata in terzo piano nell'attenzione della storiografia e della pubblicistica), Sforza Fogliani ripubblicò i tre discorsi nei quali il 25 e 27 marzo 1861 alla Camera e il 9 aprile al Senato Camillo Cavour pose la questione di Roma capitale d'Italia. In un sobrio volumetto pubblicato nelle edizioni di “Libro Aperto”, con postfazione di Antonio Patuelli, tornò alla radice dell'unificazione italiana. Per prendere corpo, essa doveva passare attraverso la debellatio dello Stato Pontificio con quanto ne sarebbe derivato sin dal 1860: la scomunica di Vittorio Emanuele II, dei suoi ministri e di tutta la dirigenza pubblica italiana. Con quella misura estrema Pio IX ritenne di colpire alla radice il nuovo Stato. Lo volesse o meno, compattò attorno alla Corona anche quanti non erano né sabaudisti né monarchici ma convennero che sul piano storico e politico non vi era alternativa a Casa Savoia. Lo affermò Giosuè Carducci che dai fervori garibaldini dei Giambi ed Epodi trascorse all'elogio della Regina Margherita, poi pubblicata nelle Odi barbare. Ancor prima di lui, lo avevano compreso ecclesiastici lungimiranti, come l'abate di Montecassino Luigi Tosti, e il teologo Carlo Passaglia, che nel 1862 lanciò la “Petizione a Pio IX”, sottoscritta da novemila ecclesiastici per addivenire subito alla conciliazione tra la Chiesa e il regno d'Italia, la religione cattolica e il patriottismo. Alle loro spalle avevano il teologo Vincenzo Gioberti e l'abate Antonio Rosmini (nel 2007 proclamato beato), entrambi evocati da Cavour nei citati discorsi
   Con spirito profetico al Senato, che all'epoca sedeva in Torino, a Palazzo Madama, in Piazza Castello, Cavour disse con forza: «Se la corte di Roma accetta le nostre proposte, se si riconcilia coll'Italia, se accoglie il sistema di libertà, fra pochi anni, nel Paese legale, i fautori della Chiesa, o meglio, quelli che chiamerò il partito cattolico, avranno il sopravvento; ed io mi rassegno fin d'ora a finire la mia carriera nei banchi dell’opposizione.» Fu quanto accadde nel 1948, quando, nondimeno, per una imprevedibile eterogenesi dei fini, la straripante vittoria della Democrazia cristiana alle votazioni del 18 aprile si risolse nell'elezione del liberale, monarchico e piemontese Luigi Einaudi alla Presidenza della Repubblica in successione al liberale, monarchico e napoletano Enrico De Nicola.
   “Conciliazione” e fermezza nella difesa della libertà erano stati da decenni al centro della riflessione di Sforza Fogliani quale storico. Ne scrisse con Paola Castellazzi nel succoso saggio sull'istruzione obbligatoria e il voto del Consiglio comunale di Piacenza sulla proposta di abolizione dell'insegnamento religioso nelle scuole primarie, pubblicato in Echi e riflessi piacentini dell'avvento della Sinistra al governo visti 130 anni dopo (Comitato di Piacenza dell'Isri, 2007). Il 4 gennaio 1878 il Consiglio respinse la richiesta avanzata dal consigliere Pallastrelli di «togliere l'insegnamento religioso nelle scuole» in omaggio «ai più lati principi di rispetto per la libertà di coscienza e di pensiero». La Giunta comunale ed il Consesso deliberarono «non tanto in aderenza con l'indirizzo politico del periodo, quanto piuttosto non in contrasto con l'opinione dei piacentini». Precorsero la posizione assunta da Giovanni Giolitti nel 1908 contro la “mozione” del socialista Leonida Bissolati di abolizione dell'insegnamento della religione cattolica nella scuola dell'obbligo. Lo Statista liberale dichiarò lo Stato incompetente in questioni religiose ma al tempo stesso tenne fermo il principio che quell'insegnamento dovesse essere impartito da insegnanti “patentati”, in luoghi e ore stabiliti dall'autorità scolastica. La “mozione Bissolati” ottenne appena 65 voti favorevoli: il 12% dei  su 508 deputati in carica. Fu respinta anche da massoni.
Il Mecenate
   Munifico nei confronti della realizzazione di importanti interventi di restauro di edifici ecclesiastici, Corrado Sforza Fogliani mirò anche al restauro della coscienza nazionale. Lo fece con la discrezione di sempre e, per così dire, in dialogo responsoriale con un piacentino che ho avuto l'onore e il piacere di conoscere e di frequentare assiduamente, don Franco Molinari, «un Voltaire in tonaca – ne scrisse Roberto Gervaso – , uno dei più impertinenti e spregiudicati scrittori cattolici», autore, tra altro, di La massoneria, cattedrale laica della fraternità (ed. Queriniana, un saggio più volte ampliato e ristampato).
   Mi sia consentito infine un ricordo personale. Il 10 maggio dello scorso anno fui a Palazzo Galli per la presentazione del mio libro su “Vittorio Emanuele III. Il re discusso”. Al termine l'Avvocato mi intrattenne a lungo, con l'allora Direttore Generale della Banca di Piacenza. Singolarmente espansivo ci narrò tanti momenti della sua formazione di “liberale per natura, libertario per forza di cose”, a cominciare dalla visita a Einaudi all'Eremo di San Giacomo, in Dogliani. Poi, inevitabilmente, rievocammo amici d'un tempo e sempre presenti in memoria, a cominciare appunto da “don Franco”, che faceva salire in sella alla sua potentissima motocicletta e portava di gran carriera all'Università. La sua morte era stata per entrambi una perdita dolorosissima. Di seguito parlammo del piacentino Marco Bertoncini, saggista perspicace, giornalista, lettore onnivoro, che ci ha improvvisamente lasciati poco tempo fa.
   Al termine Sforza uscì. La serata era ancora fresca. Lo accompagnai un tratto, memore dell'epigrafe trecentesca sormontante una porta del castello di Torrechiara, scelta per la Targa dell'ospitalità piacentina detta del “Benvegnù”: «Signori, voi siete tutti qui bene accetti e ognuno che verrà qui sarà ben accetto e ben trattato». Me l'aveva solennemente consegnata in un precedente incontro. Mi esortò a ripararmi. Mi fermai sulla soglia dell'albergo e lo vidi camminare pacato e solenne verso Piazza Cavalli avvolto nell'impermeabile chiaro. Infondeva sicurezza e serenità. È andato avanti, come dicono gli alpini. E attende.

Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Corrado Sforza Fogliani (15 dicembre 1938-10 dicembre 2022) è stato Presidente della Confedilizia, della Banca di Piacenza e di un ampio ventaglio di enti e di associazioni. Liberale “senza se e senza ma”. Più che un esempio, un modello.


QUO VADIS LENTO PEDE, ITALIA?

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 10 Dicembre 2023 pagg. 1 e 6.
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                                                          Crocifisso.La stasi
L'anno si chiude in un clima di sospensione e di attesa. Rinviate di mese in mese, le “grandi scelte” interne sono ormai rimandate a giugno. Se ne parlerà dopo l'elezione dei deputati italiani al Parlamento europeo, quando – ormai pare certo – gli elettori di quattro regioni di peso verranno chiamati a rinnovare i loro amministratori sulla base di leggi elettorali del tutto difformi da quella, proporzionale, vigente nelle elezioni “europee”. Per non scoraggiare troppo i cittadini, sempre meno attratti dai “ludi cartacei”, è rinviato sine die il rinnovo dei consigli provinciali. Quello dei consigli comunali è ristretto al minimo indispensabile. Nei comuni con meno di 5.000 abitanti, i sindaci potranno essere rieletti anche dopo due mandati mentre il problema vero, l'accorpamento dei comuni di dimensioni piccole e minime, si è perso nelle nebbie dei tanti “vorrei”.
   Il presidente del Consiglio in carica afferma che le alleanze per il futuro governo dell'Europa dovranno replicare lo stesso “perimetro” di quello nazionale. La sua, però, è un'opinione o una speranza come tante altre. In realtà nessuno è in grado di predire l'esito delle elezioni del 2024. All'opposto di quanto da lui ventilato/auspicato, le previsioni più attendibili configurano la divaricazione tra cornice europea e scenario italiano.
   La prefigurazione di quanto potrebbe avvenire tra sei mesi è in stallo per l'anomalia del “caso Italia”, lasciato sotto traccia dalla generalità degli opinionisti. A differenza di quanto avviene in altri Paesi dell'Unione, il presidente del Consiglio ha alle spalle un partito dalle dimensioni modeste rispetto al consenso che gli viene accreditato dai sondaggi. Anziché una forza esso è il suo tallone d'Achille. Il presidente deve quindi inseguire e fidelizzare l'elettorato con proposte altisonanti, dalla ricaduta elettorale niente affatto sicura. Di lì la necessità di contraddirsi sino a suscitare perplessità, fisiologiche in tempi ordinari, meno convincenti e meno elettoralmente redditizie in quelli eccezionali, prospettati dalle guerre in corso, tra Europa orientale e Vicino Oriente, e dalla debolezza del presidente Biden.
   In vista delle elezioni il presidente del Consiglio dovrà quindi dedicarsi al partito più di quanto abbia fatto nel suo primo anno di governo, per alcuni aspetti assai simile al 1923, cioè al primo anno del governo presieduto da Benito Mussolini, ma per altri aspetti del tutto difforme. Perciò non è esercizio retorico gettare uno sguardo all'Italia di cent'anni addietro.
Stato e Partito
   A giudizio di Alberto Aquarone, lo storico più acuto e penetrante del regime, passato a fine ottobre 1922 dall'opposizione facinorosa al vertice dell’esecutivo, il fascismo “di governo” mosse i primi passi all'insegna dell'incertezza. Alla guida di una coalizione costituzionale onnicomprensiva, estesa dai nazionalfascisti ai liberali di varia denominazione e dai democratici sociali ai popolari, Mussolini ottenne ampio credito all'estero, in specie in Gran Bretagna e Stati Uniti d'America, tranquillizzati dalla prospettiva di vedersi restituire dal nuovo governo i prestiti concessi all'Italia per fronteggiare la guerra, soprattutto nella fase conclusiva (1917-1918).
   All'indomani dell'ascesa alla presidenza, il “duce del fascismo” si affrettò a compiere un viaggio a Londra, affiancato da diplomatici di rango. In quell'occasione, caso unico nei suoi vent'anni di governo, a presiedere il Consiglio fu il conte Teofilo Rossi di Montelera, seguace di Giovanni Giolitti, ministro dell'Industria (per sottosegretario aveva Giovanni Gronchi, esponente del partito popolare). Fu un gesto di valenza simbolica. Ostentò la propensione di Mussolini a valersi dei “fiancheggiatori” per consolidare la maggioranza governativa. Gli accordi economici e talvolta politici stipulati nel volgere di pochi mesi con Romania, Grecia, Bulgaria e i “patti di Tirana” con l'Albania fecero dell'Italia un compagno di viaggio nel cammino dell'Europa verso la stabilità. Il 24 luglio 1923 la conferenza di Losanna archiviò la pace di Sèvres e definì i rapporti tra l'ex impero turco-ottomano e i vincitori, che se ne suddivisero le spoglie. La Turchia riconobbe all'Italia Rodi e il Dodecaneso e rinunciò a protrarre qualsiasi aiuto militare alle tribù libiche ancora in armi contro l'Italia, che ebbe mano libera nella riconquista e nella riorganizzazione già avviata da Giuseppe Volpi di Misurata. L'Egitto cedette a Roma l'oasi di Giarabub, una postazione strategica.
   La credibilità del governo doveva però trovare conferma nella tranquillità interna e questa era possibile solo con il chiarimento dei rapporti tra lo Stato e il partito nazionale fascista, nel quale da metà febbraio del 1923 erano confluiti i nazionalisti (Federzoni, Rocco, Forges Davanzati...) a patto dell'esclusione dei massoni dalle file di un partito popolato di “fratelli” in posizioni anche dominanti. Mentre nel corso del 1923 non si registrarono iniziazioni di fascisti nelle logge del Grande Oriente, al riparo della segretezza lo scaltro Raoul Palermi, gran maestro della Serenissima Gran Loggia d'Italia, spalancò le porte dei templi liberomuratòri a gerarchi di peso, come Edmondo Rossoni, capo dei sindacati fascisti, e conferì gradi supremi a Giacomo Acerbo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, a Ernesto Civelli, monarchico, già intendente generale della “marcia su Roma” come il confratello repubblicano Gaetano Postiglione, e a molti altri fautori del futuro regime.
   Il nodo da sciogliere in tempi stretti fu l'affermazione del primato dello Stato. Sin dal 30 ottobre 1922 il quadrumvirato regista della mai avvenuta “marcia su Roma” aveva ordinato la smobilitazione delle “squadre” e intimato: «Il Fascismo italiano è troppo intelligente per desiderare di stravincere.» Il giorno dopo ribadì: «Il regime fascista, entrato nell'orbita legale, ha bisogno più che mai di ordine e d'inflessibile disciplina.» Mussolini lo ripeté il 16 novembre alla Camera: «Mi sono rifiutato di stravincere e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Ho costituito un Governo di coalizione e non già con l'intento di avere una maggioranza parlamentare, della quale posso oggi fare benissimo a meno, ma per raccogliere in aiuto della Nazione boccheggiante quanti, al di sopra delle sfumature dei partiti, la stessa Nazione vogliono salvare.» Il 27 seguente in Senato irrise quanti gli mostravano più o meno calorosamente solidarietà: «Si tratta spesso di anime o animule che vanno dalla parte dove spira il vento favorevole, salvo poi precipitarsi dalla parte opposta quando il vento cambi direzione. Agli amici ambigui preferisco avversari vivi e sinceri.» Aggiunse: «Ma, intendiamoci, che cosa è questo liberalismo? La libertà non è solo un diritto ma un dovere»; il che si traduceva nel controllo dell'informazione. Estasiato, come già la Camera dei deputati, anche il Senato gli concesse larghissima fiducia.
   Il 22 novembre Dario Lupi, massone del Grande Oriente e sottosegretario alla Pubblica Istruzione, ordinò ai sindaci, tramite i provveditori agli studi, di affiggere nelle aule scolastiche il crocifisso e il ritratto del Re. Mussolini ebbe mani libere per imbrigliare lo squadrismo con la costituzione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN), la fascistizzazione delle corporazioni sindacali e l'annuncio del Gran Consiglio fascista (poi “del fascismo”), «dal quale sorgeranno tutte le grandi istituzioni del regime».
   Il regio decreto 14 gennaio 1923, n. 14 regolamentò la Milizia, «al servizio di Dio e della Patria italiana» e «agli ordini del Capo del governo» (che formalmente era ancora solo “presidente del Consiglio”). Con i corpi armati per la pubblica sicurezza e col regio esercito la Milizia era chiamata a «mantenere all'interno l'ordine pubblico, preparare e conservare inquadrati i cittadini per la difesa degli interessi dell'Italia nel mondo». Essa tardò tuttavia a svolgere il compito che le era stato assegnato. Il 19 settembre 1923 lo deplorò il generale Emilio De Bono nella circolare ai comandanti di zona: «Il Duce è indignato e costernato, ed io lo sono dal lato militare, per atti e manifestazioni che avvengono qua e là da parte di ufficiali di grado elevato della Milizia, i quali, pervasi da passione politica, dimenticano l'alta responsabilità militare e disciplinare che hanno. La Milizia in conseguenza di ciò sta attraversando un periodo che la squote (sic!) dalle sua fondamenta…» Essa doveva astenersi da condotte “politiche” e attenersi a quelle militari.
   La divaricazione tra governo e partito era allarmante da mesi. Il 31 gennaio De Bono scrisse ai prefetti: «Se i fascisti o sé dicenti tali commettono azioni inconsulte o atti di provocazione o prepotenza si colpiscano senza riguardo gli autori o ritenuti responsabili”. La bandiera fascista copriva beghe personali, camarille e “sciocche convulsioni”. Il 13 giugno Mussolini telegrafò ai prefetti: «Unico solo rappresentante autorità Governo nella Provincia è il prefetto e nessun altro all'infuori di lui. Fiduciari provinciali fascisti nonché diverse autorità partito sono subordinate Prefetto.» Sembrava Giolitti. Sennonché aggiunse: «Intendesi che essendo Fascismo partito dominante Prefetto dovrà tenere contatti con fascio locale per evitare dissidi e tutto ciò che possa turbare ordine pubblico.» Un colpo al cerchio...
   A fine anno, il 27 dicembre, ribadì: «Rammento ancora ai signori Prefetti che l'avere la tessera fascista non deve ritenersi come un diritto di impunità. Sono ancora troppi nel Regno i fatterelli antipatici provocati ordinariamente dai soliti fascisti forse per esuberante vitalità ma che finiscono per screditare il fascismo e per fallace conseguenza anche il Governo.» Il 1° dicembre il segretario generale del PNF Francesco Giunta ordinò alle federazioni provinciali l'indizione di assemblee dei fasci per la nomina dei loro vertici «attraverso il sistema elezionistico», previa «la più ampia libertà di discussione» e la rappresentanza di tutte le correnti, ferma restando l'esclusione dei fascisti già espulsi, di lì a poco bersaglio di bastonature feroci. Le assemblee sarebbero state tutelate da un delegato di pubblica sicurezza e da un reparto di carabinieri pronto a intervenire per scongiurare tumulti e, se necessario, sciogliere i fasci indisciplinati. Un colpo alla botte...
   Mussolini blandì il capogruppo del partito popolare italiano, Alcide De Gasperi, promettendogli che sarebbe rimasta in vigore l'assegnazione dei seggi in proporzione ai voti ottenuti dai partiti. La nuova legge elettorale, varata  nel 1923 dall'apposita Commissione presieduta da Giolitti e comprendente i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari (inclusi i repubblicani e i comunisti), assegnò invece i due terzi dei seggi al partito più votato se raggiungesse almeno il 25% dei voti validi: un traguardo non inarrivabile, visto che nelle elezioni del maggio 1921 i socialisti avevano superato il 24% e i popolari si erano attestati sul 20%. In vista delle elezioni, indette per il 6 aprile 1924, un apposito comitato ristretto approntò la Lista nazionale comprendente fascisti di recente iscrizione e molti niente affatto iscritti: liberali, cattolici, democratici, socialisti riformisti, non dimentichi che nella formazione del governo insediato il 31 ottobre 1922 Mussolini si era prefisso l'inserimento del socialista Gino Baldesi e il 16 novembre seguente aveva blandito alla Camera il suo compagno D'Aragona. Nel discorso di insediamento Mussolini aveva promesso: “Lo Stato è forte e dimostrerà la sua forza contro tutti, anche contro l'eventuale illegalismo fascista, poiché sarebbe un illegalismo incosciente ed impuro che non avrebbe alcuna giustificazione”.
L'“affare Matteotti”: un “inciampo” imprevisto
   Al netto delle violenze registrate in molte regioni durante la campagna elettorale e nel corso delle votazioni, la Lista nazionale conseguì un successo superiore a ogni previsione: il 65% dei voti e due terzi dei seggi. Però i deputati iscritti al PNF risultarono solo 227 su 535: una minoranza. Mussolini vinse ma non stravinse. Quanto la vittoria fosse precaria si constatò all'indomani del rapimento di Giacomo Matteotti, segretario e capogruppo parlamentare del Partito socialista unitario (9 giugno 1924). La sua morte viene e per tutto l'anno venturo verrà rievocata in convegni e mostre accomunati nella condanna di Mussolini e del fascismo quali suoi mandanti ed esecutori. Quel crimine rischiò di far crollare l'impalcatura del governo Mussolini. Rigorosamente costituzionale, il Re rimase invano in attesa di un “segnale” da parte del Parlamento. 
   La deplorazione del delitto fu pronunciata pochi anni dopo nella sede storiografica più autorevole: le “voci” Fascismo e Italia (Storia d') pubblicate nell'Enciclopedia Italiana diretta da Giovanni Gentile e pubblicata dall'editore Treccani.
   Nel paragrafo sulla storia del fascismo Gioacchino Volpe osservò che all'indomani dell'insediamento del governo Mussolini si registrò una «crisi di sovrabbondanza» di iscritti, simpatizzanti e “profittatori”. I fasci furono inquinati da «troppi improvvisati gerarchi che erano come incapaci a bene obbedire, così a bene comandare». All'indomani delle elezioni, «proprio in quei giorni di passioni eccitate, accadde che uno dei più accaniti e acerbi oppositori, il deputato socialista Giacomo Matteotti, fu ucciso in modo misterioso, nelle vicinanze di Roma. Furono accusati – e l'accusa risultò fondata – uomini del fascismo. Il delitto Matteotti fu sfruttato fino all’osso» e si tradusse nell’«arresto numerico e morale del fascismo». Molti gli voltarono le spalle, mentre esalava «molta massoneria».
   Nel paragrafo Anni torbidi e resurrezione nazionale della voce “storia d'Italia” Alberto Maria Ghisalberti, futuro presidente dell'Istituto per la storia del Risorgimento italiano, scrisse che nel dopoguerra «miti democratici e promesse demagogiche (e un po' tutte le parti inclinarono alla demagogia), l'Italia, quasi fosse una nazione vinta, pareva vogliosa di dimenticare i propri morti». Lasciato alle spalle il triplice (sic!) ministero Facta, all'indomani delle elezioni dell'aprile 1924 «quando la violenza di alcuni dissennati in un cupo episodio di passione partigiana soppresse un deputato di opposizione, rappresentanti di questa ne vollero far responsabile il fascismo e i suoi capi con una campagna denigratoria senza esempio e senza limiti. Ma la secessione dell'Aventino fu stroncata dal memorabile e decisivo discorso del Duce del 3 gennaio 1925, e, superata l'artificiosa questione morale, il fascismo riprese il suo cammino vittorioso». «Il popolo fu con lui.» Il cadavere di Matteotti cadde come un macigno sulla storia d'Italia. Mussolini riuscì ad aggirarlo ma non lo rimosse.

Verso il “consenso di massa”
   Se nel 1923 i primi passi del fascismo erano stati incerti, dopo l'“affare Matteotti” e l'arroccamento fuori dell'Aula di quasi tutta l'opposizione Mussolini respinse nettamente l'accusa di essere il mandante del delitto, sfidò i parlamentari a valersi dell'articolo 47 dello Statuto, in forza del quale i ministri potevano essere accusati e rinviati a giudizio dinnanzi al Senato costituito in Alta Corte, e rivendicò il ruolo storico del fascismo, malgrado le violenze esercitate. Il suo governo, del resto, era riconosciuto da tutte le potenze estere, inclusa l'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, dal marzo 1923 presieduta da Stalin in successione all'agonizzante Lenin.
   Nella bibliografia della voce Fascismo lo storico Federico Chabod citò le opere di antifascisti quali Giovanni Amendola, Ivanoe Bonomi e Luigi Salvatorelli. Direttori di sezione dell'Enciclopedia erano, con altri, Angelo Sraffa (massone), Gustavo Del Vecchio, Enrico Fermi, Federigo Enriques, Raffaele Pettazzoni (massone). Della redazione facevano parte, con altri, Alberto Pincherle, Ugo La Malfa, Ugo Spirito. Tra i suoi collaboratori spiccarono Arturo Carlo Jemolo, Adolfo Venturi, Arnaldo Momigliano, Carlo Morandi, Delio Cantimori, Guido Calogero, Giorgio Levi Della Vida, Riccardo Bachi, Roberto Almagià e insigni clinici quali Cesare Frugoni e Giulio Chiarugi: insomma, il meglio della cultura italiana non solo dell'epoca ma anche degli anni successivi al crollo del regime.
   Alla luce di ineccepibili considerazioni, sin dal 1965 Alberto Aquarone concluse che se non si fosse avventurato nella seconda Grande Guerra il regime sarebbe durato a tempo indeterminato proprio perché non aveva mai assunto «un carattere rigorosamente totalitario», ma aveva continuato a consentire ai cittadini «un certo margine di autonomia nella sfera privata scongiurando tensioni troppo acute e forse irresistibili». Come Mussolini stesso dichiarò al giornalista Ivanoe Fossani il 20 marzo 1945 «A rigore di termini non (era) stato neppure un dittatore, perché il (suo) potere di comando coincideva perfettamente con la volontà di ubbidienza del popolo italiano.» Vale la pena ricordarlo, albergando in quel popolo la tentazione ricorrente di affidarsi a un uomo della Provvidenza. All’epoca il “correttivo” fu la monarchia. Vittorio Emanuele III nominò il capo del governo e dopo vent'anni lo revocò. Lo ebbero ben presente i costituenti che conferirono al presidente della Repubblica e al Parlamento poteri di interdizione sufficienti a sbarrare la strada a prevaricazioni del presidente del Consiglio sullo Stato. Ceduta con trattati internazionali gran parte della sovranità, il ruolo della monarchia oggi è esercitato dalla Nato e dall'“Europa”. Contrariamente a quanto qualcuno immagina, non è l’assetto politico di quest’ultima a doversi modellare su quello italiano. Semmai vale l'inverso.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA:  Un'aula di scuola elementare negli anni del Regime (Museo Etnografico “c'era una volta”, Piazza della Gambarina 1, Alessandria). Alla parete Mussolini e Vittorio Emanuele III ai lati del Crocifisso.


IL DUCE E FRATEL PASCHETTO

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 12 Novembre 2023 pagg. 1 e 6.
DIDASCALIA






                                                          : Copertina di
                                                          una riedizione
                                                          di Giovanni
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                                                          Carmagnola,
                                                          Edizioni
                                                          Arktos, 2006.
                                                          Oggero ricorda
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                                                          Massoneria
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                                                          leggi
                                                          razziali”.Dal gelido Pellice al biondo Tevere
A volte accade che un'affermazione sia esatta e al tempo stesso no. È quanto avviene da tempo su un aspetto della biografia di Paolo Antonio Paschetto. Fu o non fu massone? Probabilmente, con tutti i guai che imperversano sulla faccia della Terra e nei suoi cieli, sempre più affollati di satelliti anziché di paciosi Dei, la maggior parte dei lettori penserà sia una questione trascurabile e sarà tentato di voltare pagina. Però... C'è un però. A Paschetto (Torre Pellice, 12 febbraio 1885-9 marzo 1963), infatti, dobbiamo l'emblema dello Stato d'Italia. Intesta tutti i documenti di valore legale, dalla “Gazzetta Ufficiale” alle carte d'identità, ai passaporti e via continuando. Quindi la curiosità sull’eventuale iniziazione alla Libera Muratoria del suo creatore è più che legittima. Chissà mai che la Repubblica sia in odore di massonismo? Sarebbe un bene o un male assoluto? Il dollaro USA è un coacervo di simboli massonici. Tutto sommato ha retto nel tempo e regge. Sarà per quell'Occhio che veglia dalla punta della Piramide? Prima di rispondere alla domanda se dunque Paolo Paschetto sia stato o no iniziato in loggia, giova ripercorrerne sinteticamente la vita, analiticamente ricostruita da Silvia Silvestri nel “Dizionario biografico degli italiani”, al quale rimandiamo chi voglia saperne di più.
   Suo padre, Enrico, pastore valdese, dalla non sempre gaia valle nativa, punteggiata di combe e di ricordi delle passate persecuzioni, nel 1889 migrò a Roma con la moglie, Luigia Oggioni, milanese, di famiglia garibaldina, evangelica, e i figli. Insegnò ebraico in una scuola metodista e poi in una battista. Terzogenito, dopo il liceo classico Paolo si iscrisse all'Istituto di Belle Arti e cominciò ad emergere appena ventenne. Nel 1907 vinse il concorso per ornare il biglietto di cinque lire (all'epoca un tesoretto) e si affermò in un'arte apparentemente minore, la decorazione, coltivata con garbo e delicatezza rispondenti al gusto poetico crepuscolare. Sua moglie, Italia Angelucci, sposata nel 1911, a sua volta istoriò cuoio, rame, ceramica e tela su sua ispirazione. Collaboratore di “Bilychnis” e di altre riviste evangeliche e riformate di studi religiosi, tra il 1912 e il 1914 Paschetto si dedicò all'impresa che ne perpetua la fama: la decorazione del Tempio valdese che nella Città Eterna si affaccia su piazza Cavour, alle spalle del Tribunale, all'epoca in costruzione tra polemiche e scandali sul suo costo esorbitante e ora sede della Corte di Cassazione. Docente di ornato all'Istituto di Belle Arti dal 1914 (lo rimase sino al 1949), l'anno seguente, quasi trentenne, fu mobilitato. Nel 1916 venne congedato per difetto alla vista e poté tornare alla sua vocazione di artista.

Claudia Particella, l'amante del cardinale
Nel 1913 una sua tavola raffigurante il rogo dell'eretico Hus fu scelta da Benito Mussolini per illustrare il suo Giovanni Huss il veridico, un “saggio storico” omesso dall'Opera Omnia del “duce”. Renzo De Felice, suo maggior biografo, gli dedica appena una nota a pie' di pagina, ma poi scrisse la prefazione all'edizione oubblicata da Reverdito. «Tra le sue opere giunte alla pubblicazione (fu) certo la più ambiziosa e altrettanto certamente una delle meno riuscite. Il volume non è in pratica che un violento libello contro la Chiesa privo di sostanziale valore, se non per documentare un particolare tipo di interessi del suo autore in questo periodo e il suo proposito di tenere viva la polemica anticlericale un po' a tutti i livelli.» Il “libello”, invero, aveva genesi, motivazioni e propositi politici meditati. Per coglierli nella loro ampiezza occorre fare un passo all'indietro e richiamare alla memoria l'altro libello “giovanile” del rivoluzionario Mussolini: Claudia Particella, l'amante del cardinale.
   Più fortunato di Huss il veridico, questo “romanzaccio storico” (definizione di Mussolini medesimo in una lettera a Torquato Nanni), incluso nell'Opera Omnia, è stato ripubblicato in tiratura limitata, ma subito cestinato perché sommamente “scomodo” sia per chi in Mussolini vede l'uomo degli “esecrati Patti Lateranensi”, sia per chi non gli cede volentieri la palma dell'anticlericalismo e lo considera un opportunista, persino ingaggiato “a noleggio” dal servizio militare segreto di un Paese non proprio amico, secondo recenti asserzioni. La sua trama ricalca un scampolo di storia minore: la passione di Carlo Emanuele Madruzzo, ultimo principe-vescovo di Trento, per un'affascinante e di molto più giovane fanciulla, insidiata (aggiunge Mussolini) dal viscido don Benizio e bersaglio di un attentatore, che due volte la manca e pugnala la sua fida Rachele ma viene perdonato e si relega in chissà quale monastero. Superate spavaldamente tante prove, Claudia infine muore avvelenata, esclamando “muoio, muoio, muoio” per un paio di pagine.
   Il romanzo uscì a puntate nella prima metà del 1910 in “Il Popolo”, foglio socialista diretto da Cesare Battisti a Trento. Letto “con molta avidità” per i suoi risvolti pruriginosi e ossessivamente anticlericali, gli rese pochi spiccioli, di cui però aveva assoluto bisogno dal suo rientro in Forlì ove il 17 gennaio, senza vincoli ufficiali e, quel che è peggio, senza lavoro né fissa dimora, s'accasò con Rachele Guidi, sposata con rito civile nel 1915.
   Al di là dei limiti letterari, Claudia Particella offre molti spunti di riflessione per cogliervi la traccia lasciata in Mussolini dal Convitto nel quale studiò a Forlimpopoli, retto da Valfredo Carducci, fratello minore del grande Giosue, “maestro e vate della Terza Italia”, e per certi brividi profetici che il lettore attento non manca di cogliere nella fluente prosa del feuilleton.
   Valgano d'esempio alcune citazioni. Per il “cardinale” Madruzzo (che si attendeva dal papa speciale comprensione, ovvero la restituzione allo stato laicale per poter prender in moglie Claudia) l'amore era «esasperato ormai in una di quelle tragiche passioni che sconvolgono una vita». Quando decise di albergare (o “recludere”) l'amante in un remoto castello a picco su un lago, il porporato esclama: «L’ora delle grandi risoluzioni è forse imminente.» C'è già il Mussolini delle “decisioni irrevocabili”(10 giugno 1940). Il “popolo di Trento” odiava Claudia perché la riteneva responsabile della sua rovina economica. «Le donne soprattutto erano furibonde. Consideravano Claudia una fortunata rivale e nel loro odio v'era l'invidia e la gelosia.» «Le collere represse e gli odi lungamente covati e le miserie non lenite aspettavano una nuova occasione per prorompere»; ma secondo Madruzzo «il popolo è sempre bestia e non mancherà di curvarsi a un altro dominatore». Quindi poteva infischiarsi bellamente della disapprovazione popolare.
   A cospetto della processione finale, che “il popolo” credeva “di purificazione” ma che lui aveva orchestrato quale estremo omaggio alla memoria di Claudia, Madruzzo riflette: «Non è concesso agli umani di leggersi nell'animo reciprocamente. Ogni uomo ha una o molte pagine chiuse nel libro della sua vita. V'è in noi una parte che non viene, né può venir mai alla superficie. Noi siamo profondamente stranieri gli uni agli altri. Quella che si dice fusione delle anime è una delle tante illusioni necessarie all'esistenza. L'anima umana è sola, non ha sorelle. La madre non può leggere il pensiero del figlio, il giudice non può penetrare nel mistero della colpa…». Parole autobiografiche?
   «Il mondo è bello» Mussolini fa dire a Claudia, riecheggiando Carducci. «Sono gli uomini che lo guastano.»
   A rovinarlo erano anzitutto i preti (specialmente i gesuiti) che il romanzo mette alla gogna pagina dopo pagina con un crescendo di invettive. «Il Concilio di Trento non aveva riformato i costumi depravati del clero, alto e basso. Dal Vaticano la corruzione dilagava nel mondo cattolico, sino alle ultime parrocchie perdute fra le montagne.» Perciò la “morale” dei contemporanei «era elastica, pieghevole, specie nei riguardi del clero, che pareva godesse dell'impunità. Molto si perdonava. La Chiesa di Roma del resto aveva dato il malo esempio. I successori della cattedra di Pietro si erano macchiati dei più nefandi delitti». I papi sintetizzavano la «turpitudine universale», da Alessandro VI e Leone X a Clemente VII che «manteneva buon numero di donne lascive, fra le quali celebre un’africana»: aneddoti carpiti dalla copiosa letteratura del tempo (non consta abbia attinto da opere poderose come quella di Gregorovius).

Giovanni
                                                          Hus il
                                                          veridico, con
                                                          introduzione
                                                          di A.A.M. e
                                                          una nota del
                                                          “fratello”
                                                          Giovanni
                                                          Oggero,
                                                          Carmagnola,
                                                          Edizioni
                                                          Arktos, 2006.
                                                          Oggero ricorda
                                                          l'inchiesta
                                                          sulla
                                                          Massoneria
                                                          condotta
                                                          dall'“Idea
                                                          nazionale” nel
                                                          1912-1913 e
                                                          cita “tra i
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                                                          antimassoni
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                                                          Graziosi” (un
                                                          lapsus
                                                          ...provvidenziale),
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                                                          leggi
                                                          razziali”.Elogio dell'eresia
Due anni dopo la pubblicazione di Claudia Particella Mussolini scrisse Giovanni Huss il veridico. Notiamo, per inciso, che l' “eretico” (o riformatore) compare solitamente come Hus (1369-1415). Il futuro “duce” si dedicò al “libretto” (definizione sua) nella forzata pausa della carcerazione. Arrestato il 14 ottobre 1911 con i repubblicani Pietro Nenni e Aurelio Lolli per istigazione alla violenza, resistenza alla forza pubblica e altri reati compiuti per protesta contro l'impresa di Libia, il 23 novembre Mussolini fu condannato a un anno di reclusione, pena commutata in appello a cinque mesi e mezzo. Venne rilasciato il 12 marzo 1912, in tempo per scatenare l'offensiva contro i socialriformisi, culminata a luglio con la loro espulsione dal partito nel congresso di Reggio Emilia.
   Nella prefazione al libro Mussolini lamentò le «gravi difficoltà» incontrate perché le opere latine dell'eretico non erano reperibili e quelle «in czeco o voltate in czeco non sono state ancora tradotte in italiano». Riteneva tuttavia di «aver fatto opera non inutile», soprattutto per «il pubblico dei liberi pensatori», con un libro atto a suscitare nell'animo dei lettori «l’odio per qualunque forma di tirannia spirituale e profana: sia essa teocratica o giacobina». Tutto si può dirne tranne che non sia stato esplicito: né papato, né impero e neppure i giacobini, che nell'Italia dell'epoca (come in quelli delle Compagnie di Santa Fede) erano sinonimo di massoni.
   Perciò risulta assai curioso che il libro sia uscito nella “Collezione storica de I Martiri del Libero Pensiero” diretta da Guido Podrecca, già direttore di “L'Asino”, la rivista anticlericale più famosa del tempo, istoriata dalle formidabili “vignette” di Gabriele Galantara (Ratalanga), iniziato nella prestigiosa loggia “Propaganda massonica” del Grande Oriente d'Italia (matricola 24.616).
   Che cosa potevano avere in comune i tre? Giovanni Huss il veridico comincia, con un po' più di “dottrina”, da dove il futuro “duce” aveva lasciato Laura Particella. «I movimenti ereticali – egli annotò – rappresentano tentativi d'opposizione alla Chiesa di Roma decaduta dal suo ministerio antico, schiava del mercantilismo profano, legata al Dio Mammone, al denaro che umilia tutte le fedi. Nel XIV secolo la Chiesa cattolica era diventata una colossale agenzia d'affari spirituali e materiali: i primi servivano di pretesto e di maschera ai secondi. Roma era la sede centrale della Ditta, ma le filiali erano disseminate in tutta Europa. […] I conventi che, secondo i primitivi fondatori avrebbero dovuto costituire un asilo di uomini puri, erano diventati il ricettacolo di tutti i parassiti, adoranti il Signore con letizia di sensi e di piaceri viziosi. Dalla sensualità e dalla rapacità dei monaci nessuno – maschio o femmina – si salvava […] La venalità della gerarchia ecclesiastica non conosceva limiti, né ostacoli. Le cariche si compravano e si vendevano». Insomma, «il popolo era l'unico che portasse la Croce in quel mondo di gaudenti». Perciò «ogni eresia ha qualche cosa di sociale, talvolta socialistico». «Gli eretici – concluse con guizzo autobiografico – parlano in nome del popolo e al popolo». Il movimento hussita, osservò verso la fine del saggio, si compose «di due elementi inscindibili, il religioso e il nazionalistico». Era un'osservazione non peregrina, perché, sia pure confusamente, anticipava la sua svolta dell'estate 1914, quando, a cospetto della discesa in campo di tutti i partiti socialisti a sostegno dei governi dei rispettivi paesi, balzò dall'antimilitarismo che nel 1911-1912 gli era costato il carcere all'interventismo. Nel cui composito schieramento si ritrovò a fianco dei liberi pensatori e dei massoni che assunsero l'avanguardia della guerra contro gli Imperi Centrali. Campione di movimentismo funambolico (era l'“uomo in cerca”, come bene osserva De Felice), Mussolini si accostò all'ala massonica più scomoda per i poteri centrali dell'Ordine, da anni impegnati a fare da ponte per il transito dei socialriformisti a sostegno delle Istituzioni. D'altronde, nel 1908 era stato proprio il socialriformista più prestigioso, Leonida Bissolati Bergamaschi, a infilare il partito socialista nel tunnel imboccato, con esito politicamente catastrofico, dal Grande Oriente nella lotta per l'abolizione dell'insegnamento del catechismo cattolico nella scuola dell'obbligo.
   Con Huss il veridico Mussolini fece intendere che si può combattere il clero senza entrare necessariamente in loggia, da posizioni “rivoluzionarie”, tornando al popolo. Non per caso nell'aprile dell'anno seguente ottenne che nel Congresso di Ancona il Partito socialista italiano espellesse i massoni, quinta colonna della borghesia e dei “bocchi popolari” incardinati sulla convergenza di radicali, riformisti e liberali “progressisti”.

Paschetto, massone a sua insaputa?
Nell'Huss il terzetto Podrecca-Ratalanga-Mussolini “reclutò” Paolo Paschetto, pubblicandone la xilografia del rogo dell'eretico tratta da “Bilychnis”. Come si saldavano quei tre anelli? Nelle prime elezioni politiche del dopoguerra (16 novembre 1919) la lista capeggiata da Mussolini nel collegio di Milano comprese Potrecca accanto ad Arturo Toscanini, Tommaso Marinetti e altre celebrità, tutte avviate alla sonora e si può dire umiliante sconfitta. Tuttavia molti militanti anticlericali di punta continuarono a scommettere sul Mussolini neo-pagano. Era il caso della associazione Giordano Bruno e del periodico “La Ragione”, il cui “Almanacco, 1923” pose in copertina il fascio littorio ritto sulla cupola di San Pietro e scrisse che la data più importante del 1922 era la vittoria fascista del 28 ottobre.
   E Paschetto? In occasione di un convegno incentrato su di lui (1° giugno 2016) nella Casa Valdese di Torre Pellice in collaborazione con il Collegio circoscrizionale Piemonte-Valle d'Aosta del Grande Oriente d'Italia, il gran maestro Stefano Bisi ribadì che il vincitore dei concorsi per il bozzetto della Repubblica italiana era stato sicuramente massone. Invece lo storico Daniele Jalla, della Società di studi valdesi e nipote dell'artista, escluse che dietro l'ideazione dell'emblema dello Stato «ci fosse alcuna intenzione di simbologia particolare» e concluse perentoriamente: «Il nonno non è stato massone. Una convinzione famigliare basata sui fatti ha trovato riscontro negli archivi della massoneria italiana: il suo nome non figura negli elenchi degli iscritti.» Chi aveva ragione? In effetti nella matricola del Grande Oriente (per altro incompleta) Paschetto non compare. Ma “la prova provata” del suo massonismo andava cercata altrove. Nelle ricerche d'archivio ci vuole infinita pazienza. Ma il risultato paga.
   Possiamo dunque affermare, documento alla mano, che Paolo Antonio Paschetto, professore all'Istituto di Belle Arti di Roma, residente in via Scipione 119, nato a Torre Pellice il 12 febbraio 1885, fu Enrico, venne iniziato massone a Roma nella loggia “Nazionale” della Serenissima Gran Loggia d'Italia il 21 febbraio 1917 e subito elevato al grado di maestro. Il 28 maggio ascese al grado 9° della scala del Rito scozzese antico e accettato. Ascese a Cavaliere Eletto dei IX.
   Quindi aveva ragione Bisi. Paschetto fu massone. Ma non del Grande Oriente d'Italia. Non sappiamo quanto sia rimasto attivo e quotizzante. Di sicuro dopo il forzato scioglimento delle logge sotto l'offensiva squadristica scatenata da Mussolini (1925), per continuare a professare la sua arte alla Gloria del Grande Architetto dell'Universo Paolo Antonio dovette tenere ben celato (anche in casa...) il suo non fortuito passaggio tra le Colonne. Diversamente non gli sarebbero stati affidati incarichi in opere pubbliche di prestigio, comprese vetrate al ministero della Pubblica istruzione, poi dell'Educazione nazionale.
   Altra cosa è l'interrogativo sul nesso tra la sua iniziazione e l'emblema della Repubblica. Ma è questione da esaminare a parte.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA : Copertina di una riedizione di Giovanni Hus il veridico, con introduzione di A.A.M. e una nota del “fratello” Giovanni Oggero, Carmagnola, Edizioni Arktos, 2006. Oggero ricorda l'inchiesta sulla Massoneria condotta dall'“Idea nazionale” nel 1912-1913 e cita “tra i più ossessionati antisemiti e antimassoni l'ex prete Graziosi” (un lapsus ...provvidenziale), che poi fu tra quanti premettero su Mussolini per il varo delle leggi razziali”.


LUIGI CAPELLO, SACERDOTE DI MARTE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 5 Novembre 2023 pagg. 1 e 6.
La tomba
                                                          di Luigi
                                                          Capello
                                                          individuata
                                                          dopo lunghe
                                                          ricerche e
                                                          fotografata
                                                          nel cimitero
                                                          del Verano
                                                          (Roma) dalla
                                                          professoressa
                                                          Maria Luisa
                                                          Suprani
                                                          Querzoli, che
                                                          l'ha
                                                          riordinata
                                                          “curata” e la
                                                          raccomanda
                                                          alle
                                                          Istituzioni e
                                                          a quanti hanno
                                                          a cuore la
                                                          Memoria
                                                          dell'Italia.
                                                          Il Diploma di
                                                          grado 33° del
                                                          Rito scozzese
                                                          Antico e
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                                                          rilasciato al
                                                          gen. Capello
                                                          dal Sovrano
                                                          Gran
                                                          Commendatore
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                                                          Ballori il 15
                                                          dicembre 1915
                                                          (Archivio
                                                          Centrale dello
                                                          Stato, Carte
                                                          Capello,
                                                          pubblicato
                                                          nella
                                                          copertina di
                                                          Luigi Capello,
                                                          un militare
                                                          nella storia
                                                          d'Italia, a
                                                          cura di Aldo
                                                          A. Mola,
                                                          Cuneo,
                                                          L'Arciere,
                                                          1987).Caporetto non fu una “disfatta”
La Festa dell'unità d'Italia e delle Forze Armate è propizia per riproporre all'attenzione il generale Luigi Capello, una figura centrale nella storia militare e politica d'Italia dalla guerra per la Libia all'avvento del regime fascista (1911-1927). Di Luigi Cadorna qualche cosa è stato detto recentemente nella puntata di “Una giornata particolare” dedicata da Aldo Cazzullo a “La disfatta di Caporetto”, didatticamente discutibile e fuorviante sin dal titolo. Infatti la “battaglia di Caporetto” fu, sì, una sconfitta e si risolse nella “rotta”. Costò circa 30.000 caduti, 300.000 prigionieri, altrettanti “sbandati” e ingente perdita di armi e magazzini. L'offensiva austro-tedesca determinò l'arretramento degli italiani sulla linea dal Monte Grappa al Piave, ma non fu “la disfatta”, cioè una catastrofe irrimediabile, tale da compromettere qualunque possibilità di ripresa. Non generò né il crollo dell'esercito né il collasso dell'Italia. Anzi, come mostrarono i fatti e riconosce la storiografia, la ritirata, coordinata dal Comandante Supremo Cadorna secondo il piano approntato da tempo, pose le basi della “battaglia d'arresto” e le premesse per la riscossa e la vittoria sull'impero austro-ungarico del 3-4 novembre 1918. Con essa gli italiani ottennero di attraversare in armi l'Austria, per colpire da sud la Germania, che cacciò Guglielmo II e si arrese a confini inviolati. Fu l'Italia di Vittorio Emanuele III a dare la spallata vincente nella Grande Guerra.
   Nel racconto televisivo il generale Capello, comandante della II Armata, la più ingente mai allestita dall'Esercito italiano (circa 900.000 uomini), è rimasto marginale, mentre Cadorna è stato bersaglio di “addebiti”, che in realtà vanno a suo merito: a cominciare dalla sua motivata preoccupazione (non “ossessione”) per il “disfattismo” che nel corso del 1917 saliva dal paese al fronte. Cadorna lo denunciò al presidente del Consiglio Paolo Boselli in quattro lettere, rimaste senza risposta, e in audizioni in sede di governo, neppure messe a verbale. Quanto alle misure adottate dal Generalissimo per reprimerlo, va constatato che non vi fu alcun mutamento formale né sostanziale dopo la successione di Armando Diaz a Cadorna il 9 novembre 1917. Lo documentano le statistiche delle condanne a morte pronunciate in contraddittorio dai Tribunali di guerra: 1008 nei quarantun mesi di guerra, di cui 728 eseguite. A parte il picco del maggio 1917 e quelle dell'ottobre  seguente, le condanne pronunciate nel febbraio e nell'aprile del 1918 furono identiche a quelle del maggio e del luglio 1916, mentre le 10 condanne sentenziate nel luglio 1918 furono pari a quelle dell'aprile 1917. Eppure Diaz ebbe importanti vantaggi su Cadorna: un fronte ridotto di centinaia di chilometri, armamento nettamente migliore, in specie nell'artiglieria e nell'aviazione, ingenti rifornimenti di vestiario e di alimenti. Sino al 1914 l'Italia era un paese ancora prevalentemente agricolo. Il suo apparato industriale era nettamente inferiore a quello di Germania, Francia e Gran Bretagna. La “macchina bellica” giunse a pieno regime con la primavera del 1918. Inoltre, dopo “Caporetto” tutti si schierarono compattamente a sostegno delle forze armate al motto “resistere, resistere, resistere”. La guerra divenne “della nazione”, come titola una mostra curata da Aldo G. Ricci. A differenza di quant'era avvenuto nel 1917, nel 1918 nessun socialista intimò “non più un inverno in trincea”. I cattolici non rilanciarono l'esortazione di Benedetto XV a porre fine alla “inutile strage”. Alla Camera prevalse il “fascio nazionale”. Anche personalità pacate come Ernesto Nathan, gran maestro del Grande oriente d'Italia e già sindaco di Roma, incitarono a schiacciare come serpenti persino i “pacifisti”.

I Comandanti sotto inchiesta
Poi avvenne l'inverosimile. Dall'ingresso in guerra la Camera dei deputati aveva sfiduciato due governi: quello presieduto da Antonio Salandra, che il 20 maggio 1915 le aveva estorto l'intervento, tenendola all'oscuro degli accordi segretamente conclusi a Londra il 26 aprile precedente con la Triplice Intesa anglo-franco-russa, e quello di Paolo Boselli, costretto alla dimissioni proprio il 24 ottobre 1917, da deputati ignari di quanto stava accadendo al fronte. Su impulso degli umori serpeggianti in un Parlamento che si riunì anche in “comitati segreti” per non far trapelare all'esterno le sue profonde divisioni, il 18 gennaio 1918 fu istituita la “Commissione d'inchiesta sugli avvenimenti dall'Isonzo al Piave (24 ottobre-9 novembre 1917)”. Essa “udì” 1012 “testimoni”: 101 generali, 29 deputati, tre senatori e militari di tutte le armi. Concluse i lavori nel giugno 1919 e ne pubblicò le conclusioni in due volumi. La Relazione venne scritta dal colonnello Fulvio Zucaro “sotto l'assillo di altrui ansiosissima impellente pressione”, cioè incalzato dal presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti. Per primo fu stampato il secondo tomo: “Le cause e le responsabilità degli avvenimenti”. Mentre la guerra imperversava, la Commissione, presieduta da Carlo Caneva, a suo tempo rimosso dal comando della guerra in Libia ma ripagato con la nomina a generale d'esercito, e formata da militari e da tre “politici” (incluso il socialista e massone Orazio Raimondo), pose implicitamente sotto accusa i vertici delle forze armate. Tra altri furono sospesi dalle funzioni Luigi Cadorna, che guidava con prestigio e alto credito la delegazione italiana al comando interalleato a Versailles, e Luigi Capello, comandante della V Armata, da lui rapidamente organizzata in vista della riscossa. Anche in altri Stati in guerra i “Generalissimi” vennero sostituiti, ma mai destituiti proprio per non demoralizzare la “macchina bellica” sottoposta a tensioni senza precedenti e per non divaricare forze armate e “politici”.
   L'istituzione della Commissione d'inchiesta rispose invece all'intento di mostrare che nessuno era “intoccabile”. Ma sino a quale grado poteva spingersi? In forza dello statuto del 1848 il comando delle forze di terra e di mare era prerogativa del re. Il sovrano non lo esercitava personalmente ma tramite un comandante nominato dal governo: il capo di stato maggiore dell'esercito, istituito nel 1882. Le sue funzioni erano state precisate per i tempi ordinari, ma non in caso di guerra. Non vi aveva provveduto neppure Giovanni Giolitti, che nel 1911 dichiarò guerra all'impero turco per la sovranità sulla Libia. L'“Inchiesta su Caporetto” rischiava di superare il livello di guardia e di investire la Corona, bersaglio di quanti in Italia proclamavano di voler “fare come in Russia”: una rivoluzione che per rovesciare la “borghesia” doveva anzitutto abbattere la monarchia. Le polemiche assunsero toni violentissimi.
   Contrariamente a quanto si proponeva Nitti, la pubblicazione delle risultanze della Commissione gettò benzina sul fuoco. Di Cadorna essa convenne che molti testimoni ne riconobbero “l'alto ingegno e le preclare qualità di energia”. Nessuno ne pose in dubbio l'“onorabilità di uomo, di cittadino e di soldato”. Però gli venne imputata la “presunzione dell'infallibilità del giudizio proprio”, l'“insofferenza di ogni diverso giudizio e apprezzamento”, il suo “isolamento da tutto il resto dell'esercito, dalle autorità civili e dalla popolazione”. Per di più pareva “pessimo conoscitore di uomini”. La Commissione concluse che Cadorna era “un tipo pronunciatissimo, qual altro mai, di egocentrico”. Però proprio quella “forma mentale” costituiva anche “una forza” perché ne derivava “la calma di fronte a situazioni difficili e la tenacia dei propositi, entrambe alimentate dalla fiducia in sé”. Come Cadorna mostrò, in guerra e nel difficile dopoguerra.
   Di tutt'altro tenore sono le pagine dall'Inchiesta dedicate al generale Luigi Capello, “oggetto di critiche assai severe per parte di un gran numero di testimoni” che ne deplorarono il “carattere aspro e irascibile, ed un linguaggio adirato, violento, talora inqualificabile”. Il suo sistema di governo delle truppe si era basato “sul terrore, sulle minacce, sull'oppressione e sarebbe stato improntato persino a crudeltà”. Durissimo nei confronti dei generali ai suoi ordini, nei riguardi delle truppe assunse persino la forma di vessazione. Era stato tacciato di “prodigalità di sangue” sin dai tempi della guerra di Libia. La sua reputazione era quindi “artifiziosa”, propiziata “da uomini politici, scrittori, artisti e sovrattutto da giornalisti che ne secondarono l'ambizione di salire sempre più in alto fino alla maggiore carica dell'esercito”. La Commissione non ne mise in forse le “alte doti intellettuali” e le “qualità di energia e di organizzazione” ma, tramite i “testimoni”, ne dipinse l'arrivismo, l'ambizione sfrenata e la “sopraffazione” del Comandante Supremo, che dette “preminente importanza alle qualità tecniche” del suo subordinato in funzione della vittoria. In conclusione la Commissione dichiarò di astenersi dal pronunciare un giudizio che ne avrebbe leso profondamente l'onore. Però acquisì e pubblicò quanto bastava per classificarlo “un macellaio”.

Luigi Capello: un “fratello d'Italia”...
Ma chi era davvero Capello e quale fu il suo itinerario successivo alla rimozione e dalla pubblicazione della risultanze dell'Inchiesta?
   Nato a Intra nel 1859, di famiglia piccolo borghese, allievo dell'Accademia Militare a 16 anni, sottotenente di fanteria a 19, ufficiale di Stato Maggiore a 27, dopo la Scuola di Guerra, accompagnò al servizio la pubblicazione di articoli spesso polemici sul conservatorismo nelle forze armate. Colonnello dal 1898, il 15 aprile 1910 venne iniziato massone nella loggia torinese “Fides” e fu registrato nella matricola del Grande Oriente d'Italia al numero 31.681. Da due settimane era maggior generale. Dunque, non entrò in loggia per fare carriera. Dal Settecento la massoneria era riferimento dei militari: nel regno di Sardegna, nell'Italia franco-napoleonica e, ancor più, con la fusione del “movimento” di Garibaldi, primo massone d’Italia <?>, nel regio esercito. Prima di lui erano entrati in loggia uno stuolo di ufficiali, da Giacomo Sani a Ugo Cavallero, futuro Maresciallo d'Italia. Comandante della Brigata Abruzzi dal 1910, Capello si distinse nella guerra di Libia con la vittoria sui turchi a Derna. Comandante della 25^ divisione in Sardegna, con l'intervento fu assegnato alla III Armata. Tenente generale, a inizio agosto 1916 ottenne il primo successo dell'intera Intesa: l'ingresso in Gorizia, dopo lunga preparazione. Stimato da Cadorna, che non ne condivideva né il massonismo né la manifesta ricerca di consensi in ambienti non propriamente militari, il 1° giugno 1917 fu nominato comandante della II Armata. In un mese di attacchi (18 agosto-15 settembre) occupò l'altipiano della Bainsizza. L'offensiva si esaurì. In vista della probabile stasi invernale e di un attacco nemico ormai libero sul fronte con la Russia, stravolta dalla rivoluzione, e mentre i franco-inglesi ritirarono le artiglierie “prestate” all'Italia, Cadorna ordinò il passaggio dallo schieramento offensivo alla “difesa a oltranza” su tre linee. Fautore della controffensiva, Capello non eseguì le disposizioni. Da Vittorio Emanuele III il 6 ottobre fu insignito della Gran croce dell'Ordine militare di Savoia, decorazione suprema. Sofferente di nefrite e temporaneamente sostituito dal generale Montuori, solo il 19 ottobre, dopo un colloquio con Cadorna, impartì tardivamente le disposizioni necessarie al cambio di schieramento. Tornò al comando il 23, vigilia dell'offensiva austro-germanica che, dopo un bombardamento iniziato alle 2 del mattino, travolse proprio il tratto di fronte di sua competenza e azzerò le comunicazioni telefoniche e telegrafiche. L'artiglieria del XXVII corpo d'armata non sparò un colpo. Il suo comandante, Pietro Badoglio, fu irreperibile per un giorno.
   Dopo la rotta, il 26 novembre Capello fu nominato comandante della V Armata. Rimosso, si difese prontamente con la Memoria “La 2^ Armata e gli avvenimenti dell'ottobre 1917”. Nel settembre 1919, dopo la pubblicazione dell'Inchiesta, fu collocato a riposo, come Cadorna. Era la fine? Aveva sessant'anni. Continuò a difendersi con libri, articoli, conferenze, dai toni spesso polemici mentre i governi, di modesta consistenza politica, miravano a smobilitare e a pacificare gli animi con la celebrazione del sacrificio, culminata con la tumulazione del Milite Ignoto all'Altare della Patria.
   Comprensibilmente ansioso di ottenere una riparazione solenne, Capello assecondò il “movimentismo” di Benito Mussolini, che gliela lasciò intravvedere. Il 31 ottobre 1922 sfilò con i generali Gustavo Fara e Sante Ceccherini, massoni come lui, alla testa del corteo di militi festeggianti l'insediamento del nuovo governo, che ebbe Diaz ministro della Guerra. Da metà febbraio 1923 il quadro politico ebbe assetto definitivo con la fusione dei nazionalisti nel Partito nazionale fascista, suggellata dalla dichiarazione di incompatibilità tra fasci e logge massoniche, seguita nel 1924 dall'espulsione dei massoni dal partito. Capello, che aveva presieduto varie iniziative della Milizia fascista, scelse l'Ordine liberomuratòrio. La Relazione della seconda Commissione d'inchiesta sui fatti del 1917 attenuò gli addebiti nei suoi confronti e gli riconobbe le qualità di comandante premuroso anche dei suoi soldati, ma rimase inedita. Mussolini preferì tenere sotto scacco tanti generali.

...al carcere e all'oblio
I devastanti assalti squadristici alle logge culminarono con quello alla sede del Grande Oriente, difesa personalmente da Capello. La sua opposizione al regime incipiente divenne palese. Come scrive, sulla scorta di molti saggi e documenti, Maria Luisa Suprani Querzoli in Malgrado. La verità sul generale Luigi Capello (Mazzanti Libri, 2023), si avvicinò all'antifascismo militante di “Pace e Libertà” e fu artatamente coinvolto nell'attentato alla vita di Mussolini ordito dal socialista riformista (non massone) Tito Zaniboni, tallonato da Carlo Quaglia che agiva d'intesa con i servizi di polizia per compromettere quel che rimaneva delle opposizioni non estreme. Il 4 novembre 1925 Zaniboni fu arrestato nella camera d'albergo dalla cui finestra si accingeva a sparare al “duce”. Capello fu a sua volta arrestato a Torino quale suo complice. Era la prova del coinvolgimento della massoneria, proprio mentre il Senato stava per discutere la legge che proibiva ai pubblici impiegati l'iscrizione a società segrete, come le logge erano dipinte. Senza alcun elemento probante, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato nell'aprile 1927 condannò Capello a trent'anni di reclusione (tre dei quali in regime cellulare) e alla radiazione dall'esercito. Nelle piazze ne era stata chiesta l'esecuzione capitale. Scontò la pena parte tra le sbarre, parte in clinica a Formia e dal 1935 nella sua modesta abitazione a Roma, condivisa con la moglie, Lidia Bongiovanni, e la figlia Laura Borlenghi. Morì il 24 giugno1941, amareggiato dalla perdita di Derna, sua gloria di quarant'anni prima. Il regime impose funerali strettamente privati. Nel 1946 sua figlia pubblicò “Generale Capello: Numero 3264” (Garzanti): curiosamente il numero del suo diploma di alto dignitario del Rito Sozzese Antico e Accettato. Solo nel 1947 fu “riabilitato”. Però rimase in un cono d'ombra sino alla pubblicazione del suo Memoriale “Caporetto perché?” (Einaudi, 1967), con prefazione di Renzo De Felice. Dal carcere soleva scrivere alla moglie: “La storia è galantuoma”. Ma lo è solo grazie a studiosi che vanno oltre gli opportunismi: “per la Verità”, come appunto scriveva Luigi Capello.
Aldo A. Mola


Didascalia: La tomba di Luigi Capello individuata dopo lunghe ricerche e fotografata nel cimitero del Verano (Roma) dalla professoressa Maria Luisa Suprani Querzoli, che l'ha riordinata “curata” e la raccomanda alle Istituzioni e a quanti hanno a cuore la Memoria dell'Italia.
   Il Diploma di grado 33° del Rito scozzese Antico e accettato rilasciato al gen. Capello dal Sovrano Gran Commendatore Achille Ballori il 15 dicembre 1915 (Archivio Centrale dello Stato, Carte Capello, pubblicato nella copertina di Luigi Capello, un militare nella storia d'Italia, a cura di Aldo A. Mola, Cuneo, L'Arciere, 1987).
   Già biografato da Angelo Mangone (Da Gorizia alla Bainsizza. Da Caporetto al carcere, Mursia, 1994) e da Dario Ascolano (Biografia militare e politica, Longo, 1999), dopo lungo oblio Luigi Capello è riproposto da Maria Luisa Suprani Querzoli in Luigi Capello. Profilo di un generale italiano (TralerigheLibri, 2022) e in Malgrado. La verità sul generale Luigi Capello (Mazzanti 2023, pp. 550), basato su ampia documentazione archivistica e vasta bibliografia. Per un inquadramento generale della sua figura rimangono fondamentali il profilo scrittone dal Generale CdA Oreste Bovio in Sacerdoti di Marte (Ufficio Storico SME) e ID., Storia dell'Esercito Italiano (Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito). Prendendo spunto dal profilo di Caneva, Bovio definisce “ampia ma non esauriente” la Relazione della Commissione d'inchiesta. Essa addossò la responsabilità della “rotta di Caporetto” a Cadorna e ad alcuni suoi sottoposti e «assolse il governo e le parti politiche, che pure non erano esenti da errori e da colpe».

GARIBALDI SCRITTORE?
PERCHÈ? PER CHI?

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria”
di domenica 22 Ottobre 2023 pagg. 1 e 6.
Al
                                                          Quirinale
                                                          Vittorio
                                                          Emanuele II
                                                          accoglie
                                                          Garibaldi,
                                                          presente
                                                          l'Aiutante di
                                                          Campo del Re,
                                                          Giacomo Medici
                                                          del Vascello,
                                                          già comandante
                                                          del 2°
                                                          Reggimento dei
                                                          Cacciatori
                                                          delle Alpi.
                                                          Nella
                                                          Prefazione ai
                                                          romanzi
                                                          storici
                                                          Garibaldi
                                                          disse chiaro e
                                                          tondo perché
                                                          li scrisse:
                                                          «1° Per
                                                          ricordare
                                                          all'Italia
                                                          molti dei suoi
                                                          valorosi, che
                                                          lasciarono la
                                                          vita sui campi
                                                          di battaglia
                                                          per essa. 2°
                                                          Per
                                                          trattenermi
                                                          colla gioventù
                                                          italiana sui
                                                          fatti da lei
                                                          eseguiti. 3°
                                                          Per ritrarre
                                                          un onesto
                                                          lucro dal mio
                                                          lavoro. Ecco i
                                                          motivi che mi
                                                          spinsero a
                                                          farla da
                                                          letterato in
                                                          un tempo in
                                                          cui credetti
                                                          meglio far
                                                          niente che far
                                                          male.»
                                                          Generale,
                                                          deputato,
                                                          artefice
                                                          dell'unità
                                                          nazionale
                                                          Garibaldi si
                                                          reggeva sulle
                                                          grucce, non
                                                          aveva né
                                                          stipendi né
                                                          pensioni.
                                                          Scrisse di
                                                          getto e
                                                          pubblicò
                                                          “Clelia”
                                                          (uscito nel
                                                          1870 in
                                                          inglese prima
                                                          che in
                                                          italiano) e
                                                          “Cantoni il
                                                          volontario”
                                                          (1870), “I
                                                          Mille”,
                                                          specchio di
                                                          «un'anima che
                                                          sente le
                                                          miserie e le
                                                          vergogne del
                                                          suo paese», e
                                                          le “Memorie”,
                                                          intraprese nel
                                                          1871,
                                                          completate
                                                          l'anno
                                                          seguente e
                                                          pubblicate nel
                                                          1874. Benché
                                                          tradotti nei
                                                          Due Mondi, i
                                                          romanzi non
                                                          gli fruttarono
                                                          quel che
                                                          sperava.
                                                          Viveva in
                                                          condizioni
                                                          miserevoli.
                                                          Alcuni Comuni
                                                          gli
                                                          assicurarono
                                                          una pensione
                                                          di 3.000 lire
                                                          annue. Nel
                                                          1876 accettò
                                                          il “dono
                                                          nazionale” e
                                                          nel 1880
                                                          grazie al
                                                          giureconsulto
                                                          piacentino e
                                                          futuro
                                                          presidente del
                                                          Senato
                                                          Giuseppe
                                                          Manfroni
                                                          ottenne
                                                          l'annullamento
                                                          delle nozze
                                                          con Giuseppina
                                                          Raimondi e
                                                          sposò la
                                                          provvida
                                                          compagna
                                                          Francesca
                                                          Armosino,
                                                          dalla quale
                                                          aveva avuto
                                                          Rosa, Clelia e
                                                          Manlio. La
                                                          sua, sì, fu
                                                          “una vita
                                                          inimitabile”.Pare che questi editoriali abbiano ventiquattro lettori. Uno in meno di quanti ne contavano i Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Forse perché si occupano di temi tristi: il passato che non passa, il presente che angoscia, il buio pesto del futuro. Per di più sull'Arno l'editorialista va per questioni di “lingua”, sì, ma solo quella che gusta una succulenta “fiorentina”. Pecca di gola (gastrimarghìa), uno dei sette vizi capitali (una volta erano otto). Orbene, accade che un paio dei ventiquattro lettori, sorpresi di scoprire che, con tutto quel che ebbe da fare, Garibaldi abbia trovato anche il tempo di scrivere romanzi, hanno chiesto di saperne di più. In effetti il  nome del Generale non compare nei repertori dei letterati famosi. Forse perché egli disse chiaro e tondo che, posata la spada, impugnò la penna per continuare la sua “missione”. Scoprì anche il gioco degli scrittori che si dichiarano devoti esclusivamente alle muse ma controllano ogni giorno se arrivano i sempre magri diritti d'autore.
   Ricordiamo, allora, in via preliminare, che Garibaldi scrisse quattro romanzi: “Cantoni il volontario”, “Clelia, il governo dei preti”, “I Mille” e “Manlio”. Il primo, scritto in memoria ddel forlivese Raffaele Cantoni caduto nella sfortunata battaglia di Mentana (1867), è poco noto. Ebbe una prima edizione nel 1870, un'altra nel 1873. Finì in un cantone. Ristampato in poche neglette copie, è disponibile gratuitamente in internet. Modesto beneficio Garibaldi trasse dal “Clelia” e dai “Mille”. “Manlio” rimase inedito.
     Tornò allora a occuparsi di “politica”. Sulla fine della vita, affaticato dagli acciacchi ma sempre vigile, ammonì che occorreva  «governare meglio o cadere». Dall'affiliazione alla Giovine Italia all'impresa dei Mille, la sua stella polare fu Italia unita, indipendente, libera. Già in Sudamerica insegnava  «Libertad para todos y si no es para todos no es libertad» fu il suo motto. Per arrivarci bisognava organizzarsi.
   Al segretario della Società nazionale, Giuseppe La Farina, all'inizio del decisivo 1859 Garibaldi ripeté che «dovendo promuovere movimenti di popolo, sarebbe bene cominciare con qualche cosa di organizzato per poter dirigere la corrente come si deve». Non era più tempo di improvvisazioni né, soprattutto, di indulgere alle «cose mazzinesche», alle «suggestioni che potrebbero venirci da quei di Londra», alle «commedie che Mazzini chiama rivoluzioni». «Noi non dobbiamo esser partito – ribadì invece Garibaldi ad Agostino Bertani il 13 dicembre 1859 –, ma dominare i partiti tutti.». Dopo l'armistizio di Villafranca (luglio 1859) non rimise in discussione gli obiettivi ultimi, ma scelse la sua via. «A Vostra Maestà – scrisse a Vittorio Emanuele – è nota l'alta stima e l'amore che vi porto; ma la presente condizione in Italia non mi concede d'ubbidirvi, come sarebbe mio desiderio. Chiamato dai popoli mi astenni fino a quando mi fu possibile; ma se ora, in onta di tutte le chiamate che mi arrivano, indugiassi, verrei meno ai miei doveri e metterei in pericolo la santa causa dell'Italia. Permettetemi, quindi, Sire, che questa volta vi disubbidisca. Appena avrò adempiuto il mio assunto liberando i popoli da un giogo aborrito, deporrò la mia spada ai Vostri piedi e vi ubbidirò fino alla fine dei miei giorni.»
   Mantenne la promessa, ma a modo suo. Dopo la proclamazione del Regno (1861) Garibaldi rimase condizionato dal mancato compimento dell'unità. La necessità di congiungere all'Italia Roma, Venezia e Trento continuò a imporgli l'azione, senza però cedere alla faziosità dei “rivoluzionari” dilettanti. Fu lui a professare il programma cavouriano di governare il Mezzogiorno senza gli stati d'assedio e di farne anzi la piattaforma per mostrare la validità del liberalismo italiano. «Italia e Vittorio Emanuele, ecco la nostra repubblica, ecco il voto delle moltitudini» fu il suo programma.

  Col 1870, ormai definitiva la rottura con Mazzini, Garibaldi cominciò a insistere più esplicitamente sul rinnovamento delle istituzioni: non per mutar la monarchia in repubblica, ma per introdurre correttivi democratici nello Stato e nella condotta dell'amministrazione. «Che fa l'Italia? – s'interrogava nella primavera del 1873 – Non accenneremo ai miserabili suoi governanti già condannati dal disgusto universale.» Sotto accusa erano invece «Massoni, Mazziniani, Internazionalisti [...] egualmente fautori dell'indolenza democratica [...] e quindi del trionfo effimero ma reale dell'oppressione e della menzogna. Invano si chiamarono a conciliazione le parti diverse della democrazia». Denunciò il “tarlo” della discordia, del dottrinarismo. La Sinistra doveva cercare in se stessa le ragioni della sua debolezza politica e trovarvi rimedio senza indulgere ad addebitarla a speciale malizia degli avversari. “Predicò” per formare il «fascio» delle «associazioni oneste», «la Massoneria, la Mazzineria, la fratellanza artigiana, le società d'operai, di reduci, Internazionali fasci operai, ecc.». Per sgombrare il campo almeno da un equivoco, negò l'esistenza di «garibaldini». I suoi seguaci dovevano sentirsi e dichiararsi solo e sempre “italiani”.

   Sin dal 1870, col memoriale “Due parole di storia”, Garibaldi tracciò lo spartiacque tra il suo gradualismo e l'avventurismo di altri, incompatibile con le prospettive di crescita democratica aperte dall'unificazione nazionale: «Io ho spinto i miei concittadini a delle imprese temerarie qualche volta, ma me le perdonino [...]. Comunque, noi non vogliamo delle Rivoluzioni-miserie. Frattanto, i miei concittadini si preparino a temprar l'animo e il corpo, a mostrar che l'Italia facendo farà davvero [...]. Ripeto: aspettare l'ora. Non far rivoluzioni da farci beffeggiare». Contro i seminatori di discordie, i provocatori di guerre civili, Garibaldi rivendicò: «Io ho sempre inteso di appartenere alla Nazione Italiana.»

   Conscio della necessità di non isolare il “movimento” dalle componenti più caute del liberalismo, spiegò che i contrasti dovevano rimanere interni alla “famiglia”. Ampliamento del diritto di voto, eliminazione delle imposte indirette, dei dazi sui consumi, della tassa sulla macinazione e sul sale, da sostituire con un'imposta diretta e progressiva, abolizione della pena di morte, emancipazione femminile, interventi a favore delle classi e delle regioni più povere furono il terreno d'incontro tra Garibaldi, le diverse componenti della democrazia radicale e la nuova generazione di uomini politici, orientata da suoi antichi e fedeli seguaci come Aurelio Saffi, con il quale aveva condiviso l'epopea della Repubblica romana del 1849.
   Poiché sulla sua figura e sul suo pensiero si sono accumulate dicerie infondate è bene fissare alcuni punti fermi su un aspetto centrale della sua personalità: la religiosità. Nella congerie di suoi scritti e appunti occorre distinguere i “documenti” relativi alla vita militare e politica, quelli concernenti affetti domestici e amicizie e le carte cui affidò i suoi pensieri su temi generali. Tra queste ultime speciale rilievo occupano le sue riflessioni sulla religiosità. Esse includono tre diversi temi: Dio, le religioni, le chiese intese come clero. Al riguardo, oltre alle lettere, vanno presi in esame anche i suoi discorsi e gli scritti letterari, le cui pagine gli rimasero dinnanzi agli occhi e sotto la penna più a lungo di quanto gli potesse accadere per un proclama, un messaggio, una lettera dettata (e spesso solo firmata) o vergata sul tamburo, nel vortice dell’azione. Nelle prose d’arte (per quanto arte povera, come non esitò mai a dichiarare e a riconoscere) Garibaldi compì anzi uno sforzo per conferire veste definitiva alle proprie riflessioni. Debitamente confrontate con le altre fonti utili a coglierne il pensiero, esse conducono ad affermare che Garibaldi fu credente in Dio personale, creatore e ordinatore dell’universo, provvido nei confronti delle sue creature.
   Valga a conferma l’incipit del capitolo LXIII di Clelia, il governo dei preti: «Era una di quelle aurore che ti fan dimenticare ogni miseria della vita per rivolgerti tutto intiero alle meraviglie colle quali il Creatore ha fregiato i mondi. L’alba primaverile che spuntava dall’orizzonte, così graziosamente tinta dei colori dell’Iride, t’incantava...» Poco oltre, il capitolo intitolato Morte ai preti gronda di invettive contro il clero: «Tra le astuzie dei sardanapali pretini, ricchissimi com’erano, sempre mercé la stupidità dei fedeli, non ultima fu quella d’impiegare gli artisti più eminenti nella illustrazione delle loro favole.» Ai capolavori di Michelangelo e Raffaello contrappose la libertà e la dignità nazionale, «vero capo d’opera di un popolo».
   Contraddizione? No. Attendeva che la Chiesa (altra cosa dal clero) si liberasse dal gravame del potere temporale e tornasse evangelica e missionaria.
   In I Mille, un romanzo (mancato) sull’impresa che lo rese celebre nel mondo, Garibaldi toccò i vertici dell’anticlericalismo militante. Nella prefazione si scusò pubblicamente perché gli parve di avervi detto «abbastanza male» dei preti. Nello stesso libro, tuttavia, le roventi esecrazioni di papi, imperatori, preti (soprattutto i gesuiti) si alternano all’esaltazione, talora ingenua ma sempre appassionata, della «religione della libertà» e della religiosità in sé quale vincolo necessario all’umano incivilimento. Nell’accorato capitolo 61°, La morente, descrive la straziante agonia di Marzia, una delle eroine del romanzo accanto a Lina (Rosalia Montmasson, moglie di Francesco Crispi, personaggio storico mescolato a quelli di fantasia): «Marzia sentiva vicinissima la morte, ma dotata di sì supremo coraggio e di quell’eroismo filosofico capace di affrontarla come una conosciuta, come una transizione naturale della materia, accennò colle labbra un bacio verso Lina, che fu seguito da P. e dai cari presenti; non articolò più parola e passò tranquilla all’Infinito!» Materialismo panico? o spiritualismo?
   Il capitolo conclusivo del romanzo, Il sogno, condensa le sue contraddizioni e indica la via del loro superamento. L’eroe assiste al «sorgere del figlio Maggiore dell’Infinito che spuntava dalle cime dell’Apennino (sic!)». Mentre contempla l’aurora, intravvede il nuovo ordinamento dell’Italia unita, «un governo di tutti e per tutti» («non so se lo chiamassero Repubblicano» tiene a precisare), fondato sulla giustizia e sua garante. Descrisse il “miracolo”: la riesumazione gloriosa delle ossa dei martiri caduti per la patria («Si scopron le tombe, si levano i morti,/ i martiri nostri son tutti risorti...») e, al tempo stesso, alla redenzione dei «chercuti» incluso il «santissimo padre, non più panciuto e con le pantofole dorate, ma calzato con un buon pajo di stivali, snello e robusto che consolava il vederlo». Pio IX dirigeva di persona i preti intenti alla bonifica delle Paludi Pontine: «chi colla vanga, colla zappa e coll’aratro; altri lavoravano la terra che era una delizia.» A quell’afflizione educativa, alla fatica quale risarcimento dei danni inflitti alla società non erano però solo i preti nella visione di Garibaldi: dinnanzi ai suoi occhi si affollava «una quantità di finanzieri d’ogni classe, di pubbliche sicurezze, di impiegati al lotto e tanta altra gente inutile alla società ed ora resa utilissima». «I preti diventati laboriosi ed onesti. Tutte le cariatidi della Monarchia, come i primi consueti al dolce far niente ed a nuotare nell’abbondanza, oggi piegano la schiena al lavoro. Non più leggi scritte. Misericordia! Grideranno tutti i dottori dell’Universo, oggi obbligati anche loro a menare il gomito per vivere. Finalmente una trasformazione radicale in tutto ciò che abusivamente chiamavasi civilizzazione e le cose non andavano peggio! Anzi scorgevasi tale contentezza sul volto di tutti, e tale soddisfazione per il nuovo stato sociale, ch’era un vero miracolo!»
   Il sogno garibaldino di palingenesi va dunque molto oltre la o le chiese o, se si preferisce, guarda altrove:l a politica. Su religione e religiosità tornò in una lunga nota esplicativa sul concetto di Infinito: Scrisse: «Nelle presenti controversie della Democrazia mondiale, in cui si scrivono dei fascicoli numerosi per provare Dio gli uni, per negarlo gli altri, e che finiscono per provare e per negare nulla, io credo sarebbe conveniente stabilire una formola edificata sul Vero, che potesse convenire a tutti ed affratellare tutti. Per parte mia accenno e non insegno. Può il Vero, o l’Infinito, che sono la definizione l’uno dell’altro, servire all’uopo? Io lo credo; ma non lo insegno. V’è il tempo Infinito, lo spazio, la materia, come lo prova la scienza; quindi incontestabile. Resta l’intelligenza infinita. È essa parte integrante della materia? Emanazione della materia? La soluzione di tale problema è superiore alla mia capacità.»
   Ricalcò analoghe riflessioni in La religione del vero: «Ov’è Dio? io ne so tanto quanto un prete ma io, apostolo del Vero, risponderò: Non lo so, ed avrò detto la verità mentre un prete vi risponderà con una delle definizioni che certamente saranno false se non vi risponde com’io vi rispondo. Chi è Dio? Il Regolatore di Mondi [...] sì, quell’intelligenza infinita, la cui esistenza, gettando lo sguardo nello spazio e contemplando la stupenda armonia che regge i corpi celesti ivi disseminati chiunque deve confessare». Il Regolatore dei Mondi per lui era il massonico Grande Architetto dell'Universo. Scrisse infine la sua professione di fede: «Il mio infimo corpo è animato siccome sono animati i milioni d’esseri che vivono sulla terra, nelle acque e nello spazio infinito non eccettuando gli astri, che possono essere animati pure. Come tutti quegli esseri io sono dunque dotato di una quantità qualunque d’intelligenza e se l’intelligenza universale, che anima il tutto, fosse Dio, io avrei allora una scintilla animatrice emanata da Dio e sarei dunque una parte infinitamente piccola della Divinità ma ne sarei una parte; quell’idea mi nobilita, mi soddisfa, fa qualche cosa del mio nulla e contribuisce ad elevarmi sulle miserie di questa vita.»

   Garibaldi, condottiero, politico, scrittore, si poneva domande comuni a tanti uomini. E tentava risposte sue, forse ingenue ma sicuramente sincere, pacate. Una sorta di mano tesa verso tutti, un invito alla tolleranza universale. «Semplice, bella, sublime è la religione del vero: essa è la religione di Cristo perché tutta la dottrina di Cristo poggia sull’eterna verità. L’uomo nasce uguale all’uomo, Indi... Non fate ad altri ciò che non vorreste per voi. Chi non ha fallito getti la prima pietra sul delinquente. Simbolo di fratellanza il 1° precetto e simbolo di perdono il 2°. Simboli, precetti, dottrina che praticati dagli uomini costituirebbero quel grado di perfezione e di prosperità, a cui è suscettibile di giungere. Ma no, dice il prete: al di fuori della bottega son tutti dannati! Chi non è con me è con Satana e condannato a bruciare in eterno...»
   Garibaldi credé nell’immortalità dell’anima? In un appunto in nota al Clelia osservò: «Il cadavere conserva ancora la materia. Ma ove? L’intelligenza dorme o si è divisa?»
   Non aveva certezze e, ciò che più conta, non s’impancava a formulare e a imporre verità che per primo non possedeva. Quello degl’interrogativi senza risposta è il Garibaldi vero. È anche un Garibaldi molto attuale, giacché non propone una dottrina, un catechismo, un insegnamento né, meno ancora, un modello al quale attenersi rigidamente. Offre solo un esempio: quello di chi convive con i dubbi, reputa di non arrivare a darsi alcuna soluzione definitiva e tuttavia non si abbandona alla disperazione né diviene scettico o indifferente. Sente che di giorno in giorno la vita si esaurisce, ma non ne prova angoscia. Attende senza nulla pretendere. Vive, lascia vivere e nel frattempo fa quel che sente di dover fare per «guarire la gran piaga della miseria.»

Aldo A. Mola

DIDASCALIA. Al Quirinale Vittorio Emanuele II accoglie Garibaldi, presente l'Aiutante di Campo del Re, Giacomo Medici del Vascello, già comandante del 2° Reggimento dei Cacciatori delle Alpi. Nella Prefazione ai romanzi storici Garibaldi disse chiaro e tondo perché li scrisse: «1° Per ricordare all'Italia molti dei suoi valorosi, che lasciarono la vita sui campi di battaglia per essa. 2° Per trattenermi colla gioventù italiana sui fatti da lei eseguiti. 3° Per ritrarre un onesto lucro dal mio lavoro. Ecco i motivi che mi spinsero a farla da letterato in un tempo in cui credetti meglio far niente che far male.» Generale, deputato, artefice dell'unità nazionale Garibaldi si reggeva sulle grucce, non aveva né stipendi né pensioni. Scrisse di getto e pubblicò “Clelia” (uscito nel 1870 in inglese prima che in italiano) e “Cantoni il volontario” (1870), “I Mille”, specchio di «un'anima che sente le miserie e le vergogne del suo paese», e le “Memorie”, intraprese nel 1871, completate l'anno seguente e pubblicate nel 1874. Benché tradotti nei Due Mondi, i romanzi non gli fruttarono quel che sperava. Viveva in condizioni miserevoli. Alcuni Comuni gli assicurarono una pensione di 3.000 lire annue. Nel 1876 accettò il “dono nazionale” e nel 1880 grazie al giureconsulto piacentino e futuro presidente del Senato Giuseppe Manfroni ottenne l'annullamento delle nozze con Giuseppina Raimondi e sposò la provvida compagna Francesca Armosino, dalla quale aveva avuto Rosa, Clelia e Manlio. La sua, sì, fu “una vita inimitabile”.
 

DIRITTI CIVILI E ISLAM
GIUSEPPE GARIBALDI DIXIT

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria”
di domenica 15 Ottobre 2023 pagg. 1 e 6.
La
                                                          copertina
                                                          dell'edizione
                                                          anastatica di
                                                          “Clelia, il
                                                          Governo dei
                                                          preti” a cura
                                                          di A.A.M.
                                                          nella collana
                                                          “Il
                                                          Feuilleton”
                                                          diretta da
                                                          Giovani Arpino
                                                          (Torino, Meb,
                                                          1973). In “La
                                                          mietitura del
                                                          turco” Giosue
                                                          Carducci
                                                          (1835-1907)
                                                          nel giugno
                                                          1897 sferzò
                                                          l'ignavia
                                                          dell'Europa
                                                          centro-occidentale
                                                          (sempre uguale
                                                          a se stessa:
                                                          impotente) a
                                                          cospetto delle
                                                          stragi degli
                                                          armeni e dei
                                                          greci.
                                                          Scrisse: «Il
                                                          Turco miete.
                                                          Eran le teste
                                                          armene/ che
                                                          ier cadean
                                                          sotto il
                                                          ricurvo
                                                          acciar:/ ei le
                                                          offeriva
                                                          boccheggianti
                                                          e oscene/ a i
                                                          pianti
                                                          dell'Europa a
                                                          imbalsamar.//
                                                          (...) Il Turco
                                                          miete. E al
                                                          morbido
                                                          tiranno/ manda
                                                          il fior delle
                                                          elleniche
                                                          beltà./ I
                                                          monarchi di
                                                          Cristo
                                                          assisteranno /
                                                          bianchi
                                                          eunuchi a
                                                          l'harem del
                                                          Padascià.» In
                                                          soccorso dei
                                                          greci si mosse
                                                          una legione di
                                                          volontari
                                                          garibaldini,
                                                          guidato da
                                                          Ricciotti
                                                          Garibaldi.
                                                          Nella
                                                          battaglia di
                                                          Domokòs (17
                                                          maggio 1897)
                                                          cadde anche il
                                                          cinquantaduenne















                                                          forlivese
                                                          Antonio
                                                          Fratti,
                                                          patriota e
                                                          deputato alla
                                                          Camera.Lo Stato d'Italia è uno “stato di diritto” da quando, nel 1861, il Regno fece proprio lo Statuto albertino del 4 marzo 1848 il cui articolo 24 recita: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono uguali dinnanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammessibili alle cariche civili e militari, salvo le eccezioni determinate dalle leggi”. La confessione religiosa cessò di essere discriminante. Col tempo la libertà di coscienza garantita dallo Statuto divenne costume condiviso, grazie a uno stuolo di spiriti universali. Non accadde altrettanto in regimi teocratici, che subordinano i diritti dei cittadini a una confessione religiosa. Lo spiegò Garibaldi nei suoi romanzi, scritti “per il popolo”. 

La scimitarra sull'Europa...
Nei suoi ultimi anni Giuseppe Garibaldi (Nizza, 4 luglio 1807-Caprera 2 giugno 1882) affinò il proprio pensiero politico. Nel 1860, messa a segno l'impresa dei Mille, senza la quale l'unità d'Italia non sarebbe mai nata, vaticinò gli Stati Uniti d’Europa. Dal 1870, dopo la guerra franco-germanica, in cui combatté a fianco dei francesi contro il militarismo prussiano, e la “Commune” del 1871 (da lui deprecata), invocò la “debellatio” dell’impero turco che opprimeva l’Europa orientale. Unì motivi religiosi e culturali a ragionamenti politici tuttora attuali. Se ancor oggi Costantinopoli è Istanbul lo si deve alla “diplomazia” di Londra e Parigi: è la pesante eredità della Guerra dei Trent'anni (1914-1945), quando i vincitori, pur in presenza dello sfascio dell'impero ottomano, lasciarono ad Ankara la cosiddetta “Turchia europea” per interdire alla Russia l'accesso dal Mar Nero al Mediterraneo attraverso gli Stretti. La miopia si paga nei secoli. Se la cosiddetta Unione Europea (irrilevante sotto il profilo politico e quindi militare) volesse per Costantinopoli una sorte migliore, dovrebbe accogliere la Turchia che ha cancellato la memoria di Ataturk e aspira a restaurare il Califfato islamico.
Garibaldi aveva idee chiare sulla Sublime Porta…
C’è un Garibaldi quasi sconosciuto. Molto oltre il corsaro, il guerrigliero, il generale, vi è il politico: alfiere della fratellanza universale e, proprio perciò, strenuo fautore della lotta per sottrarre l’Europa alla dominazione dei turchi e all'invadenza dell’Islam. Garibaldi ne scrisse ripetutamente nel suo ultimo decennio, il meno studiato e pressoché sconosciuto. Così la sua lotta contro il dominio ottomano su qualunque lembo d’Europa e contro la propagazione dell’islamismo (ideato sei secoli dopo il cristianesimo e che non ha mai fatto i conti con la Rivoluzione francese) rischia di rimanere ignorata. È un Garibaldi scomodo. Perciò vi sono buone ragioni per parlarne. Il Generale mostrò senno politico superiore a quello che di rado e avaramente gli viene riconosciuto. Il suo anticlericalismo radicale, solitamente ritenuto circoscritto alla chiesa cattolica, investì ogni forma di intrusione delle religioni nella vita civile e nella libertà delle persone. La sua lotta per la liberazione dello spazio euro-mediterraneo dai “turchi” andò però molto oltre l’ambito religioso. Fu lotta politica, legata alla valutazione positiva dell’espansione degli europei Oltremare e della colonizzazione dell’Africa settentrionale (programma condiviso da Mazzini) da parte della “civiltà occidentale”, razionale, fondata sull'intreccio di scienze, produzione, mercato, progresso civile. Garibaldi non ingabbiava il Libero Pensiero in pochi meridiani e paralleli: per lui era patrimonio universale. Considerava sua missione propugnarlo ovunque. A quel modo fu “eroe dei due mondi”, etichetta altrimenti futile.
   Nelle Memorie Garibaldi ricordò la sua lunga dimora a Costantinopoli, una pagina avvolta nel mistero. I biografi la saltano a pie' pari. Ammalatosi in uno dei tanti viaggi in Oriente (di quale morbo?), vi rimase più del previsto e si trovò alle strette: «La guerra accesa tra la Russia e la Porta (cioè l’impero turco, detto Sublime Porta, NdA) contribuì a prolungare il mio soggiorno. In tale periodo mi successe per la prima volta di impiegarmi a precettore di ragazzi, offertomi dal signor Diego, dottore in medicina, e che mi presentò alla vedova Timoni, che ne abbisognava. Entrai in quella casa maestro di tre ragazzi, e profittai di tale periodo per studiare un po’ di greco, dimenticato poi, siccome il latino che avevo imparato nei prim’anni.» I maligni imbastirono molte insinuazioni su quella lunga stagione. Garibaldi ci tornò con una pennellata quando, molti decenni dopo. In una pagina di appunti fustigò “Il prete”: «Si chiami egli prete, Ministro, dervista, Calogero, Bonzo, Papas, qualunque nome egli abbia, a qualunque religione egli appartenga, il prete è un impostore, il prete è la più nociva di tutte le creature, perché egli più di nessun altro è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli. Io ho percorso la superficie del globo. In Turchia fui obbligato di fuggire davanti ad una folla di ragazzi e di donne, perché i preti dicevan loro ch’io era un maledetto! In Cina mi successe lo stesso, e voi giunti a Canton, la più frequentata e commerciale delle città Chinesi, non potete visitarla perché sareste lapidato dalla moltitudine suscitata dai preti.»
… e sull'islamismo
L’avversione di Garibaldi nei confronti dell’islamismo non è una cappella laterale della sua vastissima basilica anticlericale. Non è dottrinale, teologica. È propriamente politica. Dall’infanzia aveva appreso, e non solo per racconti popolani ma per esperienze vissute, il pericolo dei “pirati”. Nizza, la sua città, ricordava devastanti incursioni delle flotte turche nel Cinquecento, propiziate dall’alleanza tra Parigi e Istanbul (dal 1453 soggiogata da Maometto II) contro il Sacro romano impero di Carlo V e la Spagna di Filippo II: un gioco diplomatico continuato con Luigi XIV sino a Napoleone III (alleato con Londra, Parigi e l’impero turco contro la Russia di Nicola I: la “guerra di Crimea” decantata dalla storiografia italocentrica per l’intervento del regno di Sardegna a fianco del Sultano). Sulla fine degli Anni Venti dell’Ottocento la pirateria barbaresca rimaneva così minacciosa e dannosa da indurre la Francia di Carlo X, il Piemonte di Carlo Felice e le Due Sicilie di Francesco I di Borbone a una spedizione navale comune. Vi si distinse Carlo Mameli dei Mannelli, padre di Goffredo.
   Nel 1827, ricorda il dotto garibaldologo e confratello Maurice Mauviel, il “Cortese”, brigantino sul quale viaggiava il ventenne Garibaldi, fu assalito da corsari. Il comandante, Semeria, ordinò agli uomini di non opporre resistenza per non avere la peggio. In seguito il giovane nizzardo subì due altri assalti pirateschi, mortificanti e umilianti. Gli rimasero fissi nella memoria. Ne scrisse in Manlio, romanzo contemporaneo, al quale lavorò sino all’ultimo giorno. Vi descrisse i Riffegni (abitanti del Riff, sull’Atlante marocchino, da lui ben conosciuto nel 1849) e l’Assalto di pirati alla nave “Libertà” che, al comando del capitano Schiaffino, eroe della repubblica Romana, recava “Manlio”, di soli cinque anni, verso lo stretto di Gibilterra alla volta dell’America meridionale. In quelle pagine Garibaldi non parla di “arabi”, né di “turchi”. Vi scrisse: «Come il leone, il Riffegno è bello e forte. Non so se, figlio dell’Atlas, egli si debba chiamare di stirpe caucasea. Ignorante, fiero, feroce, e considerando tutto ciò che non è mussulmano, eretico e niente più d’un cane, il Riffegno è naturalmente pirata; e molti furono gli equipagi (sic) di legni mercantili sgozzati quando trattenuti dalle calme presso coteste coste inospitali.»
   Manlio non è un romanzetto qualunque. È il “testamento politico” di Garibaldi. Un suo capitolo è un susseguirsi di colpi e di grida, culminanti in una sorta di seconda Lepanto liberopensatrice: «Marsala! Marsala
rispondeva un garibaldino all’Allah Urrah degli Ottomani e si lanciava seguito dai suoi alla riscossa dei difensori della prora.» La battaglia navale vi viene infine risolta da “Vero”, che, precedentemente ferito e curato dal piccolo Manlio, lascia febbricitante la cabina ove è ricoverato al grido «All’armi…Qui non si tratta di bende ma della pele (sic!) Avanti fratelli!».  “Vero” (nel quale Garibaldi si identifica) a colpi di revolver e di «un coltellaccio che teneva in cintura fece strage orrenda tra i barbareschi, e così i compagni, spinti dall’esempio del valoroso capo e per la propria conservazione».
Estirpare il fondamentalismo dall'Europa...
Sarebbe però meschino ridurre il pensiero di Garibaldi sull’insanabile incompatibilità fra impero turco e civiltà europea a mero riflesso di vicissitudini personali. Esso esprime una visione geopolitica di ampio orizzonte, nell’ambito della guerra secolare tra diritti dell'uomo e del cittadino civili e islam.
   Prosatore esondante, Garibaldi sapeva controllare la penna quando necessario. Perciò i suoi scritti vanno centellinati e capiti, più e meglio di quanto sinora sia stato fatto. Il 5 maggio 1873 scrisse al fido Timoteo Riboli, medico, massone, fondatore della lega per la protezione degli animali: «Mentre l’Europa progredisce che fa l’Italia? Non accenneremo ai miserabili suoi governanti già condannati dal disgusto universale, ma bensì alla parte virile e generosa che forma la sua democrazia, prodotto delle cento chiesuole in cui la dividono i suoi Archimandriti, Massoni, Mazziniani, Internazionalisti, sono egualmente fautori dell’indolenza democratica in Italia, e quindi del trionfo effimero ma reale dell’oppressione e della menzogna…». Pigiava su tasti suonati da tempo: riforme per guarire la “gran piaga della miseria”, rifiuto del programma dell’Internazionale (confisca della proprietà privata e dei diritti ereditari…) e condanna della scioperomania che avrebbe precipitato l’Italia nel disastro.
   Non parlava per sé. “Agricoltore” (come si classificò alla Camera), Garibaldi era una “filosofia politica in azione”, campione di una guerra di liberazione culturale e politica, come osservò Aldo G. Ricci in “Obbedisco. Un eroe per scelta e per destino” (Ed. Palombo). Per lui l’Occidente era contrapposto alla Turchia in un conflitto di civiltà. Lo scrisse il 4 marzo 1876 a Ferdinando Dobelli, rispondendo all’appello della gioventù slava: «La diplomazia del ventre fu incapace di prevenire l’iniziativa del macello umano. I preti nel connubio dei turchi e satolli del loro oro, hanno lanciato l’anatema contro i seguaci della croce. Ed i settari del palo, dopo d’aver lottato per tenerlo in piedi, devono oggi conformarsi allo slancio degli schiavi che preferirono la morte al servaggio. E voi, ricordatevi di tutti gli oltraggi ricevuti dai feroci ed osceni discendenti di Maometto. Il turco deve passare il Bosforo e solo alcuni ottomani, senza preti, potranno convivere, se onesti, coi loro antichi schiavi. Invalido, io invio un saluto del cuore ai fieri campioni della libertà orientale.» Non nutriva dunque alcuna ostilità nei confronti della popolazione turca ma ne aveva contro il regine teocratico che la opprimeva.
Il Solitario contro l'oscurantismo
Contro la “pax” immobilistica dettata dal Congresso di Vienna nel 1815, ribadita da quello di Parigi del 1856 e dal concerto europeo che di conflitto in conflitto riportava il Vecchio Continente ai confini e alle logiche della Restaurazione, Garibaldi pose il problema delle “nazioni senza stato”, dei popoli inchiodati alle tavole di spartizione delle grandi potenze. In lui vibrava il Risorgimento, lo spirito che aveva fatto nascere l’Italia a Stato indipendente, unica nazione emersa per somma di fortune dalla Restaurazione del 1814-15 e dalla repressione della primavera dei popoli (1848-1849).
   Agli occhi di Garibaldi la presenza della Turchia in Europa era una cappa di piombo sulla storia. Bisognava liberarsene. Non per motivi etnici, ma perché bastione del fondamentalismo oscurantista. L’occasione sembrò profilarsi dal 1875 con le rivolte antiturche, dalla Bosnia alla Bulgaria, represse dalla Sublime Porta grazie al sostegno della Gran Bretagna, sospinta dai suoi soliti calcoli geopolitici e da interessi finanziari. Il 17 luglio 1877 Garibaldi scrisse al marchese Filippo Villani: «Mandare i Turchi in Asia, ecco il provvedimento efficace per gli schiavi dell’Europa Orientale; ogni altra misura sarà una tappa di guerra.» Ma bisognava vincere gli intralci della diplomazia, come ruvidamente vergò nel Romanzo contemporaneo: «In questi ultimi tempi, massime per la questione orientale, si è manifestato nel mondo quanto di lurido esiste ancora nell’umana famiglia. L’Austria ha fatto il suo dovere di aquila o piuttosto d’avvoltoio, sostenendo sordamente la causa dell’oppressore e accatastando ogni specie d’ostacoli all’Europa Orientale. Essenzialmente tiranna essa ha fatto quanto doveva. Ma l’Inghilterra, la terra universale d’asilo, l’emancipatrice degli schiavi, non doveva, guidata da un Ebreo [lord Disraeli, NdA] lasciarsi condurre all’esterminio dei poveri servi ed al sostegno di tiranni esecrabili. No! Ed io racapricio pensandovi! […] E i preti? Peste dell’umana famiglia, hanno fatto causa comune coi massacratori degli innocenti.»
   Nel Manlio Garibaldi passò dalle staffilate contro il clero a quelle specifiche contro «il Turco, che più cristiani uccide e più titoli acquista ai godimenti ed alla gloria dell’immorale suo paradiso e, codardo come sono generalmente gli uomini sanguinari, si diverte a impalare, mutilare, squartare uomini inermi, donne, bambini!!!».
   Sospinto dall’orrore, il “Solitario” (come Garibaldi si autodefinì in Clelia) sognò una guerra di liberazione del Mediterraneo dal dominio turco, a cominciare dall’isola di Creta: «Giunta la flotta italiana sulla rada di Canea, v’incontrò la turca, composta di cinque corazzate e se ne impadronì. Mi si chiederà con quale diritto. Ed io risponderò: collo stesso diritto con cui Maometto Secondo si impadroniva di Costantinopoli ed i pirati turchi delle nostre donne, bambini, uomini, etc., per farne degli schiavi…» Non erano sfoghi letterari ma ragionamenti politici. Al marchese Villani il 15 marzo 1878 da Caprera scrisse: «Dunque dopo tanto sangue versato risulterà nell’Europa Orientale uno di quei mostruosi pasticci di cui la diplomazia va famosa. Cosa è questa lunga Turchia che dal Bosforo si estenderà all’Adriatico, passando sul corpo della Bulgaria quasi indipendente, o tra questa e la Serbia da una parte, la Macedonia e la Tessalia dall’altra, le di cui popolazioni se hanno un’ombra di dignità dovranno mantenersi in uno stato perenne d’insurrezione? Quando io dissi al principio di questa guerra: i Turchi dover passare il Bosforo per poter ottenere una pace durevole, e tale è pure la mia opinione d’oggi, ma i turchi che intendano ciò solo: il sultano, le sue odalische, i suoi eunuchi e l’immensa caterva di preti ottomani, non già la popolazione turca onesta e laboriosa che di quanti popoli abitatori del Levante è la migliore. Tale emigrazione sarebbe impossibile, converrebbe però non lasciar in Europa un solo prete turco, che basterebbe a seminar la zizzania in tutta la confederazione; e le moschee cambiar in scuole, ove s’insegnerebbe la religione del vero.»
   Garibaldi sperava in un Congresso che esercitasse l’arbitrato internazionale, la ricerca di una soluzione pattizia dei conflitti nel rispetto della libertà dei popoli, che avrebbe comportato con sé la libera navigazione nel Mar Nero (rumeno perché daco-romano) e negli Stretti.
La pace di Santo Stefano e il congresso di Berlino del 1878 dettero tutt’altri risultati: la Gran Bretagna s’impadronì di Cipro e ne fece l’isola della divisione, del conflitto permanente, quale ancora rimane: un equivoco irrisolto nel Mediterraneo orientale. E il gran Malato d’Oriente divenne sempre più la polveriera della futura conflagrazione europea, esplosa nell’estate 1914 dopo la guerra italo-turca per la sovranità sulla Libia e tre guerre balcaniche in due anni: groviglio inestricabile, letto di procuste sul quale la diplomazia inetta inchiodò l’area balcanica.
   Il Solitario aveva intravveduto e suggerito la soluzione, ma non ne vide l’approdo ultimo. Nel 1897 Creta insorse ma l’Europa fu solidale con la Sublime Porta nella repressione, come deplorò Giosue Carducci in versi staffilanti. La grande guerra si concluse sul versante orientale con la pace di Sèvres, che lasciò gli Stretti ad Ataturk (massone, sì, ma, come tanti altri “fratelli”, solo sino a quando gli fece comodo) in cambio dell’adozione dell’alfabeto latino e di una parvenza di “laicizzazione”. La seconda guerra mondiale lasciò le cose com’erano, per una somma di errori e nefandezze delle diplomazie, oggi incombenti sull'Unione Europea, a sua volta incapace di politica estera di vasto respiro.
   Aveva ragione il Solitario di Caprera. Il cui pensiero perciò venne ignorato: troppo scomodo, sempre attualissimo.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA:
La copertina dell'edizione anastatica di “Clelia, il Governo dei preti” a cura di A.A.M. nella collana “Il Feuilleton” diretta da Giovani Arpino (Torino, Meb, 1973). In “La mietitura del turco” Giosue Carducci (1835-1907) nel giugno 1897 sferzò l'ignavia dell'Europa centro-occidentale (sempre uguale a se stessa: impotente) a cospetto delle stragi degli armeni e dei greci. Scrisse: «Il Turco miete. Eran le teste armene/ che ier cadean sotto il ricurvo acciar:/ ei le offeriva boccheggianti e oscene/ a i pianti dell'Europa a imbalsamar.// (...) Il Turco miete. E al morbido tiranno/ manda il fior delle elleniche beltà./ I monarchi di Cristo assisteranno / bianchi eunuchi a l'harem del Padascià.»  In soccorso dei greci si mosse una legione di volontari garibaldini, guidato da Ricciotti Garibaldi. Nella battaglia di Domokòs (17 maggio 1897) cadde anche il cinquantaduenne forlivese Antonio Fratti, patriota e deputato alla Camera.
 


LUIGI CADORNA
RESTAURATO IL MAUSOLEO A PALLANZA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria”
di domenica 8 Ottobre 2023 pagg. 1 e 6.
Il
                                                          Mausoleo del
                                                          conte Luigi
                                                          Cadorna sul
                                                          Lungolago di
                                                          Pallanza. Il
                                                          suo restauro
                                                          viene
                                                          festeggiato
                                                          alle 10 di
                                                          sabato 14
                                                          ottobre a
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                                                          interventi del
                                                          prefetto
                                                          Michele
                                                          Formiglio, del
                                                          sindaco Silvia
                                                          Marchionini e
                                                          una
                                                          Allocuzione
                                                          del colonnello
                                                          Carlo Cadorna.
                                                          Su Luigi
                                                          Cadorna v.
                                                          Pierluigi
                                                          Colloredo
                                                          Valls, Luigi
                                                          Cadorna. Una
                                                          biografia
                                                          militare,
                                                          2021, con
                                                          ampia
                                                          bibliografia;
                                                          Luigi
                                                          Cadorna-Carlo
                                                          Cadorna,
                                                          Caporetto?
                                                          Risponde Luigi
                                                          Cadorna, Roma,
                                                          BastogiLibri,
                                                          2020; e Luigi
                                                          Cadorna, La
                                                          guerra alla
                                                          fronte
                                                          italiana fino
                                                          all'arresto
                                                          sulla linea
                                                          della Piave e
                                                          del Grappa,
                                                          edizione
                                                          anastatica,
                                                          con
                                                          introduzione
                                                          di Aldo A.
                                                          Mola, Roma,
                                                          BastogiLibri,
                                                          2019.L'Italia di Luigi Cadorna è raffigurata nell'altorilievo in bronzo di Davide  Calandra sovrastante lo scranno del presidente della Camera dei deputati a Monte Citorio. Lo si può osservare più volte al giorno in televisione. Al centro domina la Monarchia costituzionale, fiancheggiata dalla Diplomazia e dalla Forza, il cui impiego, insegnò Carl von Clausewitz in “Della guerra” ne è la prosecuzione con altri strumenti. Luigi Cadorna, come suo padre Raffaele, suo zio Carlo e suo figlio Raffaele, fu militare nutrito di pensiero politico e istituzionale, con una visione ampia della storia dei popoli. Fu anche, e rimane, specchio dei nodi irrisolti dell'Italia nata dalla lunga preparazione risorgimentale ma infine sorta nel volgere di pochi mesi e, di seguito, impegnata a consolidare i muri portanti a scapito della armonia tra le sue componenti.
  
    Il Regno d'Italia che, mutata la forma istituzionale, continua nella Repubblica, nacque nel marzo 1861 dal concorso della diplomazia e della spada sotto le insegne dei sovrani sabaudi, sue fondamenta. Alla sua base esso ebbe lo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 dal re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia-Carignano. Quel cammino coronato daVittorio Emanuele II, primo Re d'Italia, e, dopo gli anni di Umberto I (1878-1900), da Vittorio Emanuele III, durante il cui regno lo Stato raggiunse il massimo di espansione territoriale con il confine al Brennero e al Quarnaro e l'annessione di Fiume.
    La premessa del percorso che condusse alla proclamazione del Regno furono il regio editto del 27 novembre 1847, che rese elettivi i componenti dei consigli comunali, provinciali e divisionali, e lo Statuto che trasformò la monarchia amministrativa in monarchia rappresentativa e istituì il Senato di nomina regia e vitalizia e l'elezione della Camera dei deputati. Quelle riforme generarono l'avvento di una vastissima e partecipe classe dirigente, politica e amministrativa, formata dall'intreccio e dalla somma  di nomine e di esiti delle leggi elettorali, prospettate dallo Statuto e via via deliberate dal Parlamento.

     Come ribadito dalla Costituzione della Repubblica, già lo Statuto precisò con chiarezza identità  e prerogative del Capo dello Stato: “comanda tutte le forze di terra e di mare”. Non fu altrettanto preciso quando enunciò che il re “dichiara la guerra, fa i trattati di pace, di alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l'interesse e la sicurezza dello Stato il permettano...”. All'alba della monarchia rappresentativa non distinse con la differenza tra deliberare, dichiarare e proclamare la guerra, tre “momenti” separati per la diversità dei suoi “attori”.
      Lo Statuto tacque su corpo diplomatico e assetto delle forze armate, in specie sul comando dell'esercito: un interrogativo che si pose all'indomani della prima non fortunata fase della guerra del 1848. Il nodo Re-ministro della guerra-comandante dell'armata era e rimase ingarbugliato perché per Statuto il potere esecutivo apparteneva “al re solo”, però “responsabile” non era il sovrano; lo erano i ministri.
L“equivoco” (come scrisse l'insuperato Piero Pieri nella “Storia militare del Risorgimento”) venne temporaneamente risolto il 7 febbraio 1849 con la nomina del generale polacco Wojchiech Chrzanowski al comando dell'Armata “sotto la sua responsabilità, in nome del Re”, come “general maggiore dell'Esercito”, “con “comando effettivo”. L'ambiguità si ripresentò nel 1859 quando, aggredito dall'Austria, il regno di Sardegna entrò in guerra forte dell'alleanza con Napoleone III, e nel 1866, quando, i generali Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini ebbero il comando delle due armate schierate contro l'impero d'Austria e operarono senza l'indispensabile coordinamento.     
   La legge 29 giugno 1882, n.831 istituì il Capo di stato maggiore dell'esercito. Ne furono titolari Enrico Cosenz (1882-1893), Domenico Primerano (sino al 1896, dopo Adua), entrambi già allievi della borbonica Scuola Militare Nunziatella di Napoli, e il torinese Tancredi Saletta. Quando nel 1908 questi fu collocato a riposo il generale più anziano e quindi vocato alla successione (“l'anzianità fa grado” recitava un efficace brocardo) era il cinquantottenne Luigi Cadorna (Pallanza, 4 settembre 1850-Bordighera, 21 dicembre 1928) dal 1907 al comando della Divisione militare di Napoli. Come egli stesso scrisse in Pagine polemiche e venne ribadito nella biografia scrittane da Perluigi Romeo di Colloredo Valls (2021), con procedura inconsueta la “successione” fu subordinata ad “accertamento”.  Secondo il regio decreto 14 novembre 1901, n. 466 tra le questioni di ordine pubblico e di alta amministrazione da sottoporsi al Consiglio dei ministri vi erano “le nomine e destinazioni dei comandanti di corpi di armata e di divisioni militari; le nomine del capo di stato maggiore dell'esercito e del primo aiutante di campo di S.M. il Re”.
  
   In vista della sostituzione di Saletta, da tempo malato, l'8 marzo 1908 il generale Ugo Brusati, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, chiese a Cadorna di dichiarargli “schiettamente” se davvero, come pareva da voci in circolazione, subordinasse la nomina a capo di stato maggiore all'ampliamento per legge dei suoi poteri soprattutto in vista di una guerra. La risposta fu netta: “S(ua) M(aestà) che dallo Statuto è creato Comandante Supremo, è pur dallo stesso dichiarato irresponsabile. Ma il comando non può neppure esistere senza un responsabile il quale perciò non può essere che il capo di S(tato) M(aggiore). Ma la responsabilità ha per necessario correlativo: 1.La libertà d'azione nella condotta delle operazioni; 2. La libertà d'azione nella preparazione della guerra in ciò che ha rapporti colle operazioni; 3.La esclusione dagli alti comandi di coloro che non ispirano la necessaria fiducia”. Cadorna non intendeva mettere in discussione le prerogative statutarie del sovrano ma osservò che il decreto legge  4 marzo 1906 aveva definito i poteri del capo di stato maggiore in tempo di pace ma non in guerra. “A deliberare, concluse, dev'essere uno solo: il responsabile”.
    Il 1° luglio 1908 capo di stato maggiore venne nominato il casertano Alberto Pollio di due anni più giovane di Cadorna. Imperando Giolitti, che impose a Vittorio Emanuele III l'immediato collocamento a riposo di Vittorio Asinari di Bernezzo, per alcune sue parole di sapore irredentistico, Cadorna ritenne ormai improbabile l'ascesa al vertice dell'esercito. La sua esclusione da comandi operativi negli anni seguenti ne suscitò reazioni sdegnate. Il 23 agosto 1912 a proposito della ventilata nomina del generale Ragni a governatore  civile e militare della Libia al figlio Raffaele scrisse: “Nominare un altro senza neppure dirmi crepa sarebbe un vero schiaffo datomi in piena guancia”. Avrebbe risposto con la richiesta ipso facto del collocamento a riposo.    

    La notte del 1° luglio 1914, quattro giorni dopo l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo a Sarajevo per mano di un terrorista serbo eterodiretto, Pollio morì improvvisamente a Torino. Sulle cause e le circostanze del suo decesso furono ricamate insinuazioni e leggende. Dal 20 marzo 1910 Cadorna era comandante della IV divisione militare (Genova-Piacenza). Ormai prossimo al congedo per motivi di età, stava progettando di prendere casa in Liguria. Il 10 luglio fu nominato capo di stato maggiore. Presidente del Consiglio da quattro mesi era Antonio Salandra, in successione a Giolitti; ministro degli Esteri era il catanese Antonino Parternò Castello, marchese di San Giuliano, il “politico” italiano più stimato da Vittorio Emanuele III. Nel volgere di poche settimane esplose la Conflagrazione europea: sequenza di mobilitazioni, ultimatum, dichiarazioni di guerra. Appena insediato, sulla scia del predecessore Cadorna approntò il piano di intervento a fianco di Vienna e Berlino, cui Roma era legata dal trattato difensivo del 20 maggio 1882. Il progetto, da Cadorna pubblicato nel 1925, rimase agli atti.
    Mese dopo mese divenne chiaro che la guerra sarebbe durata a lungo e che per l'Italia, vulnerabile su tutti i confini terrestri e marittimi e dipendente dall'estero per il proprio sistema produttivo e alimentare, sarebbe stato impossibile rimanerne fuori. Di lì la preparazione e, di seguito, la “mobilitazione occulta” orchestrata da Cadorna tra difficoltà e ritardi per portare lo strumento militare al livello necessario.     
    Senza informarlo, il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, dopo lunga segreta trattativa fecero sottoscrivere dall'ambasciatore d'Italia a Londra Guglielmo Imperiali l'“arrangement” del 26 aprile 1915. Solo il 6 maggio Cadorna fu sbrigativamente informato che l'Italia doveva intervenire entro due settimane. Ministro della guerra era il maggior generale Vittorio Zupelli. Il suo predecessore, Domenico Grandi, il 23 settembre 1914 aveva comunicato al governo le condizioni dell'esercito in vista di una mobilitazione generale concludendo che non si trovava nel complesso nelle condizioni desiderabili “per affrontare senza preoccupazione una campagna di guerra”. L'esercito avrebbe fatto “come sempre, il proprio dovere”, meglio se si fosse sentito “sospinto e accompagnato dal consenso del Paese” il cui miglior giudice però era il governo. Venne sostituito.
    Salandra e Sonnino compirono tre errori agli occhi della storia sconcertanti. Nel loro carteggio ammisero di essere andati oltre il consenso esplicito del re, del governo e senza maggioranza in parlamento. Impegnarono l'Italia a entrare in guerra entro 30 giorni dalla firma contro “tutte le potenze” dell'Intesa. A differenza di quanto aveva progettato San Giuliano, fautore di una Quadruplice Intesa, l'“accordo” (non vero e proprio Trattato) comportò l' “adesione” alla Triplice Intesa, non l'inclusione “alla pari”. Perciò l'Italia fu tenuta all'oscuro degli impegni assunti al suo interno dalla Triplice intesa. Il peso della guerra venne scaricato sul capo di stato maggiore, non consultato neppure sui “compensi” chiesti da Salandra e Sonnino, quasi la difesa dei futuri confini dell'Italia fosse una variabile esclusiva della “politica” anziché un pegno vincolante sotto il profilo militare per un Paese dal dominio coloniale già vasto, costoso e impegnativo: dall'Eritrea alla Somalia e alla Libia.
    Il precario equilibrio del governo Salandra-Sonnino fu sull'orlo di precipitare. Il 13 maggio 1915 il consiglio dei ministri verbalizzò: “considerando che intorno alle direttive  del governo nella politica internazionale manca il concorde consenso dei partiti costituzionali che sarebbe richiesto dalla gravità della situazione, delibera di presentare a S.M. il  Re le proprie dimissioni”. A mobilitazione ormai avviata, consultato per la seconda volta da Vittorio Emanuele III  Giolitti, secondo il quale l' “accordo di Londra” non vincolava lo Stato ma solo il governo, declinò l'invito a formare un nuovo esecutivo. Nessun altro se ne fece carico. Al Re non rimase che inviare alle Camere il governo in carica. Il 17 maggio il consiglio dei ministri approvò “il disegno di legge da presentare alla Camera per delegazione di poteri legislativi in caso di guerra e per l'esercizio provvisorio”. Benché in larghissima maggioranza contraria all'intervento, il 20 maggio la Camera approvò la proposta con l'opposizione dei soli socialisti e molte assenze tra i costituzionali. L'indomani altrettanto fece il Senato, pressoché unanime.
  
   All'opposto di Giolitti, che prevedeva una guerra di molti anni, Salandra aveva lasciato intendere, e forse ne era persino convinto, che il conflitto sarebbe terminato entro l'autunno. Dal canto suo, perfettamente a giorno sulle condizioni effettive dello strumento militare, logorato dall'impresa di Libia e da decenni di investimenti inadeguati, Cadorna riteneva che l'Italia non potesse affrontare una guerra “grossa” (cioè di largo impiego di uomini e armi) belliche e “lunga”. Le condizioni effettive dell'esercito nella primavera del 1915 erano quelle pochi mesi prima descritte dal ministro Domenico Grandi e poi documentate nell'“Inchiesta sugli avvenimenti dall'Isonzo al Piave: 24 ottobre-9 novembre1917”. Disponeva di una mitragliatrice per ogni chilometro di fronte. Pressoché inesistente erano l'artiglieria pesante e l'aviazione. Si producevano 2500 fucili al mese, a fronte di un milione di uomini da mettere subito in campo. Occorrevano ufficiali e sottufficiali preparati.
   
    Eletta per la prima volta a suffragio maschile quasi universale nell'ottobre 1913, la Camera che nel maggio 1915 si era sentita ricattata da Salandra rimase in agguato.  Contro l'opinione (corrente non solo all'epoca) secondo la quale il Parlamento “non fa crisi” quando lo Stato è in guerra, nel giugno 1916, dopo la spedizione austro-ungarica di primavera, la Camera sfiduciò Salandra. Il nuovo esecutivo, presieduto dall'anziano Paolo Boselli, con sette ministri senza portafoglio e molti esponenti tiepidi nei confronti dell'intervento, ebbe all'Interno il siciliano Vittorio Emanuele Orlando che doveva garantire il sostegno del Mezzogiorno senza “provocare” le opposizioni. La “politica” risultò sempre più divaricata rispetto alle esigenze vitali dell'esercito illustrate da Cadorna a Boselli in quattro lettere del 6, 8 e 13 giugno e del 18 agosto 1917 mentre da mesi in Russia, dopo il rovesciamento dello zar, imperversava la rivoluzione. Con grado invariato, anche se correntemente detto “Comandante Supremo” e “Generalissimo”, Cadorna chiese ripetutamente quali misure il governo intendesse adottare per reprimere la propaganda socialista-pacifista e combattere “i nemici interni, altrettanto se non più temibili di quelli che abbiamo di fronte” (8 giugno) e così prevenire “il crescente spirito di rivolta tra le truppe” (13 giugno) anche a cospetto di gravi reati militari compreso il passaggio al nemico (18 agosto). Cosciente dei rischi cui erano esposti che il Paese e la Monarchia mentre dilagavano renitenza alla leva e diserzioni, a cominciare dalla Sicilia, Cadorna non esitò a deplorare: “il governo sta facendo una politica interna rovinosa per la disciplina e per il morale dell'Esercito, contro la quale è mio stretto dovere protestare con tutte le forze dell'animo”. Boselli (che aveva “paura fisica” di Cadorna) non rispose.
   Trattenendo l'irritazione, Orlando attese il  suo momento. Questo venne con l'offensiva austro-germanica del 24 ottobre 1917. Secondo il piano predisposto anni prima da Cadorna, il fronte venne arretrato sulla linea dalla destra del Piave al Grappa, debitamente fortificato e ribaltò la sconfitta (non una “disfatta”) in battaglia d'arresto. Va ricordato che due mesi prima, a cospetto della decisione di Cadorna passare dallo schieramento offensivo al difensivo, inglesi e francesi ritirarono i cannoni avaramente “prestati” all'Italia.
   Lo stesso 24 ottobre, ancora ignara di quanto stesse avvenendo al fronte, la Camera sfiduciò il governo Boselli. All'emergenza militare si aggiunse quella politica. Mentre Cadorna orchestrava l'arretramento, in un colloquio con il Re Orlando subordinò l'accettazione dell'incarico di formare il governo alla sua sostituzione. Nuovo Comandante Supremo fu nominato Armando Diaz, che, a parte aspetti estrinseci, operò nel solco del predecessore, compresa l'applicazione del codice penale militare, consolidò l'Esercito grazie allo sforzo del sistema produttivo interno, sorretto dal lancio di nuovi prestiti nazionali e dall'assicurazione sulla vita dei combattenti per intervento dell'INA, e respinse le ingerenze del governo sul punto essenziale: il comando. Quando Orlando insisté per un'offensiva accampando che era meglio una nuova Caporetto che la stasi non rispose. A differenza del presidente del Consiglio era consapevole che una seconda sconfitta avrebbe rischiato la fine dell'Italia.
     Per alto senso del dovere verso la Patria Cadorna accettò di guidare la delegazione dell'Italia a Versailles, sede del comando interalleato. Era stato sempre il più coerente fautore della conduzione unitaria della guerra europea e, uomo del Risorgimento, contro i criteri di Sonnino (sino all'ultimo contrario alla dissoluzione dell'impero austro-ungarico), aveva propugnato l'offensiva dell'Italia su Lubiana e Zagabria per suscitare la rivolta dei “popoli senza Stato” che divampò nell'Europa orientale nell'ottobre 1918 e determinò il collasso degli Imperi centrali. A quel punto, però, Cadorna era già stato richiamato in Italia, “a disposizione” della Commissione d'Inchiesta sugli avvenimenti del 1917.
     Per giudizio unanime dei più illustri generali e storici militari dei diversi Stati in lotta, Luigi Cadorna fu il comandante più capace e lungimirante della Grande Guerra. 
   Aldo A. Mola
       
DIDASCALIA. Il Mausoleo del conte Luigi Cadorna sul Lungolago di Pallanza. Il suo restauro viene festeggiato alle 10 di sabato 14 ottobre a Pallanza, con interventi del prefetto Michele Formiglio, del sindaco Silvia Marchionini e una Allocuzione del colonnello Carlo Cadorna. Su Luigi Cadorna v. Pierluigi Colloredo Valls, Luigi Cadorna. Una biografia militare, 2021, con ampia bibliografia; Luigi Cadorna-Carlo Cadorna, Caporetto? Risponde Luigi Cadorna, Roma, BastogiLibri, 2020; e Luigi Cadorna, La guerra alla fronte italiana fino all'arresto sulla linea della Piave e del Grappa, edizione anastatica, con introduzione di Aldo A. Mola, Roma, BastogiLibri, 2019.    


 L'ESTATE DI VITTORIO EMANUELE III?
CONVEGNO A VICOFORTE CON IL PRINCIPE AIMONE DI SAVOIA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 1 Ottobre 2023 pagg. 1 e 6.
 DIDASCALIA:
                                                          La copertina
                                                          del volume
                                                          (ed.
                                                          BastogiLibri),
                                                          pubblicato
                                                          dall'Associazione
                                                          di studi
                                                          storici
                                                          Giovanni
                                                          Giolitti e
                                                          della
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                                                          Saluzzese, e
                                                          il programma
                                                          del Convegno
                                                          di Vicoforte,
                                                          che si vale
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                                                          Allievi della
                                                          Nunziatella.
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                                                          prospettata
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                                                          da Sicilia,
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                                                          Taranto.
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                                                          diciotto a
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                                                          civile.  Un innovativo convegno di studi...
  Sabato 7 ottobre 2023 il principe Aimone di Savoia presenzia in Vicoforte (Cuneo) a un convegno di studi sul “L'estate di Vittorio Emanuele III: 25 luglio-19 ottobre 1943”.
   In poche settimane l'Italia voltò pagina. La svolta fu decisa personalmente dal Re. Da tempo privo di sostegno di politici ante-fascisti e, meno ancora, di gerarchi come Galeazzo Ciano, invano sondati dal ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone per imprimere una piega diversa al corso della storia, confidando in militari fedelissimi, a cominciare dai Carabinieri, il 25 luglio Vittorio Emanuele III esercitò i poteri della Corona, mai intaccati. Sostituì al governo Benito Mussolini con il Maresciallo Pietro Badoglio, che, su sua direttiva, smantellò il regime fascista e puntò a portare l'Italia al di fuori della guerra. Con la “resa senza condizioni” (3 settembre), dettata dagli anglo-americani a nome delle Nazioni Unite, l'Italia perse la piena sovranità. Però con il trasferimento da Roma a Brindisi (9 settembre) il Re salvò la continuità dello Stato. In gran parte occupata dai tedeschi e per l'altra sottoposta agli anglo-americani, l'Italia rimase divisa tra Repubblica sociale italiana, proclamata da Benito Mussolini, policentrica e vassalla della Germania, e il Regno, unico potere riconosciuto legittimo dalle Nazioni Unite, ormai avviate alla vittoria.
Cobelligerante dal 13 ottobre, il governo di Vittorio Emanuele III riorganizzò le Forze armate, impegnate nella lotta di liberazione, e l'amministrazione pubblica, ma non ebbe la collaborazione dei partiti, in massima parte avversi al re e alla monarchia. Sottoposta a pesanti bombardamenti, invasa e bersaglio di rivalse estere antiche e nuove, l'Italia faticò a imboccare la via della riscossa ma risalì la china e, a parte la tragica amputazione sul versante orientale, mantenne quasi tutti i confini conseguiti con le guerre per l'indipendenza. Grazie all'iniziativa di Vittorio Emanuele III la sua sorte fu ben diversa da quella riservata dai vincitori alla Germania e ai suoi satelliti nell'Europa orientale, per decenni  sottoposti all'Unione sovietica, con il consenso dei partiti comunisti, a cominciare da quello italiano. 
Dal luglio 1943 al maggio 1945 il Paese visse i tempi più tragici dall'unità. 

Nel convegno del 7 ottobre (in programma dalle 10 alle 19 a Casa Regina Montis Regalis di Vicoforte, accesso libero) ne parlano, documenti alla mano, storici di diverso orientamento, uniti nella ricerca della verità dei fatti attraverso le carte d'archivio: Giuseppe Catenacci, presidente onorario dell'Associazione ex Allievi della Nunziatella, il col. Carlo Cadorna, figlio del generale Raffaele, comandante del Corpo Volontari della Libertà, i generali Tullio Del Sette, già comandante dei Carabinieri, e Antonio Zerrillo, Aldo Ricci, p. sovrintendente dell'Archivio Centrale dello Stato, i docenti Raffaella Canovi, GianPaolo Ferraioli, Rossana Mondoni con Daniele Comero, Massimo Nardini, Tito Lucrezio Rizzo, già Consigliere della Presidenza della Repubblica, Gianpaolo Romanato, Giorgio Sangiorgi. Con Gianni Rabbia presiedono Alessandro Mella e Gianni S. Cuttica.
Il convegno è promosso dall’Associazione di studi storici Giovanni Giolitti e dall'Associazione di studi sul Saluzzese, presieduta da Attilio Mola, con la adesione di enti e istituti.
La scelta di Vicoforte non è casuale. Nel suo Santuario dal 2017 riposano le spoglie di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena, traslate per iniziativa della principessa Maria Gabriella di Savoia, propiziata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

...e un volume sul lungo Regno di Vittorio Emanuele III...
 A margine del convegno viene presentato un volume sul lungo regno di Vittorio Emanuele III. Esso raccoglie gli Atti dei convegni di studi svolti a Vicoforte il 9 ottobre 2021 su “Il Re Soldato per il Milite Ignoto: la riscossa della monarchia statutaria (1919-1921)” e il 1° ottobre 2022 su “La crisi politica italiana del 1922”, a prosecuzione del percorso intrapreso con il convegno “Da Caporetto alla Vittoria” (Saluzzo, 2017-2018) e con quelli su “Il lungo regno di Vittorio Emanuele III”, scandito in “L'età vittorioemanuelina/giolittiana,1900-1921” (Vicoforte,28-29 settembre 2018),  “Corona e regime: gli anni del consenso, 1922-1937” (Vicoforte 8 ottobre 2019) e “Gli anni delle tempeste: meditazioni, ricordi e congedo, 1938-1946” (Vicoforte, 10 ottobre 2020).
   Nei loro contributi gli autori sintetizzano e innovano opere pubblicate in saggi e volumi. La serie dei convegni focalizza specifici “momenti” della prima metà del Novecento e, al tempo stesso, supera la segmentazione del lungo periodo in “eventi” che vanno collocati nella visione complessiva dello Stato. I “centenari” e/o i “periodi” via via individuati non sono tributo convenzionale a una data o a “episodi” ma fanno percepire la genesi e i capisaldi dello Stato (corona, parlamento, politica estera, forze armate,  movimenti e partiti politici, vita culturale, dinamica economica e sociale...).
   All'inizio del Novecento, aperto dal regicidio, il regno d'Italia contava appena quarant'anni dalla proclamazione e solo da trenta aveva annesso Roma, coronamento del progetto enunciato nel marzo 1861 da Camillo Cavour ma anche causa della sua drastica “condanna”, anzi “scomunica”, da parte di Pio IX. All'opposto di quanto recentemente affermato da Ernesto Galli della Loggia, non vi fu affatto una “conventio ad excludendum” dei cattolici dalla direzione dello Stato (“Corriere della Sera”, 21 settembre 2023, p.32). Contrariamente a quanto proposto da molti ecclesiastici di prestigio, come  Luigi Tosti, abate d Montecassino, e il teologo Carlo Passaglia, deputato di Montecchio e autore della “Petizione a Pio IX e ai Vescovi” sottoscritta da novemila sacerdoti fautori dell'immediata conciliazione tra la Chiesa e il Regno d'Italia il pontefice provocò la  secessione dei cattolici dalla vita politica nazionale. A quella lacerazione altre se ne aggiunsero. Mentre Giuseppe Garibaldi, “primo massone d'Italia” e da tanti democratici optarono per “Italia e Vittorio Emanuele”, la soluzione sabauda fu rifiutata dai repubblicani intransigenti, numericamente esigui e tuttavia influenti in ambenti settari, e dai socialisti che in tutte le loro componenti rifiutarono le sollecitazioni ad assumere responsabilità di governo più volte avanzate, anche dal liberal-democratico Giovanni Giolitti.

   L'ampio ventaglio di temi messi a fuoco nel volume evidenzia la centralità della monarchia statutaria nel regno d'Italia e, di conseguenza, della condotta del Re. Dopo il decennio di fine Ottocento, nel cui corso si susseguirono una decina di governi talora di brevissima durata (l'ultimo ministero presieduto dal marchese Antonio Starrabba di Rudinì resse solo quattro settimane), il regime parve trovare stabilità con la coalizione presieduta dal democratico bresciano Giuseppe Zanardelli, subentrato all'ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato. La “svolta liberale” di inizio secolo si sostanziò nella fiducia accordata al nuovo governo da parte della Camera eletta nel giugno 1900, mentre presidente del Consiglio era il generale Luigi Pelloux, già ministro della Guerra (1892-1893), e poi a quello dal novembre 1903 presieduto da Giolitti.
    Il regio decreto 14 novembre 1901, n. 466 sulle “materie da sottoporsi al Consiglio dei ministri” chiarì che il suo presidente rappresentava il gabinetto, manteneva l'unità d'indirizzo politico e amministrativo di tutti i ministeri e curava l'adempimento “degli impegni presi dal governo nel discorso della Corona, nelle sue relazioni con il Parlamento e nelle manifestazioni fatte al paese”. Precisò che il ministro degli Esteri conferiva col presidente del Consiglio su tutte le note e comunicazioni che impegnassero la politica del governo nei rapporti con quelli esteri. Dal 1892 al 1922 nessun presidente del Consiglio fu titolare degli Esteri, a differenza di quanto era accaduto con Camillo Cavour e Francesco Crispi (ma solo nel 1889-1891) e avvenne poi con Benito Mussolini che assunse Esteri e Interno. Il regio decreto del 1901 non rafforzò né la camera elettiva né il governo ma il presidente del Consiglio, interlocutore privilegiato del sovrano. Fu un passo avanti verso la futura legge istitutiva del “capo del governo” (24 dicembre 1925, n. 2263). A differenza di quanto solitamente viene detto, questa non intaccò affatto le prerogative statuarie del re. Essa infatti sancì: “Il Capo del governo è nominato e revocato dal Re ed è responsabile verso il Re dell'indirizzo generale politico del governo”.
   L'evoluzione del regime monarchico conferì maggior peso alla dirigenza politica. Erano gli anni delle riflessioni di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels sulle élites e sui partiti. Proprio per la preminenza delle “personalità” chiamate a reggere le sorti del Paese la storiografia parve chiamata a dedicare speciale attenzione ai profili politico-istituzionali del Re, dei suoi più stretti collaboratori (a cominciare dai ministri della Real Casa e dai suoi primi aiutanti di campo), dei presidenti del Consiglio e dei maggiorenti delle Camere. A lungo furono invece privilegiati altri temi, prevalentemente socio-economici. Le “dottrine politiche” prevalsero sull'azione di chi esercitò il potere, la rappresentazione travalicò i “fatti”. Alcuni dei dodici presidenti che si susseguirono alla guida dei venti ministeri alternatisi tra il 1900 e il 1922 ancora attendono biografie esaustive. Nell'ordine si alternarono, talora per brevi periodi, Saracco, Zanardelli, Giolitti, Alessandro (Sandrino) Fortis (due ministeri), Sidney Sonnino, Giolitti, Sonnino, Luigi Luzzatti, Giolitti, Salandra, Paolo Boselli, Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti (due governi consecutivi), Giolitti, Ivanoe Bonomi e Luigi Facta (due ministeri per un insieme di otto mesi): una ridda di ministri e sottosegretari che conduce a riflettere sulla centralità del Re nel regime statutario configurato quale “triangolo scaleno”, come documentato in saggi compresi nel volume. Mancano biografie scientifiche di personalità eminenti (inclusi ministri di vaste vedute ma al governo per breve periodo, Leone Wollemborg), volutamente rimaste al di fuori del governo (Ettore Ferrari) ma non delle istituzioni (è il caso di Ernesto Nathan, che tentò l'elezione alla Camera e fu sindaco di Roma con il sostegno personale del Re e del presidente Giolitti).  
   Al tempo stesso vi era e vi è motivo di porre al centro dell'attenzione forma e sostanza dei poteri apicali dello Stato, immutati dalla promulgazione della Carta Albertina al 1944. Essi furono esercitati dal Re come e quando ritenne di doverlo fare: in specie il 27-30 ottobre 1922 quando incaricò Mussolini di formare il governo, il 25 luglio 1943 quando lo revocò e il 3-8 settembre quando, in nome del governo da lui nominato, il generale Giuseppe Castellano sottoscrisse a Cassibile la resa incondizionata dell'Italia agli anglo-americani operanti in nome delle Nazioni Unite. Con quell'atto Vittorio Emanuele III garantì la continuità dello Stato d'Italia al di là della sconfitta militare.

...il Re isolato.
   Usciti da mezzo secolo di opposizione, gli esponenti di movimenti e partiti pregiudizialmente anti-statutari (ma anche molti “democratici”) non gli riconobbero alcun merito, rifiutarono di collaborare con il governo e posero imperiosamente la questione istituzionale. Il “lungo regno” di Vittorio Emanuele III formalmente si protrasse sino all'annuncio del trasferimento al figlio Umberto di Piemonte di tutte le prerogative regie, nessuna esclusa (12 aprile 1944), all'insediamento del principe a Luogotenente del regno (5 giugno), all'abdicazione del sovrano e alla sua partenza “per l'estero”, non “in esilio” (9 maggio 1946).
   Secondo la narrazione subito prevalsa e tuttora perdurante, sino al governo presieduto da Ferruccio Parri, già comandante delle formazioni partigiane “Giustizia e Libertà” (giugno 1945), l'Italia non aveva conosciuto alcuna vera democrazia. Tale affermazione fu confutata da Benedetto Croce, già stigmatizzato da Palmiro Togliatti al rientro dell'Unione sovietica di Stalin. A quel modo il filosofo si consegnò a sua volta all'emarginazione politica. La guida culturale ed “etica” dei decenni seguenti non furono più le sue opere ma i “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci, fortunosamente fatti pervenire a Togliatti da Piero Sraffa, figlio di un illustre docente universitario iniziato a una loggia del Grande Oriente d'Italia. 
   Senza pretesa di prevalere sui luoghi comuni stratificati nella narrazione mediatica e nella manualistica scolastica, gli atti dei convegni di studio raccolti in volume documentano, rettificano e offrono motivo di riflessione innovativa. L'Italia che ne emerge risulta quale venne ideata e realizzata dal Risorgimento: protagonista a pieno titolo di una storia dell'Europa che nel 1914 imboccò la discesa agl'inferi con l'inizio della nuova guerra dei trent'anni, conclusa nel 1945 con la sua lunga e tutt'oggi perdurante eclissi politico-diplomatico-militare. In tale ambito Vittorio Emanuele III emerge quale protagonista della grande storia. Rimane in attesa di essere pienamente compreso.
    Aldo A. Mola 

DIDASCALIA: La copertina del volume (ed. BastogiLibri), pubblicato dall'Associazione di studi storici Giovanni Giolitti e della Associazione di Studi sul Saluzzese, e il programma del Convegno di Vicoforte, che si vale dell'adesione di enti, istituti, centri di studio e della Associazione Nazionale ex Allievi della Nunziatella. Nel programma l'Italia è prospettata quale appariva dagli anglo-americani che ne iniziarono l'occupazione da Sicilia, Calabria e Taranto. Impiegarono oltre otto mesi ad arrivare a Roma e diciotto a raggiungere la pianura padana dal novembre 1944 lasciata in balia dei tedeschi e del suo alleato Mussolini: i tempi tragici della guerra civile.


MAFALDA DI SAVOIA ASSIA
UNA TRAGEDIA ITALIANA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 24 settembre 2023 pagg. 1 e 6.
Povera foglia frale...
Mafalda
                                                          di Savoia a
                                                          Racconigi con
                                                          la Famiglia
                                                          Reale   Il 28 agosto 1944 la principessa Mafalda di Savoia (“Muti”, in famiglia), consorte di Filippo langravio d'Assia, morì dopo una tardiva operazione al braccio sinistro, ustionato sino all'osso,  per fermare la cancrena generata dagli spezzoni di bombe che l'avevano ferita. L'intervento ebbe luogo in un ambulatorio improvvisato nel campo di concentramento tedesco di Buchenwald. Il 24 precedente migliaia di fortezze volanti partite da basi remote bombardarono a tappeto le Officine Gustloff e i dintorni. Il premier inglese Churchill, in visita a Napoli, voleva dare una lezione alla Germania, già piegata dalla sconfitta inflittale dai sovietici a Kursk. Nessuno degli incursori immaginava che al bordo del campo vivesse la figlia del Re d'Italia Vittorio Emanuele III, catturata a Roma il 22 settembre 1943 per ordine di Hitler e lì detenuta dall' 8 ottobre.
  “Povera foglia frale...” la Principessa lasciò la vita terrena.
  Ricordare la tragedia di Mafalda di Savoia-Assia significa compiere un passo avanti verso la conciliazione della memoria storica. Più serenità, più responsabilità. Ne scrisse il saggista imperiese Renato Barneschi in “Frau von Weber” (1982), autore di una accurata biografia della Regina Elena, “Rosa d'Oro della Carità”.
Casa Savoia per l'indipendenza e l'unità d'Italia
   Il 18 marzo 1983 morì a Ginevra Umberto II, iniquamente condannato all’esilio perpetuo dalla Repubblica italiana, che gli interdisse il suolo patrio, da lui invocato almeno per chiudevi la vita terrena. Scelse di essere deposto nell’Abbazia di Altacomba, antico sepolcreto della Casa. A quel modo mandò il suo ultimo messaggio agli italiani: dovevano e debbono farsi carico della propria storia, tutta. Nel feretro volle con sé il sigillo regio. Il suo duplice mònito non fu raccolto. Nel tempo sono stati pubblicati tanti diari di suoi stretti collaboratori, compreso quello di Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, egregiamente curato da Francesco Perfetti (ed. Mondadori), Ma La storia dell'ultimo Re rimane da scrivere.
  Tanti suoi sedicenti ammiratori hanno trascorso quarant'anni a frammentarsi in movimenti e gruppuscoli sempre più irrilevanti. Eppure basta rievocare la tragica fine di Mafalda di Savoia-Assia per chiudere finalmente la polemica retrospettiva contro la Casa che sin da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, sul trono dal 1831, legò le sue sorti alla lotta per indipendenza, unità e libertà degli italiani. Nella fortuna e nelle sfortune. Ne fu esempio lo stesso Carlo Alberto, che il 23 marzo 1849, la sera della battaglia di Novara, abdicò e partì per il Portogallo, ove morì di consunzione il 28 luglio, appena cinquantunenne. Al protomedico Alessandro Riberi, mandatogli dal figlio, Vittorio Emanuele II, bisbigliò quasi scusandosi: “Le voglio bene, ma muoio”. Suo  nipote, Umberto I, fu assassinato a Monza il 29 luglio 1900, poco dopo aver insediato il governo liberale guidato dall'ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato. Poi fu la volta di Vittorio Emanuele III, che abdicò, partì per l'Egitto il 9 maggio 1946 e vi morì il 28 dicembre 1947, e, appunto, di suo figlio, Umberto II, che lasciò la Patria per il Portogallo il 13 giugno 1946 senza ritorno, inseguito da una pessima dichiarazione polemica di Alcide De Gasperi, capo provvisorio dello Stato, presidente del consiglio dei ministri e ministro degli Esteri: un caso unico nella storia d'Italia.
Una principessa nella tempesta
    Vicende dimenticate, deformate da letture faziose, con cesure, censure e ampie zone d’ombra.
Fra le molte rimane ingiustificabile il lungo oblio riservato a Mafalda. La sua vicenda basta da sola a dire quanto una livorosa polemistica non vuol sentire: nel dramma della seconda guerra mondiale Casa Savoia fu tutt’uno con le famiglie italiane anche nella sofferenza e nel lutto.
   Un anno prima della tragica morte, il 28 agosto 1943, Mafalda era partita da Roma per raggiungere la sorella, Giovanna, consorte dello zar dei bulgari, Boris III, che rientrato da un tempestoso incontro con Hitler, ammalò d’improvviso, probabilmente avvelenato perché non approvava le misure contro gli ebrei e intendeva separare il proprio paese dall'alleanza con i tedeschi. Il principe Filippo d'Assia, sposato da Mafalda di Savoia nel Castello di Racconigi il 23 settembre 1925, dopo l’attentato del 20 luglio 1944 al Fuehrer era in stato d’arresto.
    Per la principessa Mafalda il viaggio di rientro in Italia fu un'odissea. Alla stazione ferroviaria di Sinaia, in Romania, venne informata della svolta in atto in Italia (proclamazione dell'armistizio, trasferimento della Casa Reale e del governo da Roma in Puglia) e invitata a rimanere. Forte del suo coraggio e convinta dell'immunità di moglie del principe d'Assia proseguì per raggiungere i figli, a Roma. L'aereo predisposto per il suo trasferimento da Budapest a Bari atterrò a Pescara. Da lì Mafalda raggiunse fortunosamente la Città Eterna. Proprio il suo rango di Prinzessin agli occhi dei nazisti, ferocemente antimonarchici, era invece un'aggravante, come ricorda Frédéric Le Moal nella biografia di Vittorio Emanuele III (trad. Gorizia, LEG). Mentre il figlio maggiore, Maurizio, già in Germania, era a portata di mano di Hitler, la regina Elena lasciando Roma ne aveva affidato i minori Enrico, Otto ed Elisabetta al sostituto segretario di Stato della Santa Sede, Giambattista Montini, che però li allontanò perché sopraggiungevano nipoti suoi. Anche i principini d’Assia finirono a loro volta in Germania.
   Nella Città Eterna caduta sotto il controllo di Kappler, Mafalda finì in un tunnel senza uscite. Si fidò dei germanici sino a recarsi alla loro ambasciata ove (le era stato assicurato) sarebbe stata chiamata al telefono dal consorte Filippo. Lì, invece, fu arrestata (22 settembre 1943) e tradotta in Germania. Nel campo di Buchenwald, che aveva per insegna “A ciascuno il suo”, inizialmente fu assegnata alla stanza 9 della baracca 15. 
Quando il Re seppe.
Come centinaia di migliaia di connazionali ignari della sorte dei loro cari (dispersi, prigionieri,...), i sovrani, il principe ereditario Umberto e tutti i suoi famigliari e amici rimasero in attesa di notizie. Era prigioniera in mani studiatamente crudeli. Della sua atroce fine il 14 aprile 1945 dettero notizia i  giornali, anche con commenti inopportuni, prima che Vittorio Emanuele III ne fosse informato. Scrissero crudamente che Mafalda di Savoia-Assia era morta per le ferite riportate nel bombardamento del lager in cui era rinchiusa. L’aiutante di campo di Umberto di Piemonte, Luogotenente del Regno, ne informò subito il generale Paolo Puntoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, affinché i sovrani “non leggessero la tremenda notizia sui giornali”. Puntoni ne riferì immediatamente al Re. Nel Diario (ed. Palazzi, poi il Mulino) annotò che il sovrano “come sempre (...) non lasci(ò) trapelare alcun turbamento” e continuò la conversazione in corso con Brunoro De Buzzaccarini. Un quarto d’ora dopo, Vittorio Emanuele III s’appartò per riferirne alla Regina. Ma quell’informazione era davvero esatta? Seguirono settimane di angoscia, sino a quando il 2 maggio, proprio il giorno della fine della guerra in Italia per la resa dei tedeschi agli anglo-americani, tramite i canali informativi della Santa Sede, giunse la conferma. Quando ne ebbe certezza, il Re assunse “quell’atteggiamento che, per chi non lo conosce a fondo, può sembrare cinico; e io so – scrisse Puntoni – che egli soffre terribilmente...”.
  Liberati, come il padre, al crollo del nazismo, Maurizio ed Enrico d’Assia furono poi ripetutamente a Villa Jela, ad Alessandria d’Egitto, ove Vittorio Emanuele III prese dimora dopo la partenza dall’Italia per l’estero (9 maggio 1946). Lo ricordò l'ultimo aiutante di campo del Re, Tito Torella di Romagnano nel suo limpido memoriale “Villa Jela” (ed. Garzanti).
   Della morte della principessa (vittima della deportazione, del bombardamento anglo-americano, del probabilmente voluto ritardo nella cura delle gravissime ferite) non si doveva parlare tra fine della guerra e il referendum istituzionale poi fissato per il 2-3 giugno1946. La morte di Mafalda in campo di concentramento provava che Casa Savoia aveva duramente pagato la sua opposizione al dominio nazista. Dal settembre 1943 la Corona aveva trasformato il conflitto in lotta di liberazione. Ancora una volta, come Carlo Alberto aveva promesso a Massimo d'Azeglio, essa aveva posto a servizio della Patria la persona del sovrano, i suoi figli e i suoi beni. Eppure doveva rimanere misconosciuta la figura di Mafalda, delicata e forte a un tempo, dedita alla beneficenza al pari della madre, Elena. Per quotidiani ed emittenti radiofoniche  incitanti all’odio e al disprezzo di tanti “antifascisti” (che nei confronti della monarchia usarono gli stessi argomenti dei più fanatici “repubblichini” di Salò) la morte di Mafalda in un campo di concentramento nazista sparigliava le carte. Lo stesso valeva per la sorte della figlia minore dei sovrani, Maria, di cui ha scritto la principessa Maria Gabriella di Savoia in La vita a Corte in Casa Savoia. Né se ne poté scrivere dopo il referendum, frutto di migliaia di brogli largamente documentati in documenti mai confutati.
   Il silenzio su Mafalda coprì due altri aspetti della verità. Anzitutto la pietas di padre Herman Joseph Tyl. Questi ne riconobbe la salma, con sollecitudine la sottrasse al forno crematorio, cui era destinata, e la fece avviare a Weimar ove fu sepolta come “donna sconosciuta”. Nel lager del resto la Principessa era stata registrata sotto il nome di “frau von Weber”. Sette marinai di Gaeta internati a Weimar però ne individuarono la sepoltura e la segnarono. Fu la conferma della fraternità nel dolore, propria degli italiani. Ma anche questo doveva passare sotto silenzio, come ha ricordato Mariù Safier nella oggi introvabile biografia di Mafalda, scritta con penna lieve e ricchezza documentaria (Mafalda di Savoia Assia dal bosco dell'ombra, poi arricchita in Mafalda di Savoia Assia. Un ostaggio nelle mani di Hitler, ed. Bastogi).
 Ricomporre la Memoria
  Quasi ottant'anni dopo il cambio istituzionale del giugno 1946 la straziante sorte di Mafalda di Savoia-Assia s'impone quale parte integrante Mariu
                                                          Safier Mafalda
                                                          di Savoiadella storia dell’Italia del Novecento. I sovrani, il principe ereditario, tutta Casa Savoia portarono il lutto al braccio, come milioni di connazionali. Erano gli stessi che all’inizio del secolo avevano scommesso su un progresso civile, morale e sociale ininterrotto, senza traumi bellici. Poi però l'Italia dovette fare i conti con la Grande Guerra e nel ventennio seguente fronteggiare la grande depressione economica con l’IRI, le bonifiche, il rilancio industriale e manifatturiero, sempre nella certezza che il lavoro premia più delle avventure belliche. La concordia deve prevalere sull'odio, sull'invidia di classe, sulle falsità spacciate per storiografia, come deplora Angelo Squarti Perla nel saggio Le menzogne di chi scrive la storia, di imminente pubblicazione per la BastogiLibri.
   Quell’Italia commise vari errori, e anche gravi. Ma in una monarchia statutaria responsabile degli errori non è solo il Re (né, meno ancora, un sovrano costituzionale e “isolato” quale fu Vittorio Emanuele III) sibbene l’intera dirigenza, a cominciare dalla Camera dei deputati, dal 1919 eletta a suffragio universale maschile e quindi de cittadini che dal 1924 in poi votarono compattamente a favore del Partito nazionale fascista, anche quando divenne “partito unico”. Nessuno si oppose all'intervento in uerra del 10 giugno 1940. Osò dirlo con franchezza il principe Aimone di Savoia, duca d'Aosta. Privato della carica militare, fu a sua volta costretto all’esilio. Lo scrisse suo figlio, Amedeo di Savoia, in Cifra Reale. 
   Il ricordo della figlia del Re morta nel campo di sterminio ove s’ergeva la Goethe Eiche, la Quercia di Goethe, costituisce dunque un invito perpetuo a riflettere sulla storia d'Italia del Novecento con passione, perché si tratta di pagine dolenti, ma finalmente anche senza pregiudizi né paraocchi. Casa Savoia, ne emerge con chiarezza, fu tutt’uno con ogni altra famiglia dell’“itala gente da le molte vite”. Il martirio di Mafalda ne è appunto il suggello.
   Vanno aggiunte poche altre osservazioni. Con la Grande Guerra crollarono gli imperi di Russia, Turchia, Austria-Ungheria e Germania. Il Regno d'Italia rimase l'unica monarchia costituzionale rilevante nell'Europa di terraferma. Vittorio Emanuele continuò la “grande politica” degli avi, con il conferimento del Collare dell'Ordine della Santissima Annunziata e alleanze dinastiche. A parte le nozze della primogenita Jolanda (“Anda”) con il conte Carlo Calvi di Bergolo, nel 1925 “Muti” andò in sposa al luterano Filippo d'Assia, Filippo, che operava per traghettare la Germania dal caos postbellico verso la stabilità. La terzogenita, Giovanna, sposò  l'ortodosso Boris III, zar dei Bulgari. La Santa Sede non gradì né l'uno né l'altro matrimonio. Ma il Re, che nel 1896 aveva sposato Elena di Montenegro, di famiglia ortodossa, pensava anzitutto all'Italia nel difficile quadro europeo (l'URSS non era uno stato amico...) e alla libertà di coscienza di tutti gli italiani. Nella sua difficile opera non venne affatto aiutato dai “politici” né da altri.
  Un re vissuto in solitudine (come Vittorio Emanuele III drammaticamente fu dal 1938 in poi) è paradigma per i capi dello Stato d'Italia, talvolta “sotto assedio” anche dopo l'avvento della Repubblica.
Aldo A. Mola  

DIDASCALIA: La principessa Mafalda di Savoia (Roma, 19 novembre 1902 – Buchenwald, 28 agosto 1944), sposata con il langravio Filippo d'Assia. 
  Oltre alle biografie citate nell'articolo va ricordata quella scrittane da Cristina Siccardi e Domenico Agasso. V. anche il volume “Villa Polissena” a cura di Mariù Safier.  




VITTORIO EMANUELE III 
E LA GUERRA DI LIBERAZIONE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 17 settembre 2023 pagg. 1 e 6.
Nicola
                                                          Bellomo da
                                                          Wikipedia
Didascalia
Dalla resa senza condizioni (Cassibile, 3/8 settembre 1943) a quella dei tedeschi in Italia (Caserta, con effetto dal 2 maggio 1945) l'Italia si trovò nella tenaglia di diverse guerre: gli anglo-americani da un parte, i tedeschi dall'altra, le aspirazioni dei francesi a valicare le Alpi occidentali e possedere Valle d'Aosta e parte del Piemonte, le rivendicazioni e  l'avanzata degli jugoslavi sul confine orientale e infine la contrapposizione tra il governo del re, riconosciuto dalle Nazioni Unite, quello della Repubblica sociale e il movimento di liberazione, dalle molteplici componenti, talora subordinate a direttive di Stati in guerra contro l'Italia. Fu il caso del Partito comunista italiano.

La riorganizzazione del Regio Esercito
  In quel groviglio direttamente e indirettamente il re e il suo governo dettero impulso alla lotta di liberazione del territorio nazionale dagli occupanti germanici e dai loro alleati interni.  Lo scontro armato tra reparti del regio esercito e tedeschi iniziò il 9 settembre a Roma, nelle Puglie e in molte città dell'Italia centro-settentrionale: un ventaglio di battaglie troppo a lungo dimenticate a vantaggio della narrazione secondo la quale i primi e gli unici a combattere contro i tedeschi e i fascisti repubblicani sarebbero stati i nuclei di partigiani. Ripercorrere i “fatti” non significa certo sminuire il valore morale e anche militare delle scelte compiute dall'antifascismo, dalle prime “bande”, dalla “resistenza” e dalla “guerra partigiana” prima e dopo il sino al suo riconoscimento  da parte del governo del re. 
   Il giorno stesso del trasferimento del re, del principe ereditario, di Badoglio, del comandante Supremo Vittorio Ambrosio e dei capi di stato maggiore delle tre armi la Capitale fu teatro di conflitto tra militari e tedeschi. Tra i più coraggiosi e determinati furono i Granatieri di Sardegna,  che, anche senza “ordini superiori” si batterono per l'Italia.   
     Sempre il 9 armato il generale Nicola Bellomo, da poco al comando della piazza di Bari, guidò di persona la lotta contro circa 300 guastatori germanici per il controllo del porto e prevalse con l'aiuto del LI battaglione Allievi ufficiali bersaglieri imponendo al nemico la capitolazione e la ritirata. Lo stesso giorno iniziò a Taranto lo sbarco della I divisione inglese aerotrasportata. L'11 settembre 1943 a Barletta, il comandante della piazza Francesco Grasso affrontò i germanici, che prevalsero, lo costrinsero alla resa, trucidarono civili e ne rimasero padroni sino al 24. Nel frattempo il generale Antonio Basso, comandante delle forze italiane in Sardegna, impose ai tedeschi l'evacuazione dall'isola, con scontri e caduti da entrambe le parti, in specie nei pressi di Oristano e alla base navale della Maddalena. Di concerto con i partigiani della Corsica e poi con truppe di “Francia libera” sbarcate nell'isola il generale Giovanni Magli affrontò i tedeschi in aspri combattimenti (29 settembre-4 ottobre), costringendoli alla resa o all'imbarco verso il continente.
   
  Pochi giorni dopo l'arrivo a Brindisi sia il re sia il principe ereditario Umberto di Piemonte passarono in rassegna corpi dell'esercito. Il 18 settembre Badoglio chiese di affiancare reparti italiani contro i tedeschi, ma cozzò contro il rifiuto anglo-americano. Il 28 settembre, vigilia della notifica a Malta dell'“armistizio lungo” da parte del generale Eisenhower, fu costituito il I Raggruppamento motorizzato di 5.000 uomini agli ordini del generale Vincenzo Dapino, a fine gennaio 1944 sostituito dal generale Umberto Utili. La riorganizzazione dell'esercito fu accelerata con la dichiarazione di guerra alla Germania (13 ottobre), il riconoscimento dell'Italia quale co-belligerante. Caduto prigioniero degli inglesi in Tunisia, su sollecitazione del re (che lo aveva avuto aiutante di campo) e richiesta di Badoglio agli Alleati, il maresciallo Giovanni Messe venne rilasciato e, capo di stato maggiore generale, affiancato dal generale Paolo Berardi quale capo di stato maggiore dell'esercito, guidò la riscossa. 

Guerra di liberazione  
   A lungo è stato affermato che il re fu riluttante a dichiarare guerra contro la Germania. In una lettera “segreta” del 2 ottobre 1943 (classificata 1854/Op) fu invece il comandante supremo Ambrosio e esprimere pesanti riserva al ministro della real casa Pietro d'Acquarone. “I vantaggi degli Alleati per la nostra dichiarazione d'armistizio – egli scrisse- sono stati di per se stesso enormi. (…) Inoltre la nostra collaborazione in questo mese è stata della massima intensità (…) senza nessuna contropartita, salvo la promessa dii attenuare le condizioni di pace. La rottura delle relazioni col Giappone è da escludere. Se a noi è permesso, al massimo, di essere cobelligeranti, vuol dire che possiamo collaborare per cacciare i tedeschi dal nostro suolo, ma non abbiamo nessuna ragione di combattere i giapponesi. Per questo occorrerebbe una vera alleanza politica, che non è concessa”. Data l'estrema debolezza delle forze disponibili, la dichiarazione di guerra sarebbe stata “semplicemente platonica”. Gli anglo.americani avevano agito “senza alcun riguardo” e “generata una crisi gravissima in Italia e nei Balcani. Dobbiamo evitare che si ripeta questo passivo senza contropartita”. 
   Sin dall'incontro con Badoglio a Malta il generale Eisenhower aveva sollecitato il governo italiano a dichiarare guerra alla Germania, sia per accattivarsi l'opinione pubblica nel campo alleato, sia per tutelare i militari caduti prigionieri dei tedeschi, che, diversamente, li avrebbero trattati “da franchi tiratori e, come tali, sottoposti ad esecuzione sommaria”. Con molto realismo il “capo missione” Noel Mason Mac Farlane osservò che sarebbe stato “necessario servirsi di alcuni uomini che erano stati in passato associati con il fascismo dato che esso era durato vent'anni”. Chi non aveva avuto la tessera del PNF o non aveva tributato qualche omaggio al regime? La classe dirigente (non politica ma anche solo “ amministrativa”, di industrie, banche, aziende pubbliche e private) non si improvvisa dall'oggi al domani. Non si poteva fare nell'Italia i cui docenti universitari, tranne una dozzina, avevano giurato fedeltà al regime. Dal canto suo Badoglio dichiarò che il re intendeva “invitare i capi dei diversi partiti -cioè i partiti politici- così come si sono ora costituiti in Italia, con speciale riferimento a quelli che hanno la maggiore influenza sul popolo” e avrebbe dato al governo “un carattere liberale”. Come “militare” precisò che non si intendeva di partiti e di politici.  
   Dal settembre 1943 la ricostruzione del regio esercito fu la premessa per riaffermare l'autorità del governo nelle province di sua immediata competenza. Però il sovrano, il principe ereditario e le forze dell'ordine registravano quotidianamente la diffidenza e le soperchierie degli Alleati contro i militari italiani e la popolazione civile. Soldati inglesi, spesso “alquanto avvinazzati”, strappavano il tricolore da edifici pubblici, irrompevano in postriboli picchiando a sangue quanti vi si trovavano. Nel caffè “Roma” di Mola di Bari un inglese “alquanto brillo” sputò sul ritratto del re. Un altro infranse quello di Badoglio. Per “contenere” inglesi, autori di rapine e violenze d'ogni genere, gli alpini usarono le mani e i carabinieri le armi. Ma la prevaricazione era pressoché quotidiana. Il Comando dell'esercito ordinò pertanto che la sorveglianza sull'ordine fosse affidata a pattuglioni di otto uomini perché le pattuglie tradizionali venivano sopraffatte da militari “alleati”.
   Il 6 dicembre 1943 la regina Elena vide di persona automezzi inglesi investire intenzionalmente civili e sollecitò indennizzi (Archivio Cnetrale dello Stato,Presidenza del Consiglio dei Ministri, Governo del Sud, 1943-1944, Casa Reale).
   La lotta per la riaffermazione della sovranità nazionale era una schermaglia quotidiana. La riscossa passava anche attraverso gesti emblematici. L'11 novembre, per esempio, Badoglio ordinò ai prefetti di esporre il tricolore per festeggiare il genetliaco del re. Risalire la china impegnava sul fronte delle armi come nella vita civile. Allo scopo tra Alleati e Comando dei carabinieri si convenne la necessità di distinguere tra chi era stato fascista “per costrizione” (la tessera del partito era stata tutt'uno con quella “del pane”) e i fanatici del regime. Venne deliberata la formazione di “comitati” civici composti da un ufficiale dei carabinieri, un podestà, un magistrato, un sacerdote (“se di sicuri sentimenti”) e da alcuni cittadini “equi ed imparziali”. Il colonnello dei carabinieri Romano dalla Chiesa ricordò in un rapporto del 4 novembre che la resistenza ai militi dell'arma era “delitto grave”; al tempo stesso vietò l'uso di bombe a mano contro dimostranti. Gli alpini a loro volta svolsero importante ruolo di contenimento contro ogni forma di disordine.
   Dal Corpo Italiano di Liberazione nel luglio del 1944, dopo la liberazione di Roma e la nomina  di Umberto di Savoia a Luogotenente del Re, nacquero 6 Gruppi di Combattimento (Friuli, Cremona, Legnano, Folgore, Mantova e Piceno) per un insieme di circa 60.000 uomini. Però gli Alleati non consentirono che avessero nome di divisioni e costituissero un'Armata. Il 27 dicembre 1943 il governo dichiarò l'adesione alla Carta Atlantica del 14 agosto 1941 ma sull'Italia, malgrado la cobelligeranza, la resistenza anti-nazifascista e la guerra partigiana, continuavano a incombere le clausole della resa e le crescenti rivendicazioni di molti Stati, a cominciare da Francia, Jugoslavia e Grecia. Nel dicembre 1944, dopo lunga trattativa tra il governo e la delegazione del CLN Alta Italia, le formazioni partigiane  furono riconosciute come Corpo Volontari della Libertà agli ordini del generale Raffaele Cadorna. 
Il crepuscolo di Vittorio Emanuele III
Nel frattempo gli anglo-americani decisero la sorte di Vittorio Emanuele III, con il plauso dei partiti riconosciuti dalla Commissione alleata di controllo: democratico liberale, socialista, comunista, d'azione, democrazia cristiana, democrazia del lavoro, democratici dei lavoratori italiani, partito liberale. Il peggioramento del clima  antimonarchico venne segnalato dal ministro dell'Areonautica generale Renato Sandalli il 15 marzo 1944. Il PWB (Psychological Warfare Branch) aveva fatto cassare l'articolo “Agli ordini del loro Re” dal “Giornale dell'Aeronautica”. Il ministro avvertì che il sovrano, la monarchia in genere e il governo stesso non dovevano più essere menzionati pena la soppressione del periodico. La proibizione era motivata con la giustificazione che le “Autorità Alleate” non volevano influire sulla situazione interna italiana. Sandalli, però, aggiunse lapidariamente: “fatti del genere danneggiano la coesione morale delle FF.AA.”. Quegli stessi Alleati  non arginarono mai le rabbiose polemiche quotidiane contro il sovrano, la Casa di Savoia e dell'idea di monarchia da parte dei fautori della repubblica, nei giornali e nei “comizi”. Erano tempi nei quali ai militari, ai dirigenti, funzionari e pubblici impiegati veniva impartita l'amara direttiva: nei contrasti con gli Alleati gli italiani avevano torto anche quando avevano ragione.
Pochi giorni prima del convegno ciellenistico di Bari (26-28 gennaio 1944), che sotto il profilo istituzionale era un sodalizio privato, Vittorio Emanuele III consegnò il suo programma al capo della Missione alleata Noel Mason-Mac Farlane. Vi riprese molti spunti del verbale della conferenza di Malta tra Eisenhower e Badoglio. Il governo in carica sarebbe rimasto in esercizio sino alla liberazione di Roma; a quel punto sarebbe stato formato un ministero con rappresentanti di partiti ed entro quattro mesi sarebbe stata eletta la Camera dei deputati. Il Parlamento avrebbe discusso ed eventualmente riformato le istituzioni “anche totalmente”. Non escludeva, quindi, il cambio istituzionale. Il paese sarebbe stato consultato (referendum confermativo, dunque) e la Corona avrebbe seguito la volontà della nazione. Era l’unica via compatibile con lo Statuto. Il re, però, non fece i conti col fatto che gli anglo-americani non avevano alcuna fretta di arrivare a Roma. A Ravello, per esempio, i loro ufficiali gozzovigliavano giorno e notte, come annotava scandalizzato il generale Puntoni. Non solo. Militari inglesi a Caserta “demolivano nicchie cadaveri et asportavano teschi poggiandoli banchi scuola et collocandone uno sulla testa statua” (Rapporto del comandante dei carabinieri Giuseppe Pièche, 28 maggio 1944, in ACS).
La Luogotenenza del regno
All’inizio dell’aprile 1944 De Nicola escogitò la proposta atta a mettere d’accordo CLN, governo e Alleati: il passaggio dei poteri da Vittorio Emanuele III al principe di Piemonte quale luogotenente. Essa fu diramata ai giornali prima che il re ne fosse informato. Fu messo dinnanzi ai “fatti compiuti”. Dopo travagli vari il sovrano accettò di trasmettere le prerogative della Corona, ma in Roma, quando fosse stata liberata. A Puntoni re Vittorio tracciò un bilancio di quanto fosse “difficile e pesante il mestiere del re”: il “brut fardèl” consegnato da Vittorio Emanuele II a Umberto I. “Solo mio nonno ne è uscito bene” egli confidò. “Carlo Alberto dovette abdicare, mio padre fu assassinato. Non avevo nessuna intenzione di succedere a mio padre e l’avevo quasi convinto ad accogliere il mio progetto di rinunciare alla Corona. Ma fu ucciso e io, in quell’ora tragica, non potei rifiutarmi di salire sul trono. Se l’avessi fatto avrebbero detto che ero un vile.”  
  Pochi giorni dopo Badoglio varò il nuovo governo, con la partecipazione dei partiti del CLN (22 aprile - 18 giugno 1944). A cospetto di Vittorio Emanuele III i ministri giurarono “sul proprio onore”. Poteva il re imporre loro di usare la formula statutaria? Fra di essi vi erano Togliatti, Sforza, Giulio Rodinò di Miglione, Adolfo Omodeo (che da ministro della Pubblica istruzione epurò una quantità di galantuomini), Alberto Tarchiani, Fausto Gullo...: tutti repubblicani accesi e talvolta chiassosi. Il 5 giugno si consumò l’ennesimo sgarbo nei confronti di Vittorio Emanuele III da parte del “suo” governo. Con pretesti risibili (compresa la transitabilità delle strade), gli venne negato di raggiungere Roma per celebrarvi il trasferimento di “tutte le prerogative Regie, nessuna eccettuata” al principe ereditario in veste di suo luogotenente. Che era quindi “del re”, non “del regno”. I primi a non rispettare la promessa “tregua istituzionale” furono anzitutto i ministri, che, a differenza del sovrano e del luogotenente, avevano il sostegno degli Alleati.

Il linciaggio di Donato Carretta: una pagina orrenda dell'Italia liberata
Quale fosse il clima dominante nell'Italia liberata fu chiaro il 18 settembre 1944 nell'aula della Corte di Assise di Roma. Riunito in alta corte di giustizia il tribunale doveva giudicare l'ex questore Pietro Caruso e il suo segretario Roberto Occhetto, accusati di aver consegnato ottanta prigionieri politici ai nazisti per la rappresaglia in risposta all'attentato di via Rasella. Il processo richiamò l'attenzione internazionale. Il colonnello Pollock e il tenente Atkinson capitanavano la polizia militare, presente in aula anche a tutela di quanti filmavano l'evento, destinato all'opinione pubblica internazionale a prova del cammino democratico dell'Italia liberata. La folla irruppe nell'aula chiedendo di avere in pasto i due imputati “per farli a pezzi”. Per sua sventura, spinto dalla canea, vi finì anche Donato Carretta, vicedirettore del carcere di Regina Coeli, noto per mitezza, comprensione e speciale attenzione proprio nei riguardi dei politici detenuti. Individuato, fu percosso. Fatto uscire dall'aula, venne picchiato. Rifugiato in un'automobile grazie a carabinieri e a vigili urbani, ne venne estratto. Fu gettato sui binari del tram in attesa che la prima vettura in arrivo lo schiacciasse. Il conducente arrestò il mezzo. Rischiò di essere aggredito. La scampò esibendo la tessera del partito comunista. La folla riprese il corpo sanguinante di Carretta, lo martoriò e lo gettò a Tevere dalla spalletta di Ponte Umberto. Riavutosi, lo sventurato tentò di nuotare verso l'altra riva ma fu raggiunto e finito a colpi di remo da tre energumeni. Riportato in strada, il cadavere venne trascinato dal Lungotevere Sant'Angelo a Regina Coeli, contro il cui portone fu scaraventato e poi appeso a testa in giù all'inferriata di destra, sotto gli occhi dei suoi familiari.
  Carlo Sforza, sedicente conte, dichiarò di capire perfettamente che “scene di quel genere” potessero aver luogo. Però il linciaggio di Donato Carretta non fu una “scena” ma un crimine. Nessuno si premurò di identificarne e perseguire i colpevoli. Era una “prova generale” della “giustizia plebea” poi evocata e minacciata da Togliatti in consiglio dei ministri all'indomani del referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946 se quella dei codici non avesse risposto alle attese delle “masse”, cioè dei partiti rivoluzionari. Con abile spregiudicatezza Togliatti ventilò la minaccia di aprire i conti della storia a carico di quanti avevano a suo tempo favorito l'avvento del governo Mussolini e concorso ad avviare verso i regime. Che cosa dire degli eredi del partito popolare italiano che ne aveva fatto parte con ministri e sottosegretari, incluso Giovanni Gronchi. E dei “liberali”? De Gasperi capì...
 L'unica via per scansare la gogna era associarsi alla lotta senza quartiere contro la monarchia e i suoi sostenitori e oscurare la verità, come fece Luigi Salvatorelli nel libello “Casa Savoia nella storia d'Italia” in cui affermò che Vittorio Emanuele II era “responsabile moralmente, politicamente e legalmente di tutti i misfatti del fascismo”, contrapposto al “popolo”, innocente e operoso. Di lì la sua damnatio memoriae perpetua.                                                                                                                                        
   Un panorama dei combattimenti degli italiani contro i tedeschi dal 9 settembre in coerenza con la direttiva del governo Badoglio v. Pier Carlo Sommo-Alberto Turinetti di Priero (a cura di), “1943-1945. Dai Gruppi di Combattimento al nuovo Esercito Italiano”, “quaderno”  della Mostra  di uguale titolo, Torino, Anarti, 1922. Lo stato d'animo di un ufficiale della Divisione Granateri di Sardegna che combatté 40 ore consecutive alle per “obbedire alle sacre leggi della Patria” e impedire l'irruzione dei germanici nel cuore della Capitale (dall'estrema periferia a Porta San Paolo e al Colosseo) v. l'esemplare “memoria” di Luigi Franceschini, “Cinquanta anni dopo”, www.granatierdisardegna.it 

DIDASCALIA: Il generale Nicola Bellomo (Bari,2 febbraio 1881-Nisida,11 settembre 1945), decorato della Grande Guerra nel settembre 1945  cacciò i tedeschi dal porto di Bari. Arrestato dagli inglesi il 28 gennaio 1944 per presunto crimine di guerra ai danni di loro prigionieri, fu condannato a morte da un tribunale speciale britannico e fucilato.Lo Stato d'Italia gli conferì la Medaglia d'Argento al Valor Militare.
MAFALDA DI SAVOIA ASSIA
UNA TRAGEDIA ITALIANA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 24 settembre 2023 pagg. 1 e 6.
Povera foglia frale...
Mafalda
                                                          di Savoia a
                                                          Racconigi con
                                                          la Famiglia
                                                          Reale   Il 28 agosto 1944 la principessa Mafalda di Savoia (“Muti”, in famiglia), consorte di Filippo langravio d'Assia, morì dopo una tardiva operazione al braccio sinistro, ustionato sino all'osso,  per fermare la cancrena generata dagli spezzoni di bombe che l'avevano ferita. L'intervento ebbe luogo in un ambulatorio improvvisato nel campo di concentramento tedesco di Buchenwald. Il 24 precedente migliaia di fortezze volanti partite da basi remote bombardarono a tappeto le Officine Gustloff e i dintorni. Il premier inglese Churchill, in visita a Napoli, voleva dare una lezione alla Germania, già piegata dalla sconfitta inflittale dai sovietici a Kursk. Nessuno degli incursori immaginava che al bordo del campo vivesse la figlia del Re d'Italia Vittorio Emanuele III, catturata a Roma il 22 settembre 1943 per ordine di Hitler e lì detenuta dall' 8 ottobre.
  “Povera foglia frale...” la Principessa lasciò la vita terrena.
  Ricordare la tragedia di Mafalda di Savoia-Assia significa compiere un passo avanti verso la conciliazione della memoria storica. Più serenità, più responsabilità. Ne scrisse il saggista imperiese Renato Barneschi in “Frau von Weber” (1982), autore di una accurata biografia della Regina Elena, “Rosa d'Oro della Carità”.
Casa Savoia per l'indipendenza e l'unità d'Italia
   Il 18 marzo 1983 morì a Ginevra Umberto II, iniquamente condannato all’esilio perpetuo dalla Repubblica italiana, che gli interdisse il suolo patrio, da lui invocato almeno per chiudevi la vita terrena. Scelse di essere deposto nell’Abbazia di Altacomba, antico sepolcreto della Casa. A quel modo mandò il suo ultimo messaggio agli italiani: dovevano e debbono farsi carico della propria storia, tutta. Nel feretro volle con sé il sigillo regio. Il suo duplice mònito non fu raccolto. Nel tempo sono stati pubblicati tanti diari di suoi stretti collaboratori, compreso quello di Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, egregiamente curato da Francesco Perfetti (ed. Mondadori), Ma La storia dell'ultimo Re rimane da scrivere.
  Tanti suoi sedicenti ammiratori hanno trascorso quarant'anni a frammentarsi in movimenti e gruppuscoli sempre più irrilevanti. Eppure basta rievocare la tragica fine di Mafalda di Savoia-Assia per chiudere finalmente la polemica retrospettiva contro la Casa che sin da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, sul trono dal 1831, legò le sue sorti alla lotta per indipendenza, unità e libertà degli italiani. Nella fortuna e nelle sfortune. Ne fu esempio lo stesso Carlo Alberto, che il 23 marzo 1849, la sera della battaglia di Novara, abdicò e partì per il Portogallo, ove morì di consunzione il 28 luglio, appena cinquantunenne. Al protomedico Alessandro Riberi, mandatogli dal figlio, Vittorio Emanuele II, bisbigliò quasi scusandosi: “Le voglio bene, ma muoio”. Suo  nipote, Umberto I, fu assassinato a Monza il 29 luglio 1900, poco dopo aver insediato il governo liberale guidato dall'ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato. Poi fu la volta di Vittorio Emanuele III, che abdicò, partì per l'Egitto il 9 maggio 1946 e vi morì il 28 dicembre 1947, e, appunto, di suo figlio, Umberto II, che lasciò la Patria per il Portogallo il 13 giugno 1946 senza ritorno, inseguito da una pessima dichiarazione polemica di Alcide De Gasperi, capo provvisorio dello Stato, presidente del consiglio dei ministri e ministro degli Esteri: un caso unico nella storia d'Italia.
Una principessa nella tempesta
    Vicende dimenticate, deformate da letture faziose, con cesure, censure e ampie zone d’ombra.
Fra le molte rimane ingiustificabile il lungo oblio riservato a Mafalda. La sua vicenda basta da sola a dire quanto una livorosa polemistica non vuol sentire: nel dramma della seconda guerra mondiale Casa Savoia fu tutt’uno con le famiglie italiane anche nella sofferenza e nel lutto.
   Un anno prima della tragica morte, il 28 agosto 1943, Mafalda era partita da Roma per raggiungere la sorella, Giovanna, consorte dello zar dei bulgari, Boris III, che rientrato da un tempestoso incontro con Hitler, ammalò d’improvviso, probabilmente avvelenato perché non approvava le misure contro gli ebrei e intendeva separare il proprio paese dall'alleanza con i tedeschi. Il principe Filippo d'Assia, sposato da Mafalda di Savoia nel Castello di Racconigi il 23 settembre 1925, dopo l’attentato del 20 luglio 1944 al Fuehrer era in stato d’arresto.
    Per la principessa Mafalda il viaggio di rientro in Italia fu un'odissea. Alla stazione ferroviaria di Sinaia, in Romania, venne informata della svolta in atto in Italia (proclamazione dell'armistizio, trasferimento della Casa Reale e del governo da Roma in Puglia) e invitata a rimanere. Forte del suo coraggio e convinta dell'immunità di moglie del principe d'Assia proseguì per raggiungere i figli, a Roma. L'aereo predisposto per il suo trasferimento da Budapest a Bari atterrò a Pescara. Da lì Mafalda raggiunse fortunosamente la Città Eterna. Proprio il suo rango di Prinzessin agli occhi dei nazisti, ferocemente antimonarchici, era invece un'aggravante, come ricorda Frédéric Le Moal nella biografia di Vittorio Emanuele III (trad. Gorizia, LEG). Mentre il figlio maggiore, Maurizio, già in Germania, era a portata di mano di Hitler, la regina Elena lasciando Roma ne aveva affidato i minori Enrico, Otto ed Elisabetta al sostituto segretario di Stato della Santa Sede, Giambattista Montini, che però li allontanò perché sopraggiungevano nipoti suoi. Anche i principini d’Assia finirono a loro volta in Germania.
   Nella Città Eterna caduta sotto il controllo di Kappler, Mafalda finì in un tunnel senza uscite. Si fidò dei germanici sino a recarsi alla loro ambasciata ove (le era stato assicurato) sarebbe stata chiamata al telefono dal consorte Filippo. Lì, invece, fu arrestata (22 settembre 1943) e tradotta in Germania. Nel campo di Buchenwald, che aveva per insegna “A ciascuno il suo”, inizialmente fu assegnata alla stanza 9 della baracca 15. 
Quando il Re seppe.
Come centinaia di migliaia di connazionali ignari della sorte dei loro cari (dispersi, prigionieri,...), i sovrani, il principe ereditario Umberto e tutti i suoi famigliari e amici rimasero in attesa di notizie. Era prigioniera in mani studiatamente crudeli. Della sua atroce fine il 14 aprile 1945 dettero notizia i  giornali, anche con commenti inopportuni, prima che Vittorio Emanuele III ne fosse informato. Scrissero crudamente che Mafalda di Savoia-Assia era morta per le ferite riportate nel bombardamento del lager in cui era rinchiusa. L’aiutante di campo di Umberto di Piemonte, Luogotenente del Regno, ne informò subito il generale Paolo Puntoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, affinché i sovrani “non leggessero la tremenda notizia sui giornali”. Puntoni ne riferì immediatamente al Re. Nel Diario (ed. Palazzi, poi il Mulino) annotò che il sovrano “come sempre (...) non lasci(ò) trapelare alcun turbamento” e continuò la conversazione in corso con Brunoro De Buzzaccarini. Un quarto d’ora dopo, Vittorio Emanuele III s’appartò per riferirne alla Regina. Ma quell’informazione era davvero esatta? Seguirono settimane di angoscia, sino a quando il 2 maggio, proprio il giorno della fine della guerra in Italia per la resa dei tedeschi agli anglo-americani, tramite i canali informativi della Santa Sede, giunse la conferma. Quando ne ebbe certezza, il Re assunse “quell’atteggiamento che, per chi non lo conosce a fondo, può sembrare cinico; e io so – scrisse Puntoni – che egli soffre terribilmente...”.
  Liberati, come il padre, al crollo del nazismo, Maurizio ed Enrico d’Assia furono poi ripetutamente a Villa Jela, ad Alessandria d’Egitto, ove Vittorio Emanuele III prese dimora dopo la partenza dall’Italia per l’estero (9 maggio 1946). Lo ricordò l'ultimo aiutante di campo del Re, Tito Torella di Romagnano nel suo limpido memoriale “Villa Jela” (ed. Garzanti).
   Della morte della principessa (vittima della deportazione, del bombardamento anglo-americano, del probabilmente voluto ritardo nella cura delle gravissime ferite) non si doveva parlare tra fine della guerra e il referendum istituzionale poi fissato per il 2-3 giugno1946. La morte di Mafalda in campo di concentramento provava che Casa Savoia aveva duramente pagato la sua opposizione al dominio nazista. Dal settembre 1943 la Corona aveva trasformato il conflitto in lotta di liberazione. Ancora una volta, come Carlo Alberto aveva promesso a Massimo d'Azeglio, essa aveva posto a servizio della Patria la persona del sovrano, i suoi figli e i suoi beni. Eppure doveva rimanere misconosciuta la figura di Mafalda, delicata e forte a un tempo, dedita alla beneficenza al pari della madre, Elena. Per quotidiani ed emittenti radiofoniche  incitanti all’odio e al disprezzo di tanti “antifascisti” (che nei confronti della monarchia usarono gli stessi argomenti dei più fanatici “repubblichini” di Salò) la morte di Mafalda in un campo di concentramento nazista sparigliava le carte. Lo stesso valeva per la sorte della figlia minore dei sovrani, Maria, di cui ha scritto la principessa Maria Gabriella di Savoia in La vita a Corte in Casa Savoia. Né se ne poté scrivere dopo il referendum, frutto di migliaia di brogli largamente documentati in documenti mai confutati.
   Il silenzio su Mafalda coprì due altri aspetti della verità. Anzitutto la pietas di padre Herman Joseph Tyl. Questi ne riconobbe la salma, con sollecitudine la sottrasse al forno crematorio, cui era destinata, e la fece avviare a Weimar ove fu sepolta come “donna sconosciuta”. Nel lager del resto la Principessa era stata registrata sotto il nome di “frau von Weber”. Sette marinai di Gaeta internati a Weimar però ne individuarono la sepoltura e la segnarono. Fu la conferma della fraternità nel dolore, propria degli italiani. Ma anche questo doveva passare sotto silenzio, come ha ricordato Mariù Safier nella oggi introvabile biografia di Mafalda, scritta con penna lieve e ricchezza documentaria (Mafalda di Savoia Assia dal bosco dell'ombra, poi arricchita in Mafalda di Savoia Assia. Un ostaggio nelle mani di Hitler, ed. Bastogi).
 Ricomporre la Memoria
  Quasi ottant'anni dopo il cambio istituzionale del giugno 1946 la straziante sorte di Mafalda di Savoia-Assia s'impone quale parte integrante Mariu
                                                          Safier Mafalda
                                                          di Savoiadella storia dell’Italia del Novecento. I sovrani, il principe ereditario, tutta Casa Savoia portarono il lutto al braccio, come milioni di connazionali. Erano gli stessi che all’inizio del secolo avevano scommesso su un progresso civile, morale e sociale ininterrotto, senza traumi bellici. Poi però l'Italia dovette fare i conti con la Grande Guerra e nel ventennio seguente fronteggiare la grande depressione economica con l’IRI, le bonifiche, il rilancio industriale e manifatturiero, sempre nella certezza che il lavoro premia più delle avventure belliche. La concordia deve prevalere sull'odio, sull'invidia di classe, sulle falsità spacciate per storiografia, come deplora Angelo Squarti Perla nel saggio Le menzogne di chi scrive la storia, di imminente pubblicazione per la BastogiLibri.
   Quell’Italia commise vari errori, e anche gravi. Ma in una monarchia statutaria responsabile degli errori non è solo il Re (né, meno ancora, un sovrano costituzionale e “isolato” quale fu Vittorio Emanuele III) sibbene l’intera dirigenza, a cominciare dalla Camera dei deputati, dal 1919 eletta a suffragio universale maschile e quindi de cittadini che dal 1924 in poi votarono compattamente a favore del Partito nazionale fascista, anche quando divenne “partito unico”. Nessuno si oppose all'intervento in uerra del 10 giugno 1940. Osò dirlo con franchezza il principe Aimone di Savoia, duca d'Aosta. Privato della carica militare, fu a sua volta costretto all’esilio. Lo scrisse suo figlio, Amedeo di Savoia, in Cifra Reale. 
   Il ricordo della figlia del Re morta nel campo di sterminio ove s’ergeva la Goethe Eiche, la Quercia di Goethe, costituisce dunque un invito perpetuo a riflettere sulla storia d'Italia del Novecento con passione, perché si tratta di pagine dolenti, ma finalmente anche senza pregiudizi né paraocchi. Casa Savoia, ne emerge con chiarezza, fu tutt’uno con ogni altra famiglia dell’“itala gente da le molte vite”. Il martirio di Mafalda ne è appunto il suggello.
   Vanno aggiunte poche altre osservazioni. Con la Grande Guerra crollarono gli imperi di Russia, Turchia, Austria-Ungheria e Germania. Il Regno d'Italia rimase l'unica monarchia costituzionale rilevante nell'Europa di terraferma. Vittorio Emanuele continuò la “grande politica” degli avi, con il conferimento del Collare dell'Ordine della Santissima Annunziata e alleanze dinastiche. A parte le nozze della primogenita Jolanda (“Anda”) con il conte Carlo Calvi di Bergolo, nel 1925 “Muti” andò in sposa al luterano Filippo d'Assia, Filippo, che operava per traghettare la Germania dal caos postbellico verso la stabilità. La terzogenita, Giovanna, sposò  l'ortodosso Boris III, zar dei Bulgari. La Santa Sede non gradì né l'uno né l'altro matrimonio. Ma il Re, che nel 1896 aveva sposato Elena di Montenegro, di famiglia ortodossa, pensava anzitutto all'Italia nel difficile quadro europeo (l'URSS non era uno stato amico...) e alla libertà di coscienza di tutti gli italiani. Nella sua difficile opera non venne affatto aiutato dai “politici” né da altri.
  Un re vissuto in solitudine (come Vittorio Emanuele III drammaticamente fu dal 1938 in poi) è paradigma per i capi dello Stato d'Italia, talvolta “sotto assedio” anche dopo l'avvento della Repubblica.
Aldo A. Mola  

DIDASCALIA: La principessa Mafalda di Savoia (Roma, 19 novembre 1902 – Buchenwald, 28 agosto 1944), sposata con il langravio Filippo d'Assia. 
  Oltre alle biografie citate nell'articolo va ricordata quella scrittane da Cristina Siccardi e Domenico Agasso. V. anche il volume “Villa Polissena” a cura di Mariù Safier.  




VITTORIO EMANUELE III 
E LA GUERRA DI LIBERAZIONE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 17 settembre 2023 pagg. 1 e 6.
Nicola
                                                          Bellomo da
                                                          Wikipedia
Didascalia
Dalla resa senza condizioni (Cassibile, 3/8 settembre 1943) a quella dei tedeschi in Italia (Caserta, con effetto dal 2 maggio 1945) l'Italia si trovò nella tenaglia di diverse guerre: gli anglo-americani da un parte, i tedeschi dall'altra, le aspirazioni dei francesi a valicare le Alpi occidentali e possedere Valle d'Aosta e parte del Piemonte, le rivendicazioni e  l'avanzata degli jugoslavi sul confine orientale e infine la contrapposizione tra il governo del re, riconosciuto dalle Nazioni Unite, quello della Repubblica sociale e il movimento di liberazione, dalle molteplici componenti, talora subordinate a direttive di Stati in guerra contro l'Italia. Fu il caso del Partito comunista italiano.

La riorganizzazione del Regio Esercito
  In quel groviglio direttamente e indirettamente il re e il suo governo dettero impulso alla lotta di liberazione del territorio nazionale dagli occupanti germanici e dai loro alleati interni.  Lo scontro armato tra reparti del regio esercito e tedeschi iniziò il 9 settembre a Roma, nelle Puglie e in molte città dell'Italia centro-settentrionale: un ventaglio di battaglie troppo a lungo dimenticate a vantaggio della narrazione secondo la quale i primi e gli unici a combattere contro i tedeschi e i fascisti repubblicani sarebbero stati i nuclei di partigiani. Ripercorrere i “fatti” non significa certo sminuire il valore morale e anche militare delle scelte compiute dall'antifascismo, dalle prime “bande”, dalla “resistenza” e dalla “guerra partigiana” prima e dopo il sino al suo riconoscimento  da parte del governo del re. 
   Il giorno stesso del trasferimento del re, del principe ereditario, di Badoglio, del comandante Supremo Vittorio Ambrosio e dei capi di stato maggiore delle tre armi la Capitale fu teatro di conflitto tra militari e tedeschi. Tra i più coraggiosi e determinati furono i Granatieri di Sardegna,  che, anche senza “ordini superiori” si batterono per l'Italia.   
     Sempre il 9 armato il generale Nicola Bellomo, da poco al comando della piazza di Bari, guidò di persona la lotta contro circa 300 guastatori germanici per il controllo del porto e prevalse con l'aiuto del LI battaglione Allievi ufficiali bersaglieri imponendo al nemico la capitolazione e la ritirata. Lo stesso giorno iniziò a Taranto lo sbarco della I divisione inglese aerotrasportata. L'11 settembre 1943 a Barletta, il comandante della piazza Francesco Grasso affrontò i germanici, che prevalsero, lo costrinsero alla resa, trucidarono civili e ne rimasero padroni sino al 24. Nel frattempo il generale Antonio Basso, comandante delle forze italiane in Sardegna, impose ai tedeschi l'evacuazione dall'isola, con scontri e caduti da entrambe le parti, in specie nei pressi di Oristano e alla base navale della Maddalena. Di concerto con i partigiani della Corsica e poi con truppe di “Francia libera” sbarcate nell'isola il generale Giovanni Magli affrontò i tedeschi in aspri combattimenti (29 settembre-4 ottobre), costringendoli alla resa o all'imbarco verso il continente.
   
  Pochi giorni dopo l'arrivo a Brindisi sia il re sia il principe ereditario Umberto di Piemonte passarono in rassegna corpi dell'esercito. Il 18 settembre Badoglio chiese di affiancare reparti italiani contro i tedeschi, ma cozzò contro il rifiuto anglo-americano. Il 28 settembre, vigilia della notifica a Malta dell'“armistizio lungo” da parte del generale Eisenhower, fu costituito il I Raggruppamento motorizzato di 5.000 uomini agli ordini del generale Vincenzo Dapino, a fine gennaio 1944 sostituito dal generale Umberto Utili. La riorganizzazione dell'esercito fu accelerata con la dichiarazione di guerra alla Germania (13 ottobre), il riconoscimento dell'Italia quale co-belligerante. Caduto prigioniero degli inglesi in Tunisia, su sollecitazione del re (che lo aveva avuto aiutante di campo) e richiesta di Badoglio agli Alleati, il maresciallo Giovanni Messe venne rilasciato e, capo di stato maggiore generale, affiancato dal generale Paolo Berardi quale capo di stato maggiore dell'esercito, guidò la riscossa. 

Guerra di liberazione  
   A lungo è stato affermato che il re fu riluttante a dichiarare guerra contro la Germania. In una lettera “segreta” del 2 ottobre 1943 (classificata 1854/Op) fu invece il comandante supremo Ambrosio e esprimere pesanti riserva al ministro della real casa Pietro d'Acquarone. “I vantaggi degli Alleati per la nostra dichiarazione d'armistizio – egli scrisse- sono stati di per se stesso enormi. (…) Inoltre la nostra collaborazione in questo mese è stata della massima intensità (…) senza nessuna contropartita, salvo la promessa dii attenuare le condizioni di pace. La rottura delle relazioni col Giappone è da escludere. Se a noi è permesso, al massimo, di essere cobelligeranti, vuol dire che possiamo collaborare per cacciare i tedeschi dal nostro suolo, ma non abbiamo nessuna ragione di combattere i giapponesi. Per questo occorrerebbe una vera alleanza politica, che non è concessa”. Data l'estrema debolezza delle forze disponibili, la dichiarazione di guerra sarebbe stata “semplicemente platonica”. Gli anglo.americani avevano agito “senza alcun riguardo” e “generata una crisi gravissima in Italia e nei Balcani. Dobbiamo evitare che si ripeta questo passivo senza contropartita”. 
   Sin dall'incontro con Badoglio a Malta il generale Eisenhower aveva sollecitato il governo italiano a dichiarare guerra alla Germania, sia per accattivarsi l'opinione pubblica nel campo alleato, sia per tutelare i militari caduti prigionieri dei tedeschi, che, diversamente, li avrebbero trattati “da franchi tiratori e, come tali, sottoposti ad esecuzione sommaria”. Con molto realismo il “capo missione” Noel Mason Mac Farlane osservò che sarebbe stato “necessario servirsi di alcuni uomini che erano stati in passato associati con il fascismo dato che esso era durato vent'anni”. Chi non aveva avuto la tessera del PNF o non aveva tributato qualche omaggio al regime? La classe dirigente (non politica ma anche solo “ amministrativa”, di industrie, banche, aziende pubbliche e private) non si improvvisa dall'oggi al domani. Non si poteva fare nell'Italia i cui docenti universitari, tranne una dozzina, avevano giurato fedeltà al regime. Dal canto suo Badoglio dichiarò che il re intendeva “invitare i capi dei diversi partiti -cioè i partiti politici- così come si sono ora costituiti in Italia, con speciale riferimento a quelli che hanno la maggiore influenza sul popolo” e avrebbe dato al governo “un carattere liberale”. Come “militare” precisò che non si intendeva di partiti e di politici.  
   Dal settembre 1943 la ricostruzione del regio esercito fu la premessa per riaffermare l'autorità del governo nelle province di sua immediata competenza. Però il sovrano, il principe ereditario e le forze dell'ordine registravano quotidianamente la diffidenza e le soperchierie degli Alleati contro i militari italiani e la popolazione civile. Soldati inglesi, spesso “alquanto avvinazzati”, strappavano il tricolore da edifici pubblici, irrompevano in postriboli picchiando a sangue quanti vi si trovavano. Nel caffè “Roma” di Mola di Bari un inglese “alquanto brillo” sputò sul ritratto del re. Un altro infranse quello di Badoglio. Per “contenere” inglesi, autori di rapine e violenze d'ogni genere, gli alpini usarono le mani e i carabinieri le armi. Ma la prevaricazione era pressoché quotidiana. Il Comando dell'esercito ordinò pertanto che la sorveglianza sull'ordine fosse affidata a pattuglioni di otto uomini perché le pattuglie tradizionali venivano sopraffatte da militari “alleati”.
   Il 6 dicembre 1943 la regina Elena vide di persona automezzi inglesi investire intenzionalmente civili e sollecitò indennizzi (Archivio Cnetrale dello Stato,Presidenza del Consiglio dei Ministri, Governo del Sud, 1943-1944, Casa Reale).
   La lotta per la riaffermazione della sovranità nazionale era una schermaglia quotidiana. La riscossa passava anche attraverso gesti emblematici. L'11 novembre, per esempio, Badoglio ordinò ai prefetti di esporre il tricolore per festeggiare il genetliaco del re. Risalire la china impegnava sul fronte delle armi come nella vita civile. Allo scopo tra Alleati e Comando dei carabinieri si convenne la necessità di distinguere tra chi era stato fascista “per costrizione” (la tessera del partito era stata tutt'uno con quella “del pane”) e i fanatici del regime. Venne deliberata la formazione di “comitati” civici composti da un ufficiale dei carabinieri, un podestà, un magistrato, un sacerdote (“se di sicuri sentimenti”) e da alcuni cittadini “equi ed imparziali”. Il colonnello dei carabinieri Romano dalla Chiesa ricordò in un rapporto del 4 novembre che la resistenza ai militi dell'arma era “delitto grave”; al tempo stesso vietò l'uso di bombe a mano contro dimostranti. Gli alpini a loro volta svolsero importante ruolo di contenimento contro ogni forma di disordine.
   Dal Corpo Italiano di Liberazione nel luglio del 1944, dopo la liberazione di Roma e la nomina  di Umberto di Savoia a Luogotenente del Re, nacquero 6 Gruppi di Combattimento (Friuli, Cremona, Legnano, Folgore, Mantova e Piceno) per un insieme di circa 60.000 uomini. Però gli Alleati non consentirono che avessero nome di divisioni e costituissero un'Armata. Il 27 dicembre 1943 il governo dichiarò l'adesione alla Carta Atlantica del 14 agosto 1941 ma sull'Italia, malgrado la cobelligeranza, la resistenza anti-nazifascista e la guerra partigiana, continuavano a incombere le clausole della resa e le crescenti rivendicazioni di molti Stati, a cominciare da Francia, Jugoslavia e Grecia. Nel dicembre 1944, dopo lunga trattativa tra il governo e la delegazione del CLN Alta Italia, le formazioni partigiane  furono riconosciute come Corpo Volontari della Libertà agli ordini del generale Raffaele Cadorna. 
Il crepuscolo di Vittorio Emanuele III
Nel frattempo gli anglo-americani decisero la sorte di Vittorio Emanuele III, con il plauso dei partiti riconosciuti dalla Commissione alleata di controllo: democratico liberale, socialista, comunista, d'azione, democrazia cristiana, democrazia del lavoro, democratici dei lavoratori italiani, partito liberale. Il peggioramento del clima  antimonarchico venne segnalato dal ministro dell'Areonautica generale Renato Sandalli il 15 marzo 1944. Il PWB (Psychological Warfare Branch) aveva fatto cassare l'articolo “Agli ordini del loro Re” dal “Giornale dell'Aeronautica”. Il ministro avvertì che il sovrano, la monarchia in genere e il governo stesso non dovevano più essere menzionati pena la soppressione del periodico. La proibizione era motivata con la giustificazione che le “Autorità Alleate” non volevano influire sulla situazione interna italiana. Sandalli, però, aggiunse lapidariamente: “fatti del genere danneggiano la coesione morale delle FF.AA.”. Quegli stessi Alleati  non arginarono mai le rabbiose polemiche quotidiane contro il sovrano, la Casa di Savoia e dell'idea di monarchia da parte dei fautori della repubblica, nei giornali e nei “comizi”. Erano tempi nei quali ai militari, ai dirigenti, funzionari e pubblici impiegati veniva impartita l'amara direttiva: nei contrasti con gli Alleati gli italiani avevano torto anche quando avevano ragione.
Pochi giorni prima del convegno ciellenistico di Bari (26-28 gennaio 1944), che sotto il profilo istituzionale era un sodalizio privato, Vittorio Emanuele III consegnò il suo programma al capo della Missione alleata Noel Mason-Mac Farlane. Vi riprese molti spunti del verbale della conferenza di Malta tra Eisenhower e Badoglio. Il governo in carica sarebbe rimasto in esercizio sino alla liberazione di Roma; a quel punto sarebbe stato formato un ministero con rappresentanti di partiti ed entro quattro mesi sarebbe stata eletta la Camera dei deputati. Il Parlamento avrebbe discusso ed eventualmente riformato le istituzioni “anche totalmente”. Non escludeva, quindi, il cambio istituzionale. Il paese sarebbe stato consultato (referendum confermativo, dunque) e la Corona avrebbe seguito la volontà della nazione. Era l’unica via compatibile con lo Statuto. Il re, però, non fece i conti col fatto che gli anglo-americani non avevano alcuna fretta di arrivare a Roma. A Ravello, per esempio, i loro ufficiali gozzovigliavano giorno e notte, come annotava scandalizzato il generale Puntoni. Non solo. Militari inglesi a Caserta “demolivano nicchie cadaveri et asportavano teschi poggiandoli banchi scuola et collocandone uno sulla testa statua” (Rapporto del comandante dei carabinieri Giuseppe Pièche, 28 maggio 1944, in ACS).
La Luogotenenza del regno
All’inizio dell’aprile 1944 De Nicola escogitò la proposta atta a mettere d’accordo CLN, governo e Alleati: il passaggio dei poteri da Vittorio Emanuele III al principe di Piemonte quale luogotenente. Essa fu diramata ai giornali prima che il re ne fosse informato. Fu messo dinnanzi ai “fatti compiuti”. Dopo travagli vari il sovrano accettò di trasmettere le prerogative della Corona, ma in Roma, quando fosse stata liberata. A Puntoni re Vittorio tracciò un bilancio di quanto fosse “difficile e pesante il mestiere del re”: il “brut fardèl” consegnato da Vittorio Emanuele II a Umberto I. “Solo mio nonno ne è uscito bene” egli confidò. “Carlo Alberto dovette abdicare, mio padre fu assassinato. Non avevo nessuna intenzione di succedere a mio padre e l’avevo quasi convinto ad accogliere il mio progetto di rinunciare alla Corona. Ma fu ucciso e io, in quell’ora tragica, non potei rifiutarmi di salire sul trono. Se l’avessi fatto avrebbero detto che ero un vile.”  
  Pochi giorni dopo Badoglio varò il nuovo governo, con la partecipazione dei partiti del CLN (22 aprile - 18 giugno 1944). A cospetto di Vittorio Emanuele III i ministri giurarono “sul proprio onore”. Poteva il re imporre loro di usare la formula statutaria? Fra di essi vi erano Togliatti, Sforza, Giulio Rodinò di Miglione, Adolfo Omodeo (che da ministro della Pubblica istruzione epurò una quantità di galantuomini), Alberto Tarchiani, Fausto Gullo...: tutti repubblicani accesi e talvolta chiassosi. Il 5 giugno si consumò l’ennesimo sgarbo nei confronti di Vittorio Emanuele III da parte del “suo” governo. Con pretesti risibili (compresa la transitabilità delle strade), gli venne negato di raggiungere Roma per celebrarvi il trasferimento di “tutte le prerogative Regie, nessuna eccettuata” al principe ereditario in veste di suo luogotenente. Che era quindi “del re”, non “del regno”. I primi a non rispettare la promessa “tregua istituzionale” furono anzitutto i ministri, che, a differenza del sovrano e del luogotenente, avevano il sostegno degli Alleati.

Il linciaggio di Donato Carretta: una pagina orrenda dell'Italia liberata
Quale fosse il clima dominante nell'Italia liberata fu chiaro il 18 settembre 1944 nell'aula della Corte di Assise di Roma. Riunito in alta corte di giustizia il tribunale doveva giudicare l'ex questore Pietro Caruso e il suo segretario Roberto Occhetto, accusati di aver consegnato ottanta prigionieri politici ai nazisti per la rappresaglia in risposta all'attentato di via Rasella. Il processo richiamò l'attenzione internazionale. Il colonnello Pollock e il tenente Atkinson capitanavano la polizia militare, presente in aula anche a tutela di quanti filmavano l'evento, destinato all'opinione pubblica internazionale a prova del cammino democratico dell'Italia liberata. La folla irruppe nell'aula chiedendo di avere in pasto i due imputati “per farli a pezzi”. Per sua sventura, spinto dalla canea, vi finì anche Donato Carretta, vicedirettore del carcere di Regina Coeli, noto per mitezza, comprensione e speciale attenzione proprio nei riguardi dei politici detenuti. Individuato, fu percosso. Fatto uscire dall'aula, venne picchiato. Rifugiato in un'automobile grazie a carabinieri e a vigili urbani, ne venne estratto. Fu gettato sui binari del tram in attesa che la prima vettura in arrivo lo schiacciasse. Il conducente arrestò il mezzo. Rischiò di essere aggredito. La scampò esibendo la tessera del partito comunista. La folla riprese il corpo sanguinante di Carretta, lo martoriò e lo gettò a Tevere dalla spalletta di Ponte Umberto. Riavutosi, lo sventurato tentò di nuotare verso l'altra riva ma fu raggiunto e finito a colpi di remo da tre energumeni. Riportato in strada, il cadavere venne trascinato dal Lungotevere Sant'Angelo a Regina Coeli, contro il cui portone fu scaraventato e poi appeso a testa in giù all'inferriata di destra, sotto gli occhi dei suoi familiari.
  Carlo Sforza, sedicente conte, dichiarò di capire perfettamente che “scene di quel genere” potessero aver luogo. Però il linciaggio di Donato Carretta non fu una “scena” ma un crimine. Nessuno si premurò di identificarne e perseguire i colpevoli. Era una “prova generale” della “giustizia plebea” poi evocata e minacciata da Togliatti in consiglio dei ministri all'indomani del referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946 se quella dei codici non avesse risposto alle attese delle “masse”, cioè dei partiti rivoluzionari. Con abile spregiudicatezza Togliatti ventilò la minaccia di aprire i conti della storia a carico di quanti avevano a suo tempo favorito l'avvento del governo Mussolini e concorso ad avviare verso i regime. Che cosa dire degli eredi del partito popolare italiano che ne aveva fatto parte con ministri e sottosegretari, incluso Giovanni Gronchi. E dei “liberali”? De Gasperi capì...
 L'unica via per scansare la gogna era associarsi alla lotta senza quartiere contro la monarchia e i suoi sostenitori e oscurare la verità, come fece Luigi Salvatorelli nel libello “Casa Savoia nella storia d'Italia” in cui affermò che Vittorio Emanuele II era “responsabile moralmente, politicamente e legalmente di tutti i misfatti del fascismo”, contrapposto al “popolo”, innocente e operoso. Di lì la sua damnatio memoriae perpetua.                                                                                                                                        
   Un panorama dei combattimenti degli italiani contro i tedeschi dal 9 settembre in coerenza con la direttiva del governo Badoglio v. Pier Carlo Sommo-Alberto Turinetti di Priero (a cura di), “1943-1945. Dai Gruppi di Combattimento al nuovo Esercito Italiano”, “quaderno”  della Mostra  di uguale titolo, Torino, Anarti, 1922. Lo stato d'animo di un ufficiale della Divisione Granateri di Sardegna che combatté 40 ore consecutive alle per “obbedire alle sacre leggi della Patria” e impedire l'irruzione dei germanici nel cuore della Capitale (dall'estrema periferia a Porta San Paolo e al Colosseo) v. l'esemplare “memoria” di Luigi Franceschini, “Cinquanta anni dopo”, www.granatierdisardegna.it 

DIDASCALIA: Il generale Nicola Bellomo (Bari,2 febbraio 1881-Nisida,11 settembre 1945), decorato della Grande Guerra nel settembre 1945  cacciò i tedeschi dal porto di Bari. Arrestato dagli inglesi il 28 gennaio 1944 per presunto crimine di guerra ai danni di loro prigionieri, fu condannato a morte da un tribunale speciale britannico e fucilato.Lo Stato d'Italia gli conferì la Medaglia d'Argento al Valor Militare.
VITTORIO EMANUELE III: 
DA PROTAGONISTA A RE ISOLATO

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 10 settembre 2023 pagg. 1 e 6.
Didascalia
9 settembre 1943: quando Vittorio Emanuele III salvò lo Stato
Il trasferimento del governo e dei Reali da Roma a Brindisi via Pescara il 9 settembre 1943 fu e rimane oggetto di valutazioni contrastanti, spesso condizionate da fattori ideologici e dall'inclinazione ad addebitare alla Corona, anziché al governo, il collasso delle forze armate. Pesò la disputa, anche giudiziaria, sulla cosiddetta “mancata difesa di Roma” e l'insinuazione di quanti, come il giornalista Ruggero Zangrandi, asserirono che tra Badoglio e i tedeschi sarebbe corsa un baratto segreto per permettere il deflusso della colonna di autovetture da Roma verso la costa adriatica. In realtà il 9 settembre il maresciallo Albert Kesselring non aveva deciso se ordinare o meno la ritirata delle divisioni germaniche dalle regioni meridionali. Dopo il 10 settembre puntò a riorganizzare a proprio vantaggio i militari italiani premendo sul maresciallo Ugo Cavallero, “suicidato” presso il comando tedesco a Frascati proprio perché rifiutò di assumere la guida di un esercito anti-monarchico. Come lui, anche Kesserling sapeva che la Corona costituiva il punto di riferimento dei militari che avevano giuramento fedeltà al re. La nascente Repubblica sociale italiana, tenuta a balia dai germanici, a sua volta puntò sulle categorie dell'onore e della fedeltà. Contro le sue attese esse rimasero cardini di tanti soldati, anche “sbandati”, come poi degli Internati Militari Italiani in Germania, che infatti aderirono alla RSI in misura modesta e più per rientrare comunque in Italia che per fiducia nel nuovo regime mussoliniano, come documenta il volume di Avagliano e Palmieri (il Mulino, 2020).
 Con il passaggio da Roma a Brindisi il re non salvò la “sua” Corona ma lo Stato: unico interlocutore delle Nazioni Unite. Col realismo di chi conosceva novecentocinquant’anni di storia della Casa, costellata di glorie e di tracolli, Vittorio Emanuele III prese atto che la guerra era perduta, accettò l'armistizio e fece in modo che la sconfitta divenisse premessa per la riscossa. L’Italia era caduta.  Però grazie alla sua iniziativa cadde sul fianco meno doloroso: a Occidente.
 Nei “quarantacinque giorni” tra il 25 luglio e l'8 settembre, che poi furono meno di trenta se si contano dalla decisione di chiedere la “concessione” della resa, ancora una volta il re fu lasciato solo dai “politici”. Era già era accaduto nel 1922 e dal 1924. Dopo il 25 luglio 1943, come vantò Ivanoe Bonomi in Diario di un anno, i rappresentanti dei partiti antifascisti moderati in via di riorganizzazione (i democristiani De Gasperi, Spataro, Gronchi; i liberali Casati e Bergamini; Ruini, Della Torretta e Bonomi stesso per la Democrazia del lavoro) decisero di astenersi da ogni collaborazione con il governo Badoglio. Proprio De Gasperi spiegò che sarebbe stato un errore compartecipare alla “partita passiva”, cioè alla conclusione dell’armistizio. Poiché la resa avrebbe creato “responsabilità penose per i suoi negoziatori” era meglio farla cadere interamente ed esclusivamente sulle spalle di Vittorio Emanuele III. Comunisti, socialisti e partito d’azione, fondato nell’estate 1942, erano sic et simpliciter per l’abolizione della monarchia. 
Che cosa avrebbe dunque potuto fare il re di diverso rispetto a ciò che fece? Attendere a Roma l’avanzata degli anglo-americani? Nello sbarco a Salerno, questi vennero inchiodati dalla ferma reazione germanica. Subirono perdite elevatissime e capirono che i tedeschi non erano affatto rassegnati a ritirarsi se non combattendo. Gli alleati risalirono la penisola lento pede, cozzando contro tutte le “difese inerti” (catene montuose, fiumi, carenza di rotabili e di ferrovie...) e rimasero bloccati per mesi dinnanzi a Montecassino, la cui Abbazia fu completamente distrutta da bombardamenti inglesi con inflisse un duro colpo all’immagine dei “liberatori”, già fortemente vulnerata dalla loro condotta dei militari a Napoli e poi dei marocchini francs-tireurs “francesi”. Era dai tempi del bizantino Belisario che nessuno si era proposto di conquistare l’Italia via terra anziché “per manovra”, come ormai si poteva fare con sbarchi sulle coste e supporto aereo.
Il Principe ereditario doveva rimanere a Roma?
Che cosa avrebbe dovuto fare il principe Umberto di Piemonte? Come militare doveva ubbidire agli ordini del capo del governo. Quale erede della Corona  doveva attenersi a quelli non meno perentori del padre. Anziché seguire Badoglio e il sovrano, avrebbe dovuto/potuto rimanere a Roma o in clandestinità nei suoi pressi per guidarvi la resistenza. Dove e come avrebbe posto base? Avrebbe dovuto fare quotidianamente conto con l'ostilità della maggior parte degli antifascisti antimonarchici nei confronti dei quali i moderati, militari a parte, furono sempre succubi. Proprio la sorte dei militari risulta emblematica. Fu il caso del colonnello Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo (Roma, 1901-1944) e delle decine di collaboratori del Fronte militare clandestino, talora catturati su delazione, ferocemente seviziati, rinchiusi nel carcere di Regina Coeli e poi assassinati alle Fosse Ardeatine nella rappresaglia eseguita da Kappler su ordine perentorio di Hitler in risposta all’attentato di via Rasella (23 marzo). Vi vennero sterminati quasi al completo i dirigenti monarchici e dell’estrema non comunista (“Bandiera Rossa”), oltre a ebrei, una ventina di massoni (tra i quali Placido Martini, gran maestro designato) e a detenuti del tutto apolitici. In alternativa, rimanendo a Roma e sempre che fosse riuscito a sfuggire alla prigionia a differenza di quanto accadde alla sorella, Mafalda (catturata dai tedeschi con un inganno e deportata in Germania, ove morì in campo di concentramento), e a Francesca Maria, (a sua volta “internata”), il principe ereditario avrebbe potuto/dovuto rifugiarsi nei Sacri Palazzi, come il generale Bencivenga (massone), Soleri (temporaneamente) e altri molti? Per farci che cosa?
La storia della “Resistenza Monarchica”, alla quale hanno dedicato pagine documentate Domenico De Napoli, Francesco Garzilli, Marco Grandi e per il cui studio rimangono fondamentali le memorie di Edgardo Sogno, fondatore della organizzazione partigiana “Franchi”, e quelle di Alfredo Pizzoni, presidente del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, insegna ad abundantiam che per i militari rimasti in armi contro i tedeschi non esistevano “santuari”. Fu la sorte del generale Giuseppe Perotti, capo del comando militare del CLN Piemonte, arrestato, torturato, condannato a morte (alla lettura della sentenza ordinò ai coimputati: “Signori ufficiali, in piedi. Viva l'Italia!”), e di tante “missioni” paracadutate nelle zone prevalentemente controllate da formazioni comuniste. Risultano generose fantasie le pretese di quanti ritengono che il principe avrebbe dovuto farsi paracadutare al Nord per prendere la guida di formazioni partigiane.
La sicurezza delle residenze sabaude prima e dopo il 25 luglio
Nell'Italia centro-settentrionale persino le residenze sabaude non erano mai state del tutto inviolabili. La loro sicurezza aveva costituito motivo di preoccupazione per il primo aiutante di campo del re da molto prima della guerra, per il ripetersi di minacce e di tentativi d’attentato di cui i giornali ovviamente non parlarono, ma sono copiosamente documentati nelle carte dell'Archivio Centrale dello Stato. Non era sicuro neppure il Palazzo Reale di Torino. Per esempio, il primo aiutante di campo del principe di Piemonte, generale Clerici, il 29 marzo 1931 informò il pari grado del re che il servizio di guardia aveva rinvenuto sotto il portico della piazzetta reale antistante piazza San Giovanni “un pacco avvolto in un giornale” alla base di una colonna. Due agenti di pubblica sicurezza lo svolsero e non tardarono a scoprire che si trattava di ordigno esplosivo a orologeria, rapidamente portato lontano da persone e fabbricati ed esploso alle 6 e 18 mattutine. Era un “tentativo terroristico, anziché un vero e proprio attentato” conclusero gli inquirenti. Il colonnello comandante la divisione di Torino dei Reali Carabinieri dispose pertanto misure di  sorveglianza: pattuglie fisse e campanelli elettrici nelle garitte del giardino reale per consentire ai carabinieri in servizio l’immediata richiesta di soccorsi. Due anni dopo, un furto di galline nel giardino fece constatare quanto fosse agevole introdursi nella residenza reale. “Poiché le condizioni del bilancio non consentono assolutamente di affrontare la spesa di lire Diecimila (...) per collocare lungo il muro un dispositivo di allarme”, si propose una “semplice intensificazione del servizio di vigilanza”, ma, in  carenza di uomini, si optò per la riduzione dell’abbondante vegetazione contro muro, al fine di scoraggiarne lo scavalcamento abusivo. Per garantire la sicurezza del sovrano bastava potare le siepi? 
 Se tali “incidenti” si ripetevano in tempi “normali”, molto più allarmante fu l’irruzione di militari tedeschi nella tenuta di San Rossore (Pisa), verificatasi il 29 luglio 1943, quattro giorni dopo il fermo di Mussolini e mentre l'Italia “continuava la guerra” a fianco della Germania. Dapprima venne sospettato l’approdo di mezzi anfibi, poi vi planarono due aerei “di nazionalità tedesca tipo S. S. L. U. (Cicogna)”, atterrati e ripartiti prima che sopraggiungessero le guardie di vigilanza. Alle 20 e 30 dello stesso giorno un altro aereo tedesco atterrò e decollò in pochi minuti. Identificato, l’equipaggio accampò avarie. Ma il 12 settembre le SS di Otto Skorzeny mostrarono che cosa si potesse fare con un aereo di quel genere, prelevando Mussolini da Campo Imperatore sul Gran Sasso. Infine quattro ufficiali a bordo di auto dalla targa debitamente annotata forzarono agevolmente il blocco dell'unico carabiniere di guardia a uno degl’ingressi di San Rossore e perlustrarono la tenuta. E si era solo a fine luglio, non dopo l’8 settembre. Sin dal 15 giugno, del resto, il comandante della direzione generale trasporti dello stato maggiore dell’esercito informò l'aiutante di campo del Re, Paolo Puntoni, che era stato interdetto il transito e lo scarico di convogli germanici negli scali di Pisa e di San Rossore, nonché la “sosta” di treni e carri contenenti carburanti ed esplosivi. Ormai ci si preparava alla resa dei conti con l'ex alleato. Molto di più si potrebbe sapere se parte del carteggio riservatissimo del primo aiutante non fosse stato “ritirato” per ignota destinazione dal Servizio Informazioni Militari (SIM) il 25 luglio 1946, dopo la partenza di Umberto II dall'Italia. 
La Corona sotto assedio
Il 29 settembre Badoglio sottoscrisse a Malta il cosiddetto “armistizio lungo” (44 punti contro i 12 di Cassibile), duramente peggiorativo delle già pesanti condizioni imposte il 3 settembre. Secondo H. Hardy Butcher, Eisenhower “non volle firmare l’atto conclusivo di quello che aveva definito un crooked deal, uno sporco affare”. Tale “strumento di resa” risultò talmente lesivo per l'Italia che, subentrato a Badoglio a capo del governo, Bonomi chiese rimanesse segreto. La sua propalazione avrebbe avvilito i militari del regio esercito, sconcertato i partigiani nelle regioni del centro-nord e fornito argomenti alla Repubblica sociale italiana.
  Dal 12 settembre 1943 la monarchia dovette fare i conti con tre insidie concatenate. Prelevato da Campo Imperatore sul Gran Sasso d’Italia ove era sotto labile sorveglianza e trasferito in Germania, Mussolini accettò di assumere la guida dello “Stato repubblicano d'Italia”, poi Repubblica sociale italiana: ove l'Italia da sostantivo retrocesse ad aggettivo (e tale rimane). Accettò, anche per attutire la rappresaglia germanica e propiziare la continuità amministrativa delle regioni comunque occupate dai tedeschi. Il 18 il duce tenne alla radio un discorso “di eccezionale violenza contro il re e Badoglio”. Giorno dopo giorno rovesciò valanghe di recriminazioni contro la monarchia, accusata di aver profittato degli unici veri protagonisti del Risorgimento: Mazzini, Pisacane, la Sinistra storica...: argomenti usati anche dagli antifascisti antimonarchici. 
Il secondo avversario della Corona, come accennato, fu il Comitato centrale di liberazione nazionale che, riunito in clandestinità, disconobbe il governo Badoglio, non rappresentativo dei partiti antifascisti, lo accusò di aver abbandonato Roma nelle mani dei tedeschi e deliberò unilateralmente di “deferire al libero voto del popolo (quindi a plebiscito, o come poi si disse a referendum, NdA), convocato al cessare delle ostilità, la decisione sul problema istituzionale” (5 ottobre 1943).
In terzo luogo dovette fare i conti con gli americani, che premevano per l’abdicazione del sovrano senza valutarne le ripercussioni sia nell'Italia centro-settentrionale, sia nelle regioni già libere da occupazione germanica e sul corso di una guerra dalla durata imprevedibile, nel cui corso avevano bisogno della collaborazione dell'unico Stato dItalia esistente: il regno. Il disorientamento dilagava anche in ambienti moderati. Sotto la data 17-22 dicembre Bonomi annotò nel Diario l' “atteggiamento dei liberali”, comunicatogli da Nicolò Carandini. Se il re si fosse ostinato “a restare” avrebbero accettato “anche la situazione rivoluzionaria”. Per “lasciare aperta la possibilità di difendere eventualmente il principio monarchico nella futura costituente” i liberali volevano “una monarchia pulita e non un cencio sporco come l'attuale sovrano”. 
 Il re prevedeva tali insidie. Dovette però fare i conti con una quarta minaccia, più grave e pericolosa perché arrivava dall’interno del mondo sul quale aveva ritenuto di far leva, non nell’interesse personale ma dello Stato. Il 24 ottobre Badoglio si fece tramite dei “precisi intendimenti” dei partiti antifascisti animati, tra altri, da Carlo Sforza (senatore e Collare della SS. Annunziata). Rientrato dagli Stati Uniti “pieno di rancore e di ambizione”, questi agiva di concerto con democristiani napoletani (Giulio di Rodinò e Angelo Raffaele Jervolino) e persino con liberali. A loro inderogabile avviso il re doveva abdicare subito; il principe ereditario doveva rinunciare alla successione e passare la corona al nipote, Vittorio Emanuele principe di Napoli, di soli sette anni e quindi vegliato da un reggente, nella persona di Badoglio stesso. Il rifiuto, aggiunse il maresciallo, avrebbe portato alla caduta della monarchia.
La proposta era statutariamente irricevibile. Il re la respinse, sdegnato. Il reggente era previsto dallo Statuto solo “durante la minore età del Re”. In caso di passaggio della corona a Vittorio Emanuele, principe di Napoli, nato nel 1937, la reggenza andava conferita al prossimo parente maschio (il duca Aimone d’Aosta, il conte di Torino o un altro principe sabaudo) oppure alla regina madre, Maria José, che però era in Svizzera con i figli, sempre a rischio di colpi di mano da parte dei nazisti. Solo in mancanza di qualunque erede dinastico le Camere, “convocate entro dieci giorni dai ministri” avrebbero nominato il reggente. Sennonché lo scioglimento della Camera voluta da Badoglio e l'impossibilità di convocare il Senato per cause di forza maggiore avevano paralizzato il Parlamento. Secondo l'articolo 16 dello Statuto le disposizioni relative alla reggenza erano “applicabili al caso in cui il re maggiore si trovi nella fisica impossibilità di regnare”. In un paese allo sbando Vittorio Emanuele III tutto era tranne che “fisicamente impedito”. Infine, quando pure avesse deciso di abdicare, avrebbe potuto farlo per sé, non per il figlio.
Badoglio fece persino approntare una curiosa serie di francobolli del valore di 50 centesimi. La sua firma vi sovrastava dal basso in alto la Lupa di Roma. Stampati dalla tipografia Richter di Napoli sulla fine del 1943, non vennero mai “emessi”. Già una volta il maresciallo ci aveva provato: nel 1929, quando “firmò” un francobollo da 50 centesimi con effigie di Vittorio Emanuele III. La sovrastampa fu eseguita dallo stabilimento Raimondi di Napoli sotto sorveglianza della direzione delle Poste e telegrafi di Napoli. Già allora ne fu vietata l’emissione. D’altronde il maresciallo non era il solo a cercar di mettere la “firma” sull’Italia. Anche Benedetto Croce fece la sua parte. Per i giorni 27 e 28 gennaio 1944 venne indetto a Bari un convegno dei Comitati di liberazione nazionale. Il 7 gennaio Sforza dichiarò a De Nicola, senatore exurgens e flammis del lungo sonno attraverso il regime, di essere disposto a trangugiare una luogotenenza del “sovrano fellone”, ma non a favore di Umberto. “Escluso naturalmente anche l’ex re nazifascista di Croazia”, cioè Aimone duca d'Aosta, aggiunse Sforza, “ogni altro principe p(oteva) essere accettato sia come reggente, sia come luogotenente”. Al congresso di Bari Croce sferrò un durissimo attacco alla persona di Vittorio Emanuele III, intimandone l’abdicazione immediata. L’8 maggio, quando ormai tutto era consumato, in una postilla a futura memoria, il filosofo rivendicò direttamente e primariamente a se stesso 1’“eliminazione del re” di cui Sforza menava vanto: operazione alla quale egli lavorò “in segreto, e diplomaticamente, con De Nicola”. Scrivendo di sé in terza persona aggiunse: “Croce confessa e conferma di non essere dal suo passato preparato a governare il suo paese, ma non si sente privo di buon senso pratico...”. In quegli stessi giorni, però, rientrato da Mosca via Algeri, Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano, preparò l'offensiva politico-culturale contro di lui, tanto da metterlo nella mortificante condizione di non ripresentarsi in consiglio dei ministri, adducendo la fatica del viaggio. 
  Malgrado tutte le difficoltà e ostilità da Brindisi temporaneamente “capitale del regno”, Vittorio Emanuele III dette impulso alla lotta di liberazione, in atto, come si dirà, sin dallo stesso 9 settembre 1943 
 
DIDASCALIA Vittorio Emanuele III passa in rassegna un reparto del Regio Esercito in riorganizzazione (Trani, settembre 1943). Sulla ricostituzione delle Forze Armate dopo la resa di Cassibile  v. tra i molti AA. AA., “Otto settembre 1943” , Atti del Convegno di studi di Milano, 8 settembre 1983,  a cura di Aldo A. Mola, Ministero della Difesa, 1985. 

 

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 27 agosto 2023 pagg. 1 e 6.

Didascalia

Il Re fuggiasco?

Il Quaderno n. 4157 di “La Civiltà Cattolica” invita all'ascolto di un podcast sull'8 settembre 1943 e le sue conseguenze. “Dopo aver proclamato l'armistizio – scrive il quindicinale della Compagnia di Gesù – il generale Pietro Badoglio fuggì da Roma insieme a Vittorio Emanuele III alla volta di Brindisi, in Puglia”. All'opposto, aggiunge, benché consapevole di essere bersaglio di Adolf Hitler, Pio XII non si mosse e si prodigò a favore della popolazione. Con tutta la deferenza che si deve alla “più antica rivista in lingua italiana”, l'affermazione è errata e la comparazione tra la condotta del re e quella del papa è improponibile. Sovrano della Città del Vaticano, il Vicario era sommo pontefice della Chiesa cattolica: inviolabile. Vittorio Emanuele III era re di uno Stato in guerra coi tedeschi, ormai nemici, in casa e senza sostegno militare da parte dei vincitori decisi a cancellare l'Italia dal novero delle potenze. Non fuggì affatto. Si trasferì all'interno del territorio nazionale per esercitare i poteri della Corona e salvare la continuità dello Stato.

   Per comprenderlo occorre ricordare in quali circostanze e con quali ripercussioni si arrivò alla “resa incondizionata”, altra e peggiore cosa rispetto a un “armistizio”, che è frutto di trattativa. Come noto, di propria iniziativa e con la collaborazione efficace di una ristretta cerchia di militari, alle 17 del 25 luglio 1943 il re revocò Benito Mussolini e lo sostituì con il maresciallo Pietro Badoglio. “Fermato” (non “arrestato”) dai carabinieri, il duce scrisse a Badoglio di essere pronto a collaborare.

   Nel volgere di pochi giorni il nuovo governo smantellò il regime. Sciolse il Partito nazionale fascista e il Gran consiglio del fascismo e impose alla Milizia volontaria di sicurezza nazionale di sostituire i fasci con le stellette. A quel modo evidenziò di non dovere nulla ai gerarchi che avevano approvato l'ordine del giorno approntato da Dino Grandi, Giuseppe Bottai, Luigi Federzoni, convinti di ridimensionare Mussolini senza rinunciare al proprio ruolo.

   La svolta del 25 luglio fu la premessa di tre obiettivi concatenati: mostrare che l'Italia si liberava dal fascismo, uscire dalla guerra, manifestamente perduta, e arginare la prevista “vendetta” della Germania. Con i suoi mezzi il governo poteva attuare solo il primo dei tre obiettivi. Gli altri due erano nelle mani degli anglo-americani e di Hitler. La defascistizzazione venne facilitata vietando ogni manifestazione di partito. In un paese in guerra occorreva scongiurare insorgenze di fascisti e di avversari della monarchia.

Resa: un ultimatum

 Salvaguardato l'ordine interno, Vittorio Emanuele III autorizzò la ricerca del contatto con il Comando alleato per stipulare la fine delle ostilità. Tra le molte “testimonianze” spicca il “Diario” del generale Giuseppe Castellano, militare di piena fiducia del re. Dopo complessi preparativi e scartate altre opzioni, il 12 agosto Castellano partì in treno per Lisbona sotto il falso nome di “Raimondi”. Poiché non conosceva l'inglese fu accompagnato dal console Franco Montanari. Il 15 agosto fece tappa a Madrid ove si fece ricevere dall'ambasciatore inglese Samuel Hoare, che dal 1917 era stato nel servizio segreto militare britannico a Roma, aveva simpatia per l'Italia e propiziò la sua missione. Giunto a Lisbona la sera del 16, Castellano prese contatto con il Comando anglo-americano. La mattina del 19 agosto l'ambasciatore inglese Campbell lo invitò a colloquio per le 22:30. Castellano si trovò dinnanzi l'incaricato d'affari George Kennan e il generale Smith, rappresentanti di Eisenhower, comandante alleato nel Mediterraneo, e il brigadiere britannico Strong. Nessuno gli tese la mano. Smith gli lesse i termini della resa imposta dagli Alleati all'Italia e una pagina con le decisioni del presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt, e del premier britannico, Winston Churchill. L'Italia doveva rispondere a Londra e ad Algeri, sede del Quartier generale alleato, entro e non oltre il 30 agosto.

   Nella lunga conferenza di Quebec il 18 agosto gli anglo-americani stilarono la Dichiarazione sulle condizioni della “cessazione delle ostilità” da parte dell'Italia. Essa prospettò una modifica migliorativa delle condizioni della resa in misura “dell'apporto dato dal governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra”. Con la Dichiarazione gli anglo-americani introdussero un soggetto nuovo accanto (ma non alternativo o antagonista) rispetto al regio governo: il popolo italiano.

   Castellano tornò a Roma con il testo della “resa”: dodici “condizioni” su vari aspetti collaterali alla “cessazione immediata di ogni attività ostile da parte delle Forze Armate italiane”. Quelle fondamentali erano le ultime tre. “In cauda venenum...”.Vanno rilette: “Il Comandante in capo delle Forze alleate si riserva il diritto di prendere qualsiasi misura che egli ritenga necessaria per la protezione delle Forze Alleate per la prosecuzione della guerra, e il governo italiano si impegna a prendere quelle misure amministrative o di altro carattere che potranno essere richieste dal Comandante in capo, e in particolare il Comandante in capo stabilirà un governo militare alleato in quelle parti del territorio italiano ove egli lo riterrà necessario nell'interesse militare delle Nazioni alleate”. Era riconosciuta la sovranità del re e del suo governo. Al di là dell'undicesima condizione (“Il Comandante in capo delle Forze alleate avrà pieno diritto di imporre misure di disarmo, di smobilitazione e di smilitarizzazione”) la dodicesima lasciava però intravvedere il baratro:“Altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario che l'Italia dovrà impegnarsi ad eseguire saranno trasmesse in seguito”.

   Le “altre condizioni” non furono comunicate a Castellano ma al generale Giacomo Zanussi, inviato a Lisbona da Roma in carenza di notizie da e su “Raimondi”. Sotto la data del 29 agosto Castellano annotò che “su suggerimento di Acquarone il re sembra pronto ad accettare i termini dell'armistizio”. Dopo giorni convulsi e ripetuti contatti e viaggi da Roma alla Sicilia e ritorno, il 3 settembre il generale di brigata Castellano sottoscrisse a Cassibile “per il Maresciallo Pietro Badoglio, capo del governo italiano” le condizioni presentate dal maggior generale Walter B. Smith per il Comandante in capo delle Forze alleate Dwight D. Eisenhower e illustrate dal generale Harold Alexander, come recita il processo verbale. Alla firma, suggellata dalla cordiale stretta di mano tra il Comandante e Castellano, presenziarono Harold McMillan, ministro residente britannico presso il Quartier generale alleato ad Algeri; Robert Murphy, rappresentante personale del presidente degli USA; Royer Dick, commodoro della Reale marina britannica, capo di stato maggiore del Comandante in capo del Mediterraneo; Lowell W. Rooks, maggior generale dell'esercito USA, sottocapo di stato maggior presso il Quartier generale delle Forze alleate; il brigdiere Kenneth Strong, sottocapo di stato maggiore generale presso il Quartier generale delle Forze alleate e Franco Montanari, interprete ufficiale italiano.

   Nel corso della riunione furono a lungo discusse l'azione degli italiani contro i tedeschi all'annuncio della resa e le numerose richieste navali anglo-americane. I presenti misero nel conto che Vittorio Emanuele III e Badoglio potessero cadere prigionieri dei tedeschi. Pertanto Alexander chiese che il re e Badoglio registrassero su disco la proclamazione dell'“armistizio” e che copia della registrazione fosse consegnata agli Alleati, “sicché in caso di emergenza si potrebbe fare l'annuncio”. Proprio per fronteggiare quella emergenza, precisò Castellano, il generale Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore generale, progettava di lasciare Roma, per tenersi pronto annunciare la resa anche da una emittente fuori Roma. Il “disco” con la registrazione sarebbe stata recata personalmente alla sede Eiar di Torino dal generale Ambrosio nel suo altrimenti inspiegabile viaggio proprio nell'imminenza dell’annuncio stesso.

   Il verbale della riunione di Cassibile mette a nudo la curiosa “visione” di quanti intendevano impartire lezioni di incivilimento agli italiani. Alexander si dichiarò convinto che “gli italiani dovevano combattere per il loro paese. I contadini italiani armati (da chi? NdA) combatterebbero bravamente con la guerriglia organizzata” e che “non si doveva rimandare nessuna opportunità di uccidere i tedeschi”. Pensava inoltre che i “sindacati operai” avrebbero potuto bloccare o facilitare il transito ferroviario, secondo necessità. Probabilmente vedeva l'Italia come una delle “colonie” di cui aveva cognizione. Castellano non lo assecondò.

   Tra le questioni non secondarie affrontate a Cassibile vi furono il giorno e l'ora dell'annuncio della “cessazione delle ostilità”. Al riguardo gli interlocutori di Castellano furono evasivi. Dissero che l’annuncio sarebbe stato dato da Eisenhower alle 18:15 e da Roma alle 18:30, senza però precisare la data. Castellano replicò quanto aveva già chiarito a Lisbona. “Un preavviso di poche ore del giorno D era insufficiente. Gli occorreva un preavviso di parecchi giorni”. Non parlava inglese ma aveva idee molto chiare. Alexander replicò che “non poteva rischiare perdita di sicurezza” e non rivelò dove e quando sarebbe avvenuto lo sbarco anglo-americano sulla costa tirrenica dell'Italia.

   A conclusione dell'incontro Castellano fu trattenuto a Cassibile con la promessa di “una sede quanto possibile confortevole”. Eisenhower non presenziò e non firmò. Preferì tenersi al di fuori dallo “sporco affare” o dall’“inganno reciproco”: eloquente titolo, quest’ultimo, di un’opera ricca di documenti e di fondamentale importanza sull'Otto settembre scritta dalla storica Elena Aga Rossi. In mancanza di indicazioni precise, a Roma prevalse la certezza che la fine delle ostilità sarebbe stata annunciata il 12 settembre o addirittura il 16, come Badoglio scrisse in una lettera ricordata da Angelo Squarti Perla nel suo recente e documentatissimo saggio “Le menzogne di chi scrive la storia” (ed. Gambini).

   A ingannare furono soprattutto gli anglo-americani, che parlavano a nome delle Nazioni Unite senza però che il loro alleato principale, l'URSS di Stalin, fosse informato. Avevano le loro buone ragioni, perché guardavano al di là del conflitto nel Mediterraneo. In gioco vi era la guerra degli USA contro il Giappone e per la difesa dell'impero coloniale da parte di Londra. I termini della resa, dunque, non dipesero dalla volontà di Vittorio Emanuele III ma dalla Conferenza di Casablanca che, su richiesta di Stalin, aveva deciso l'imposizione della resa senza condizioni.

Lontano da Roma, non dagli italiani  

   I giorni tra la firma della resa e il suo annuncio furono pochi e convulsi: dal 3 all'8 settembre. Senza bisogno di conoscerne nei dettagli i piani, il re e il governo sapevano bene che i tedeschi non avrebbero avuto alcun riguardo nei loro confronti. Se se ne fossero impadroniti li avrebbero eliminati o quanto meno deportati e sottoposti a umiliazioni. Sarebbe stata una “lezione” per i capi di Stato e di governo tentennanti. Al rientro da Berlino Boris III, zar dei Bulgari e genero di Vittorio Emanuele III (ne aveva sposato la figlia Giovanna), morì di morbo mai spiegato. Avvelenamento?

   I tempi e gli spazi per salvare lo Stato erano sempre più stretti. In vista dell'ora e del giorno dell'annuncio, venne deciso l'allontanamento da Roma. Scartato l'aereo, il mezzo di trasporto all'epoca più insicuro e dalle conseguenze irreversibili in caso di “incidente”, fu previsto il trasferimento dei Reali e del governo da Civitavecchia alla Sardegna, saldamente presidiata da forze italiane. Sennonché quel porto divenne insicuro come tante altre piazze ormai sotto controllo o minacciate da vicino dai tedeschi, che dal 26 luglio avevano fatto irruzione in Italia con il pretesto di aiutarla nella lotta contro gli allora comuni nemici.

   A ridosso dell'annuncio della resa giunsero a Roma due alti ufficiali per verificare con il Maresciallo Badoglio la fattibilità del lancio di una divisione paracadutata a sostegno di quelle italiane per contrastare i tedeschi che ormai la premevano. Come più volte narrato, Badoglio li ricevette in vestaglia e chiarì che i campi di aviazione vicini alla Capitale non erano in grado di propiziare il progetto. In realtà aveva chiaro che gli anglo-americani non avevano alcuna possibilità di attestarsi nei dintorni di Roma e che tutto si doveva fare tranne che trasformare la Città Eterna in campo di battaglia, senza probabilità di rinforzi di lungo periodo. Come noto, gli americani sbarcarono nella piana di Salerno e incapparono nella tenace risposta dei germanici. A Roma giunsero solo il 5 giugno 1944.

   Fecero la guerra che conveniva loro. Essi consideravano l'Italia un teatro secondario del conflitto in corso. Più tedeschi erano trattenuti nel Paese dei Limoni meno essi ne avrebbero dovuti fronteggiare allo sbarco in Normandia, progettato prima ancora di dare l'assalto alla Sicilia e alla Calabria.

   La resa fu infine comunicata alle 19 dell'8 settembre. L'annuncio fu preceduto alle 17 da una convulsa riunione (“una specie di consiglio della Corona” annotò Puntoni) nel corso della quale qualcuno prospettò addirittura di sconfessare la firma di Cassibile e sostituire Badoglio. Per intervento del maggiore Luigi Marchesi, che ne ha scritto ripetutamente, “il buon senso finisce per prevalere, si arriva però a una conclusione davvero deludente: l'armistizio è accettato ma Badoglio che rappresenta il governo non impartisce alcuna disposizione per fronteggiare gli avvenimenti che incalzano” (Puntoni). Nel volgere di poche ore il Re e Badoglio misero a punto l'unico piano possibile: lasciare Roma per un lembo d'Italia libero da tedeschi (che vi vennero anzi cacciati con le armi: come avvenne a Bari e in altre città) e non ancora raggiunto dagli anglo-americani, e quindi libero dalla loro diretta ingerenza. Ci volle il comprovato sangue freddo del Re Soldato per affrontare la prova.

   Come annotò Paolo Puntoni, ritenuta impossibile la difesa della Capitale fu decisa la partenza. “Il Re scrive Puntoni – convinto ormai che tutto sia stato predisposto per la partenza del governo al completo, aderisce a malincuore a lasciare Roma. Il suo intento è di garantire la continuità dell'azione del governo in collegamento con gli alleati e di impedire che la Città Eterna subisca gli orrori della guerra”. Alle 5:10 del 9 settembre la berlina guidata dall'autista Giovanni Baraldi lasciò il ministero della Guerra. Recava il Re, la Regina, il tenente colonnello De Buzzaccarini e Puntoni, che sbrigativamente raccomandò al colonnello Mario Stampacchia di distruggere, all'occorrenza, il carteggio riservato e quello segreto. Di seguito mossero la vettura della regina, con a bordo Badoglio, Mario Valenzano, suo nipote e segretario particolare, e il duca d'Acquarone. In una terza presero posto il principe ereditario con il generale Emilio Gamerra e due ufficiali d'ordinanza. Altre automobili seguirono alla spicciolata. La “piccola colonna” (Puntoni) si mosse senza scorta perché il plotone di autoblindo inviato dal Ministero della Guerra al Quirinale era rimasto nella Reggia.

   La berlina del Re innalzava lo stendardo del Capo dello Stato. Come è stato ripetutamente osservato, chi fugge non alza le insegne. Il viaggio del re alla volta di Pescara via Avezzano e Popoli non fu una fuga ma il trasferimento dalla capitale per evitare la cattura e assicurare quanto era necessario: la persona e la funzione del re e del “suo” governo, garante dell'esecuzione della resa. Gli Alleati erano implicitamente tenuti a concorrere alla loro sicurezza, ma non consta che se ne siano curati. Nei limiti e nei modi documentati, Vittorio Emanuele III mostrò che la Corona operava in autonomia. Non per caso era stata respinta la proposta che si rifugiasse su una nave dei vincitori, cioè in territorio nemico. Un passo di quel genere avrebbe comportato l'abdicazione dalla libertà di capo dello Stato d'Italia.

   È stato osservato che il trasferimento avvenne con gravi omissioni da parte del capo del governo e dei capi di Stato maggiore delle tre Armi. Lo hanno ribadito Filippo Stefani in “8 settembre 1943: Gli armistizi dell'Italia” (Marzorati) e gli autori delle relazioni svolte in numerosi convegni di studio promossi dal Ministero della Difesa e da altre Istituzioni. L'Archivio Centrale dello Stato conserva copiosissima documentazione sulle minute misure via via assunte dagli Uffici competenti per prevenire e scongiurare le conseguenze più gravi. Valgono d'esempio le “istruzioni” impartite per il trasferimento della principessa Maria José, delle tre figlie e del principe di Napoli, Vittorio Emanuele, all'epoca di 7 anni, dal Cuneese al Castello di Sarre e da lì in Svizzera.

   In sintesi il Re lasciò Roma ma non l'Italia né gli italiani. Imbarcato a Pescara sulla corvetta “Baionetta” la sera del 9 settembre egli giunse a Brindisi alle 14:30 del 10 mentre già era in corso la lotta armata di liberazione contro gli occupanti germanici. Alle 9 mattutine dell'11 il sovrano presiedette un “consiglio” e dette lettura del messaggio di Eisenhower a Badoglio volto a stabilire subito la collaborazione tra truppe anglo-americane e governo italiano. Il Re rivolse un proclama agli italiani. Non dipendeva da lui arginare la reazione germanica. Si attendeva che il Paese seguisse ma, come vedremo, tra lui e gli italiani si interpose il Comitato di liberazione nazionale, ancora informale, ma decisivo per il futuro della monarchia in Italia. (*)

Aldo A. Mola

(*) Su regìa dello storico Marco Patricelli, il 9 settembre, nella Sala “Gabriele d'Annunzio” del Centro “Aurum” di Pescara, si svolge il convegno “La resa, la fuga, la patria”, con interventi di Roberto Olla, Ernesto Galli della Loggia, Lutz Klinkhammer, Francesco Perfetti, Luciano Zani, Mimmo Franzinelli e dei capi degli Uffici storici delle quattro Armi: gen. Antonino Neosi (Carabinieri), amm. Gianluca de Meis (Marina), ten. col. Edoardo Grassia (Aeronautica), ten. col. Emilio Tirone (Esercito), presente il ministro per la Cultura, Gennaro Sangiuliano.


Rosmini e l'Italia
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 27 agosto 2023 pagg. 1 e 6.
con un saggio di S.A.R. la Principessa Maria Gabriella di Savoia

 

Un Saggio della Principessa Maria Gabriella di Savoia

Antonio Rosmini  Serbati (Rovereto, 1797-Stresa, 1855) fu il massimo filosofo italiano e teologo apprezzato da quattro papi  della prima metà dell'Ottocento: Pio VII, Pio VIII, Gregorio XVI e Pio IX, che lo volle nella speciale “commissione” per la proclamazione del dogma dell'Immacolata Concezione benché ne avesse già condannato alcune opere. Il suo libro “Le cinque piaghe della Santa Chiesa” è sempre attuale. Nell'ultimo capitolo Rosmini afferma che la Chiesa deve vivere di offerte libere, non di tributi imposti dallo Stato ai cittadini, deve rinunciare a privilegi e pubblicare i suoi bilanci.  Appena stampata (nel 1848, ma era stata scritta nel 1832) l'opera finì nell'Indice dei libri proibiti. Su delibera del Santo Uffizio, nel 1887 papa Leone XIII condannò quaranta “proposizioni” del filosofo. A quei tempi l'Italia era divisa in due dalla questione romana. Pio IX aveva scomunicato Vittorio Emanuele II che, un boccone dopo l'altro, con l'annessione di Roma del 20 settembre 1870, aveva debellato lo Stato Pontificio e si era insediato al Quirinale. 

   Rosmini, cattolico adulto, filosofo di polso e pensatore ammirato da Alessandro Manzoni, Niccolò Tommaseo e dalla schiera di cattolici liberali del suo tempo, nella seconda metà del Novecento venne debitamente rivalutato anche dalla Chiesa. Il 18 novembre 2007 fu celebrata a Novara la sua beatificazione, decretata da Benedetto XVI al termine di una “causa” iniziata nel 1994.  

   La sua fattiva influenza sul pensiero e sugli istituti di Carità è stata approfondita dal Simposio organizzato a Stresa dal Centro internazionale di studi rosminiani (21 al 25 agosto) con interventi, tra altri, di Ernesto Galli della Loggia, Luca Mana, Federica La Manna, Vittorio Sgarbi, Ettore Gotti Tedeschi, Alberto Mingardi, Giovanni Maria Vian e dell'on. Daniela Ruffino. Nel Simposio, ispirato da liberalità rosminiana, si è parlato anche di carboneria massoneria e società segrete. Il Simposio è iniziato con la presentazione degli “Scritti autobiografici. Diari” di Rosmini: un volume in ogni senso poderoso, curato da padre Ludovico Maria Gadaleta, che, con suor Benedetta Lisci, è il punto di riferimento costante degli studi rosminiani.  

   Particolarmente apprezzata è stata l'ampia relazione svolta dalla Principessa Maria Gabriella di Savoia su “Rosmini e Casa Savoia” anche perché Carlo Alberto di Sardegna, il Re dello Statuto, nel 1848 affidò a Rosmini la delicata missione presso Pio IX per rinsaldare i rapporti tra il “Piemonte” e lo Stato Pontificio dopo l'Allocuzione del 29 aprile con la quale il papa si era dissociato dalla guerra contro l'Impero d'Austria.  

    Per la sua importanza proponiamo ai lettori del “Giornale del Piemonte e della Liguria” la Relazione della Principessa, presidente della Fondazione Umberto II e Maria José e custode della memoria storica di Casa Savoia. 

Aldo A. Mola

CARLO ALBERTO E ANTONIO ROSMINI
DUE PROFETI DELLA CONCILIAZIONE 

di Maria Gabriella di Savoia

Didascalia

Carlo Alberto di Savoia (1798-1849), Re di Sardegna, e Antonio Rosmini  Serbati (1797-1855) sono due protagonisti della storia della prima metà dell'Ottocento.  Carlo Alberto fu acclamato Re d'Italia sul campo di battaglia di Goito nel 1848. Per consenso generale, Rosmini fu il massimo filosofo e teologo della Chiesa cattolica. Le loro biografie mostrano tratti accomunanti che, pur nella diversità dei ruoli svolti, ne  fanno emergere le “virtù eroiche”. Carlo Alberto sentì  di essere chiamato dalla Provvidenza a realizzare la missione sognata da generazioni di patrioti: avviare l'indipendenza e l'unità dell'Italia. Anche nel pensiero di Rosmini, sintetizzato nella formula “Adorare, Tacere, Gioire” la Provvidenza è centrale.     

     Entrambi si sentirono votati al rigore, al sacrificio e a un ruolo di profeti. Di Carlo Alberto lo scrisse Giosue Carducci nell'Ode “Piemonte”. Di Rosmini lo affermò Papa Paolo VI in un udienza concessa alle suore rosminiane.

 La predestinazione

   In Carlo Alberto la dedizione a una missione metastorica fu instillata sin dall’infanzia dal pastore Jean-Pierre Vaucher che molto incise sulla sua inclinazione all’introspezione spinta sino alle soglie del misticismo. Ne scrisse egli stesso in lettere confidenziali e in appunti. Nel corso di viaggi e cerimonie, circondato dalla folla che gli mostrava affetto e devozione anche con chiassose feste tradizionali, il sovrano si chiudeva in se stesso. Sentiva la struggente sete  di solitudine di cui scrisse con sensibilità il suo primo biografo, Costa di Beauregard, in La Jeunesse  du Roi Charles Albert:lo prologue d’un règne.   

   Carlo Alberto medesimo confidò le sue certezze a Quelques unes des nombreuses graces que le Seigneur  me fit. Vi ricordò di essere stato  salvato da due tentativi di avvelenamento, due rischi di morire tra le fiamme, due incidenti durante giochi  infantili, due volte dal pericolo di spezzarsi collo e reni, due di rimanere sotto il calesse ribaltato, due gravi incidenti di caccia, due rischi di naufragio, due di cadere vittima di attentati, due per la caduta improvvisa del cavallo sotto di sé: la prima volta mentre accompagnava Vittorio Emanuele I, da poco restaurato a Torino sul trono del regno di Sardegna, mentre si recava  a Superga nella festa del nome di Maria; la seconda  mentre audacemente saltava un largo fossato e il cavallo mancò la presa sul terreno... 

  Se la Provvidenza, anzi il Seigneur (come Carlo Alberto scrisse) in tante occasioni gli aveva mostrato così benevola attenzione voleva dire che era preservato per una missione altissima: unire l’antica e la nuova storia, superare   contrasti apparentemente invalicabili, avviare verso sintesi e nuove forme di conciliazione. Non per caso il suo motto fu “Tutto migliorare e tutto conservare”.

Il Re dello Statuto e della guerra per l'indipendenza

    Asceso al trono trentatreenne, il Principe di Carignano prese su di sé la storia della Casa e ne portò la croce: “cilicio ed estasi” è stato scritto della sua complessa personalità studiata da Francesco Cognasso e da Narciso Nada, da Romolo Quazza e da Giorgio Falco, storico acuto della preparazione dello Statuto promulgato il 4 marzo 1848. 

   Proprio lo Statuto, apprezzato dal Presidente Emerito della Repubblica, senatore Francesco Cossiga, che ne volle la ristampa anastatica, fu l’approdo del percorso intrapreso dal re sin dall’adolescenza. Il re volle la Carta quale fondamento e cornice di un’era novella. Va ricordato che sin dal novembre 1847, quattro mesi prima della promulgazione dello Statuto, con regie patenti Carlo Alberto rese elettivi i consigli comunali, provinciali e divisionali: migliaia e migliaia di cittadini furono chiamati a  scegliere liberamente la classe dirigente locale. E questa divenne i vivaio dei futuri componenti della Camera del Regno di Sardegna e poi di quello d'Italia. 

  Il marzo 1848 annunciò la Nuova Italia fondata sull'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi qualunque sia la loro confessione religiosa e sulla adozione del “tricolore nazionale” in luogo della bandiera azzurra della, ma con lo scudo sabaudo nel bianco. Entrambi fondamenti dell'unità nazionale durarono un secolo, nella buona e nella cattiva sorte.

  Al centro di una storia segnata da tumulti, insurrezioni, rivoluzioni, guerre, tra “primavera dei popoli” e conflitti dinastici, Carlo Alberto consumò l'ultima stagione della sua parabola tra il marzo e il luglio 1849. A differenza di quanto solitamente si crede, la battaglia di Novara fu provò il valore dell’Armata sarda. I “piemontesi” inflissero agli asburgici perdite superiori a quelle subite, come documenta Piero Pieri nella Storia militare del Risorgimento. Però Carlo Alberto ebbe chiaro che il suo Regno aveva risorse materiali e militari del tutto inferiori rispetto all'Impero d'Austria. Esso contava però su una forza morale superiore: lo Statuto, che aveva aperto definitivamente la via verso l'unità e l'indipendenza. Per salvare la sua missione e consegnarla al futuro, doveva abdicare e offrirsi quale esempio supremo di sacrificio a cospetto dell’Europa sia dei sovrani sia dei movimenti “popolari” e dei travagli spirituali che da decenni animavano le pagine di Silvio Pellico e di Vincenzo Gioberti, dei Tapparelli d’Azeglio (Roberto, Massimo e il loro fratello gesuita, Luigi) e di Antonio Rosmini Serbati.

  Carlo Alberto lasciò in eredità al figlio Vittorio Emanuele II le grandi riforme avviate sin dall'ascesa al trono in ogni settore della vita pubblica e sociale: Consiglio di Stato, istruzione, promozione delle comunicazioni, fondamentali per lo sviluppo dell'economia, riassetto della burocrazia e delle Forze armate e promozione di istituti caritativi d'avanguardia. Attuò una immensa opera di ammodernamento senza clamori, anticipando il corso della storia.    

Rosmini filosofo, teologo e protagonista “politico”: fede e libertà

   Per quanto possa sconcertare, in tempi recenti sono comparsi profili dei Regni di Carlo Felice e di Carlo Alberto nei quali il nome di Rosmini neppure compare. Eppure il trentennio  di storia che lo ebbe protagonista tra il marzo 1821 e il 1849 non sono comprensibili se si smarriscono i suoi fondamenti religiosi e ideali e se ne trascurano le figure di riferimento. Tra queste  Antonio  Rosmini Serbati si staglia al di sopra di ogni altra.  Il discendente del principe Tomaso Francesco di Carignano lo sentì vicino, affine,  più dei molti e pur  importanti teologi e filosofi a lui coevi. 

   Anzitutto colpisce un dato apparentemente esterno ma suggestivo. Carlo Alberto fu il Savoia dei quattro re: nel corso della sua vita si susseguirono sul trono i tre fratelli, Carlo Emanuele IV, Vittorio Emanuele I e Carlo Felice, e poi, alla conclusine del suo ventennio di regno, tra il 1831 e il 1849, iniziò quello di suo figlio, Vittorio Emanuele II, che in un un decennio condusse il Piemonte dalla sconfitta alla proclamazione del regno d'Italia, nel marzo 1861. 

  A sua volta Rosmini fu l’ecclesiastico dei quattro papi: Pio VII,  il cui Panegirico egli pronunciò a Rovereto nel 1823  subito suscitando l’allarme dell’Austria;  Pio VIII,  che ne incoraggiò gli studi e la pubblicazione del Nuovo saggio sull’origine delle idee, pilastro portante del suo sistema filosofico e, conseguentemente, della sua concezione della società ; Gregorio XVI, che Rosmini conobbe e apprezzò, ricambiato, sin dal suo primo viaggio a Roma;  e infine Pio IX, che nel 1849 egli seguì nell’esilio da Roma a Gaeta e a Napoli con l’affetto filiale di chi nel Pontefice vide sempre il Vicario di Cristo. 

   Questa certezza è il caposaldo indispensabile per comprenderne ragione e fede, i sentimenti e la pienezza della forza argomentativa da Rosmini versata nel Trattato della coscienza morale, nella Filosofia del diritto e nel celebre saggio su Le cinque piaghe  della Santa Chiesa: opera che fece da spartiacque  nella sua operosa esistenza e per molti aspetti conserva una straordinaria attualità.

   Colpisce l’assonanza del suo itinerarium mentis in Deum con quello di Carlo Alberto. Mentre il principe di Carignano viveva nascostamente nel Castello di Racconigi attendendo il suo astro tra memorie e libri, dal nativo Trentino Rosmini si trasferì a Milano. Scelse di vivere presso  San Sepolcro, la chiesa che sin dal nome distintivo costituiva una lezione quotidiana. Da lì si sentì chiamato al Santo Calvario di Domodossola: uno spazio propizio alla meditazione.

   Come Carlo Alberto si sentì e rimase re, biblicamente responsabile nei confronti dei  sudditi, così concentrazione su filosofia e teologia Rosmini trasse forza per avviare opere di carità: rafforzate anche dal suo incontro con il cattolicesimo subalpino, in un’età segnata da fervide  iniziative, come ricordano le congregazioni religiose volute da Giuseppe Cottolengo, e da Giulietta Falletti di Barolo, nata Colbert (ma a questi pochi esempi molti altri potrebbero essere aggiunti).

   In Religione cattolica  e Stato nazionale dal Risorgimento al secondo dopoguerra lo storico Francesco Traniello ha richiamato l’attenzione sulla pastoralità dell’impegno dei cattolici soprattutto piemontesi di metà Ottocento, a cominciare da Vincenzo Gioberti, solitamente considerato un democratico “acceso” ma in realtà poco fiducioso nella spontanea bontà dell’uomo. Anche per Gioberti  la virtù  è frutto di conquista, autodisciplina, sacrificio.

  Altrettanto valeva per Carlo Alberto, che aveva senso drammatico della storia e del prezzo che il suo corso esige. Lo scrisse con “parole non caduche “ (la definizione è dello storico  Francesco Salata): “Peu de grands exemples ont sauvé milliers de personnes, ont raffermé la discipline dans l’armée et preservé nostre pays des scènes de désordres qui ont désolé et ensanglanté d’autres nations”. 

  Su quelle premesse, nella certezza che l’interlocutore sapesse cogliere l’animo di chi lo elesse a proprio tramite, Carlo Alberto inviò Antonio Rosmini a Pio IX, in veste di “messo straordinario”, per gettare le basi di un concordato tra il regno di Sardegna e il Sacro Soglio e verificare la fattibilità della ventilata confederazione degli Stati italiani con presidenza del Santo Padre. Rosmini era chiamato ad attuare il sogno dei cattolici liberali, per i quali l’unione degli italiani era nell’ appartenenza alla Chiesa, senza necessità di unificazione sotto una medesima corona. Le tragiche vicende della lotta politica in Roma spezzò sul nascere ogni speranza. L’assassinio di Pellegrino Rossi (15 novembre 1848) anziché mostrò il crudo volto del primato del del terrorismo politico, a tutto vantaggio di chi, come il cardinale Antonelli, era contrario a vere riforme dello Stato pontificio in direzione liberale e costituzionale.

  Chiusa ogni ipotesi di un governo da lui presieduto e del conferimento del cappello cardinalizio quale  meritato riconoscimento della sua opera teologica, filosofica e di organizzatore dell’Istituto della Carità, a Rosmini non rimase che tornare a Stresa: spettatore  dell’ultima dolente fase del regno di Carlo Alberto.

   Se ne deve concludere che egli sia stato uno “sconfitto”? In una visione di breve periodo ci si potrebbe o dovrebbe rassegnare ad ammetterlo. Ma in una osservazione storica di più ampio respiro va constatato che nell’ultimo lustro di vita Rosmini rimase il punto di riferimento carismatico per Alessandro Manzoni, Niccolo Tommaseo e per uno stuolo di cattolici come lui convinti della conciliabilità tra fede e liberalismo. Tra i molti basti ricordare il grande Cesare Balbo, autore delle Meditazioni storiche in cui riprese e approfondì le Speranze d’Italia, e Massimo d’Azeglio.

    Padre Atanasio Canata, autore del Canto nazionale e docente nel collegio scolopico di Carcare,  a metà del “decennio  di preparazione” dominato da Camillo Cavour,  osservò che fra il 1853 e il 1855 morirono decine e decine di cattolici-liberali di grande autorevolezza: Cesare Balbo, Silvio Pellico, Antonio Rosmini appunto e molti molti ancora, quasi un’epoca si stesse chiudendo e le loro vite risultassero superflue. Così non fu. Infatti  le loro opere, gli scritti e gli esempi di vita, continuarono ad alimentare il dialogo tra l’Italia nascente e la Chiesa, tra il pensiero cattolico e quello di liberali che, va osservato, non furono mai irreligiosi né meno ancora anticristiani.  

   Risulta significativo che nessuno abbia mai proposto di abolire o modificare l’articolo 1 dello Statuto e che dal canto suo nei momenti fondamentali, soprattutto nelle ore più difficili, la Chiesa di Roma non abbia mai fatto mancare il sostegno diretto e netto al giovane regno d’Italia: a conferma del magistero morale e culturale dei due giganti solitari, Carlo Alberto e  Rosmini.

   In tale contesto va infine ricordata la proposta  avanzata dal re di Sardegna all’illustre filosofo di traslare le salme dei Principi sabaudi da Superga alla Sacra di San Michele: sperone erto a vegliare sull’integrità del regno proprio nella valle che ne aveva veduto gli albori quasi un  millennio prima.

  Antonio Rosmini fu il pensatore di riferimento  di altri quattro papi: Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. Se papa Leone XIII nel 1887 aveva condannato all'Indice quaranta sue “proposizioni”, sin dal Concilio ecumenico vaticano II, su impulso di monsignor Luigi Bettazzi, iniziò la sua riscoperta a valorizzazione, coronata con la beatificazione pronunciata da papa Benedetto XVI e celebrata a Novara il 18 novembre 2007. La Chiesa ha riconosciuto le sue virtù eroiche. 

   Vi è motivo di sperare che  in una visione matura del cammino umano altrettanto faccia la storiografia con la figura e l'opera di Re Carlo Alberto: non “italo Amleto”, né “Re tentenna” ma profeta della Nuova Italia, capace di conciliare fede e libertà, storia nazional e missione universale come prospettato dal pensiero di Antonio Rosmini.      

Maria Gabriella  di Savoia


ROSMINI E L'ITALIA
Antonio Rosmini  Serbati (Rovereto, 1797-Stresa, 1855) fu il massimo filosofo italiano dell'Ottocento e teologo di fiducia di quattro papi. La sua opera “Le cinque piaghe della Santa Chiesa” (scritta nel 1832 e pubblicata nel 1848), più che mai attuale, finì subito nell'Indice dei libri proibiti. Nel 1887 papa Leone XIII condannò altre sue quaranta “proposizioni”. Ma erano i tempi dell'Italia divisa in due dalla questione romana. Rosmini, pensatore di vasta apertura, ammirato da Alessandro Manzoni, Niccolò Tommaseo e dalla schiera di cattolici liberali del suo tempo, nella seconda metà del Novecento fu caro ad altri quattro pontefici, da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II. Il 18 novembre 2007 venne celebrata a Novara la sua beatificazione, decretata da Benedetto XVI.  
   La sua fattiva influenza sul pensiero e sugli istituti di Carità è proposta all'attenzione dal I Simposio organizzato dal Centro internazionale di studi rosminiani aperto ieri al Palazzo dei Congressi di Stresa e in corso sino a venerdì con interventi, tra altri di Ernesto Galli della Loggia, Federica La Manna, Vittorio Sgarbi, Ettore Gotti Tedeschi, Alberto Mingardi, Giovanni Maria Vian e on. Daniela Ruffino. Alle 15 di oggi la Principessa Maria Gabriella di Savoia illustra i rapporti Rosmini e Casa Savoia. Carlo Alberto di Sardegna, il Re dello Statuto, nell'autunno del 1848 gli affidò una delicata missione per ottenere il sostegno di Pio IX alla sua impresa: dare agli italiani indipendenza e unità. Si parlerà anche di carboneria, massoneria e società segrete.
    Il Simposio è iniziato con la presentazione degli “Scritti autobiografici. Diari” di Rosmini in edizione nazionale: opera poderosa curata da padre Ludovico Maria Gadaleta, con suor Benedetta Lisci punto di riferimento costante degli studi rosminiani.  
Aldo A. Mola






ALLA SCOPERTA DELL'ITALIA -PAESE D'EUROPA



Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 20 agosto 2023 pagg. 1 e 6.

Didascalia
Imperversano due “giochi di società” spacciati per alta politica: narrare fatti e misfatti di albergatori e ristoratori, delusioni e soddisfazioni di vacanzieri alle prese con il conto dell'oste e il caro-benzina. Di rado si sente parlare di quel che si è visto e memorizzato. Perché è stato tutto fotografato, ma non osservato, intravisto ma non contemplato, archiviato per riflessioni che non troveranno posto nelle giornate ordinarie come non ne hanno avuta nella breve pausa dalla quotidianità. Forse il concetto di “vacanza” appartiene al passato remoto: quando era l'agognata sosta dal lavoro. Era raccoglimento. Ora sta divenendo l'opposto: frenesia di massificazione.Perciò accade che a ri-scoprire e a ri-velare lo straordinario patrimonio di civiltà dei popoli d'Italia siano soprattutto gli stranieri che vi si affacciano da terre sempre più remote. Sono attratti dal mistero di un Paese i cui abitanti per millenni hanno pietrificato idee proprie e assimilato le altrui, sopravvivendo a secoli di invasioni, dominazioni e forzata decadenza , salvo riprendersi con i lenti ritmi intuiti da Giambattista Vico: corsi e ricorsi...   I milioni di persone che anche quest'anno animano il Bel Paese rendono omaggio, forse inconsapevole, all'Ente Nazionale per l'Incremento delle Industrie Turistiche, poi ENIT, fondato dallo Stato poco più di un secolo addietro: una delle tante intuizioni dell'Italia uscita dalla Grande Guerra, bisognosa di pacificazione degli animi e intreccio dell'“ora et labora”, come insegnano non solo gli Ordini monastici, da sempre filo conduttore dell'Europa, ma anzitutto l'“Ecclesiaste”.   La promozione del turismo non è un'invenzione dell'altro ieri, meno ancora del “regime” e del Dopolavoro fascista. La sua organizzazione da parte dei pubblici poteri nacque all'indomani della Grande Guerra, mentre ancora incombevano le conseguenze demografiche e sociali della “febbre spagnola”, che si abbatté sull'Europa, mieté vittime e se ne andò prima che se ne capisse l'origine per combatterla con mezzi efficaci.   All'origine il turismo promosso dallo Stato mirò a conciliare grandi numeri e riservatezza. La balneazione alternava ampie spiagge e calette; l'ascesa alle vette faceva tappa nei rifugi già frequentati dalla Regina Margherita. A ognuno per il gusto suo. Era l'Italia di Sidney Sonnino, il misantropo ministro degli Esteri che studiava Dante Alighieri nel solitario Romito affacciato a picco sul Tirreno e spazzato dai venti. Ed era quella di Vittorio Emanuele III, il Re che a Roma viveva appartato a Villa Savoia e al Quirinale si recava come si va in ufficio: per studiare e firmare leggi e decreti e per “incontri di lavoro” con capi di stato, di governo e di partiti; ma appena possibile si rifugiava a San Rossore e amava la quiete assoluta della spiaggia di Gombo e dell'isola di Montecristo.   Già all'epoca andavano di gran moda i borghi selvaggi e solatii. Dalle scuole elementari gli italiani avevano appreso ad amarli da “L'ora di Barga” di Giovanni Pascoli, inno alla solitudine, all'abbraccio con i ricordi, con la natura, ed esortazione alla Grande Visitatrice a non avere fretta. Era un mondo che amava il riserbo e non ostentava né i malanni né la “morte”. Ne aveva vista anche troppa con i quindici milioni di vite annientate dalla Grande Guerra, che nessuno aveva voluto ma nessuno aveva saputo predire né impedire: come quella ora in corso sul “fronte orientale”, scintilla di chissà quali devastanti incendi se non la si ferma in tempo.   Quella era l'Italia dei “buoni sentimenti” che negli Anni Settanta-Ottanta del Novecento furono sguaiatamente irrisi da chi li liquidò come sfizio borghese. Eppure da lì, se mai ce la farà, potrebbe ripartire l'Italia di domani. Potrà tornare a immergersi nel piccolo mondo antico, riscoprire le “buone cose di pessimo gusto” (care a Guido Gozzano): la miriade di borgate, villaggi, rive di fiumi e torrenti miracolosamente scampati al miope sfruttamento da parte di chi prima o poi dovrà pur fare i conti con la propria ingordigia, ignara di “scienza della politica”.   Da sempre gli italiani avevano sotto gli occhi il proprio Paese, ma forse la sua immagine era offuscata dalla fretta quotidiana, sbiadita nei ricordi di un'infanzia cancellata nella corsa collettiva a un futuro senza meta: il cosiddetto “progresso”. Il cui drammatico limite è l'opposto di quanto si creda. Non è veramente progressista perché non ha basi scientifiche; è frutto di improvvisazione, anziché di progettazione e di “piani”, che vanno approntati e approvati anziché rinviati in nome di un liberismo/liberistico senza capo né coda, come quello oggi dilagante, impossibile nello Stato moderno.   Oggi, dunque, dopo anni di normative stressanti tanti italiani che per decenni le avevano anteposto lidi remoti, raggiunti con viaggi faticosi e infine deludenti (stessa spiaggia, stesso mare...), ripetono con Vincenzo Monti: “Bella Italia, amate sponde/ pur vi torno a riveder./ Trema in petto e si confonde/ l'alma oppressa dal piacer”. “Gran traduttor dei traduttor d'Omero” (come lo bollò malignamente Ugo Foscolo), il politicamente versipelle Monti (pontificio, liberaloide, francofilo, poi allineato con il ritorno di Astrea, cioè del dominio asburgico sul Lombardo-Veneto) rientrava in Italia al seguito di Napoleone Bonaparte da un breve esilio a Parigi. La sua “contemplazione dell'Italia” andava comunque al di là delle ideologie.   La “dottrina Monti” sull'impareggiabile bellezza dell'Italia fu condivisa da Alessandro Manzoni, che nei “Promessi sposi” cesellò cammei raffinatissimi (come “Addio monti, cime ineguali...”), poi “mandati a memoria” da generazioni di studenti; e da Giacomo Leopardi, che blindò le sue emozioni nella corazza di versi glaciali, come “Vaghe stelle dell'Orsa...”, esempio per il Savio che non si concede il lusso di “sentimenti” perché sa che “sunt lacrimae rerum”.A codificare l'immagine dell'Italia non fu un illuminista ma don Antonio Stoppani (Lecco, 1824-Milano, 1891), partecipe da seminarista alle Cinque Giornate di Milano, ammiratore di Manzoni e del teologo Vincenzo Gioberti, autore di opere di fama europea su paleontologia e glaciologia. Tra i fondatori dell'Istituto geologico del regno, don Stoppani concorse alla redazione della carta geologica dell'Italia, importante anche per la vulcanologia e lo studio dei terremoti. Primo presidente del Club Alpino Italiano, promosso da Quintino Sella, a sua volta uomo dal multiforme ingegno, nel 1875 pubblicò Il Bel Paese, dalla subito vasta fortuna. Lasciate tra parentesi le dispute pro e contro il potere temporale dei papi, le gare tra i partiti dell'epoca (clan regionali e clientele di notabili), don Stoppani cantò le bellezze dell'Italia e incitò ad averne cura. Ognuno doveva fare la propria parte quando la rete ferroviaria era appena albeggiante rispetto a quella dei Paesi molto più industrializzati e i viaggi si facevano su birocci, a cavallo o “pedibus calcantibus”.   Ai tempi di don Stoppani l'Italia contava quasi trentamila parroci e circa centomila “religiosi”. Se tra questi ci fossero stati due-tremila don Stoppani, “a viso aperto e sorridente” come lui, il Paese avrebbe fatto un balzo in avanti di cent'anni. Non avrebbe avuto alcun bisogno del Sessantotto per capire che una cosa sono i costumi, un'altra le “credenze” e una terza è la “fede”; e che le virtù non si misurano dai centimetri dei pantaloni e delle gonne.L'Italia delle cento città del fratello StrafforelloQuella era l'Italia delle cento città, descritta provincia per provincia, un circondario dopo l'altro, comune per comune da Gustavo Strafforello (Porto Maurizio, 1820-1903), massone, poligrafo, traduttore del famoso Self-Help di Samuel Siles col fortunato titolo “Chi si aiuta, il Ciel lo aiuta”: manuale psico-sociale di grande successo in un'epoca che vide trionfare la scuola e le forze armate quali ascensori sociali, sull'esempio di quanto nei secoli aveva fatto la Chiesa cattolica al cui vertice si susseguirono non solo esponenti di famiglie potenti (dai Della Rovere ai de Medici...) ma anche popolani come i santi Celestino V e Pio V, nato a Bosco Marengo.   La Patria descritta da Strafforello in dispense da 60 centesimi l'una fece conoscere a una miriade di lettori geografia, attualità economica e imprenditoriale, storia e paesaggi, con tanto di carte geo-storiche, piante topografiche delle città, ritratti di personaggi famosi, monumenti e vedute di ogni terra d'Italia. Un vero e proprio capolavoro che divulgò la conoscenza del Bel Paese e implicitamente invitò a esplorarlo “de visu” dopo averlo conosciuto per scritto e da nitide incisioni, o magari sfogliando le sontuose pagine dell'“Illustrazione Italiana”.Checché qualcuno dica, gli italiani, come gli spagnoli, gli inglesi e via continuando, non sono mai stati una “nazione” ma furono e sono crogiolo di popoli. La “nazione” è un'invenzione regressiva della Rivoluzione francese: quella della Convenzione repubblicana, che partorì il culto dell'Ente Supremo e il Terrore. Da Universale retrocesse a franco-centrica. Imbalsamò gli ideali dell'Ottantanove.   Con plaghe (e piaghe) di arretratezza e sottosviluppo documentate dai censimenti decennali, dopo la “nascita” nel 1861 l'Italia fu spesso indotta e/o costretta a fare il passo più lungo della gamba. Dopo aver immaginato di accaparrarsi la Nuova Guinea per farne una “colonia penale” sul pessimo esempio della francese Nuova Caledonia, andò alla conquista di un lembo di Mar Rosso e della remotissima Somalia e mirò a imporsi sull'impero d'Etiopia quando milioni di suoi abitanti migravano all'estero in cerca di lavoro: prima i liguri e i piemontesi, poi dal Veneto e dal Mezzogiorno... La “colonizzazione interna” consigliata a Francesco Crispi dal suo fraterno sodale Adriano Lemmi rimase un miraggio.   A insegnare le vie d'Italia erano poeti come Giosue Carducci che, già docente all'Università di Bologna, per visitarla si faceva nominare commissario a esami di maturità e vagava dall'una all'altra regione con pochi quattrini (glieli centellinava la scorbutica moglie) e con sommari di storia e geografia dai quali traeva alimento per odi famosissime come “Piemonte” e “Cadore”.   Dopo l'assassinio di Umberto I a Monza il 29 luglio 1900 (il suo anniversario passa sempre nell'indifferenza dei “media”, dimentichi che fu il secondo Capo dello Stato d'Italia) decollarono le associazioni per la promozione della coscienza unitaria. Nel 1894 a Milano, città sempre all'avanguardia, era stato fondato il Touring Club Italiano, seguito dal Regio Automobile Club Italiano (RACI) e via via dal Moto Club d’Italia e dall’Aereo Club d'Italia. Come già il CAI, anche i nuovi sodalizi ebbero nomi anglicizzanti. L'Italia della Belle Epoque, orgogliosa della propria identità, che affondava radici in millenni di civiltà latina, era europea, non temeva di utilizzare l'inglese Club, anziché Società o Associazione, così come denominava “meeting” gli incontri politici, che non dovevano degenerare in piazzate di minoranze facinorose ma fungere da confronto tra opinioni, affermazione di princìpi più convincenti se proposti in forma “civile” (che viene da “civis”, non da “plebs”).   La svolta decisiva per la riscoperta dell'Italia da parte dei suoi cittadini venne all'indomani della Grande Guerra, come documenta Ester Capuzzo in“Italiani. Visitate l'Italia. Politiche e dinamiche turistiche in Italia tra le due guerre mondiali” (ed. Luni), pubblicata nel centenario della fondazione dell'Ente Nazionale per l'Incremento delle Industrie Turistiche, l'ENIT. Basato su ampia ricerca archivistica e sulla scia degli eccellenti saggi di Annunziata Berrino, Eliana Perotti e Stefano Pivato, il volume di Capuzzo ha il pregio di non marchiare come “fascista” tutto quanto avvenne tra le due guerre, come invece fa chi ritiene che fra il 1922 e il 1943 l'Italia fu totalmente oppressa e compressa da un regime feroce e ottuso. La realtà è diversa. La promozione del turismo “di massa” in Italia, indubbiamente favorito e potenziato dal caleidoscopico “fascismo”, prese piede sull'esempio di quanto avveniva all'estero, sia in Stati retti da democrazie parlamentari quali Francia e Gran Bretagna sia nella Spagna di Alfonso XIII di Borbone, che prese a modello l'Italia di Vittorio Emanuele III.   Capuzzo documenta che il governo di Mussolini non inventò granché. Mise a buon frutto l'opera avviata da Luigi Luzzatti e soprattutto dal poliedrico Maggiorino Ferraris, deputato, senatore, proprietario della “Nuova Antologia”. Conterraneo di Giuseppe Saracco (non citato nel libro), promotore del lancio delle Terme della sua Acqui, dal 1902 Ferraris varò l'Associazione per il movimento dei forestieri, corroborata da politici come Luigi Rava e Pietro Lanza di Scalea, aperti alla libera circolazione di uomini e di idee. Negli stessi anni Orazio Raimondo gettò le basi delle fortune dell'estremo Ponente ligure, come narrato da Marzia Taruffi in “Uno cento mille Casinò di Sanremo. 1905-201” (ed. De Ferrari). Il volume ricorda anche il ruolo strategico degli Enti Provinciali per il Turismo, promossi da Fulvio Suvich, affiliato alla loggia “Propaganda massonica”. Per buona sorte gli EPT non vennero smantellati dopo il crollo del regime. Come altri enti parastatali (quali l'INPS) essi funsero anzi da volano della Ricostruzione.   Oggi dunque ri-scopriamo la Grande Italia. Ma va fatto nell'ottica della Grande Europa e in una visione planetaria dei problemi nostrani, senza chiusure italocentriche. Il protezionismo non paga mai. Alza steccati, impoverisce la circolazione delle idee e anche quella degli uomini, che ha fatto le fortune di tutte le grandi civiltà, a cominciare da quella greco-romana, per molti versi insuperata radice dell'Italia odierna.

 
Aldo A. Mola
L'estate è propizia per fare un passo avanti nella conoscenza della storia. È quanto annualmente propone il Concerto di Ferragosto dell'orchestra cuneese intitolata al violinista e compositore Antonio Bartolomeo Bruni (1751-1821). Il musicista e musicologo Giovanni Mosca ne ricordò figura e opere in “CN, Provincia Granda” curato da Luigi Botta e Franco Collidà (ed. Grandapress). Allievo di Gaetano Pugnani, migrato in Francia, che già all'epoca offriva spazi più ampi agli italiani di talento, già entusiasta degli ideali dell'Ottantanove nell'età napoleonica Bruni ascese a direttore d'orchestra dell'Opéra Comique e dell'Opéra Bouffe. Autore di inni alla Libertà e di commedie in musica di durevole successo, deluso dalla Restaurazione di Luigi XVIII nel 1816 si rifugiò nella villa “La Magnina”. Da lì contemplava la nativa Città dei Sette assedi, coscio che al mondo tutto passa e quasi orma non lascia. Lo aveva bene appreso quando si fece iniziare massone a Parigi e, come si legge nella “Storia di Cuneo, 1700-2000” (ed. L'Artistica, Savigliano, 2002), lo confermò in precedenti incursioni a Cuneo, ove, già col grado di “compagno”, venne solennemente ricevuto nella loggia “Heureuse Union” di Cuneo, che aveva membri onorari due generali e fratelli effettivi decine di alti ufficiali, sindaci, funzionari, il pittore Louis Pellegrino, il quartier mastro della Gendarmeria e, appunto, il “professeur de musique” Barthélémy Bruni. Essi si aggiunsero a Carlo Falletti di Villafalletto e a Charles Jubé, comandante del 53° squadrone di gendarmeria, acquartierato a Torino, fondatori dei “Maçons Réunis” di Cuneo, già iniziati alla “Réunion” di Savigliano, forte di oltre 150 affiliati, notabili italo-francesi del Dipartimento della Stura, crocevia d'Europa incorporato come tutto il Piemonte e la Liguria nell'Impero napoleonico. Nel 1810 Bartolomeo Bruni venne affiliato anche alla “Parfaite Union” di Cuneo, ove sedette “tra le colonne” in compagnia di due sacerdoti, Jean Fea, nativo di Peveragno, e di André Dho, del tutto indifferenti alla “scomunica”. Parenti di Napoleone e maggiorenti dell'impero erano notoriamente massoni.   Quegli anni convulsi furono anche segnati dal fervore delle arti e dall'avvento dell'Uomo Nuovo, fondato sul “Codice Napoleone”, su piani regolatori per liberare la vita cittadina dalle soffocanti e ormai inutili mura, sulla pubblica istruzione e sull'illusione che ogni nuova guerra sarebbe stata l'ultima e ne sarebbe scaturita la pace perpetua non solo tra i popoli ma anche tra l'Uomo e la Natura, un piede nel neopaganesimo, un altro nelle Scienze.   La storia continuò a strappi e a zig-zag, come in passato. Fu comunque l'epoca in cui i Grands Tours da privilegio dell'aristocrazia divennero comuni per uno stuolo di militari, burocrati, artisti e docenti che, tra logge e altre società segrete, cercavano di leggere il futuro rovistando nel passato. Segnarono una svolta positiva nella civiltà di un'Italia sempre più europea e universale, come, libera dal gravame del potere temporale, dopo il 1870 tornò a essere la Chiesa di Roma.
IL FRATELLO BARTOLOMEO BRUNI


 
A.A.M.

 GOVERNO LIBERALE?
AMMINISTRARE BENE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 6 agosto 2023 pagg. 1 e 6.

Didascalia

Elogio del Presidente Mattarella 

In visita a Torino il 2 agosto 2023 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha elogiato il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, esponente di Forza Italia, e il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, militante del Partito democratico, perché collaborano nella ricerca del “bene comune”. Si consultano, concertano e convergono sulle “cose da fare”. Il Presidente ha così riesumato il buon tempo antico, la civiltà del “Vecchio Piemonte”, che prese sulle spalle la missione di “fare l'Italia” e costruire lo Stato e la pubblica amministrazione. Ha proposto l'attualità del liberalismo classico italiano da Camillo Cavour e Urbano Rattazzi, da  Giovanni Lanza e Quintino Sella, sino  a Luigi Einaudi, monarchico e liberale, primo presidente effettivo della Repubblica.

   L'elogio della collaborazione tra amministratori pubblici dalle pur diverse “tessere di partito”, che non sono steccati invalicabili, è anche implicito invito a tutti gli “uomini di buona volontà” a seguire l'esempio di Cirio e Lo Russo, “rimboccarsi le maniche e” e “mettersi alla stanga”. Ma già Giovanni Paolo II aveva esortato i “romani de Roma”: “volemose bene, damose da fa”. Con i rimi attuali la Capitale sarà sicuramente in grado di dissipare immense risorse, non di accogliere il primo Giubileo del Terzo Millennio... Nell'esercizio della missione presidenziale (di cui molto ha scritto Tito Lucrezio Rizzo in “Parla il Capo dello Stato”, ed. Herald) il Presidente Mattarella ha supplito al silenzio di chi dovrebbe fare ogni giorno altrettanto: il presidente del Consiglio, che, capo dell'Esecutivo, deve porsi al di sopra dei partiti (compreso il suo e l'ondeggiante maggioranza che la sostiene), pensare meno ai voti (che, come foglie frali, vanno e vengono sospinti da venti sempre più umorali) e molto di più ad amministrare la “res publica”.

La missione di Vittorio Emanuele III 

In età monarchica il Capo dello Stato, figura ieratica, si rivolgeva agli italiani con l'esempio personale,  con Proclami e con i Discorsi della Corona pronunciati a ogni inizio di legislatura. Erano poi i presidenti del Consiglio a farsene interpreti all'insediamento del governo, con la richiesta di fiducia sul programma. Asceso al trono all'assassinio del padre Umberto I (29 luglio 1900), come previsto dall'articolo 22 dello Statuto, circondato dalla Corte e in presenza del governo e dei due rami del Parlamento, l'11 agosto 1900 Vittorio Emanuele III giurò fedeltà alla Carta albertina e pronunciò poche lapidarie parole, che meritano di essere rilette e meditate per coglierne i propositi. «Il mio primo pensiero – egli scandì – è pel mio popolo ed è pensiero di amore e di gratitudine. Quando un popolo ha scritto nel libro della storia una pagina come quella del nostro Risorgimento, ha diritto di tenere alta la fronte e di mirare alle più grandi idealità. Ed è a fronte alta che mi consacro al mio Paese. A noi bisogna la pace interna e la concordia di tutti gli uomini di buon volere per isvolgere le nostre forze intellettuali e le nostre energie economiche. Educhiamo le nostre generazioni al culto della patria, all'onestà operosa, al sentimento dell'onore, a cui si ispirano con tanto slancio il nostro esercito e la nostra armata, che vengono dal popolo e sono pegno di fratellanza che congiunge nell'unità e nell'amore della patria tutta intera la famiglia italiana. Impavido e sicuro ascendo al trono colla coscienza dei miei diritti e dovere di re. L'Italia abbia fede in me come io ho fede nei destini della patria e forza umana non varrà a distruggere ciò che i nostri padri hanno con tanta abnegazione edificato. È necessario vigilare e spiegare tutte le forze vive, per conservare intatte le grandi conquiste della Unità e della Libertà…».

   Chi si attendeva una svolta autoritaria in risposta al regicidio rimase profondamente deluso. Re scrupolosamente costituzionale, Vittorio Emanuele III enunciò non solo il programma del suo regno ma la “missione dell'Italia” osservata in quei mesi drammatici da studiosi stranieri come Giacomo Novikov, Bolton King e Thomas Okay. Il Re ne era depositario e custode. Toccava ai governi attuarla, con il consenso delle Camere: una, il Senato, di nomina regia; l'altra eletta da un corpo elettorale che nel primo dodicennio dell'età vittorioemanuelina balzò da 3 a 8 milioni di cittadini: tutti i maschi maggiorenni, anche se analfabeti.

   Ministro dell'Interno dal febbraio 1901 e quattro volte presidente del Consiglio fra il novembre 1903 e il marzo 1914 in alternanza ad altri tre politici di vasta preparazione ed esperienza (Alessandro Fortis, ex repubblicano; Sidney Sonnino, di famiglia israelitica, come Luigi Luzzatti: due massoni su tre; Sonnino era anche dantista con inclinazioni esoteriche) il migliore interprete del pensiero e del metodo del Re fu il piemontese Giovanni Giolitti (1842-1928).  Deputato dal 1882, già una volta presidente dell'esecutivo (1892-1893), questi non sentì mai bisogno di costituire o di avere il sostegno di un “partito liberale”. Semmai si premurò di ottenere quello di radicali e socialisti (con o senza il viatico dei rispettivi partiti) e di cattolici che non avevano alle spalle un partito di riferimento ma, dopo il regicidio, con il consenso di Papa Pio X, accettarono di essere eletti alla Camera in convergenza con i liberali e votarono persino candidati massoni per scongiurare il successo di esponenti dell'estremismo anti-sistema. Anche per molti cattolici lo Stato sorto dal Risorgimento divenne patrimonio comune irrinunciabile.

Amministratori e politici: una “riunione di amici”

Giolitti stesso enunciò i capisaldi del “metodo liberale”, implicitamente elogiato dal Presidente Mattarella nella breve presenza in Augusta Taurinorum, cuore del Vecchio Piemonte.

   Per comprendere la sua concezione della “politica”, dell'esercizio del mandato parlamentare e la sua coerenza di monarchico e liberale al servizio dello Stato nelle Aule parlamentari e nell'amministrazione locale in continuità con gli uffici di pubblico impiegato ai ministeri di Grazia e Giustizia e delle Finanze, giova passare in rassegna i pochi discorsi da lui pronunciati al di fuori delle Camere dal 1886 al 1899. Non sono raccolti i suoi interventi nel consiglio di Rivoli Torinese (di cui fu componente e che lo ritrasse in un “medaglione”) mentre sono pubblicati quelli pronunciati nel Consiglio provinciale di Cuneo di cui fu componente dal 1886 al 1925. Quasi tutti furono raccolti in volume da Nino Valeri (Giolitti, Discorsi extraparlamentari, Einaudi, 1952).

   Dal 1882 al giugno 1900 Giolitti presentò via via il suo programma tramite i giornali o con discorsi in “banchetti elettorali”. Tornato ministro dell’Interno nel governo presieduto da Giuseppe Zanardelli (14 febbraio 1901), sospese quella forma di dialogo, che pur andava oltre i confini del collegio, quasi non avesse altro da aggiungere al discorso di Busca del 29 ottobre 1899, il più magistrale dai tempi di Camillo Cavour a giudizio di Urbano Rattazzi jr, che gliene aveva suggerito parola per parola le frasi principali.

   Lasciata il 16 marzo 1905 a Tittoni (poi sostituito da Sandrino Fortis) la guida del governo, per motivi di salute molto più gravi di quanto confidò al re e ricordò nelle Memorie, il 14 agosto Giolitti fu eletto presidente del Consiglio provinciale di Cuneo. In tale veste espose la sua visione di “buona amministrazione”: «Il nostro consesso – disse – non è che una riunione di amici che si stimano e si amano, animati dal solo intento di procurare il bene degli amministrati, non divisi da dissensi di natura politica, poiché tutti sono devoti alle patrie istituzioni; e, se qualche volta vi è lotta, ciò dipende unicamente dal fatto che ognuno vede le cose dal proprio punto di vista». Da quel seggio rese omaggi non rituali al re (13 agosto 1906, 10 agosto 1908, 14 agosto 1911, 14 novembre 1912, 12 novembre 1913).

   Uso a rivolgersi al Paese nei discorsi elettorali o in Parlamento, quando non era al governo e soggiornava in Piemonte senza l’opportunità di sedute del consesso provinciale cuneese, rarissime volte lo statista parlò in sedi non istituzionali. Il 2 ottobre 1910 pronunciò poche ma eloquenti parole all’inaugurazione della nuova sede della Cassa di Risparmio di Cuneo. Mentre a Roma, da lui propiziato e assecondato, era sindaco il mazziniano Ernesto Nathan, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia, e alla guida di comuni e province si moltiplicavano i “blocchi popolari” formati da liberali progressisti, radicali e socialriformisti (non di rado anche in Piemonte promossi da reti massoniche), nel silenzio “ossequioso e ammirante” dei presenti Giolitti scandì che la Cassa di Risparmio (sorta per impulso di massoni famosi, come il protomedico Luigi Parola, sindaco di Cuneo, deputato, venerabile della loggia “Roma”) era il punto di convergenza e di collaborazione “delle idee clericali e socialiste, moderate e radicali”. «La questione sociale, aggiunse, noi la risolviamo elevando le classi più umili a livello di quelle più ricche».

   Pochi giorni prima era stato ricevuto segretamente da Vittorio Emanuele III nel Castello di Racconigi. Si avvicinavano le celebrazioni del cinquantesimo del regno. Urgeva un cambio al vertice del governo. Da Cuneo Giolitti fece sapere di non avere alcuna avversione nei confronti di chi aveva veduto in Luigi Luzzatti l’argine laico contro l’avanzata dei cattolici deputati. Al tempo stesso, però, non coltivava alcun altro pregiudizio: «Ognuno valga per ciò che sa e per il lavoro che compie». Le ideologie appartenevano al passato remoto, anche perché premevano impegni che nessuno dei presenti immaginava, a cominciare dall’impresa di Libia. Non solo Marx era stato mandato in soffitta (o così gli pareva o sperava). La constatazione della conseguita “pace sociale” era premessa indispensabile per affrontare nuove severe prove, giacché, avrebbe detto dopo il suo avvio, «nessuna guerra moderna può svolgersi senza la decisa volontà del popolo che la fa»: criterio che lo condusse a scuotere il capo dinnanzi all’interventismo del 1914-1915, lontano dal “Paese che lavora”. Per lui le guerre dovevano essere solo “difensive” o “di liberazione”, come quella per l'indispensabile “quarta sponda” e la liberazione di Rodi e del Dodecanneso dal secolare dominio turco, sulla scia di Mazzini e di Giuseppe Garibaldi, che nelle “Memorie” piegò la missione civile dell'Italia sull'Africa settentrionale, di concerto con Londra.

   Anche da sedi periferiche lo statista mandò messaggi cifrati, attesi dal Re che il 30 marzo 1911, dopo il cinquantenario della proclamazione di Roma a capitale d’Italia (una data ancora disputata, lasciata celebrare a Luzzatti) gli affidò per la quarta volta il governo del Paese.

   All’inaugurazione della prima Camera eletta col suffragio quasi universale maschile (1913), dopo  circa tre lustri di governo Giolitti non venne affatto scosso da chi, come il socialista e massone Giuseppe Raimondo, ne annunciava il tramonto o, come Arturo Labriola (futuro ministro del Lavoro nel suo V governo, 1920-1921), sentenziava che vi era «da una parte un’Italia rivoluzionaria nazionalista e dall’altra un’Italia socialista, ma non c’e[ra] più un’Italia giolittiana». Lo statista sapeva bene che vi era la cattolica, maggioritaria nel Paese, e che solo il cosiddetto “patto Gentiloni”, approdo della linea avviata con la sospensione mirata del non expedit da parte di Pio X sin dal 1904 (come chiarito da Gianpaolo Romanato nella biografia del pontefice), aveva scongiurato divenisse più clericale di quanto, per contrapposti motivi, molti volevano. A quel punto, infatti, Giolitti poteva considerare in gran parte attuato il programma enunciato il 21 settembre 1900 in risposta a quello avanzato da Sidney Sonnino (Quid agendum) all’indomani del regicidio di Monza (“il più atroce dei delitti”, lo definì Giolitti stesso). Conscio che l’Italia aveva necessità di riforme profonde nell’amministrazione della giustizia, nel sistema scolastico e nei rapporti tra capitale e lavoro, lo statista cuneese affermò che queste andavano varate subito ma avrebbero dato frutti solo sul lungo periodo. Però per evitare che «il partito monarchico divent(asse) in molta parte d’Italia una minoranza» occorrevano misure immediate e incisive.

   I fasci siciliani, i moti di Lunigiana del 1894 e la vasta sommossa/insurrezione del 1898 avevano indicato la via maestra: il riordino completo della fiscalità per scongiurare il declino della piccola proprietà, che costituiva «la più valida difesa dell’ordine sociale». Le classi dirigenti, affermò Giolitti, dovevano persuadersi che «senza qualche sacrificio esse non possono sperare durevole quella pace sociale senza cui non vi è sicurezza né per le persone né per gli averi». Ai “conservatori” (che sono l'opposto dei “liberali”, per definizione e vocazione “innovatori”) lo statista lanciò un monito severo, quasi una provocazione: «Io deploro quanto altri mai la lotta di classe; ma, siamo giusti, chi l’ha iniziata?».

   

    Toccava appunto ai liberali cogliere lo spirare dei venti e promuovere le riforme: unico metodo per garantire lunga vita alle Istituzioni. Lo statista piemontese, bene orientato dal Re, si impegnò a fondo nella realizzazione di quel compito storico. Perciò la sua figura e il suo nome non potranno mai essere “confiscati” dai reazionari, suoi implacabili avversari.  

Aldo A. Mola 

DIDASCALIA : Giovanni Giolitti (1842-1928), nel 1913 ritratto da Antonio Piatti (2875-1962) per il Comune di Cuneo, di cui lo statista fu proclamato cittadino onorario. 

   Il dipinto dominò a lungo la sala del Consiglio comunale, dal quale fu poi rimosso. Nel centenario della estromissione di Giolitti dal Consiglio provinciale di Cuneo (1925, per volere del liberticida Mussolini) bene sarebbe riportarlo al suo posto.





STORIA SENZA RETE? Corsi e ricorsi della Civiltà

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 2 luglio 2023 pagg. 1 e 6.


Gli Astri? Pollice verso.
   Come finirà? Niente ispira e/o legittima ottimismo. L'unica certezza, anzi, è che si va di male in peggio. La Storia presenta il conto dei debiti non saldati. Lasciato alle spalle l'equilibrio del terrore (sempre meglio che la catastrofe), da quando sulla scena delle massime potenze Henry Kissinger inserì la Cina, il Mondo non si è affatto avviato al multilateralismo. Ma quel Segretario di Stato era un euro-americano. Prima di entrare nelle moschee, si levava le scarpe. Dopo di lui, un errore dopo l'altro il pianeta si è avviato verso l'anarchia internazionale. Ora è sull'orlo dell'abisso.   
   L'Organizzazione delle Nazioni Unite fu istituita il 25 aprile 1945, mentre in Europa la seconda guerra mondiale era ancora in corso. Nel Preambolo del suo Statuto (approvato il 26 giugno, cinquanta giorni prima delle bombe americane sul Giappone, e in vigore dal 24 ottobre seguente: l'identico giorno della Pace di Westfalia che nel 1648 mise fine alla Guerra dei Trent'anni) i “popoli” (non “Stati”) delle Nazioni Unite si impegnarono a “salvare le future generazioni dalle guerre; a riaffermare la fede nei fondamentali diritti dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell'uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne, e delle nazioni grandi e piccoli; a vivere in pace uno con l'altro da buoni vicini; a promuovere il rispetto per i diritti umani e per le libertà fondamentali di tutti gli uomini senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua e di religione”. Solo retorica o un bisogno profondo della “pace in terra agli uomini di buona volontà” annunciata millenni prima e accoratamente invocata da Giovanni XXIII?
  Però sin dalla nascita dell'ONU i componenti della sua “cupola”, cioè i membri del Consiglio di Sicurezza (USA, URSS, Gran Bretagna, Francia e Cina, quella di allora, non la Repubblica popolare che le subentrò) erano già preda di nuovi conflitti. Forti del diritto di veto, essi svuotarono l'Assemblea di potere effettivo. Le affidarono l'onere di varare costose “missioni di pace” per arginare  interminabili “guerre di teatro”, combattute in territori circoscritti, inizialmente con armi rudimentali, poi via via più sofisticate.
La risacca degl'imperi coloniali 
  Tra il 1945 e l'inizio degli Anni Sessanta la carta politico-militare del pianeta mutò drasticamente. La finzione prevalse sul Diritto delle genti. 
    Nel 1945 l'Europa era un cumulo di macerie. Gli imperi coloniali frettolosamente affastellati nel secolo precedente stavano crollando sotto l'impeto di Fronti di liberazione in parte eredi della lotta dei colonizzati contro i dominatori, in parte eterodiretti anche da chi, come anche gli USA, miravano a impossessarsi delle loro spoglie, piagate ma pingui di risorse naturali e di quelle “terre rare” oggi al centro degli appetiti delle grandi potenze e di “agenzie” dal profilo politico-militare ancora ambiguo. Nella seconda metà del Novecento gli “atlanti storici” sui quali si studiava erano ormai obsoleti e mendaci. Registravano i domini afroasiatici di Stati europei geo-militarmente ormai irrilevanti, come Paesi Bassi, Belgio e Portogallo. Lisbona contava ancora “piazze” in India e possedeva da secoli l'Angola e il Mozambico. Che cosa ci aveva mai fatto di civile e costruttivo ? Vi irruppero i guerriglieri che avevano “liberato” Cuba a beneficio di Castro, complice Ernesto Guevara”, il “Che”.     
   La sconfitta del 1943-1945 e il trattato di pace del 1947 liberarono l'Italia dal peso dell'impero coloniale. Conquistatolo pochi anni prima (1911-1936), lo Stato non ebbe tempo a radicarvisi, né modo e motivo di combattere per rimanervi. Così, una fortuna tra tante sventure, l'Italia non divenne approdo di un numero condizionante di ex “colonizzati” che invece si riversarono in altri Stati europei dopo il crollo dei loro imperi e vi si accamparono da estranei. Per l'Italia l' “Impero” rimase un “mito”, avvolto nelle leggende, al pari dell'“antica Roma”. Andò molto peggio ad altri Paesi del Vecchio Continente per i quali gli antichi domini risultarono una pesantissima palla al piede. Va anche aggiunto che il modello di imperialismo italiano, al netto dei toni magniloquenti di minoranze fanatiche, ebbe per fondamento l'universalismo latino (da Cicerone e Seneca al neognosticismo) e quello cristiano (da san Paolo a Pelagio). Da quando ebbero colonie, i governi della Nuova Italia nominarono alla loro guida i politici più colti. Ne furono governatori, ministri e sottosegretari  Ferdinando Martini, Enrico De Nicola, Gaetano Mosca, Gaspare Colosimo,  Francesco Saverio Nitti, Bartolomeo Ruini, Giovanni Amendola, in maggioranza massoni e teosofi. Il 31 ottobre 1922 Vittorio Emanuele III su proposta di Mussolini nominò ministro delle colonie il carducciano Luigi Federzoni, uomo del Risorgimento come poi Alessandro Lessona: tutt'altra pasta rispetto a rozzi ras di provincia, a ottusi federali e a Rodolfo Graziani, rapidamente sostituito con Amedeo di Savoia, duca d'Aosta, viceré d'Etiopia. 
L'alba nebbiosa della Nuova Europa
     
   Dalle due grandi guerre, scatenate da suoi Stati e divenute mondiali, l'Europa non apprese granché. “Lento pede” avviò un Mercato comune e Assemblee consultive di modesta valenza rappresentativa, come il Consiglio europeo, ma non varcò mai il Rubicone per fondere gli Stati nazionali in federazione politico-militare. La Nuova Europa morì in fasce per il voto contrario della Francia alla istituzione della Comunità europea di difesa (Ced), che avrebbe comportato un armamento sia pur minimo degli odiati “boches”. A parte pochi statisti lungimiranti (Schuman, Monnet, Adenauer, Degasperi...: tutti uomini “di confine” come ha è stato ricordato il 30 giugno 2023 in un video-convegno dell'Istituto Giorgio Galli di Milano presieduto da Daniele Comero) i “politici” della Nuova Europa camminavano con la testa volta all'indietro, ossessionati dalle guerre del Cinque-Novecento.
  Il 5 marzo 1946 fu l'inglese Winston Churchill alla presenza dell'americano Harry Truman a denunciare in Fulton (USA) che sull'Europa era calata la “cortina di ferro” da Stettino a Trieste e che era ora di armarsi contro il nuovo nemico: l'URSS di Stalin e i suoi accoliti annidati nei partiti comunisti dell'Europa occidentale. Divennero sospetti sia i “partigiani della pace” (non di rado succubi della propaganda filosovietica) e i fautori di una “terza via” riluttanti a schierarsi per l'ennesimo “Ordine Nuovo”. Quale? Anziché dar vita a una federazione, gli Stati europei entrarono alla spicciolata nella Nato, alleanza difensiva destinata ad ampliare sempre più (e in termini via via più erratici) il raggio delle sue “missioni”. Vi entrarono nella convinzione di sedervi da pari, non da “soci di minoranza” né, meno ancora, da  succubi. Però chi aveva perso la guerra dei trent'anni (1914-1945) non poteva chiedere di più né di meglio. Da molti Paesi aderenti la Nato venne intesa come la coperta che consentiva di risparmiare per la propria difesa e risalire la china dal baratro delle tante guerre, anche “civili”, che li avevano devastati, seminando odi inestinguibili al loro interno e nei rapporti internazionali.       
   Per decenni europeisti militanti s'incaponirono a includere la Gran Bretagna, sempre riluttante, scostante e infine contraria a riconoscersi in una comunità che prima o poi avrebbe richiesto agli inglesi di adottare l' “euro” al posto della sterlina. Inammissibile oltre Manica. L'“Inghilterra” accettò di accedere all'Unione Europea. Come in un pub. Quarant'anni dopo ne uscì, aprendo una discussione interminabile sul conto della “consumazione”. 
Alla ricerca della Storia perduta 
   L'Europa odierna è quella che è. Per quanto bizzarro (o buffo), l'unico suo tratto distintivo unitario è l'uso dell'anglo-americano quale “lingua franca”. Essa dispensa gli europei della terra ferma dall'apprendere l'idioma dei popoli confinanti con tutte le sue difficoltà e astruserie. Usando l'inglese i tedeschi non hanno motivo di scrivere in francese (un vero tormento), né i francesi debbono affaticarsi la trachea e i polmoni parlando in tedesco. Così gli “europei” finirono per conoscersi a vicenda sulla base di traduzioni dall'inglese dei loro stessi “classici”, proprio mentre i cinesi studiano il diritto romano, come insegna Tito Lucrezio Rizzo. 
   Ora l'Europa ha la guerra in casa. L'Ucraina è a due passi. Per rispondere all'aggressore, il suo “presidente/comandante”, perennemente “in divisa”, con toni sempre più minacciosi pretende i migliori aerei da combattimento e missili di lunga gittata, ai quali il nemico risponderà con armi ancor più potenti. Siamo in corsa verso il precipizio. L'opinione pubblica europea era e rimane impreparata dinnanzi a un “evento” che era nelle cose e che ha sorpreso solo gli imprevidenti immersi sino agli occhi nelle cronache delle lotte elettorali per un potere che non c'è. Senza politica estera e di difesa comune, l' “Europa” è semplicemente inesistente. Balbetta. Per un anno i suoi elettori verranno tempestati dalla gara tra partiti in lizza per i seggi dell'Europarlamento. Ad assetto istituzionale invariato, esso darà gli stessi risultati di quello ormai prossimo allo scioglimento. Tra modesto e mediocre. C'è poco da attendersi. Il generale Claudio Graziano, già presidente del Comitato Militare dell'Unione Europea, lo ha detto in tutti i modi e lo ha scritto in “Missione. Dalla Guerra fredda alla Difesa europea” (ed. Luiss). Per costruire un sistema difensivo adeguato a misura dell'Europa che non c'è occorrono due decenni; e per programmarne uno più avanzato ne occorrono altri venti. Ma ...la Storia non aspetta.   
  La Storia ha insegnato poco o niente. Perché il suo studio costa fatica. E' “magistra vitae” solo per chi la conosce. Anche i Libri, dal Vecchio e Nuovo Testamento al Corano alla Pace perpetua vaticinata da Immanuel Kant, rimangono ermeticamente chiusi. I pochi che se ne ricordano hanno le mani ripiegate sconsolatamente sulle ginocchia e le palpebre affaticate dalle quotidiane scene di guerra. Non orano e non lavorano, come il 30% dei “giovani” europei della generazione “ni-ni”. 
Senza rete
  Tra i segnali meno incoraggianti uno merita un cenno. Proprio in queste ore una rivista di storia nata quasi vent'anni addietro ha abbassato le vele, tirato i remi in barca e non si sa se riprenderà mai il largo. Ne ha dato notizia nel suo sito il direttore/amministratore.
  Perché parlarne? Edicole (sempre meno: fanno una vita d'inferno, giorno dopo giorno svuotate dalla comunicazione “in rete”) e grandi magazzini sono colme di riviste d'ogni genere. Nulla, però, di paragonabile alla celebre “Storia illustrata” e ai suoi predecessori ed emuli. L'ultimo nato della serie fu, appunto, il mensile “Storia in Rete”, nato per evoluzione da un “sito web” e grazie a un generoso sostegno.
   Nel suo numero Zero il direttore enunciò l'obiettivo del mensile: valorizzare le ricerche d'archivio per rimettere in movimento il dibattito sul passato. Era l'ottobre del 2005. Il n.1 uscì a novembre, il mese che si apre con la festa di tutti i santi e continua con la rievocazione dei morti. I suoi collaboratori pressoché fissi, alcuni inclusi nel Comitato scientifico originario (Aldo G. Ricci, Nico Perrone, ..) altri presenti nel mensile per quasi vent'anni con rubriche o articoli (il cartografo Emanuele Mastrangelo, lo storico Luciano Garibaldi..) ebbero l'obiettivo di andare  oltre gli steccati che da decenni dividevano la “storiografia” in fazioni ricalcanti le divisioni tra partiti e la sussunzione degli studi in Fondazioni dai nomi emblematici: l'Istituto Gramsci, lo Sturzo e via continuando... Venne ripetutamente osservato il vuoto di rappresentazione della tradizione liberale. Ma anche molti fascicoli di “Storia in Rete” finirono per replicare il dualismo che deprecava e intendeva superare. La rivista doveva rintuzzare la fatua accusa di “revisionismo”. Lo fece con articoli magistrali di Paolo Simoncelli e di tanti autori non incasellati in “scuole”e/o tifoserie, ma non sempre pose al centro la storia delle Istituzioni, quasi mai si occupò di corpo diplomatico, magistrature, conferenze episcopali. Quasi mai dell'assetto dell'Europa.  
  Ora anche “La Civiltà Cattolica”, quindicinale della Compagnia d Gesù, lancia l'allarme. Il modello liberal-democratico è in crisi proprio negli Stati europei che l'hanno tenuto a balia. Con l'eclissi del Centro la “politica” sbanda, deraglia, si decompone in lotte di quartiere tra movimenti quantitativamente minoritari, di recente costituzione, gonfi di pretese, privi di orizzonti. I toni si alzano anche nei luoghi più sacri, come le Aule parlamentari sovente semideserte. Vedere tanti “politici” strabuzzare gli occhi e usare parole e gesti veementi, giustificandoli quale frutto di passione proprio mentre occorrono ragionamenti pacati, non fa sperare in bene. 
Dunque, come finirà? Probabilmente male. Ma non è la prima volta. Sono i corsi e i ricorsi della Civiltà.
Aldo A. Mola 



La copertina dell'ultimo numero del mensile “Storia in Rete” (n. 198, maggio-giugno 2023). La sua riproduzione in questa sede non è “pubblicità” né esplicita né occulta perché la rivista, ritirata dalle edicole,  ormai è una “reliquia”. Il suo direttore ha comunicato la sospensione delle pubblicazioni, a metà dell'anno, con una sobria nota di ringraziamento ai “collaboratori”. Per sempre? Per qualche mese? Staremo a vedere. Contando anche il numero Zero, nel tempo pubblicò 199 fascicoli (molti dei quali con numerazione doppia anche se di pari pagine a quelli ordinari) e una ventina di “Speciali”. Nell'insieme la sua raccolta è una significativa biblioteca di buoni propositi e di voci risuonanti nel deserto. 
    Il 28 giugno il libro richiamato dalla copertina del numero 198, “Vita di Vittorio Emanuele III (1869-1973). Il Re discusso” (ed. Bompiani) è stato al centro di un ampio dibattito in Torre San Giorgio (Cuneo) per iniziativa della locale Associazione Libertas Cultura guidata da Branca Lore Muller e da Elena Franco, con ampia partecipazione di sindaci,  amministratori e cittadini accomunati dal desiderio di conoscere il passato per meglio orientarsi nel presente e a cospetto di quanto li attende. Come l'autore del libro, anch'essi ricordano e praticano l' evangelico “Nolite iudicare...”. Il compito dello studioso (ogni cittadino oggi ha i mezzi per esserlo) non è di assolvere, condannare o sbrigativamente “giustificare” le nefandezze solo perché sono avvenute. Il compito è documentarsi, comprendere e spiegare. 



PRESIDENZIALISMO?
NO, GRAZIE. E' DIVISIVO


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 28 maggio 2023 pagg. 1 e 6.


Bartolomeo




























                                                          (Meuccio)
                                                          Ruini (Reggio
                                                          nell'Emilia,
                                                          14 dicembre
                                                          1877 - Roma, 6
                                                          marzo 1970),
                                                          laureato in
                                                          giurisprudenza,
                                                          collaboratore
                                                          di “La Critica
                                                          sociale”
                                                          diretta da
                                                          Filippo Turati
                                                          e Claudio
                                                          Treves, eletto
                                                          deputato nel
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                                                          fondatore
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                                                          Nazionale
                                                          (1924), dal
                                                          1943
                                                          rappresentò il
                                                          Partito
                                                          democratico
                                                          del lavoro nel
                                                          Comitato di
                                                          liberazione
                                                          nazionale. Nel
                                                          1901 fu
                                                          affiliato col
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                                                          Marzia Taruffi
                                                          in “1946-2016.
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                                                          la
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                                                          Quaderni dei
                                                          Martedì
                                                          Letterari del
                                                          Casinò di
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                                                          Repubblica è
                                                          nel volume di
                                                          Tito Lucrezio
                                                          Rizzo “Il Capo
                                                          dello Stato
                                                          dalla
                                                          Monarchia alla
                                                          Repubblica,
                                                          1848-2022”
                                                          (ed. Roma,
                                                          Herald, 2022),
                                                          comprendente i
                                                          profili di
                                                          Enrico De
                                                          Nicola e Luigi
                                                          Einaudi
                                                          (entrambi
                                                          liberali e
                                                          monarchici),
                                                          Giovanni
                                                          Gronchi,
                                                          Antonio Segni,
                                                          Giuseppe
                                                          Saragat,
                                                          Giovanni
                                                          Leone, Sandro
                                                          Pertini,
                                                          Francesco
                                                          Cossiga, Oscar
                                                          Luigi
                                                          Scalfaro,
                                                          Carlo Azeglio
                                                          Ciampi,
                                                          Giorgio
                                                          Napolitano e
                                                          Sergio
                                                          Mattarella (i
                                                          due ultimi
                                                          rieletti), cui
                                                          Rizzo aggiunge
                                                          Cesare
                                                          Merzagora,
                                                          supplente
                                                          durante la
                                                          malattia di
                                                          Segni.
                                                          Talvolta i
                                                          presidenti
                                                          vennero eletti
                                                          dopo molti
                                                          scrutini e con
                                                          stretto
                                                          margine di
                                                          vantaggio. La
                                                          divisione fu
                                                          superata
                                                          perché non
                                                          contagiò il
                                                          Paese e non
                                                          alimentò la
                                                          contrapposizione
                                                          tra le opposte
                                                          fazioni.
                                                          Quanto gli
                                                          italiani
                                                          possano
                                                          dividersi fu
                                                          dimostrato dal
                                                          referendum per
                                                          l’abrogazione
                                                          del divorzio,
                                                          imposto a
                                                          Fanfani da
                                                          vetero-clericali.
                                                          Dopo una
                                                          campagna dai
                                                          toni
                                                          accesissimi il
                                                          “No” prevalse”
                                                          con quasi i
                                                          60% dei
                                                          consensi. I
                                                          “vinti”, però,
                                                          non si
                                                          rassegnarono
                                                          alla
                                                          sconfitta,
                                                          subìta come
                                                          un'onta e
                                                          deplorata come
                                                          tramonto della
                                                          civiltà.
Didascalia
Fiammelle e rintocchi di campane
Domenica di Pentecoste. In attesa che la fiammella di uno spirito santo scenda “magna et semper” a restituire un po' di elementare buon senso alla vita pubblica, il “sabato di riflessione elettorale” ha silenziato le urla comiziali di chi, a corto di argomenti, alza la voce e strabuzza gli occhi per darsi ragione e insulta l'avversari, sicché il “confronto” degenera in rissa. In tal modo vengono elusi i solenni moniti rivolti agli attori istituzionali, politici ed economici da parte di chi ha titolo per farlo. Ne ricordiamo almeno due. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha sentito il bisogno di “chiamato a rapporto” i presidenti delle due Camere, Fontana e La Russa. Ha espresso il disappunto per la deriva del legislativo: troppi emendamenti, e troppo divaricat, deformano i testi di legge originari riducendoli a “omnibus” nei quali viaggia di tutto e di più, suscitando perplessità e contrarietà anche nelle Aule parlamentari, piegate con ricorso al voto di fiducia: ripiego con il quale il governo imbavaglia il dibattito e umilia le Camere, ricattate dall'incubo della crisi di governo. Quali conseguenze avrà l'intervento del capo dello Stato sul seguito dei lavori parlamentari? Di sicuro non potrà essere ignorato perché il Presidente può rinviare le leggi alle Camere e chiederne una nuova redazione o quanto meno una seconda votazione (è già accaduto in questi primi mesi di legislatura). 
   Non meno solenne, sei è fatto sentire il Fondo Monetario Internazionale. Anziché diminuire, il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo è schizzato ulteriormente verso l’alto, raggiungendo quota 150, oltre la quale si spalanca l'abisso del fallimento finanziario dello Stato. Se continua così, nessuno darà più credito all’Italia,  se non assumendo il controllo della sua capacità di restituire i prestiti. Non è la “fine dell’indipendenza” (che risale al 1943), ma l'effetto di quanto l'Italia si è impegnata a fare quando ha introdotto in costituzione il rispetto dei suoi “conti”, come fa (o dovrebbe fare) ogni famiglia. In risposta al FMI un ministro si è affrettato ad assicurare che l'Italia “farà”. Ma il Fondo Monetario Internazionale non rimarrà con le mani in mano se il rapporto tra debito e PIL dell'Italia dovesse peggiorare e finire fuori controllo, contagiando le economie di altri Paesi.
   La stabilità dell'Italia è una variabile dipendente non solo dall'andamento del prodotto interno lordo e delle borse. Essa si fonda sul rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni, oggi assai altalenante. Lo ebbero chiaro i costituenti quando nell'articolo 1 della Carta scrissero: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Nel dibattito qualcuno propose di scrivere che la sovranità “emana” dal popolo: formula che però parve assai fumosa ad Amintore Fanfani, che difese la versione elaborata dalla Commissione dei Settantacinque, presieduta da Bartolomeo (Meuccio) Ruini, politico di lungo corso. I costituenti, del resto, avevano alle spalle il Regio decreto legislativo luogotenenziale (Rdll) 25 giugno 1944, n. 151 emanato da Umberto di Savoia, principe di Piemonte e luogotenente generale del Re per effetto del regio decreto di suo padre Vittorio Emanuele III, datato da Ravello il 5 giugno1944. Nell'articolo 1 esso sancì: “Dopo la liberazione del territorio nazionale le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà a suffragio universale diretto e segreto un'assemblea costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato”.
   Quel Rdll segnò il distacco dallo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Savoia-Carignano il 4 marzo 1848 di propria “certa scienza e autorità”: un “motu proprio”, forte del “parere del suo Consiglio”. La nomina di Umberto a Luogotenente Generale del Re (poi il governo impose: “del Regno”) era stata anticipata dal proclama indirizzato da Vittorio Emanuele III al popolo italiano il 12 aprile. Il sovrano vi annunciò la decisione “definitiva e irrevocabile” di ritirarsi dalla vita pubblica per “facilitare l'unità nazionale”, rivendicandola come deliberata “di certa scienza e autorità” mentre, nei fatti, gli era stata imposta dagli anglo-americani in combutta con i partiti del Comitato di liberazione nazionale pochi giorni dopo entrati nel secondo governo Badoglio.
   L'Italia, scrisse Vittorio Emanuele III, da otto mesi era “in guerra contro il nemico a fianco con le truppe alleate”. Il Re, che conservò la corona, non aveva bisogno di indicare per nome i “nemici”. Essi erano la Germania di Adolf Hitler e i suoi alleati, incluso lo “Stato repubblicano” suo vassallo. In linea con la sua concezione del ruolo di monarca costituzionale, Vittorio Emanuele III esercitò per la penultima volta i suoi poteri di sovrano costituzionale (l'ultima fu l'abdicazione del 9 maggio 1946, decisa “motu proprio”).
   A chi gli domandò perché avesse firmato il Rdll del 25 giugno 1944, che mutò radicalmente la sovranità trasferendola dal re al popolo, Umberto di Savoia rispose che a quel modo il governo, espressione del Comitato di liberazione nazionale, riconosceva la Corona e quindi, in assenza del Parlamento bicamerale statutario, esso si configurava quale micro-parlamento. I ministri e i sottosegretari di Stato, infatti, giuravano “sul loro onore di esercitare le loro funzioni nell'interesse supremo della nazione” e si impegnavano a non compiere fino alla convocazione dell'assemblea costituente atti che comunque pregiudicassero la soluzione della questione istituzionale”.
Una Carta per unire.
   La decisione della forma istituzionale, come noto, venne poi demandata non alla Costituente ma ai cittadini, che si pronunciarono nel referendum del 2-3 giugno 1946, mentre la Carta fu elaborata dall'Assemblea tra il giugno 1946 e il 27 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948. La Costituzione ha il pregio di disegnare con chiarezza le “forme istituzionali”. L'Ordinamento dello Stato d'Italia  è incardinato su due Camere, entrambe elettive, e sulla Presidenza della Repubblica. Per ciò che ha di meglio, esso ricalca dunque il modello configurato dallo Statuto albertino. Se questo durò un secolo, la Costituzione ha raggiunto i 75 anni senza scosse destabilizzanti. Regge sul bilanciamento dei poteri, tutti promananti del “popolo” ma al tempo stesso tutti al riparo da usurpazioni.
   Come già lo Statuto, anche la Carta del 1948 mirò a promuovere l'unità dei cittadini, ponendo le istituzioni al sicuro da pulsioni emotive (prevalenti in caso di elezione diretta del Capo dello Stato). Perciò riconobbe al Presidente della Repubblica poteri persino superiori a quelli che lo Statuto riservava al Re. Mentre il sovrano costituzionale era tenuto a sanzionare e ad emanare le leggi approvate dal Parlamento, anche quando non le condivideva (fu il caso delle leggi anti-ebraiche), il Presidente “può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione” (art. 74).
   Eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri e dai rappresentanti delle Regioni, il Presidente è figura metastorica, come era il Re. È capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale, ha il comando delle forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere, presiede il Consiglio superiore della magistratura, può concedere la grazia e commutare le pene ed è “fons honorum”. Non responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per altro tradimento o per attentato alla Costituzione (solo uno dei Presidenti, nel tempo, venne inopportunamente “indiziato”), prima di assumere le funzioni il capo dello Stato presta giuramento di fedeltà alla Repubblica dinanzi al Parlamento convocato in seduta comune per l'articolo 91 della Carta, che ricalca pari pari l'articolo 23 dello Statuto albertino secondo il quale: “il Re salendo al trono presta in presenza delle Camere riunite il giuramento di osservare lealmente il presente Statuto”. Nihil sub sole novi...
   Solo 11 dei 51 partiti scesi in lizza il 2-3 giugno 1946 ottennero di spartirsi i “resti” confluiti nel “monte voti” del Collegio unico nazionale. I costituenti percepirono la necessità di rappresentare tutti i cittadini, al di là dei loro orientamenti ideologici. Per blindare la Repubblica, essi approvarono due norme transitorie e finali solitamente ignorate e tuttavia fondamentali: la XV (“Con l'entrata in vigore della Costituzione si dà per convertito in legge il decreto legislativo luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151 sull'ordinamento provvisorio dello Stato”: si può ben dire che fu Umberto a germinare la Repubblica, senza immaginare quanto questa gli sarebbe stata ingrata) e la XVI, assai speranzosa e quindi inapplicata (“Entro un anno dalla entrata in vigore della Costituzione si procede alla revisione e al coordinamento con essa delle precedenti leggi costituzionali che non siano finora esplicitamente o implicitamente abrogate”). Come una legge possa essere abrogata “implicitamente” rimase un mistero gaudioso, tanto più in assenza della Corte Costituzionale costituita solo un decennio dopo.
   Obiettivo supremo del nuovo Ordinamento fu, come detto, elevare la figura del Capo dello Stato al di sopra dei due corpi elettorali: il “popolo” e le Camere stesse. Il Presidente era, deve essere, “al di sopra”. Anche la sua durata in carica (sette anni, contro i cinque dei due rami del Parlamento) fu stabilita per liberarlo da ogni soggezione verso le Camere che lo eleggono e che, sentiti i loro presidenti, egli può sciogliere (la Carta non ne enuncia i motivi).
   In sintesi, primo magistrato della Repubblica, il Presidente è il sommo sacerdote dello Stato: una figura ieratica, che non nasce dalla nuova forma istituzionale e che tra il giugno 1946 e il dicembre/maggio 1948 venne incarnata dai due primi di “capi provvisori”, Alcide De Gasperi per pochi giorni ed Enrico De Nicola per un anno e mezzo. Come già i Re, essa affonda radici nella storia millenaria dell'Italia e, in tempi ravvicinati, in quella secolare delle cospirazioni settarie per le libertà, dei moti liberali e delle guerre per l'indipendenza da dominazioni straniere e per l'unità: fondamento etico dei valori e dei diritti non negoziabili, riconosciuti dalla Carta, come già dallo Statuto.
   A cospetto della ricorrente proposta di affidare ai cittadini l'elezione diretta del capo dello Stato ci si deve pertanto porre una sola domanda: essa concorrerebbe o no a unire gli italiani in una comunità finalmente affratellata o quanto meno ispirata a reciproca tolleranza e comprensione tra diversi “partiti”? Etimologicamente il “Partito” è l'opposto dell'unità: indica una partizione e quindi, inevitabilmente, una divisione e una contrapposizione.
   Dalla proclamazione del regno d'Italia (14 marzo 1861), al vertice dello Stato si sono susseguiti quattro “capi” per successione dinastica (Vittorio Emanuele II, Umberto I, Vittorio Emanuele III e Umberto II), uno, Alcide De Gasperi, per “gesto rivoluzionario del governo” e dodici per elezione di secondo grado. Pur fra travagli, inclusi gli interventi in due guerre da europee divenute mondiali, il processo di maturazione della coscienza unitaria ha compiuto molti in avanti. Da meramente nominale ed estrinseca, l'idea di appartenenza a una comunità statuale si è andata via via consolidando. Lo si percepisce a fronte delle calamità naturali, quando si avverte più acuta la necessità di lasciare da parte quanto divide e di puntare su ciò che unisce (o così dovrebbe essere: purtroppo a volte affiorano meschini calcoli che mostrano il volto peggiore della “politica” e disgustano i cittadini). Anche l'indignazione dell'opinione pubblica dinnanzi a piccole e grandi violazioni dei diritti umani e alle storture nella cura del bene pubblico e nell'amministrazione della giustizia conferma che un ampio numero di cittadini sente la necessità di un arbitro super partes.
   L'elezione diretta del capo dello Stato si risolverebbe nella divisione dei cittadini in fazioni contrapposte. L'Italia l'ha già sperimentato nel 1946, quando nell’elezione dei Costituenti quindici partiti ottennero propri rappresentanti. Alcuni di questi però ne ebbero ottennero un numero modesto o irrilevante. Fu il caso del Partito d'azione, che ne ebbe sette, seguito da Concentrazione democratica repubblicana che ne ebbe 2 (Parri e La Malfa) e dal Partito sardo d'azione, mentre i Cristiano sociali, la Democrazia del lavoro e il Movimento unionista italiani ne ebbero uno solo su 555. I veri “protagonisti” della Costituente risultarono tre: Democristiani (203), socialisti (115) e comunisti (104), seguiti a distanza da Unione democratica nazionale (41) e Blocco nazionale della libertà (16), echi ormai minoritari del Risorgimento e della monarchia, come attestano gli studi di Aldo G. Ricci. Ma al referendum sulla forma dello Stato il Paese apparve spaccato a metà: su 28 milioni di aventi diritto al voto, 12.700.000 si espressero a favore della Repubblica 10.700.000 per la Monarchia; 1.500.000 consegnarono scheda bianca. Il corpo elettorale risultò lacerato. La Repubblica infine prevalse non solo e non tanto perché partendo per l'estero il non ancora esule Umberto II sciolse dal giuramento di fedeltà alla Corona quanti l'aveva pronunciato (una minoranza di uomini dello Stato”: militari, diplomatici, magistrati, docenti, impiegati pubblici...), ma perché essa fece terra bruciata per i monarchici, messi all'angolo, finiti in un cono d'ombra e poi in gran parte intruppati sotto lo scudo crociato della DC.
   Ma che cosa accadrebbe oggi se l'elezione del capo delle Stato avvenisse con voto diretto dei cittadini? I soccombenti accetterebbero l'esito delle urne e un “vincitore” prevalente per una manciata di voti (discussi) come avvenne per le elezioni delle Camere? Il Paese precipiterebbe nella contrapposizione implacabile di opposte tifoserie”, a rischio di deflagrazione delle sue istituzioni, come accade oltre Atlantico.
   Il “premierato” (neologismo che sta alla lingua di Dante come il “made in Italy” propugnato da sovranisti) elude i rischi del “presidenzialismo”? Il tema merita apposita trattazione.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA
Bartolomeo (Meuccio) Ruini (Reggio nell'Emilia, 14 dicembre 1877 - Roma, 6 marzo 1970), laureato in giurisprudenza, collaboratore di “La Critica sociale” diretta da Filippo Turati e Claudio Treves, eletto deputato nel 1912 nel collegio di Castelnuovo ne' Monti per il partito radicale, ministro delle Colonie nell'ultimo governo Nitti, fondatore dell'Unione Nazionale (1924), dal 1943 rappresentò il Partito democratico del lavoro nel Comitato di liberazione nazionale. Nel 1901 fu affiliato col grado di maestro massone nella pugnace loggia “Rienzi” di Roma, come documenta Marzia Taruffi in “1946-2016. 70° della Repubblica italiana. Ideali e uomini della Massoneria per la Costituzione”, Quaderni dei Martedì Letterari del Casinò di Sanremo, ed. De Ferrari, 2016. Ruini presiedette la Commissione dei Settantacinque che elaborò la bozza della Carta costituzionale. Da segretaria della Commissione funse Leonilde Jotti, deputata del Partito comunista italiano e fiduciaria di Togliatti.
   Il repertorio dei presidenti eletti della Repubblica è nel volume di Tito Lucrezio Rizzo “Il Capo dello Stato dalla Monarchia alla Repubblica, 1848-2022” (ed. Roma, Herald, 2022), comprendente i profili di Enrico De Nicola e Luigi Einaudi (entrambi liberali e monarchici), Giovanni Gronchi, Antonio Segni, Giuseppe Saragat, Giovanni Leone, Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella (i due ultimi rieletti), cui Rizzo aggiunge Cesare Merzagora, supplente durante la malattia di Segni. Talvolta i presidenti vennero eletti dopo molti scrutini e con stretto margine di vantaggio. La divisione fu superata perché non contagiò il Paese e non alimentò la contrapposizione tra le opposte fazioni. Quanto gli italiani possano dividersi fu dimostrato dal referendum per l’abrogazione del divorzio, imposto a Fanfani da vetero-clericali. Dopo una campagna dai toni accesissimi il “No” prevalse” con quasi i 60% dei consensi. I “vinti”, però, non si rassegnarono alla sconfitta, subìta come un'onta e deplorata come tramonto della civiltà.
A.A.M.



GLI “ELETTI” RAPPRESENTAVANO TUTTI
SAFFI, REPUBBLICANO COL RE


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 21 maggio 2023 pagg. 1 e 6.


Marco
                                                          Aurelio Saffi
                                                          (Forlì, 13
                                                          ottobre
                                                          1819-10 aprile
                                                          1890). Già
                                                          programmato
                                                          per il 27
                                                          maggio a
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                                                          dimenticato) è
                                                          stato rinviato
                                                          al 21 ottobre.
                                                          Vi verrà
                                                          presentato un
                                                          sontuoso
                                                          volume di
                                                          Alberto Urizio
                                                          Koverech,
                                                          denso di
                                                          documenti
                                                          inediti.
Didascalia
Poca gioia han dell'urna...
Imperversa il dibattito su due temi apparentemente contigui, in realtà lontanissimi. Il primo è se e quanto gli “eletti” al Parlamento e nei consigli regionali e comunali (col vento che tira quelli provinciali difficilmente verranno riesumati) rappresentino non solo chi li ha votati ma anche l'ampia e crescente massa degli astenuti. Il secondo riguarda le motivazioni profonde dell'astensionismo. In assenza di sondaggi attendibili, parecchi “opinionisti” si sbizzarriscono in lambiccate “interpretazioni” di quanto è evidente da decenni: la crescente disaffezione dei cittadini dai seggi. Secondo alcuni l'astensione indica il sempre più diffuso discredito delle candidature propinate dalle macchine elettorali dei partiti, su misura di leggi che mortificano la libera scelta degli elettori. Se vale per le elezioni politiche (e varrà ancor più per l'elezione degli “eurodeputati” dell'anno venturo), con candidature spesso selezionate da ristrette cerchie di “addetti”, tale interpretazione è confutata nelle amministrative, in specie dalle comunali. Il 14 maggio queste hanno veduto in ogni comune un numero elevato di liste: una novità destinata a rafforzarsi nel crepuscolo di partiti e movimenti che pochi anni or sono giunsero a contare anche il 30 e più per cento dei consensi ma ora sono sotto il 10% e persino al 2-3% come i Pentastellati.
Abbassare l'asticella e abolire il doppio turno?
Le risposte al “nuovo che avanza”, cioè all'astensionismo dilagante, non si sono fatte attendere. È scattata la proposta di abolire i ballottaggi e di portare al 40% il quorum di consensi necessari a eleggere i sindaci al primo turno. Sono ricette controproducenti perché ridurrebbero ulteriormente la rappresentatività dei “primi cittadini”, esattamente l'opposto di quanto occorre. Incrementerebbero l'assenteismo. Secondo un'altra interpretazione, altrettanto fantasiosa, gli astenuti costituirebbero il “parco voti di riserva” degli eletti. Secondo questi oracoli, chi non è andato alle urne lo ha fatto per esercitare una sorta di mònito pedagogico, sospingere i partiti a dare ascolto agli astenuti, ed è pronto a soccorrerli alla prima prossima occasione.
   L'inclinazione a spiegare le tendenze dell'elettorato in scansioni temporali sempre più brevi insinua che l'attuale presidente del Consiglio benefici dell'esaurimento “del decennio della protesta” e che possa quindi guardare a orizzonti lunghi con una certa tranquillità. Scandire la storia in cicli sempre più corti vela la capacità di coglierne l'onda lunga. L'unico beneficio euristico dello spezzettamento della storia in segmenti sempre più brevi è che cancella la leggenda secondo la quale l'Italia è passata dalla prima, a una seconda e alla terza repubblica. Una fiaba in un Paese nel quale molti processi durano decenni e si riaprono “casi” di ere geologiche fa. Per distrarre dalla comprensione dell'unica “repubblica” effettivamente esistita dal 1946 a oggi, ora viene proposto di sostituire l'ordinamento costituzionale vigente con una repubblica presidenziale, un “premierato” (intruglio esterofilo cacofonico) o chissà quale altro ordinamento avvolto in trine linguistiche.
Chi rappresenta chi?
Tempi addietro il corso storico era ripartito in evi (antico, medio e moderno), poi si passò a dividerlo in epoche, di seguito in età, sino a quella “presente”, che invero dura poco ed è anno dopo anno sostituita da altre: una corsa affannosa verso un futuro senza memoria e senza meta. La rappresentazione e rappresentatività dei non votanti da parte della dirigenza eletta sono questioni relativamente recenti. In Italia si posero con l'introduzione del suffragio universale (15 agosto 1919) e con l'obbligatorietà del voto, dettata dal regime di partito unico e a lungo confermata dal regime repubblicano: un “dovere civico” secondo la Costituzione. Da tempo, però, quel “dovere” è stato attenuato in “diritto e dovere”, lasciando al cittadino la libertà di valersene, senza più alcuna sanzione per chi se ne astenga: come in tutte le democrazie parlamentari.
   Dalla promulgazione dello Statuto albertino nel regno di Sardegna (4 marzo 1848), unico stato pre-unitario che tenne duro sulla elettività alle cariche anche dopo la Restaurazione asburgo-borbonica del 1849, il voto non fu affatto obbligatorio e l'elettore non incorreva in alcuna penalità se non si recava al seggio. Del pari si dette per scontato che i deputati, liberi da qualsiasi vincolo di mandato e rappresentanti “della nazione”, non di questo o quel gruppo di sostenitori o “partito” o del “collegio” nel quale venivano eletti, dovevano farsi interpreti non solo degli elettori che non erano andati alle urne ma anche dei non elettori. La legge elettorale, elaborata da politici lungimiranti quali Cesare Balbo, Luigi Francesco Des Ambrois di Nevache e Camillo Cavour, restringeva gli elettori a una stretta cerchia di cittadini, esclusivamente maschi (come in tutte le altre monarchie costituzionali europee e nella “libera Svizzera”, che solo recentemente nel 1971 ha riconosciuto alle donne il diritto di voto attivo e passivo). Dal 1861 quella legge fu adottata dal regno d’Italia, suscitando qualche malcontento, sia perché azzerò alcune norme vigenti nei domini asburgici, sia perché non ampliò il diritto di voto, sollecitato dai seguaci di Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi e da quanti rimpiangevano la Costituzione della Repubblica Romana del 1849, fondata sulla “sovranità popolare”.
   A legge elettorale invariata e con un numero di elettori “politici” fermo a mezzo milione su circa 22 milioni di abitanti (gli elettori dei consigli provinciali e comunali erano più del doppio rispetto a quanti eleggevano i deputati), la Camera eletta a inizio 1861 fu rinnovata nel 1865, dopo il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, nel 1867, dopo l'annessione del Veneto euganeo, e nel 1870, con la “presa” di Roma e del Lazio. I seggi salirono a 508 e tali rimasero sino alle elezioni del 1921, quando votarono anche gli elettori del Trentino e della Venezia Giulia. Alle urne nel 1870 andò appena il 44,5% degli aventi diritto. In Toscana furono solo il 32%, con la punta minima a Livorno (16,3%). L'astensione era predicata dal clero su direttiva della Sacra Penitenzieria vaticana che nel 1866 aveva autorizzato il voto “salvis legibus divinis”, dal 1868 aveva dichiarato il “non expedit” (“non è opportuno”) e poi precisò che quella formula comportava “prohibitionem”. Tuttavia in molti collegi i cattolici andavano ai seggi per impedire l'elezione di candidati “pericolosi”: garibaldini, mazziniani e, pessimi tra tutti, i massoni, in un'età nella quale Pio IX bollava le logge come “sinagoghe di Satana”.
   Sic stantibus rebus, le “sinistre” sentirono il bisogno di riflettere su quanto fosse opportuno e/o necessario per accelerare le riforme di cui tutti sentivano bisogno per “guarire la gran piaga della miseria “ (parole di Garibaldi). Occorreva creare un “campo largo” comprendente pionieri del Risorgimento e liberali già militanti nella sinistra democratica dai tempi del connubio di centro-sinistro (sic) tra Cavour e Urbano Rattazzi. Proprio la stasi politica dei governi della Destra Storica presieduti da Giovanni Lanza e da Marco Minghetti spingevano le “sinistre” a chiarirsi e a passare dall'“astensione” alla “partecipazione”. Sotto falsa identità ma sorvegliato dal governo, Giuseppe Mazzini morì a Pisa il 10 marzo 1872. L'“intransigenza” repubblicana faceva il gioco dei conservatori, anzi dei reazionari. L'esempio veniva da Garibaldi, eletto alla Camera subalpina per il collegio di Cicagna, in Liguria, dal 1849 e poi via via rieletto nei collegi di Corniglio, Nizza Marittima, Milano, Corleto, Napoli... Era un “rivoluzionario” con l'insegna “Italia e Vittorio Emanuele”.
   Insomma, bisognava passare il Rubicone e fare i conti con la “monarchia rappresentativa”. Come spiegò Giosue Carducci, erano stati i patrioti a costringere Vittorio Emanuele II a prendere sulle spalle il “brut fardèl” dell'unificazione nazionale. Gli italiani “adulti” non potevano lasciarlo solo. Diversamente sarebbe stato costretto a cercare l'alleanza del Papa che lo aveva addirittura scomunicato.
Saffi da Forlì: un nuovo Marco Aurelio sul Campidoglio
   Nell'estate del 1874 il bolognese Marco Minghetti presiedeva un governo con  l'antico mazziniano Emilio Visconti-Venosta agli Esteri, Antonio Scialoja all'Istruzione, Silvio Spaventa ai Lavori Pubblici, Onorato Vigliani alla Giustizia: patrioti intemerati e di grande serietà. Garibaldini, mazziniani e radicali raccolti nella Consociazione romagnola decisero di radunarsi a discutere sulla linea da tenere nelle imminenti elezioni politiche. Il 1° agosto, da Caprera, Garibaldi scrisse a Celso Ceretti, Aurelio Saffi e al colonnello Cesare Valzania: “Ai fratelli nostri dei paesi che andate a percorrere, un saluto di cuore; e procurate di inculcare nell'animo loro che Massoni, Carbonari, Internazionali, ecc. devono schierarsi sotto il vessillo repubblicano, che, uniti, potrà condurci al compimento della nostra missione”. Era una dichiarazione di guerra contro la Corona? Niente affatto. Da anni l'Eroe esortava i “progressisti” a entrare nell'arena parlamentare come egli stesso aveva fatto da un quarto di secolo. Bisognava stare in Parlamento per usare le leve del potere a favore degli esclusi dal voto, dai dimenticati. Il 2 agosto ventotto “consociati  romagnoli” si radunarono nella Villa Ruffi, sul colle di Covignano, presso Rimini. A presiederli fu Aurelio Saffi, deputato, iniziato massone nel 1862 nella loggia “Dante Alighieri” di Torino, animata da Ludovico Frapolli e Francesco Crispi. Il 2 agosto 1874 il ministro dell'Interno, Gerolamo Cantelli di Rubbiano li fece arrestare tutti come pericolosissimi cospiratori. In realtà stavano discutendo la linea da tenere contro i rivoluzionari veri, che stavano diffondendo anche in Italia il programma della Comune soffocata nel sangue a Parigi. Lì gli internazionalisti (o comunardi) che non caddero durante l'espugnazione della città da parte delle truppe inviate dal governo, provvisoriamente insediato a Bordeaux, furono spietatamente fucilati cimitero Père Lechaise o deportati nella Nuova Caledonia. Della loro utopia non doveva rimanere traccia. Quel dramma segnò la drastica divisione delle “sinistre” non solo in Francia ma in tutta l'Europa e oltre Atlantico. Lo spartiacque fu appunto la condotta dei democratici per promuovere l'“emancipazione popolare” e arginare il comunismo.
   Gli internazionalisti non avevano dubbi: in tutte le sue componenti la borghesia era complice della “reazione”, somma di Corone e di Altari. Quindi andava spazzata via. Un'altra “internazionale”, però, quella ispirata dalla massoneria universale, riteneva invece che il progresso doveva procedere attraverso l'educazione, persona per persona. Gli internazionalisti paleo-marxisti erano contrari a qualsiasi collaborazione con le “istituzioni”, dalle amministrazioni locali ai governi centrali; i democratici invece miravano invece a valersene per accelerare il miglioramento delle moltitudini. Alla luce della storia diffidavano delle “masse” e delle “rivoluzioni”, che si traducevano in stragi e riportavano all'indietro le lancette dell'incivilimento.
   Quello, appunto, era il rovello di quanti si raccolsero a Villa Ruffi. Tra loro spiccavano due politici di lungo corso: Marco Aurelio Saffi (1819 -1890) e Alessandro (Sandrino) Fortis (1841-1909). Entrambi nativi di Forlì rappresentano due stagioni del “secolo lungo” che in Italia andò dalla Restaurazione del 1814-1815 alla vigilia della Grande Guerra.
   Primo dei quattro figli del conte Girolamo, laureato in legge e filosofia a Ferrara, nel 1843 il ventiquattrenne Saffi si trasferì a Roma ove entrò nella cerchia del console degli Stati Uniti d'America G.M. Green. Eletto deputato alla Costituente istituita da Pio IX, dopo la fuga del papa da Roma a Gaeta, Saffi fu tra quanti tra l'8 e il 9 febbraio 1849, su proposta di Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino, proclamarono l'abolizione della sovranità pontificia e l'avvento della Repubblica, alla cui guida si pose con Carlo Armellini e Giuseppe Mazzini. Al suo crollo, l'11 luglio partì per l'esilio: Ginevra e poi l'Inghilterra, ove conobbe e sposò Giorgina Crawford, nata a Firenze e mazziniana. Ne ebbe quattro figli dai nomi patriottici, come Attilio ed Emilio, in onore dei fratelli Bandiera, fucilati dal Borbone nel vallone del Rovito (Cosenza). Nel 1860 raggiunse Mazzini a Napoli. Il 7 aprile fu eletto deputato nel collegi di Acerenza. Si dimise con altri esponenti della sinistra democratica nel 1864 per protesta contro le misure repressive del “brigantaggio meridionale” che, ormai privo di sostegni dall'estero e dopo la truce stagione delle esecuzioni sommarie chiusa grazie alla Legge Pica, andava affrontato con riforme socio-economiche più e meglio che con le armi. Nel 1867, dopo una seconda stagione in Gran Bretagna, ove conobbe lord Palmerston che lo apprezzò, Saffi tornò nella sua tenuta di San Varano, presso Forlì, nel cui collegio era stato eletto deputato. Dal 1873 assunse la guida dei mazziniani con Maurizio Quadrio, genero di Garibaldi, e Federico Campanella, già gran maestro del Grande Oriente incardinato nel Mezzogiorno e forte di centinaia di affiliati, tra i quali parecchi ecclesiastici.
   Nel 1874 Aurelio Saffi puntò alla svolta generale. Ma il ministro dell'Interno del governo Minghetti, il conte Gerolamo Cantelli di Rubbiano caricò come un toro infuriato. I “consociati romagnoli”, tra i quali Alessandro Fortis, massone, futuro presidente del Consiglio, il genovese Felice Dagnino ed Eugenio Valzania, furono ammanettati, incatenati due a due e tradotti in treno a Spoleto, nella cui fortezza, adattata a carcere, furono ammassati tutti insieme in uno stanzone, senza che neppure fosse stato spiccato nei loro confronti un ordine di cattura. Pura “bestialità”, come deplorò Giosue Carducci. Per un attimo si temette il peggio. L'anarchico russo Michail Bakunin diramò il Manifesto del comitato italiano per la rivoluzione sociale che incitò: “Allo schiavo esser suo primo dovere quello di insorgere e ai soldati quello di disertare”.
   Seguirono altri arresti: il “fratello”Andrea Costa, allievo di Carducci e dal 1882 primo deputato socialista, e Alberto Mario (non massone), di cui molto e bene ha scritto Gianpaolo Romanato. Le elezioni dell'8-15 novembre 1874 segnarono l'avanzata delle sinistre, soprattutto nel Mezzogiorno. Saffi venne eletto deputato nel collegio di Rimini. Mentre Cantelli studiava un progetto per dichiarare fuori legge le opposizioni democratiche e condannare al domicilio coatto da uno a cinque anni gli avversari del governo, il primo a capire la necessità di una svolta vera fu Vittorio Emanuele II, che nel 1875, affiancato dal generale Giuseppe Medici, antico garibaldino, ricevette al Quirinale Garibaldi. Sorreggendosi sulle grucce per i perenni postumi della ferita subita ad Aspromonte, l'Eroe espose al re i piani per fare di Roma una città moderna: arginare il Tevere, aprire un porto commerciale a Ostia e collegarlo con un canale alla Città Eterna, dotata di area industriale. “Agricoltore”(come si era annotato alla Camera dei deputati) Garibaldi parlava non solo per chi disertava le urne ma soprattutto per quanti non avevano diritto di voto e che dalle classi dirigenti si attendevano riforme vere.
   Il 18 marzo 1876 il governo Minghetti fu messo in minoranza. Il Re incaricò Agostino Depretis, capofila della Sinistra storica, di formare il nuovo ministero che ebbe all'Interno Giovanni Nicotera, sopravvissuto di misura alla spedizione guidata da Carlo Pisacane nel Mezzogiorno, finita tragicamente presso Sapri. Deputato della sua nativa Forlì dal 1887, alla testa dell’Associazione democratica bolognese, con i “fratelli” Carducci e Ceneri, nel 1886 Saffi venne chiamato dal gran maestro Adriano Lemmi nella celebre loggia “Propaganda massonica”: un concentrato di personalità di spicco della Terza Italia, vera e propria “vetrina” di patrioti pronti a far quadrato attorno alla Corona, unico pilastro del rinnovamento civile, come si vide con il nuovo codice penale (dovuto a Giuseppe Zanardelli, iniziato in loggia trent'anni prima a Torino) che abolì la pena di morte, ponendo l'Italia all'avanguardia.
   Quel “mondo” va riscoperto e capito mentre oggi le votazioni segnano la divaricazione tra eletti e delusi, tra mestieranti del potere e quanti si preoccupano per la tenuta della democrazia parlamentare. L'interrogativo è destinato a divenire più assillante col rinnovo del Parlamento europeo l'anno venturo: un appuntamento che sta all’Italia odierna come gli eventi di un secolo e mezzo addietro stettero a quella appena nata, quando i suoi “popoli” furono unificati in pochi anni grazie a leggi innovative e con le enormi, costose ma indispensabili infrastrutture per il progresso civile ed economico-sociale della Nuova Italia.
   Quando il 10 aprile 1890, appena settantenne, si avviò all'Oriente Eterno, Marco Aurelio Saffi aveva motivo di ritenersi pago del ruolo svolto per la patria. Era un lettore degli scritti di Mazzini e, ancor più, dell'Ecclesiaste.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA. Marco Aurelio Saffi (Forlì, 13 ottobre 1819-10 aprile 1890). Già programmato per il 27 maggio a Forlì, il convegno sulla sua figura (“eroe del Risorgimento dimenticato) è stato rinviato al 21 ottobre. Vi verrà presentato un sontuoso volume di Alberto Urizio Koverech, denso di documenti inediti.


L'ESEMPIO DELL'EROISMO PAZIENTE E SILENTE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 14 maggio 2023 pagg. 1 e 6.


Francesco
                                                          Baracca
Didascalia
Fare: in fretta, bene e con discrezione.
Mentre troppi alzano la voce, abbaiano alla luna e vorrebbero tutto e subito, senza però sapere precisamente cosa né come farne uso, l'Italia ha urgenza spasmodica di recuperare la “misura umana” degli antichi vituperati sofisti: il tono medio dei moderati che sin dall'antichità incitavano i concittadini a occuparsi con dedizione e responsabilità della “politica”, la più affascinate e impegnativa delle “arti”, all'opposto della “spartizione della torta”. Tornare alla politica vera, fondata sul dialogo predicato da Socrate, il filosofo ateniese condannato a morte perché invitava a incardinare il governo della città sull'educazione, è anche la via più sicura per ricondurre i cittadini alle urne; in linea con il liberalismo classico propugnato da giureconsulti quali Giovanni Cassandro, ricordato in queste ore dal presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi. Alla vigilia di un voto non meno rappresentativo di precedenti turni elettorali, va chiarito che un ulteriore aumento dell'astensionismo suonerebbe quale campanello di allarme e metterebbe fatalmente la sordina al confronto sulle ancora confuse proposte di riforme della Costituzione. È l'ora del coraggio silenzioso, dell'eroismo paziente e silente: virtù nient’affatto estranee alla tradizione patriottica.
Quando Francesco Baracca spiegò a d'Annunzio il suo eroismo
Nel Centenario della fondazione dell'Aeronautica militare Maria Luisa Suprani Querzoli pubblica “Ritratto di Francesco Baracca” (Bookness.it), due anni addietro preceduto da “La Grande Guerra di Francesco Baracca” (ed. CartaCanta): oltre trecento pagine, ricche di fotografie e complete di ampia bibliografia. Con vivida efficacia narrativa Suprani Querzoli va oltre la biografia in senso stretto del più celebre e pluridecorato asso dell'Aviazione italiana. Ne fa comprendere la grandezza umana collocandolo, all'alba del volo aereo e del rapido avvento della “cavalleria del cielo”, negli anni precedenti la conflagrazione europea dell'estate 1914.
   Nato a Lugo di Romagna il 9 maggio 1888, allievo dell'Accademia Militare di Modena dal 1907, sottotenente dell'Arma di Cavalleria, dopo il corso di specializzazione alla Scuola di Cavalleria di Pinerolo, nel 1912 il ventiquattrenne Baracca optò per l'aviazione. Già ammiratore e seguace del “metodo” introdotto nell'equitazione dal capitano di cavalleria Federico Caprilli, di cui molto, bene e ripetutamente ha scritto il colonnello Carlo Cadorna, sino a “Equitazione naturale moderna” (ora nelle edizioni BastogiLibri), anche da aviatore Baracca puntò alla perfezione fondata sull'armonia tra spirito e materia. Conseguito il brevetto di pilota a conclusione del corso a Bétheny, nei mesi della neutralità dell'Italia tornò nuovamente in Francia per familiarizzarsi con il caccia Nieuport 10.
    Suprani Querzoli ripercorre le attese, le speranze e i sogni del giovane Baracca sin dai primi vittoriosi duelli con l'aviazione austro-ungarica, analizzando minuziosamente i suoi successi a fianco di altri provetti ufficiali della subito leggendaria 91^ Squadriglia. Ma ricorda anche le difficoltà incontrate da Giulio Douhet, profeta dell'Arma aeronautica, nel far comprendere la portata non meramente tattica dell'aviazione militare, inizialmente concepita quale mero supporto alla fanteria dal cielo, sia per propiziarne l'avanzata, sia per inseguire e colpire il nemico in ritirata. La nuova Arma secondo Douhet poteva e doveva essere decisiva per risolvere qualunque conflitto in tempi rapidi, con bombardamenti massicci sul sistema produttivo nemico, costretto alla resa. Era l'intuizione dell'impiego dell'aviazione che si affermò nella seconda guerra mondiale e vale tuttora. La sua affermazione comportava un mutamento profondo nella concezione della guerra e dell'impiego degli strumenti per combatterla e vincerla, con tutti le sue ripercussioni dirette e collaterali, anzitutto sui “civili”. Occorreva un cambio radicale non solo psicologico ma “morale”, come era avvenuto secoli prima con l'invenzione e lo sviluppo dell’artiglieria, tra la fine del Quattrocento e inizio del Cinquecento, e con l’introduzione dei fucili di precisione e delle mitragliatrici, nella seconda metà-fine dell'Ottocento. Il combattimento iniziava e si risolveva da distanze via via crescenti. Chi sparava non aveva percezione alcuna del “volto” né dell'“identità” del nemico, retrocesso a “bersaglio”, disumanizzato. Dalla Guerra di secessione negli Stati Uniti d'America e da quella franco-prussiano-germanica del 1870-1871 l'artiglieria aveva iniziato a plasmare il nuovo combattente. Ma fu la Grande Guerra a segnare la svolta.
   L'arma aerea si librò a lungo in uno spazio suo proprio: “celeste”, originariamente e ancora costitutivamente cavalleresca, ma nondimeno già “al di là” dell'ordinario. Ne avrebbe scritto Friedrich Nietzsche se ancora fosse stato vivo. Il confronto dialettico tra i due mondi spirituali è evocato da un lungo passo di una “conversazione” tra Francesco Baracca e Gabriele d'Annunzio, entrata nella “narrazione” sin dalla biografia dell'asso scritta da Foschini nel 1939 e ricalcata da Romersa in “Francesco Baracca, Cavaliere del Cielo” (Istituto Poligrafico dello Stato, 1968). Benché probabilmente non sia mai avvenuta o comunque non nei termini solitamente narrati, Suprani Querzoli ha il merito di riportarla proprio perché essa ha il pregio di chiarire le loro due “visioni”. Merita rileggerla.
   “Una sera, il Poeta volle Baracca a cena con sé, nella sua casa di Cividale. Sedettero a tavola soli, in una stanza che D'Annunzio, per l'occasione, aveva adornato con una gran quantità d'uccelli impagliati, aquile reali e gabbiani dalle ali spiegate”. Dopo averlo a lungo scrutato con l'occhio che “non era sotto vetro”, sporgendosi il Vate gli chiese: “Francesco, insegnami il tuo segreto. Tu devi sentirti corazzato ai colpi nemici, invisibile, trasfigurato in una nuvola, con la folgore in seno, non è così?”. “Non è proprio come dici tu – gli rispose Baracca. Sarebbe troppo bello. Il combattimento è semplice. Il ragionamento è crudele. Matematico. O tu o io; del resto l'impone l'istinto. Gli aeroplani si accendono, diventano torcia e tu senti nella tua carne l'atrocità di quella morte. Come si fa?” “Allora?” – incalzò d’Annunzio. “Vedi – fu la risposta – mi riesce difficile spiegartelo. Forse perché non c'è nessun segreto...Voli, combatti e basta. Tutto sta nella rapidità. Vederlo, chiuderlo nella mira, assalirlo a colpo d'occhio. Anche la scherma della difesa cambia di volta in volta. Mestiere e niente altro. Niente nuvola, perciò, niente fulmine”.
   Coraggio a tutta prova, certo; ma anzitutto preparazione tecnica, “mestiere delle armi” appunto, e velocità, precisione. E spietatezza, s'intende. È la guerra. Mentre ancora molti ritenevano che l'aeronautica militare fosse solo “una meteora brillante, cioè un passaggio, luminoso ma solo e sempre passaggio”, a coglierne tutta l'importanza innovativa, non solo bellica, più e meglio di altri fu Vittorio Emanuele III, che seguì di persona le epiche imprese dell'aviazione, in specie della 91^ Squadriglia e di Francesco Baracca, che decorò di Medaglia d'Oro al Valor Militare. Ne scrisse a casa il Comandante Supremo Luigi Cadorna: “Abbiamo assistito tre ore fa a uno straordinario duello aereo (…) Uno dei cacciatori è il capitano Baracca, già compagno di Lello “, cioè di suo figlio Raffaele, futuro generale, come erano i Cadorna da generazioni, e poi comandante del Corpo Volontari della Libertà (per assumere la carica non esitò a farsi paracadutare al Nord benché ormai anziano).
   In quella “visione” napoleonica, fucina di “valori” e, conseguentemente, di “meriti”, in una lettera al figlio, Paolina Biancoli Baracca non esitava a deplorare che tardassero a promuoverlo maggiore: “...non si ha da guardare all'età. Così fanno le altre Nazioni e si sa che in Inghilterra uno è generale a 27 anni; così si incoraggia l'uomo”.
La grandezza del “fratello” Baracca
   Tra le leggende che si sono addensate intorno alla figura e alla memoria di Baracca una riguarda la sua iniziazione alla massoneria: un tema rimasto ai margini del bel libro di Suprani Querzoli. Poiché essa è data per certa anche dalle biografie diffuse in internet, è il caso di dedicarvi due parole. In “Mille volti di massoni” Giordano Gamberini, gran maestro del Grande Oriente d'Italia, scrisse che l'asso dell'aviazione militare italiana appartenne con il 18° grado del Rito scozzese antico e accettato a una “officina” della Gran Loggia d'Italia (detta “di Piazza del Gesù”), ma non addusse prove documentarie. In “Annales. Gran Loggia d'Italia degli A∴L∴A∴M∴, 1908-2012” (ed. Atanor) Luigi Pruneti, gran maestro della Gran Loggia d'Italia, esplorate tutte le carte a sua disposizione, scrisse invece che Baracca “era membro della loggia Dovere e Diritto di Lugo di Ravenna, all'obbedienza del Grande Oriente d'Italia”, nella cui “matricola” tuttavia il suo nome non compare affatto. All'indomani della sua morte e nel corso delle solenni esequie a Lugo nessuna delle due Comunità massoniche rivendicò l'affiliazione di Francesco Baracca. Se non in quel momento, quando? Egli era all'apice della gloria e le due Comunità erano in perfetta sintonia con il Re e, soprattutto dopo la sostituzione di Luigi Cadorna con Armando Diaz al Comando Supremo, con i vertici militari. Il riserbo  sulla sua non documentata iniziazione e i cavalleresco scambio di appartenenza tra due grandi maestri sono l'unica certezza sull'ascesa di Baracca nelle Valli Celesti durante la decisiva Battaglia del Solstizio (giugno 1918), quando gli italiani fermarono l'ultima disperata offensiva austro-ungarica.
   La grandezza di Baracca sta nell'essere stato cittadino esemplare e di aver fatto la propria parte per la patria e le sue istituzioni, nate dalla fusione tra la Corona di Casa Savoia, le cospirazioni (anche settarie) e la partecipazione popolare ispirata da Giuseppe Garibaldi, dal 1859 “generale dell'Armata Sarda”.
Eddy
                                                          Sogno alla
                                                          Società
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                                                          Milano il 5
                                                          febbraio 1999,
                                                          su invito del
                                                          suo presidente
                                                          avv. Massimo
                                                          della Campa.
Didascalia
Eroismo non per caso ma quotidiano: silente e paziente
Proprio il Capo della Real Casa di Savoia, il principe Aimone, Duca di Savoia e di Aosta, e un altro Garibaldi, Francesco, figlio della sempre rimpianta Anita Garibaldi Hibbert, a sua volta figlia di Ezio Garibaldi, sono autori della prefazione e dell'introduzione al poderoso volume di Alessandro Mella, “Eroi con le Stellette. Storia e storie di soldati italiani” (ed. Marvia).Già apprezzato autore di molte opere, in 444 pagine Mella raccoglie il frutto di decenni di letture e ricerche d'archivio distillate in articoli per varie testate. Con modestia pari alla sua generosità (si presenta anche come “divulgatore”, quasi fosse riduttivo), Mella scrive che i danteschi novantanove capitoli “ritratti”capitoli del suo nuovo libro, arricchiti da quattro appendici e da vastissima bibliografia, non sono collegati da uno stretto filo logico. “Ma, egli osserva,  ci sono il caso, la chimica delle cose, i meccanismi che non possiamo capire, le stranezze e coincidenze per le quali, a volte, si ha l'impressione che siano loro a chiamare noi”. Il “filo” dell'opera in realtà è robustissimo: è l'“eroismo” che contraddistingue i “personaggi” proposti dal volume, tutti accompagnati da un ritratto e da una o più fotografie. L'eroismo – argomenta Mella – “può non essere solo e soltanto, quello clamoroso, figlio di un'azione straordinaria e magnifica. Esso può configurarsi anche come una vita condotta con spirito di sacrificio, idealismo, servizio, volontarismo, amore per valori ed ideali limpidi e cristallini come ruscelli alpestri”, “con o senza divisa, con o senza glorie incredibili a raccontarsi, eroi quotidiani”. Lo ribadisce il Principe Aimone di Savoia: “L'eroismo può essere fatto di tante piccole cose, di gesti quotidiani, di un'esistenza condotta con sobrietà e buoni sentimenti. Con vivo attaccamento ai valori della nostra civiltà”. Costituisce, aggiungiamo noi, lo “zoccolo duro” sul quale, quando necessario, fanno leva i protagonisti della Storia, come suo zio, il duca Amedeo d'Aosta, viceré d'Etiopia, di cui ripercorre l'esemplare vicenda bellica e morale.
   Disposti in ordine rigorosamente alfabetico (da Maria Abriani, medaglia d'argento della Grande Guerra, sino a Gaetano Zoppi, 1850-1948, asceso a senatore del Regno) i personaggi ritratti da Mella costituiscono altrettante tessere del mosaico della Nuova Italia, senza alcuna preclusione. A quanti si spesero nelle battaglie per l'unità nazionale, seguono uomini e donne dall'età di Vittorio Emanuele II a questo dopoguerra, passando attraverso due conflitti mondiali. Vi compaiono militari di tutte le armi e dei loro più diversi corpi e specialità. Si susseguono sacerdoti (come don Giulio Bertini), partigiani e, perché no?, alpini della Repubblica sociale italiana (Renato Assante).
   Nella prefazione il principe Aimone di Savoia ricorda le parole di Silvio Geuna a proposito di Eddy Sogno, molto caro a suo padre, Amedeo: “Di eroi ne nascono pochi. Forse il Padreterno ce li manda quando vede che ne abbiamo bisogno”. Alla luminosa figura del conte Edgardo Rata Sogno del Vallino, “Eddy” in famiglia e per gli amici, Mella dedica dieci pagine fitte di citazioni e di documenti. Ne narra puntualmente le imprese, i libri (a cominciare da “Guerra senza bandiere”, cui aggiungerei “Fuga da Brindisi”, pubblicato nelle cuneesi edizioni dell'Arciere), le persecuzioni giudiziarie, le iniziative a fianco di innovatori come Randolfo Pacciardi e la sua piena “riabilitazione” politica da parte del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che lo volle incontrare a Torino.
   I suoi “esecutori testamentari politici” (tra i quali l'autore di questi appunti) hanno sempre compreso la sottile ironia di quanto da Sogno dichiarato all'autore di “Testamento di un anticomunista”. Il conte “confidò” quanto non aveva mai fatto, né mai si era proposto di fare: quel “golpe” di cui era stato imputato. Tutt'altro aveva voluto: l'affermazione della libertà quale cardine dell'Italia postbellica, tornata in seno alle monarchie liberali e parlamentari dell'Occidente, qual era stata con i Re di Casa Savoia, le cui figure additò sempre ad esempio attualissimo di virtù civili.
   In una tra le stagioni più difficili della storia d'Italia, qual è l'attuale, segnata dalla crescente disaffezione dei cittadini nei confronti dei “ludi cartacei”, ricordare il plurisecolare cammino degli italiani verso l'unità, l'indipendenza e la libertà può restituire linfa vitale alla politica, altrimenti ridotta al “teatrino” tante volte deprecato ma non ancora superato dal ritorno alla politica vera e grande di cui i cittadini hanno bisogno e diritto. Perciò vanno salutate con plauso opere come quelle di Soprani Querzoli e di Mella: non “parole” ma appelli morali.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA : Francesco Baracca; Eddy Sogno alla Società Umanitaria di Milano il 5 febbraio 1999, su invito del suo presidente avv. Massimo della Campa.

ANTI (QUALE) FASCISMO?

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 7 maggio 2023 pagg. 1 e 6.


Obelisco
                                                          Mussolini al
                                                          Foro Italico
                                                          (Roma). Su
                                                          Giorgio Galli
                                                          v. il volume
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                                                          “Politiche e
                                                          altre culture”
                                                          (ed. Biblion),
                                                          curato da
                                                          Rossana
                                                          Mondoni e
                                                          Vinicio Serino
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                                                          di studi
                                                          Giorgio Galli
                                                          (Milano)
                                                          presieduto da
                                                          Daniele
                                                          Comero.  
                                                           La voce
                                                          “fascismo”
                                                          firmata da
                                                          Mussolini per
                                                          la “Dottrina”
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                                                          “Storia”
                                                          comparve nel
                                                          volume XIV
                                                          dell'Enciclopedia
                                                          Italiana
                                                          (1932). A
                                                          parte fautori
                                                          del regime
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                                                          la propria
                                                          visione del
                                                          “fascismo”),
                                                          il Consiglio
                                                          Direttivo
                                                          dell'Istituto
                                                          comprendeva il
                                                          Grande
                                                          Ammiraglio
                                                          Paolo Thaon di
                                                          Revel, membro
                                                          del Consiglio
                                                          supremo del
                                                          Rito scozzese
                                                          antico e
                                                          accettato
                                                          (Gran Loggia
                                                          d'Italia), e
                                                          il prof.
                                                          Angelo Sraffa
                                                          (1865-1937),
                                                          docente di
                                                          diritto
                                                          pubblico e dal
                                                          9 dicembre
                                                          1893 maestro
                                                          massone nella
                                                          loggia pisana
                                                          “Carlo Darwin”
                                                          (Grande
                                                          Oriente
                                                          d'Italia,
                                                          matricola
                                                          9.938). Suo
                                                          figlio,
                                                          Pietro, fece
                                                          arrivare i
                                                          “Quaderni del
                                                          carcere” di
                                                          Antonio
                                                          Gramsci a
                                                          Palmiro
                                                          Togliatti,
                                                          all'epoca alla
                                                          corte di
                                                          Stalin. Tra i
                                                          direttori di
                                                          sezione,
                                                          redattori e
                                                          collaboratori
                                                          dell'Enciclopedia




























                                                          vi erano
                                                          figurano
                                                          studiosi
                                                          niente affatto
                                                          fascisti quali
                                                          Enrico Fermi,
                                                          Raffaele
                                                          Pettazzoni,
                                                          massone
                                                          (storia delle
                                                          religioni), il
                                                          mazziniano
                                                          Mario Menghini
                                                          (storia del
                                                          Risorgimento e
                                                          contemporanea),




























                                                          Federico
                                                          Chabod, Ugo La
                                                          Malfa, Alberto
                                                          Pincherle,
                                                          Emilio
                                                          Servadio.
                                                          Nello stesso
                                                          1932 uscì il
                                                          volume
                                                          comprendente
                                                          la ponderosa
                                                          voce “Ebrei”,
                                                          scritta in
                                                          massima parte
                                                          da Giorgio
                                                          Levi della
                                                          Vida.
Didascalia
Cancellare il “fascismo” dalla dottrina?
Nel lontano 1978 G. A. Allardyce in “What fascism is not: thoughts on the deflation of a concept” propose di cancellare il lemma “fascismo” dal lessico storico e politico. Sembrò una provocazione. Quasi mezzo secolo dopo suona invece come un invito alla liberazione dall'abuso di un sostantivo (“fascismo”) e di un aggettivo (“fascista”) privi di fondamenti univoci storici e scientifici: etichette polivalenti, spesso usate come clave nella rissa quotidiana che sta alla politica come le zuffe tra ragazzini stanno alla storia.
   Vent'anni dopo il Sessantotto, altra formula “magica” che dice tutto ma nulla spiega, se ne occupò il politologo Giorgio Galli (1928-2020) in “Il fascismo nella Treccani” (ed. Terziaria, 1997). Sorto con la nuova “guerra dei trent'anni” durata dal 1914 al 1945, il “fascismo storico” finì sotto le macerie della seconda guerra mondiale. Una specie estinta. Però, secondo Galli, esso sopravvisse come “modello politico” ed è quindi meritevole di studio. A sostegno del suo proposito citò un passo dell'articolo “Noi, i responsabili” pubblicato in “Primato” dal “fascista critico” Giuseppe Bottai il 15 luglio 1943, cinque giorni dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia: «Proprio nel momento in cui il nemico passa alla fase decisiva della guerra e attacca l'Europa, tentandone l'invasione dalla nostra costa, riconosciamo e rivendichiamo la responsabilità di avere acceso il fuoco del rinnovamento politico e sociale in Europa, perché questa si salvasse e potesse continuare la sua funzione di elaboratrice e sostenitrice della civiltà occidentale. La Storia riconoscerà che abbiamo interpretato la sua legge». In ore drammatiche, dieci giorni prima della richiesta del Gran consiglio del fascismo a Mussolini di rinunciare al comando militare della guerra ormai perduta, da lui stesso firmata con Dino Grandi e Luigi Federzoni, Bottai ancora considerava gli anglo-americani e quanti li sostenevano, estranei all'Europa e alla “civiltà occidentale” (quale?), a tacere della Russia, da lui e altri ritenuta asiatica.
   Di tutt'altro avviso erano gli italiani “pessiottimisti” evocati da Salvatore Satta in “De Profundis” (ed. Adelphi), inclini a «regolare la loro condotta secondo il principio “salus ab inimicis”». Essi si attendevano la liberazione dalla sconfitta, perché, «come sempre accade, i disegni della provvidenza sono attuati dal diavolo». Lo insegna il libro sapienziale dell'Antico Testamento in cui si narra che Jahve mandò suo figlio Satana a tormentare Giobbe. Con finissimo acume, Satta osservò che nel 1940 gli unici in Italia a desiderare veramente l'intervento dell'Italia in guerra e lo volevano «a fianco dell'odioso alleato, erano coloro che ritenevano che una simile guerra sarebbe stata verosimilmente perduta e con essa il regime che gravava sul paese da vent'anni come una cappa di piombo». Come nel 1922 aveva creduto di salvarsi rifiutando la libertà che lo aveva fino allora protetto, così nel 1940 l' “uomo tradizionale” sperò di recuperare la libertà auspicando la sconfitta della propria patria.
   Mentre il regime imprecava “Dio stramaledica gli inglesi”, come ricordò l'insigne penalista Franco Cordero nell'imperdibile romanzo “L'Opera” (Bompiani 1975), a Cuneo, ove risuonavano gutturali gli ordini in tedesco, i padri gesuiti, che sapevano guardare lontano, insegnavano agli allievi i rudimenti dell'inglese.
Fascismo: cioè?
“Che cosa” fu il “fascismo”? Che cosa volle dire “essere fascisti” nel discontinuo “ventennio”? Quando e come nacque il suo rifiuto da parte di quanti l'avevano condiviso, sopportato, celebrato negli “anni del consenso”, di cui scrisse Renzo De Felice in pagine insuperate? Per venirne a capo è indispensabile fare i conti con il “pensiero” o, senza esagerare, con le parole di Benito Mussolini. Impossibile prescinderne. Sarebbe però disperante avventurarsi nelle decine di volumi degli scritti e discorsi del “duce” per distillare la sua “idea” del fascismo. Per rispondere Galli imboccò la via più breve e sicura: rileggere quanto Mussolini firmò nell'Enciclopedia Italiana alla voce “Fascismo”: un testo intitolato “Dottrina”, ripartito in “Idee fondamentali” e “Dottrina politica e sociale”.
   Senza entrare nella questione della paternità di quelle pagine (il duce era di penna rapida ed efficace, ma ognuno coglie che il paragrafo introduttivo spesso ricalca parola per parola l'articolo di Giovanni Gentile sulla legge istitutiva del Gran Consiglio del fascismo pubblicato in “Educazione fascista” il 9 settembre 1928), quella voce “fa testo”, ancorché sconcertante per il suo andamento rapsodico. Pur costretti agli inevitabili “tagli” imposti dalle dimensioni di un articolo, merita ripercorrerne i passi salienti, nel rispetto del criterio “ex ore tuo te judico”. La comprensione di frasi spesso involute e oracolari richiede uno sforzo; ma da lì occorre passare. «Come ogni salda concezione politica – scrive dunque Mussolini –, il fascismo è prassi ed è pensiero, azione a cui è immanente una dottrina, e dottrina che, sorgendo da un dato sistema di forze storiche, ne resta inserita e vi opera dal di dentro. Ha quindi una forma corporativa alle contingenze di luogo e di tempo, ma ha insieme un contenuto ideale che la eleva a formula di verità nella storia superiore del pensiero. (…) Per conoscere gli uomini bisogna conoscere l'uomo; e per conoscere l'uomo bisogna conoscere la realtà e le sue leggi (…). L'uomo del fascismo è individuo che è nazione e patria, legge morale che stringe insieme individui e generazioni in una tradizione e in una missione».
   Il fascismo si proponeva dunque quale «concezione spiritualistica, sorta anch'essa dalla generale reazione del secolo contro il fiacco materialismo positivistico dell'Ottocento. Antipositivistica ma positiva: non scettica, né agnostica, né pessimistica, né passivamente ottimistica, come sono in genere le dottrine (tutte negative) che pongono il centro della vita fuori dell'uomo, che con la sua volontà può e deve crearsi il suo mondo». Il fascismo – aggiunse il “duce” – «concepisce la vita come lotta (…) La vita, perciò, (…) è seria, austera, religiosa». «Prima di tutto un sistema di pensiero», il fascismo era «una concezione storica, nella quale l'uomo non è quello che è se non in funzione del processo spirituale a cui concorre, nel gruppo familiare e sociale, nella nazione e nella storia, a cui tutte le nazioni collaborano. Fuori della storia l'uomo nulla».
   Nemico del “liberalismo classico”, il fascismo era “per la libertà” ma «per la sola libertà dello stato e dell'individuo nello stato. Giacché per il fascismo tutto è nello stato, e nulla di più umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo. Né individui fuori dello stato, né gruppi (partiti politici, associazioni, sindacati, classi)». Con la prima legge “fascistissima”, nel 1925 Mussolini si era affrettato a sbarazzarsi della Massoneria italiana, nel silenzio di quella “universale”. A costruire l'Italia fascista era «non razza, né regione geograficamente individuata, ma schiatta storicamente perpetuantesi, moltitudine unificata da un'idea, che è volontà di esistenza e di potenza: coscienza di sé, personalità», nazione creata dallo stato e a sua volta «realtà etica che esiste e vive in quanto si sviluppa», forza spirituale, “anima dell'anima”. «Educatore e promotore di vita spirituale» il fascismo esigeva pertanto «disciplina, e autorità che scenda addentro negli spiriti, e vi domini incontrastata». Tali “idee fondamentali”, enunciate con formule arcane e più poetiche che teoretiche, potrebbero risultare impenetrabili. Ma lì stava la loro forza suggestiva: dalla realtà quotidiana al mito, che non chiede comprensione razionale ma partecipazione emotiva, non tollera il confronto dialogico ma impone “la fede” (che non sta per “fiducia”).
   Nel paragrafo sulla “Dottrina politica e sociale” Mussolini rivendicò di essersi sempre ispirato alla “dottrina dell'azione”. Alla sua fondazione in Milano il 23 marzo 1919 il fascismo «fu azione, non fu partito, ma, nei primi due anni, antipartito e movimento», come hanno convenuto gli storici, da Gioacchino Volpe a Luigi Salvatorelli, da Renzo De Felice a Roberto Vivarelli. I fasci di combattimento non ebbero una dottrina ma si nutrirono di “anticipazioni” e di “accenni” che «liberati dall'inevitabile ganga (sic!) delle contingenze, dovevano poi, dopo alcuni anni, svilupparsi in una serie di posizioni dottrinali», sicché nel decennale della “Marcia su Roma” si poteva affermare che esso era «nettamente individuato non solo come regime, ma come dottrina», come tentò di documentare la Mostra della Rivoluzione Fascista.
Monarchia? Chiesa “nazionale”?
Un colpo al cerchio, uno alla botte, lasciate alle spalle le prime involute pagine sulle Idee fondamentali, Mussolini consegnò all'Enciclopedia Italiana alcune convinzioni programmatiche di lungo periodo, sottovalutate dalla generalità dei lettori pur usi a meditare sulle parole stampate. In primo luogo dichiarò che il fascismo «non crede alla possibilità né all'utilità della pace perpetua». Vent'anni prima anche Benedetto Croce aveva irriso il pacifismo umanitario predicato dai massoni, salvo scoprire nel 1914 il volto della guerra nell'età della seconda industrializzazione e delle “masse”.
   Poiché «solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla», il duce spiegò che la politica demografica è la conseguenza di quella “visione”.
Forse non aveva letto attentamente o non aveva capito Giulio Douhet, pioniere dell'Aeronautica: ci vogliono due mesi per fare un cannone, ma vent'anni per fare un soldato. E pochi attimi per vederlo spazzar via. Ricordò che solo nel 1922 il fascismo accantonò l'originaria “tendenzialità repubblicana” perché «convinto che la questione delle forme politiche di uno stato non è, oggi, preminente (…) Ci sono repubbliche intimamente reazionarie o assolutistiche, e monarchie che accolgono le più ardite esperienze politiche e sociali». Fatti i conti con la Corona, Mussolini passò alla Chiesa cattolica. Recuperato il pensiero di Tommaso d'Aquino per liberarsi dalla polvere della “questione romana” e riprendere la sua missione universale, la Santa Sede, a quanto si sa, aveva avanzato ferme riserve già sul primo abbozzo della “summa” dottrinale musso-gentiliana. Lo stato fascista (scrisse il duce dando per scontato che il Regno d'Italia, ovvero lo Stato da lui ossessivamente evocato, fosse totalmente fascistizzato) «non rimane indifferente di fronte al fatto religioso in genere e a quella particolare religione positiva [non religione “rivelata”, NdA] che è il cattolicesimo italiano. Lo stato non ha una teologia, ma ha una morale […] il fascismo rispetta il Dio degli asceti, dei santi, degli eroi e anche il Dio così come è visto e pregato dal cuore ingenuo e primitivo del popolo». La religione cattolica apostolica romana dichiarata sola religione dello stato nello statuto albertino era dunque banale “credulità popolare”? «Ben altro» voleva il regime dai cittadini: mentre «non mai come in questo momento i popoli hanno avuto sete di autorità, di direttive, di ordine» l'“impero” chiedeva agli italiani «disciplina, coordinazione degli sforzi, dovere e sacrificio». Credere, obbedire, combattere. Con i risultati ben noti per chi volle la dichiarazione di guerra contro la Gran Bretagna e la Francia, l'Unione sovietica e gli Stati Uniti d'America senza disporre degli strumenti né di attacco né di adeguata difesa.
   La sintesi dottrinale suprema del “fascismo secondo Mussolini”, suo inventore, esegeta e profeta per il secolo XX, è infine contenuta nella celebre dichiarazione antipacifista: «L'orgoglioso motto “me ne frego”, scritto sulle bende di una ferita, è un atto di filosofia non soltanto eroica, è il sunto di una dottrina non soltanto politica: è l'educazione al combattimento, l'accettazione dei rischi che esso comporta; un nuovo stile di vita italiano». Non vedeva o preferiva non vedere le spallucce ironiche delle moltitudini che subivano i sabati fascisti, i salti nel cerchio di fuoco e “se ne fregavano” delle aquile, delle legioni e di tutte le astruserie di una ideologia sproporzionata rispetto alle reali dimensioni di un'Italia appena nata, vissuta con il fucile al piede nel 1862, 1866, 1870, 1890-1896, 1911-1912, duramente provata dall'intervento forzato nella Grande Guerra e ancora lontanissima dal benessere, come documenta il censimento del 1931.
In assenza della “cosa”.
Il governo impose l'iscrizione al Partito nazionale fascista, unico consentito, agli aspiranti ai pubblici impieghi e il giuramento di fedeltà al fascismo agli insegnanti di ogni ordine e grado, docenti universitari compresi. Alle elezioni ottenne plebisciti come l'aveva avuto nelle elezioni del 24 marzo 1929, propiziate dal Concordato tra lo stato e la Santa Sede. Ma più allargava i suoi tentacoli più il “fascismo” perdeva di identità. Nato senza dottrina per dichiarazione del suo stesso duce, affidò la sua definizione all'Istituto di Cultura Fascista presieduto da Gentile. Inventò anche la “Mistica fascista”. Rimase una polifonica senza spartito, palestra di fumisterie, come erano anche le elucubrazioni dei comunisti sulla continuità logico-cronologica tra Karl Marx e la Terza Internazionale di Lenin, Stalin e accoliti.
   A distanza di quasi un secolo dal Manifesto degli intellettuali fascisti, bene si comprende perché la risposta scritta da Benedetto Croce al lettore odierno risulti prolissa se non nella contrapposizione della libertà al manganello. Come già il filosofo partenopeo, così lo storico e il cittadino razionale si domandano se abbia senso dichiararsi “anti” rispetto a una “cosa” indefinita, cangiante e imprecisata quale fu il “fascismo” nelle sue molteplici versioni: da quello della Carta del Lavoro a quello della Scuola, da quello monarchico di Cesare Maria De Vecchi e di Emilio De Bono a quello repubblicano che condannò a morte e fece fucilare al poligono di Verona i gerarchi, compreso il genero di Mussolini, Galeazzo Ciano, colpevoli di aver tentato di tirare fuori dai guai il duce proponendogli di passare il comando della guerra a Vittorio Emanuele III, il Re di Peschiera e di Vittorio Veneto. Interrogarsi sull'assillante “obbligo” di dichiararsi antifascisti, tanto più se “a comando” di chi si mostra digiuno di storia e di filosofia, non significa essere “nostalgici”. Presuppone invece la necessità di chiarire il Soggetto storico e ideologico dal quale prendere le distanze e stabilire, infine, chi ancora si dovrebbe condannare dopo la mattanza di fine aprile-inizio maggio 1945. Quello non fu un “regolamento dei conti”, ma il modo per evitare di farli, di guardare in faccia la storia. Fu il tentativo di scansare ancora una volta l'“esame di coscienza” che – insegna il catechismo di san Pio X – deve precedere la confessione e la penitenza. In quei giorni l'Italia fece il triplo tuffo carpiato da regime totalitario a democrazia parlamentare, subito confiscata dai partiti, molti dei quali oggi hanno meno iscritti di quante persone si ammassino in uno stadio. Relegò il fascismo nel passato remoto e s'illuse di camminare per sempre su sterminate praterie. 
   Ebbe buoni motivi Giorgio Galli ad annotare tanti anni addietro l’oggettiva continuità della “narrazione” del fascismo nell'Enciclopedia Italiana anche nelle appendici pubblicate nel dopoguerra. Ebbe torto invece a definire “scialba” la figura di Vittorio Emanuele III al quale il Gran Consiglio si rivolse nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943. I gerarchi e Mussolini medesimo non sapevano che il re aveva approntato da tempo la revoca del duce, la sua sostituzione con Pietro Badoglio e la richiesta di armistizio: l'unico modo per chiudere la partita aperta da tempo con l'estremismo facinoroso e salvare la continuità dello Stato, cioè dell'Italia odierna che tanto disputa su fascismo e antifascismo e dimentica chi la fondò.
   L'oblio fa tutt'uno con i complessi di colpa, con l'incapacità di superare l'estenuante adolescenza e di accettare i segni impietosi dell'incombente vecchiezza.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Obelisco Mussolini al Foro Italico (Roma). Su Giorgio Galli v. il volume collettaneo “Politiche e altre culture” (ed. Biblion), curato da Rossana Mondoni e Vinicio Serino per l'Istituto di studi Giorgio Galli (Milano) presieduto da Daniele Comero.
   La voce “fascismo” firmata da Mussolini per la “Dottrina” e da Gioacchino Volpe per la “Storia” comparve nel volume XIV dell'Enciclopedia Italiana (1932). A parte fautori del regime (ciascuno con la propria visione del “fascismo”), il Consiglio Direttivo dell'Istituto comprendeva il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, membro del Consiglio supremo del Rito scozzese antico e accettato (Gran Loggia d'Italia), e il prof. Angelo Sraffa (1865-1937), docente di diritto pubblico e dal 9 dicembre 1893 maestro massone nella loggia pisana “Carlo Darwin” (Grande Oriente d'Italia, matricola 9.938). Suo figlio, Pietro, fece arrivare i “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci a Palmiro Togliatti, all'epoca alla corte di Stalin. Tra i direttori di sezione, redattori e collaboratori dell'Enciclopedia vi erano figurano studiosi niente affatto fascisti quali Enrico Fermi, Raffaele Pettazzoni, massone (storia delle religioni), il mazziniano Mario Menghini (storia del Risorgimento e contemporanea), Federico Chabod, Ugo La Malfa, Alberto Pincherle, Emilio Servadio. Nello stesso 1932 uscì il volume comprendente la ponderosa voce “Ebrei”, scritta in massima parte da Giorgio Levi della Vida.


IL REGNO D'ITALIA
UNO STATO FONDATO SUL LAVORO


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 30 aprile 2023 pagg. 1 e 6.


L'Italia
                                                          tra Otto e
                                                          Novecento è
                                                          sinteticamente
                                                          narrata in
                                                          “Vita di
                                                          Vittorio
                                                          Emanuele III,
                                                          1869-1947. Un
                                                          Re
                                                          discusso”(ed.
                                                          Bompiani-Giunti,




























                                                          pp. 600, da
                                                          questi giorni
                                                          in libreria)
                                                          in cui viene
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                                                          monarchia:
                                                          Casa Militare,
                                                          Casa Civile,
                                                          Ministri della
                                                          Real Casa,
                                                          Aiutanti di
                                                          campo... e gli
                                                          Ordini
                                                          cavallereschi
                                                          che facevano
                                                          da collante
                                                          tra
                                                          Istituzioni e
                                                          cittadini, né
                                                          più né meno di
                                                          quanto accade
                                                          in Repubblica,
                                                          le cui leggi
                                                          non per caso
                                                          quando sono
                                                          brevi e chiare
                                                          iniziano con
                                                          “visto...” con
                                                          riferimento a
                                                          leggi e testi
                                                          unici dell'età
moarchica. 
Didascalia
“Decorazioni” di imprenditori e medaglie per i lavoratori
Il 1° maggio 1898, proprio per festeggiare il lavoro, udito il Consiglio dei ministri e su proposta del ministro di agricoltura, industria e commercio, Francesco Cocco Ortu, liberale sardo destinato a divenire decano della Camera (1842-1929),  Umberto I datò il regio decreto di quattro righe istitutivo della Decorazione al merito agrario, industriale e commerciale. Fu il riconoscimento di quanto l'Italia doveva non solo a “santi, poeti e navigatori” e ai patrioti che si erano sacrificati in cospirazioni e battaglie, ma anche agli “imprenditori” senza titoli nobiliari né, a volte, di studio. Orgogliosi del proprio lavoro, mattone su mattone, voltando e rivoltando le zolle e al timone di manifatture, industrie e imprese bancarie ecmmerciali, anche essi concorrevano quotidianamente a costruire la Nuova Italia.
   Il 4 marzo 1898, per celebrare il cinquantenario della promulgazione dello Statuto del regno di Sardegna, poi divenuto del Regno d'Italia, nel giardino del Quirinale era stata posta la prima pietra della statua in bronzo di Carlo Alberto di Savoia a cavallo: un monumento opera di Raffaele Romanelli, scoperto dopo soli due anni. Nel suo basamento quattro bassorilievi in bronzo raffigurano l'aquila di Savoia, lo stemma di Roma, l'abdicazione dell'“Italo Amleto” dopo la battaglia di Novara (23 marzo 1849) e la vittoria dell'Armata sarda sugli austriaci a Goito, ove Carlo Alberto fu salutato “Re d'Italia”.
   Due giorni dopo, il 6 marzo 1898, l'Italia venne funestata dal tragico duello tra Felice Cavallotti, deputato di punta del partito radicale e fautore di un improbabile “partito degli onesti”, e il giornalista Ferruccio Macola, il cui ferro lo colpì a morte. Giosue Carducci, Maestro e Vate, commemorò Cavallotti all'Università di Bologna definendolo un istmo tra il movimentismo rivoluzionario e le istituzioni, sul quale si erge la Patria. In effetti il deputato radicale stava conducendo un fecondo dialogo con i liberali progressisti, come Giovanni Giolitti, che lo ricorda con simpatia nelle “Memorie”. Rievocando lo sfortunato Cavallotti, Carducci rifletteva su sé medesimo:  originariamente mazziniano, garibaldino, ma da ormai vent'anni schierato a sostegno della monarchia, garante delle libertà, e sempre meno corrivo a tollerare le agitazioni scomposte di chi si atteggiava a innovatore e a ribelle. Ricordava i fischi riservatigli dagli studenti quando nella bolognese Alma Mater Studiorum egli comparve in compagnia della giovane poetessa e drammaturga Annie Vivanti. Tutta invidia per chi aveva i suoi acciacchi ma rimaneva vigoroso “dentro”?
Un Paese tra conciliazione e inquietudini
Il 18 marzo 1898 Milano celebrò il cinquantenario delle Cinque Giornate. Il 21 aprile Umberto I conferì la Medaglia d'Oro alla città di Roma per la sua eroica difesa nel 1849 contro gli invasori, a cominciare dai francesi inviati da Luigi Napoleone, presidente della Repubblica d'Oltralpe, poi Napoleone III. A quel modo il Re d'Italia rese omaggio alla Repubblica di Carlo Armellini, Aurelio Saffi e Giuseppe Mazzini all'insegna dell'unitarietà del Risorgimento: repubblicani, confederali (come Giuseppe Montanelli), neoguelfi (ispirati da Vincenzo Gioberti) e massoni (come Saffi, al quale è intitolata una loggia di Forlì studiata con acume da Alberto Urizio) erano tante tessere del mosaico tenuto insieme dalla Corona. Erano tutti patrioti invisi ai reazionari, ai bigotti e al nipote di Napoleone il Grande. Ex carbonaro, cospiratore e rivoluzionario più volte incarcerato, nel 1849 Luigi Napoleone assunse la guida della seconda Restaurazione e fiancheggiò il “papa-re”.
   Mezzo secolo dopo, nella primavera del 1898, la guerra tra la Spagna e gli Stati Uniti d'America, che sobillavano l'insorgenza di Cuba e delle Filippine contro Madrid, fece impazzire il prezzo dei noli marittimi e, conseguentemente, dei cereali, la cui importazione era fondamentale per la bilancia alimentare dell'Italia, soprattutto nella crisi congiunturale di primavera, quando scarseggiano le scorte dell'anno precedente e i raccolti sono ancora di là da venire. A fine aprile dalla Romagna a Napoli vennero segnalate le prime rivolte al grido: “Pane!”.
   Il Re e il governo non percepirono subito il rischio che il Paese stava correndo. Il 1° maggio i sovrani e l’esecutivo, presieduto dal marchese Antonio Starrabba di Rudinì (Palermo, 1839-Roma, 1908), inaugurarono a Torino l'Esposizione Nazionale: vetrina delle potenzialità del Vecchio Piemonte, all'avanguardia nelle manifatture tessili e nelle industrie metallurgiche e meccaniche. L'Esposizione fu accompagnata da molte rievocazioni storiche e storiografiche, da iniziative culturali (nell'occasione il giovanissimo Luigi Einaudi scrisse “Il principe mercante”) e dalla solenne Mostra di Arte Sacra, a dimostrazione che trent'anni dopo Porta Pia le due rive del Tevere erano meno distanti. Del resto su quelle del Po il “dialogo” tra le istituzioni e gli ecclesiastici non era mai stato interrotto. L'articolo 1 dello Statuto continuava a ricordare che la sola religione dello Stato era quella cattolica apostolica romana. Valeva anche per sovrani dalle ben note e talora ostentate “scappatelle”, quali Vittorio Emanuele II e suo figlio Umberto I. Se Camillo Cavour aveva sempre contato su fra’ Giacomo da Poirino per il giorno fatidico della Grande Visitatrice, l'agnostico Urbano Rattazzi finanziava sotto banco don Giovanni Bosco, che arrivava dove Stato e amministrazioni locali erano e a lungo sarebbero rimaste in ritardo. Sin dai tempi di Tancredi e Giulia Falletti di Barolo e di Giuseppe Cottolengo, il Piemonte era terra feconda di “santi sociali”. 
   Il re e il governo ne erano consapevoli. Nel discorso della Corona del 16 novembre 1898 Umberto I annunciò alle Camere: “Vi saranno ripresentate proposte per migliorare le condizioni di quella parte del clero che trovasi in rapporto più diretto colle popolazioni, e che eserciterà le sue funzioni ispirandosi ai doveri che ha verso la religione e verso la patria”. Era tempo di far capire agli ecclesiastici che dovevano dare a Cesare quel che è di Cesare, se non altro per consentirgli di tutelare gli interessi primari anche del cattolicesimo. Lo aveva già spiegato Adriano Lemmi, gran maestro del Grande Oriente d'Italia, che incitava il “fratello” Francesco Crispi a schierarsi a sostegno del “basso clero” per attrarlo a fianco dello Stato, quale bastione contro l'avanzata dei sovversivi. In un discorso pronunciato dinnanzi all'arcivescovo di Napoli, Crispi fu netto. Lanciò l'appello all'unione “Per Dio, per la Patria, con il Re” contro i demoni che uscivano dalle “nere latebre della terra”. Ne avevano dato un saggio i devastanti “fasci siciliani”, sospettati di essere eterodiretti dalla Francia che sommava imperialismo e socialismo di stato.
Dall'insurrezione al regicidio 
   Se il 1° maggio il Re e il Governo rendevano onore al lavoro italiano a Torino, quello stesso giorno iniziarono tumulti e assalti a fornai e mulini dalla Puglia alla Campania, dall'Emilia alla Toscana. I focolai di rivolta erano troppi per apparire spontanei. Era lecito sospettare che venissero alimentati e coordinati dall'esterno, in combutta con rivoluzionari interni. In pochi giorni i tumulti divennero insurrezione generale, guidata da frange della piccola borghesia e da avanguardie studentesche, come a Pavia, ove negli scontri con le forze dell'ordine cadde ucciso Muzio Mussi, figlio di uno tra i maggiorenti dei radicali milanesi, Giuseppe Mussi, massone, poi da Vittorio Emanuele III creato senatore del regno.
   Il 5 maggio i socialisti di Milano pubblicarono un “Manifesto” per richiamare all'attenzione la rivolta della fame e della disperazione serpeggiante nel Paese e per deplorare il ricorso governativo alla proclamazione dello stato d'assedio che sostituiva i codici ordinari con quelli militari e consentiva l'impiego delle armi contro i dimostranti come nemici in guerra. I socialisti invocarono l'abolizione del dazio doganale sulle farine per calmierare il prezzo del pane: una misura accettabile e infatti subito varata da molte amministrazioni. Ma andarono oltre: denunciarono il “militarismo a servizio di alleanze cui il popolo è estraneo, di interessi dinastici, di privilegi odiosi e anticivili”. Passati dal terreno economico-sociale a quello propriamente politico, incitarono i dimostranti a “stringersi compatti attorno alla bandiera socialista sulla quale è scritto: rivendicazioni popolari, restaurazione della libertà e della giustizia, abolizione di tutti i privilegi, guerra al militarismo, suffragio universale”. Ammonirono: “Gravi giorni si appressano. È tempo che il popolo italiano rifletta, ricordi ed alfine provveda a se stesso. Il paese salvi il paese”. Era un appello incendiario, come se l'Italia fosse calpestata dagli austriaci del maresciallo Radetzky e di “Cecco Beppe” anziché, qual era, teatro di libero confronto tra parti politiche nel Parlamento e nelle amministrazioni locali, ampiamente democratizzate con le riforme introdotte da Crispi nel 1890, con elettività dei sindaci e dei presidenti delle giunte provinciali. Socialisti e repubblicani misero misero in discussione l'assetto istituzionale. Con quali prospettive?   
   Seguirono giorni di eccessi verbali, di scontri sanguinosi e di arresti di quanti furono sospettati di voler precipitare l'Italia nel caos: i socialisti Filippo Turati e Oddino Morgari, il repubblicano Luigi De Andreis e don Davide Albertario, promotore della prima Democrazia cristiana, non esente da pulsioni antisemite. Il generale Fiorenzo Bava Beccaris (di antica famiglia notabilare fossanese, come ricorda il suo biografo, generale di corpo d'armata Oreste Bovio) usò il pugno di ferro e talvolta sbagliò bersaglio, confondendo poveri barboni con rivoluzionari da fermare a cannonate. Prevalse il timore di una deriva incontenibile come quella divampata a Parigi nel 1871: la Commune, deplorata anche da Giuseppe Garibaldi che si scagliò contro le sue “massime”: “la proprietà è un furto, l'eredità altro furto”, e cosivvìa.
   Di Rudinì rassegnò le dimissioni. Formò un altro governo, che però durò appena quattro settimane. Dopo aver presieduto quattro Ministeri in soli due anni disparve. Si disse che da “ragazzo”, quando aveva appena 26 anni, aveva fatto un miracolo domando la rivolta a Palermo, città di cui era sindaco. In realtà l'ordine venne ripristinato dal generale Raffaele Cadorna. Poi però il miracolo era scomparso; era rimasto solo il ragazzo. Al di sotto del ruolo cui era chiamato.  
   Eppure il sovrano aveva fatto di tutto per avvicinare le istituzioni ai cittadini, per fondere Paese reale e Paese legale, solitamente contrapposti nella narrazione e in tanti manuali scolastici. Il 5 aprile 1897 nel discorso di apertura della nuova legislatura Umberto I aveva annunciato, fra altro: “Il mio governo vi presenterà disegni di legge a favore degli operai, acciocché negli infortuni e nella vecchiaia essi abbiano quei conforti da troppo tempo giustamente desiderati. In questi provvedimenti spira quel senso di solidarietà, quell'amor del prossimo che devono essere i principali fattori della nostra vita sociale e politica”. E ammonì il Parlamento a non permettere che le sue proposte rimanessero “una vaga aspirazione”. Non erano il Re e il governo a “fare le leggi”. Le proponevano, ma toccava al Parlamento discuterle e approvarle.  Toccava ai deputati e ai senatori “rimboccare le maniche”, mettersi “alla stanga” come in Italia qualcuno recentemente ha ricordato al “ceto politico”, inconsapevole o distratto, come si è veduto in questi giorni.
   “Al retto svolgimento delle sue libere istituzioni – aggiunse Umberto I – l'Italia deve i grandi progressi conseguiti, nonostante fortunose vicende, in quest'ultima metà del secolo; ma lunga è ancora la via che dobbiamo percorrere per raggiungere e mantenere l'alto posto che ci compete fra le nazioni più civili nell'ordine economico e sociale. Curare ogni miglioramento possibile delle condizioni delle classi lavoratrici; dare la necessaria tutela ai nostri prodotti industriali ed agricoli; proteggere efficacemente i nostri migranti; attenuare nella misura consentita dal bilancio le asprezze del sistema tributario; adattare meglio ai bisogni della vita odierna l'educazione e l'istruzione della gioventù; tenere alto il prestigio della giustizia e dei giudici; assicurare al paese un'amministrazione corretta e previdente”. Enunciato all'inaugrazione della XXI Legislatura quel programma sembra tagliato su misura dell'Italia odierna. Per attuarlo – affermò Umberto I - occorreva armonia tra il governo e il “retto funzionamento dell'istituto parlamentare”.
   “Dissi un giorno – egli aggiunse infine - quando fra l'universale compianto annunziavo la morte del Gran Re mio Padre, che avrei provato agli italiani che le istituzioni non muoiono”. Era il 16 giugno 1900. A morire fu lui, Umberto I, il 29 luglio, assassinato a revolverate a Monza dall'anarchico Gaetano Bresci, punta dell'iceberg della cospirazione contro la stabilità dell'Italia e dell'Europa.
   Il regicidio chiuse due anni di speranze, tensioni e contraddizioni.
Vittorio Emanuele III, Re dell'Italia del lavoro 
   Quasi tutti pensarono che il nuovo re, Vittorio Emanuele III, trentunenne principe di Napoli, avrebbe capitanato un'onda reazionaria. Invece, asceso al trono “impavido e sicuro” (come egli stesso dichiarò giurando a capo scoperto fedeltà allo Statuto)  si circondò di persone sagge, smantellò le ambizioni di cortigiani, dette ascolto e, come gli consigliò l'anziano Pasquale Villari, fece di testa sua. Non aveva fretta di assumere la Corona. Però aveva studiato, in un'epoca in cui molti ritenevano che per governare bastino una divisa e una spada. Vittorio Emanuele III imboccò tutt'altra via e impose il suo metodo: razionalità e massima apertura alle riforme, senza però dimenticare che “chi rompe paga”. Conferì il Collare della SS. Annunziata al presidente della Repubblica francese Emile Loubet, notoriamente agnostico (come lui stesso).
Si recò in visita di Stato nell'anglicana Gran Bretagna. Assicurò all'Italia l'amicizia di sovrani e principi del Giappone e di Paesi islamici, all'insegna della cooperazione e del progresso. Nel 1908 con finanziamenti tratti dal suo patrimonio personale varò a Roma l'Istituto Internazionale dell'Agricoltura, apprezzato in tutto il mondo. Quand'era nella “sua” Provincia Granda visitava di persona i poderi modello della Reale Tenuta di Pollenzo e incoraggiava la cerealicoltura d'avanguardia per aumentare la produzione a parità di area coltivata. Nell'ottobre del 1909 vi recò in automobile per stradine secondarie lo zar di Russia Nicola II, altro sovrano interessato allo sviluppo economico e civile del suo Paese, nella convinzione che la storia non consente scorciatoie e che gli azzardi sono dei “salti nel buio”.
   Nel 1901, riprendendo il proposito di suo padre e d'intesa con il presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli, democratico e iniziato massone sin dal 1862, Vittorio Emanuele III istituì con regio decreto l'Ordine cavalleresco al merito agrario, industriale e commerciale, da conferire sia a imprenditori, sia a loro dipendenti. Per questi nel 1923 venne istituita la Stella al merito del lavoro, tuttora ambìta.
   I Cavalieri del Lavoro affiancarono i Senatori nominati per la categoria XX, cioè quanti da tre anni pagavano tremila lire di imposta diretta “in ragione dei loro beni o della loro industria” e si mostrassero interessati alla vita pubblica, tanto da ascendere tra i patres di uno Stato che già tra Otto e Novecento era dichiaratamente  “fondato sul lavoro”. Era il “Regno d'Italia”. Lo Stato era sostantivo.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: L'Italia tra Otto e Novecento è sinteticamente narrata in “Vita di Vittorio Emanuele III, 1869-1947. Un Re discusso”(ed. Bompiani-Giunti, pp. 600, da questi giorni in libreria) in cui viene descritta la “macchina” della monarchia: Casa Militare, Casa Civile, Ministri della Real Casa, Aiutanti di campo... e gli Ordini cavallereschi che facevano da collante tra Istituzioni e cittadini, né più né meno di quanto accade in Repubblica, le cui leggi non per caso quando sono brevi e chiare iniziano con “visto...” con riferimento a leggi e testi unici dell'età moarchica. 



CUNEO, PAZIENTE E POSSENTE


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di martedì 25 aprile 2023 pagg. 1


L'Europa di Duccio Galimberti
 
Dante
                                                          Livio Bianco
                                                          (1909-1953),
                                                          avvocato,
                                                          commissario
                                                          politico della
                                                          I^ Divisione
                                                          “Giustizia e
                                                          Libertà”,
                                                          comandante
                                                          militare delle
                                                          “G.L.” in
                                                          Piemonte in
                                                          successione a
                                                          Galimberti,
                                                          componente
                                                          della Consulta
                                                          Nazionale
                                                          (1945-46),
                                                          autore dei
                                                          “Venti mesi di
                                                          guerra
                                                          partigiana nel
                                                          Cuneese” (ed.
                                                          Panfilo,
                                                          1946),
                                                          candidato
                                                          invano alla
                                                          Costituente.
                                                          Alla presenza
                                                          del presidente
                                                          della
                                                          repubblica
                                                          Luigi Einaudi,
                                                          monarchico e
                                                          liberale,
                                                          Bianco
                                                          pronunciò
                                                          l'Allocuzione
                                                          per il
                                                          conferimento
                                                          della Medaglia
                                                          d'Oro al Valor
                                                          Militare alla
                                                          Città di Cuneo
                                                          (8 giugno
                                                          1947). 
Didascalia
Dagli Anni Sessanta del Novecento la città di Cuneo fu elevata a “culla della Resistenza”. A fine Ottocento, nel settimo centenario della sua fondazione, il deputato Tancredi Galimberti, all'epoca giolittiano, poi interventista e infine fascista, l'aveva celebrata “capitale della libertà”. Suo figlio, Tancredi (Duccio) Galimberti, tra i fondatori del Partito d'azione e valoroso comandante delle formazioni “Giustizia e Libertà” in Piemonte, la notte fra il 2 e il 3 dicembre 1944 fu assassinato da fascisti nella sede dell'UPI di Cuneo, in circostanze mai accertate, e fatto trovare cadavere ove sorge il cippo a suo ricordo. 
   Nel “Progetto di costituzione confederale europea ed interna”, scritto dall'autunno 1942 con il magistrato Antonino Rèpaci, Duccio Galimberti vaticinò “il continente europeo costituito in unità politico-giuridica in forma di Confederazione”. La Confederazione accomunava politica estera, difesa, economia, moneta e colonie e persino la lingua, da inventare. Comprendente monarchie e  repubbliche, essa avrebbe deliberato a maggioranza dei componenti, con facoltà di governare anche per trent'anni gli Stati manifestamente incapaci di fare da sé. Vedeva più lontano dell'attuale Unione Europea. 
   Per darsi governi stabili ogni membro della Confederazione aveva un'Assemblea di rappresentanti, almeno diplomati, eletti da cittadini alfabeti e solamente maschi (aggiunto a mano da Duccio nell'articolo 101). Lo Stato proibiva disoccupazione, serrate padronali e scioperi. Garantiva la libertà di pensiero ma vietava la costituzione di partiti (art. 56) perché, spiegò Repaci nell'introduzione alla Carta, i partiti di massa avevano assunto assetto coercitivo: imponevano i candidati, “comoda base agli attentati alla libertà”, come aveva fatto il regime di partito unico. 
   Interrotto la sera dell'8 settembre 1943, il “Progetto” fu stampato nel giugno 1945 (ed. Fiorini,Torino-ICA, Cuneo) con “ritardo dovuto a incidenti vari, non esclusa l'ostilità di certi ambienti, che avrebbero avuto il preciso dovere di favorirla”. A chi si riferiva Repaci? 
 I cuneesi: gente dai piedi per terra 
   Come l'Italia settentrionale, chiusi cinque anni di guerra, cessate le esecuzioni sommarie e dopo la consegna delle armi da parte dei partigiani (non tutte: rimasero riserve occulte), anche Cuneo si avviò alla normalità. La giunta popolare insediata dal Comitato di liberazione nazionale sotto controllo anglo-americano durò sino alle elezioni del 31 marzo 1946, quando i cittadini, uomini  e donne, dissero la loro.
   Su 40 membri il primo Consiglio comunale di Cuneo contò 17 democristiani, 8 socialisti, 7 liberali, 5 comunisti e appena 3 del partito d'azione, quello di Galimberti e di Dante Livio Bianco, propugnatori di una “rivoluzione democratica” dai contorni ancora vaghi. A differenza di Torino (ove la DC ottenne appena 15 seggi contro 27 del Pci, 22 dello Psiup e 9 del Pli), di Alessandria, Novara, Vercelli e Asti,  le sette città del Cuneese risultarono a maggioranza largamente “moderata”.
    Se ne ebbe conferma il 2-3 giugno 1946. Al referendum istituzionale le province di Cuneo e di Asti preferirono la monarchia alla repubblica, come a Bergamo e a Padova. La repubblica prevalse di misura ad Alessandria e stravinse a Torino. 
    Nelle elezioni della Costituente la somma di democristiani e liberali superò il 50% dei voti a Cuneo e a Saluzzo; raggiunse il 60%  ad Alba e al “dolce  Mondovì ridente” (Giosue Carducci).  Era la terra di Giovanni Giolitti, Marcello Soleri, Luigi Einaudi, del cattolico monregalese Giovanni Battista Bertone, del socialdemocratico Domenico Chiaramello e di Arturo Felici, “Panfilo”. Uomini liberi, nemici della retorica, capaci di ideali, come scrisse Livio Bianco, figlio di un massone, come suo cugino Aldone Quaranta e Nuto Revelli. 
   Alle elezioni del 1946 il Partito di Galimberti e Bianco ottenne il più alto numero di voti per l'avvocato Felice Bertolino, nel 1919 eletto deputato nelle file del Partito popolare di don Sturzo e nel 1951 presidente del primo Consiglio provinciale; Bernardino (Dino) Fresia, reduce dalla deportazione, poi socialdemocratico, e Nuto Revelli, che ebbe 170 preferenze, un decimo dei 1748 ottenuti dal partito.
   Dal 1951 per un quarto di secolo la città dei Sette Assedi e la Provincia furono amministrate dalla sola Democrazia cristiana, la cui lunga storia rimane da studiare e da scrivere. Dopo secoli di guerre, con Imperia e Nizza il Cuneese è terra di confine e crocevia dell'Europa ventura. In cerca di pace e progresso civile è orgogliosa del proprio passato. Da cinque anni ha accolto nel riserbo le spoglie di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena.  
 
Aldo A. Mola 

DIDASCALI: Dante Livio Bianco (1909-1953), avvocato, commissario politico della I^ Divisione “Giustizia e Libertà”, comandante militare delle “G.L.” in Piemonte in successione a Galimberti, componente della Consulta Nazionale (1945-46), autore dei “Venti mesi di guerra partigiana nel Cuneese” (ed. Panfilo, 1946), candidato invano alla Costituente. Alla presenza del presidente della repubblica Luigi Einaudi, monarchico e liberale, Bianco pronunciò l'Allocuzione per il conferimento della Medaglia d'Oro al Valor Militare alla Città di Cuneo (8 giugno 1947). 


PER QUADRARE IL CERCHIO
“MEMORIALE” DI BOETTI VILLANIS, PATRIOTA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 23 aprile 2023 pagg. 1 e 6.


Ludovico
                                                          Boetti
                                                          Villanis-Audifredi
                                                          monarchico,
                                                          sottotenente
                                                          di complemento
                                                          nei Lancieri
                                                          di Novara, ha
                                                          militato nel
                                                          Movimento
                                                          sociale
                                                          italiano.
                                                          Avvocato,
                                                          consigliere
                                                          comunale a
                                                          Vercelli,
                                                          consigliere
                                                          provinciale
                                                          per vent'anni
                                                          a Torino e
                                                          capogruppo per
                                                          MSI-Destra
                                                          Nazionale, nel
                                                          1983 fu eletto
                                                          deputato alla
                                                          Camera nel
                                                          collegio di
                                                          Torino. Con
                                                          ferrea memoria
                                                          ed eloquio
                                                          d'altri tempi
                                                          interviene a
                                                          fronte alta in
                                                          dibattiti e
                                                          conversazioni.
                                                            Sulla
                                                          sua Casa si
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                                                          Vivant, 2023.
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                                                          bastogilibri@alice.it.
Didascalia
Italia sempre “ in tocchi”? 
Il passato non passa? A leggere certi articoli e a sentire dibattiti televisivi si direbbe che l'Italia sia appena uscita da una guerra civile. Il centenario della mai avvenuta “marcia su Roma” incendiò gli ultimi mesi del 2022, quasi la Capitale stesse per cadere preda di nuove “squadracce”. Ma è tutta la storia d'Italia a dividere ancora. Neo-borbonici da un canto, paleo-asburgici dall'altro, vetero-clericali su una sponda, mangiapreti sull'altra. Come Stato l'Italia è nata appena un secolo e mezzo fa.Lo divenne  quasi per caso, grazie a Vittorio Emanuele II e a Cavour che ottennero via libera da Londra e da Napoleone III. A Carlo Farini e ad Enrico Cialdini, che a metà agosto del 1860 in Chambéry gli annunciavano l'imminente invasione dello Stato pontificio per arrivare a Napoli prima che Mazzini ne facesse un laboratorio della “repubblica universale”, l'imperatore raccomandò “Fate, ma fate in fretta”. Il passato prossimo e remoto incombe. Ma non è nei “fatti”. È nell’estenuante “narrazione” che vorrebbe gli italiani sempre fratricidi, sempre divisi tra Romolo e Remo, Cesare e Pompeo, Cicerone e Catilina (riproposto da Luciano Canfora per l'editore Laterza) e così via, di rivalità in rivalità. Faziosi anziché cittadini di un unico Stato.
   I cittadini, però, sono stanchi di lotte artificiose. Non “parteggiano” più. Lo dicono nel modo più pacato. Non vanno alle urne. Per la gioia di chi si sfrega le mani, perché così nessuno lo rimuoverà dal potere.
Vox clamantis in deserto:un Paese, cinque guerre
   Di quando in quando, tuttavia, si levano voci contro corrente. Vanno ascoltate. È il caso del “Memoriale” di Ludovico Boetti Villanis-Audifredi, che sommessamente invita a un “25 aprile” diverso: più pacato e quindi più “inclusivo”. Rapida premessa. Il governo Mussolini il 17 novembre 1922 fu approvato alla Camera con 307 voti contro 106. Non era affatto “regime”. Lo divenne negli anni, sempre col voto favorevole del Parlamento. Il seguito è noto: l'alleanza ideologica e militare con la Germania di Hitler, l'intervento in guerra, la catastrofe.  
   Nel 1943-1945 in Italia imperversarono cinque guerre: tra gli anglo-americani e i germanici con i loro alleati, tra il Regno d'Italia e lo Stato repubblicano d'Italia capitanato da Mussolini, fra la Repubblica sociale e il movimento di liberazione, tra le formazioni partigiane, molto diverse per composizione e obiettivi ultimi, e, non bastasse, della “Jugoslavia” e della Francia contro l'Italia per accaparrasene valichi alpini da un canto, i porti di Fiume e Trieste e ampie province dall'altro. Un groviglio di conflitti ignorato dalla maggioranza degli italiani odierni. A parte i bombardamenti aerei, gli attentati e le rappresaglie, imperversava il razionamento del cibo, più pesante soprattutto nelle città, da tempo alla fame.
   Quel turbine è soggetto di narrazioni semplicistiche, corrive a dividere il mondo in buoni e cattivi, a cancellare il passato scomodo. Eppure sin dall'immediato dopoguerra alcuni grandi scrittori (Cesare Pavese, Italo Calvino e Beppe Fenoglio, che il 2 giugno 1946 votò per la monarchia) invitarono a sostare e a meditare. Forse il nodo insoluto è proprio lì: la monarchia, il grande escluso dalla storiografia prevalente. Era possibile salvare lo Stato d'Italia e conservare chi aveva capitanato le cinque guerre per la sua unità nel 1848-1949, nel 1859-1860, nel 1866, nel 1870 e nel 1915-1918? O bisognava identificarsi con uno solo dei cinque fronti di guerra che la devastavano?
   Il “Memoriale” di Ludovico Boetti Villanis-Audifredi “Dignità di una scelta” (BastogiLibri, Roma, 2023, con partecipe prefazione di Pietrangelo Buttafuoco) mira a quadrare il cerchio nell'unico modo possibile.Attraverso i ricordi personali e familiari il libro propone la pacificazione vera: ascoltare la voce di chi visse e dinnanzi al passato alza le braccia in segno di speranza anziché alzare le mani per l'ennesima zuffa. Alcuni “sbagliarono”? Vanno studiati e compresi. Sono parte della storia patria, di ieri e ventura.
Dal regime al dopoguerra     
   Boetti Villanis nacque a Torino l'11 febbraio 1931, due anni dopo la firma dei Patti Lateranensi che chiusero ottant'anni di tensione tra la Chiesa di Roma e il “Risorgimento scomunicato” di cui scrisse il sempre rimpianto Vittorio Gorresio, nipote di un senatore cultore di sanscrito. Quando egli venne al mondo il fascismo era ormai partito unico. Dal 1931 anche ai docenti degli istituti superiori e delle università venne imposto di giurare fedeltà al duce oltre che al re e ai suoi legittimi successori. Lo rifiutarono una decina di cattedratici su oltre mille. A chi gli chiese consiglio, Benedetto Croce suggerì di giurare per non essere sostituito da professori di minor valore. Nel 1928 aveva pubblicato l'elogio dell'Italia liberale dal 1871 al 1915, un libro di ampio successo, oggi quasi dimenticato. Anche senza cattedre (non ne ebbe mai alcuna, ma nel 1920-1921 fu ministro della Pubblica istruzione nell'ultimo governo presieduto da Giovanni Giolitti) insegnava tramite la “La Critica” e le sue opere.
   Il censimento del 1931 “fotografò” vita pubblica, società e produzione. Anche perché meno industrializzata di altri Paesi, nel 1929 l'Italia ebbe minori ripercussioni dalla “Grande depressione” nata in Europa, passata negli Usa e rimbalzata nel Vecchio Continente. L'Istituto mobiliare italiano (IMI) e l'Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), affidato ad Alberto Beneduce, già socialista, massone e antifascista dichiarato, guidavano l'economia di uno Stato che stava completando la riconquista della Libia con i ruvidi metodi di Pietro Badoglio e di Rodolfo Graziani, non peggiori quelli impiegati da altri Stati europei, a tacere del Giappone, ed era tra i componenti più autorevoli della Società delle Nazioni. Chi crebbe tra impresa d'Etiopia, scatto d'orgoglio contro le sanzioni comminate dalla Società delle Nazioni, proclamazione dell'Impero, intervento in Spagna a sostegno dei nazionalisti contro i “rossi”, ripetutamente condannati da Pio XI per il loro anticlericalismo fanatico, non dubitava che l'Italia fosse un grande Paese rispettato nel mondo. Chi poi, come Ludovico, cresceva nella famiglia di antichi conti e consignori di Cavallerleone (ne scrivono la Statistica della Provincia di Saluzzo di Giovanni Eandi e Goffredo Casalis) aveva motivo di riconoscersi nel fascismo, non “partito” ma costume condiviso. I fasci erano accostati allo scudo sabaudo nello stemma dello Stato e degli enti pubblici. Erano ovunque, tranne che nel tricolore e nelle bandiere di guerra, che Vittorio Emanuele III volle rimanesse qual era: con lo scudo sabaudo nel bianco.
   Sulla fine dell'aprile 1945, a quattordici anni, Boetti Villanis vide la 34^ Divisione Granatieri tedesca in ritirata a ranghi compatti dalla Liguria verso il Piemonte ed ebbe notizia della “mattanza” di “repubblichini” (incluso un innocuo ragazzo di 16 anni) perpetrato da partigiani comunisti. Quei “fatti” rimasero in memoria e tornano nelle pagine del suo “Memoriale”, che non vuole essere “storia” ma è scritto “per la storia”, affinché il lettore ricordi o apprenda, dopo decenni di narrazioni a senso unico, tendenziose e omissive.
I “fatti” ostinati
   Dall'andamento rapsodico, “Dignità di una scelta” intreccia capitoli di testo, vastissime note, appendici e un eloquente apparato iconografico. Risponde a tre quesiti ricorrenti: avvento, durata e crollo di Mussolini. Il 31 ottobre 1922 il re incaricò il “duce del fascismo” di formare un governo di coalizione costituzionale perché il suo partito, esiguo per seggi (alla Camera ne aveva 37 su 535, al Senato appena un paio su circa 400), aveva il sostegno del “Paese reale” (confindustria, mondo finanziario, chiesa cattolica, sindacati, inclusa l'Alleanza del lavoro, di matrice socialista, e comunità massoniche). Dopo sette governi in soli quattro anni, l'Italia aveva bisogno di “disciplina”, stabilità finanziaria e ritorno al “senso dello Stato” che invano Giolitti aveva tentato di ripristinare col suo quinto e ultimo governo (1920-1921), suggellato dalla Festa delle Bandiere (1921) e dalla tumulazione del Milite Ignoto nel Sacello della Dea Roma al Vittoriano, celebrata da Vittorio Emanuele III, Sommo Sacerdote dell'unità nazionale. Un Paese che aveva vinto la guerra contro l'impero austro-ungarico a prezzo di 680.000 morti e di un milione di mutilati e feriti e aveva coronato il congiungimento del confine geografico con quello politico non poteva perdere la pace e sprofondare nel caos perché i “rossi” volevano “fare come in Russia”: sterminare Casa regnante e borghesia nel “bagno di sangue purificatore”.
   Boetti Villanis induce inoltre a riflettere sull'estate del 1943: le settimane tra la revoca di Mussolini, sostituito dal maresciallo Pietro Badoglio (25 luglio), e la resa senza condizioni del 3-29 settembre (i cui pubblica in appendice). Ogni italiano fu posto dinnanzi a scelte difficili, spesso dolorose (lo ricorda Vittorio Emanuele Terragni in “Ananke. Come arrivammo alla disfatta”, ed. De Ferrari), talora spinte sino al suicidio. In quei frangenti, come nei venti mesi seguenti, per gli italiani fece grande differenza trovarsi nelle regioni centro-settentrionali anziché in Sardegna, Sicilia e nel Mezzogiorno. La vita nelle città era molto diversa da quella dei borghi minori.
   L'autore del volume non ha dubbi e lo scrive con formula lapidaria: l'entrata in guerra a fianco della Germania di Hitler il 10 giugno 1940 fu non solo un azzardo ma un errore. Dopo l'onerosa campagna d'Etiopia e l'intervento in Spagna a fianco dei nazionalisti contro i “rossi” eterodiretti dalla Terza internazionale staliniana (ne scrisse anche Eddy Sogno), l'Italia non era preparata per una guerra “grossa e lunga”, per di più a fianco della Germania, che mirò a una “guerra lampo” e, a differenza di quanto aveva fatto nell'agosto 1914, si coprì prudentemente il fianco orientale con il cinico patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov (23 agosto 1939, una settimana prima dell'aggressione alla Polonia: ne ha scritto Aldo Ricci nel n. 197 di “Storia in Rete”). Dello stesso avviso erano sia i vertici militari, sia Mussolini, che (ricorda Boetti Villanis) tentò di starne fuori. Ma, ancora una volta, come già era accaduto in passato, entrati nella “fornace ardente” per il gioco di alleanze e controalleanze tra grandi potenze (a basso tenore ideologico, contrariamente a quanto si ritiene), divenne sempre più arduo uscirne. Va aggiunto che il duce compì l'errore catastrofico di sottoscrivere tutte le decisioni di Hitler sino alla dichiarazione di guerra del 13 dicembre 1941 contro gli Stati Uniti d'America, malgrado l'incolmabile disparità di forze e di risorse. Altrettanto deplorevole, ricorda Boetti Villanis, fu la deriva ideologica che dal 1938 condusse frange del regime (per lo più repubblicane) a propugnare le leggi contro gli ebrei, del tutto estranee alla tradizione del Risorgimento, della Terza Italia, di molti esponenti del fascismo stesso (come Italo Balbo: altra cosa dai “fratelli” Telesio Interlandi e Roberto Farinacci) e, soprattutto, di Casa Savoia, a cominciare da Vittorio Emanuele III, nettamente contrario a ogni forma di intolleranza religiosa e di discriminazione etnica. 
   Anziché indulgere a mozioni di affetti l'autore richiama i “fatti”. Ottenuta nel settembre 1943 (e in modi rocamboleschi) la resa senza condizioni dell'Italia, gli anglo-americani non mostrarono alcuna fretta di avanzare verso il centro-nord. Stavano già preparando l'imponente e impegnativo “sbarco” sulla costa atlantica francese del giugno 1944. Più divisioni germaniche erano impegnate sulle linee italiane (dalla Gustav alla Gotica), meno essi ne avrebbero avute contro sul fronte decisivo.
   A Roma, ove allo scettico Badoglio avevano ventilato il lancio di una divisione aviotrasportata, sbarcati ad Anzio-Nettuno nel gennaio 1944 i “liberatori” giunsero solo il 4-5 giugno successivo; a Firenze arrivarono dopo altri due mesi. A novembre il maresciallo Harold Alexander (che aveva ordinato la rabbiosa distruzione dell'Abbazia di Montecassino il 15 febbraio 1944, strategicamente inutile) invitò i “partigiani” alla stasi invernale. In Bologna gli Alleati entrarono il 21 aprile 1945. Per otto mesi, però, le regioni più popolose e produttive della Penisola erano rimaste sotto controllo della Germania, diretto o tramite la Repubblica sociale italiana, sua subalterna, che fece il possibile per arginare l'avanzata del IX Corpus di Tito sul confine orientale. Lasciate da parte pulsioni ideali e ideologiche, quale condotta potevano tenere quanti ricoprivano ruoli nello Stato (“sedicente” o “cosiddetto” repubblicano, come recitavano le leggi del governo regio), nelle amministrazioni locali, nelle imprese industriali, agricole, commerciali, bancarie? La domanda non è affatto retorica. Trova risposta, semmai, nelle trattative segretamente avviate dal generale delle SS Wolff, mirante a ottenere la soluzione ricorrente tra eserciti combattenti: la resa dei germanici a condizioni non disonorevoli.
   Per Boetti Villanis i travagliati “venti mesi” e quanto ne seguì non possono e non debbono essere valutati con giudizi “moralistici” ma giuridici e “morali”. Far funzionare lo Stato e amministrare correttamente, malgrado i bombardamenti, le ristrettezze della vita quotidiana e la guerra civile strisciante, significava guardare oltre la catastrofe per ottenere lo “sconto” sulle durissime condizioni della resa lasciato intravedere da vincitori sin dal Memorandum di Quebec dell'agosto 1943. Sennonché nel Comitato alleato di controllo e nella Commissione militare alleata agli anglo-americani si aggiunsero i sovietici e i francesi, assurti a compartecipi della “vittoria”. Entrato a Parigi, Charles De Gaulle dichiarò che la Francia era in guerra contro l'Italia e rivendicò l'intera Valle di Aosta e i valichi alpini. Il Trattato di pace imposto all'Italia il 10 febbraio 1947 deluse profondamente quanti ritenevano che essa si fosse condotta con spirito di lealtà e avesse diritto a condizioni meno umilianti e tragiche di quelle in corso sul confine orientale. A quel punto fu chiaro che il cambio della forma dello Stato da monarchia a repubblica (in forza di un referendum molto discusso) non comportò alcun vantaggio per l'Italia, né per chi, come Alcide De Gasperi, nella settimana decisiva, fra il 10 e il 18 giugno 1946, tenne una condotta opportunistica.
   Su quelle premesse si fondarono le successive scelte politico-partitiche e ideali di Ludovico Boetti Villanis, dalla giovinezza alla vigorosa maturità e all'elezione alla Camera dei deputati nelle file del Movimento sociale italiano. Il suo “memoriale” riflette su un tema ancora poco esplorato: la convergenza tra monarchici e vindici del ruolo svolto dal fascismo, sia nel “ventennio” sia nei “venti mesi”. Fonde passione civile e distacco critico. Non manca un filo di amarezza per il modesto sostegno ricevuto da alcuni maggiorenti del suo stesso partito in tornanti significativi dell'Italia di fine Novecento. La vicenda di Boetti Villanis richiama quella di Eddy Sogno, candidato in un collegio più impossibile che improbabile e quindi avviato alla amara solitudine dei suoi ultimi anni. Queste “memorie” inducono a una ricostruzione complessiva della Destra nazionale, libera da complessi di colpa e dal “dovere” di doversi continuamente scusare di un passato che essa superò con elaborazione critica e con propri rappresentanti nelle amministrazioni comunali, provinciali e nel Parlamento nazionale, all'insegna della responsabilità  e della continuità. Lo mostrano molte fotografie, quasi un libro nel libro, tra le quali spiccano gli incontri dell'Autore con Umberto II condannato all'esilio non dagli italiani ma dall'Assemblea Costituente.
   Chi è orgoglioso del proprio ruolo di patriota e rivendica la dignità della propria scelta, niente affatto episodica o umorale, attende il giudizio della Storia e incrocia lealmente i suoi ferri dialettici con chi vorrebbe tacitare per sempre l'avversario sulla scorta dell'irridente principio: “i vinti hanno sempre torto”. Ma nel 1943-1947 chi furono davvero i “vinti”? È il quesito affiorante dalle pagine di Ludovico Boetti Villanis-Audifredi che implicitamente rinviano alle opere decenni addietro scritte “a schiena dritta” dall'indimenticabile Giano Accame.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA . Ludovico Boetti Villanis-Audifredi monarchico, sottotenente di complemento nei Lancieri di Novara, ha militato nel Movimento sociale italiano. Avvocato, consigliere comunale a Vercelli, consigliere provinciale per vent'anni a Torino e capogruppo per MSI-Destra Nazionale, nel 1983 fu eletto deputato alla Camera nel collegio di Torino. Con ferrea memoria ed eloquio d'altri tempi interviene a fronte alta in dibattiti e conversazioni.
  Sulla sua Casa si veda “I Boetti (cominciando dal ceppo)” di Ludovico e Carlo Boetti Villanis, con prefazioni di Fabrizio Antonielli d'Oulx e Gustavo Mola di Nomaglio, Torino, Vivant, 2023. Il suo “Memoriale” Dignità di una scelta è in arrivo nelle librerie; può essere ordinato a bastogilibri@alice.it.


LE ALPI DEL MARE
TRIANGOLO D'EUROPA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 16 aprile 2023 pagg. 1 e 6.


BIANCHERI
                                                          GIUSEPPE
Didascalia
I tempi lunghi della Storia 
Non per congiunzione astrale ma per crescente bisogno di riflettere su nodi antichi e perenni che la geografia impone alla storia, in uno stesso giorno si sono svolti ieri di qua e di là delle Marittime due convegni di studio: uno, a Ventimiglia, sulla Ferrovia della valle Roia; un altro, a Valdieri, sulle valli delle Alpi del Mare nel turbine della seconda guerra mondiale.
   Il primo dei due convegni, imperniato sulle comunicazioni ferroviarie transfrontaliere tra Otto e Novecento, si è incardinato su Giuseppe Biancheri, che ne fu tra i principali promotori da parte italiana. L'altro ha passato in rassegna gli aspetti militari, politici e sociali delle valli alpine prima durante e dopo la seconda guerra mondiale. (v. box)
   Al di là dei temi specificamente affrontati, i due incontri di studio propongono riflessioni sui tempi lunghi della storia. In primo luogo si impone una verità: l'ampia “regione” Cuneo-Imperia-Nizza (ne citiamo i capoluoghi in ordine alfabetico) fu nei millenni incontro di genti, riti religiosi (lo attestano le famose incisioni rupestri del Vallone delle Meraviglie), commerci e teatro di guerre spietate. Basti ricordare il Trofeo eretto a La Turbie nel 6 a.Cr. per celebrare la vittoria definitiva di Caio Ottaviano (poi Augusto) sui popoli delle Alpi nei modi poi ricordati da Publio Cornelio Tacito: dove dicevano di aver portato la pace, i Romani avevano fatto il deserto. Senza addentrarci nel passato remotissimo, la Costa Azzurra fu obiettivo dei conti e duchi di Savoia che puntarono su Nizza e Ventimiglia per procurare al loro piccolo Stato l'agognato sbocco sul mare, in gara con la potente repubblica di Genova e profittando della debolezza del regno di Francia alle prese, a nord, con quello d'Inghilterra e da se stesso indebolito sul versante mediterraneo con la devastante guerra di sterminio dei càtari: “eresia” dualistica serpeggiante carsicamente nei millenni, dalla Persia all'Europa, e tuttora presente nelle file di neognostici e neopelagiani.
   Non appena si riebbero dal secolare conflitto contro gli inglesi, i re di Francia ripresero la via per l'Italia, aperta secoli prima da Carlo Magno. Nel 1494 Carlo VIII di Valois vi irruppe dal Monginevro alla testa di 30.000 uomini. Avanzò come un rullo compressore. In pochi mesi arrivò a Napoli per rivendicarne la corona, che gli arrivava da una remota parentela con gli Angiò, a suo tempo sbaragliati dagli Aragonesi. Frantumata in tanti Stati in perenne contrasto, l'Italia era di chi se la prendeva. Succuba. Vent'anni dopo Francesco I entrò in Piemonte dal colle della Maddalena, comodo salendo dal versante francese e quasi altrettanto per riscendere lungo la valle Stura verso Cuneo, ove, a Palazzo Lovera, una lapide un po' logorroica ne ricorda il passaggio alla volta della Lombardia. Alleato dei veneziani, nella “battaglia dei giganti” a Marignano il re di Francia sconfisse i lombardi. Ma dieci anni dopo fu sbaragliato a Pavia dall'imperatore Carlo V d'Asburgo, cadde prigioniero e dovette trattare una pace umiliante, che però non gli impedì di ritentare ancora l'assalto all'Italia in un intricato scenario di alleanze e controalleanze, che vide in campo i Savoia contro la Genova di Andrea Doria, passato a vele spiegate a fianco della Casa imperiale. Per la Superba voleva dire importazione di oro e argento dalle Americhe e di spezie dall'Estremo Oriente. La restaurazione del ducato di Savoia con Emanuele Filiberto,“Testa di ferro”, comportò una nuova fase dell'espansione sabauda in direzione sud-ovest. Mentre soggiogò il marchesato di Saluzzo (a parte la “Castellata” in alta Valle Varaita: minaccioso presidio francese) il duca non esitò a guerreggiare in Provenza con esiti più logoranti che vittoriosi. Se ne legge in “Il Marchesato di Saluzzo. Da Stato di confine a confine di Stato e a Europa” (Foggia, Bastogi, 2003), atti del convegno celebrato a Saluzzo nel IV Centenario del Trattato di Lione che nel 1601 calò una delle saracinesche tra il Piemonte sabaudo e la Francia.
   Come ha scritto il generale Oreste Bovio in “Pagine di Storia” (Ed. Roberto Chiaramonte) nei secoli seguenti il Piemonte fu teatro di battaglie di importanza non solo propriamente militare ma politica. Fu il caso della cacciata dei francesi di Luigi XIV che nel 1706 assediavano Torino. Sconfitto nella battaglia di Staffarda, dopo anni di desolazione (i marescialli di Francia facevano “terra bruciata” delle plaghe via via soggiogate), Vittorio Amedeo II col soccorso del cugino Eugenio di Savoia sbaragliarono il nemico. La Basilica di Superga non fu un ex voto di pace ma un trofeo che dalla sommità del colle guarda verso le Alpi. Doveva essere mònito perpetuo, ma, dopo sue precedenti e brillanti campagne d'armi tra Ponente Ligure e valli cuneesi, Napoleone Bonaparte discese dal San Bernardo alla volta della pianura padana e nel giugno del 1800 travolse gli austriaci a Marengo, presso Alessandria. Suggellò il colpo di Stato del 18 brumaio e pose la premessa della proclamazione dell'Impero dei Francesi.
Scienza e strade ferrate
Napoleone durò appena un decennio. Ma i suoi codici e le strade da lui aperte rimasero, come quelle degli antichi Romani. Lasciò in eredità al secolo seguente la circolazione delle idee anche tramite le società segrete, i congressi degli scienziati e l'accelerazione delle comunicazioni. La svolta fu propiziata dall'avvento delle strade ferrate, dapprima in Inghilterra, poi negli Stati di terraferma, con profonde differenze dettate dalla maggiore o minore capacità di vedere lontano. La dice lunga uno sguardo alle statistiche. Nel 1861, l'anno della nascita del regno d'Italia, a fronte dei 16.000 chilometri di ferrovie dell'Inghilterra la Germania ne contava 11.600; l'Austria ne aveva 4.500, la Francia (che si valeva di un'ottima secolare rete di canali navigabili) poco più di 9.500, il piccolo Belgio 1.700. L'Italia (che però non comprendeva ancora il  Triveneto) era ferma a 1.096. Metà delle ferrovie del Paese Italia erano in Piemonte. Intere regioni dell'Italia centro-meridionale non ne avevano neppure un chilometro. Gli esordi delle ferrovie erano stati ovunque modesti, pochi tratti di facciata più che di sostanza: Napoli-Portici, Milano-Monza, Napoli-Capua, Pisa-Livorno, Padova-Venezia, Torino-Moncalieri... Ogni staterello pensava in piccolo. Fece eccezione il Piemonte di Cavour che puntò sulla Torino-Genova e cominciò a puntare a Nizza passando per Savigliano-Fossano-Cuneo.
   Il 1860 cadde come una scure sul progetto di unire il Piemonte al Ponente Ligure.
Dopo la fratellanza sul campo di battaglia nel 1859 tra la Francia e il neonato regno d'Italia scesero le prime nebbie, soprattutto a causa della “questione di Roma”. Napoleone III, antico carbonaro, si erse a tutore di Pio IX. Nel 1866 non apprezzò l'alleanza italo-prussiana contro l'impero d'Austria. Nel 1867 annientò a Mentana i garibaldini in marcia verso Roma. A chi giovava una ferrovia dal Piemonte all'antico  Nizzardo? E se un giorno l'Italia si fosse alleata con la Germania contro la Francia? Nei decenni seguenti le nebbie divennero nubi sempre più oscure: il protettorato francese sulla Tunisia, la Triplice alleanza italo-austro-germanica del 20 maggio 1882, palesemente antifrancese, la guerra doganale di Parigi contro Roma e via continuando sino alla strage di terrazzani italiani ad Aigues-Mortes e agli aiuti di Parigi a Menelik contro l'espansione coloniale italiana dall'Eritrea verso l'Etiopia.
Anno dopo anno quella ferrovia segnò il passo. Non per impossibilità tecnica, ma per diffidenza politica, sino alle intese Prinetti-Barrère d'inizio Novecento e alle aperture del 1903-1904 per iniziativa di Vittorio Emanuele III che sin dall'ascesa al trono nell'agosto 1900, dopo l'assassinio di suo padre a Monza, puntò sull'amicizia italo-francese. Conferì il Collare della Santissima Annunziata (comportante il rango di “cugino del re”) al presidente della repubblica francese Emile Loubet, notoriamente anticlericale, andò in visita di Stato a Parigi e a Londra, e ricevette Loubet a Roma, con gran dispetto del papa che ancora rivendicava il potere temporale sulla Città Eterna.
   In quel clima di ritrovata cordialità (l'alleanza è un'altra cosa), come ha documentato Mariano Gabriele in una fondamentale opera sulla difesa del confine occidentale (Ufficio Storico SME), l'Italia continuò a munirsi a Ovest ma ripresero i lavori della strada ferrata che sboccò finalmente a Vievola. Il mare, però, era ancora lontanissimo. Per arrivarci ci vollero ancora più di vent'anni. Finalmente il 30 ottobre 1928 venne inaugurata la tanto agognata Cuneo-Breil/Ventimiglia-Nizza, capace di conciliare tutte le diverse attese. Proprio perché bisognava pensare in grande venne proposta come Berna-Marsiglia. Una linea non solo italo-francese ma europea..., com’era stata ideata dai suoi pionieri e rilanciata da Giolitti, dal ministro degli Esteri Morin e, a seguire, da Tommaso Tittoni, Antonino di San Giuliano e i giovani della massonica “Corda Fratres” che, su ispirazione del canavesano Efisio Giglio-Tos organizzarono incontri culturali tra gli studenti universitari delle “Sorelle Latine”. Le “idee” precorrono il commercio e il turismo e propiziano quella “pace in terra tra gli uomini di buona volontà” che solo decenni dopo la seconda guerra mondiale rimisero in funzione la Cuneo-Nizza: il 6 ottobre 1979. Molto ansimante e in attesa di un salto di qualità per un'Europa vera.
Aldo A. Mola


Giuseppe Biancheri (Ventimiglia, 22 novembre 1821-Torino, 26 ottobre 1908).
Già allievo in una scuola di avviamento commerciale a Montecarlo, laureato in giurisprudenza a Torino (1846), fu eletto deputato nel collegio uninominale di Ventimiglia il 13 dicembre 1853 in ballottaggio con Ercole Ricotti, illustre storico militare. Nel 1855 avversò l'alleanza del regno di Sardegna con Francia, Gran Bretagna e impero turco contro la Russia e la conseguente spedizione in Crimea. Schierato a sinistra, con il nizzardo Giuseppe Garibaldi e pochi altri nel 1860 votò contro la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia di Napoleone III, prevista dagli accordi di Plombières tra l'imperatore francese e Camillo Cavour (luglio 1858) per conto di Vittorio Emanuele II. A suo avviso la rinuncia a Nizza era destinata a penalizzare gravemente il Ponente ligure, già allarmato dall'attenzione riservata da Cavour (morto il 6 giugno 1861) al porto di La Spezia. L'ascesa alla presidenza del Consiglio del toscano Bettino Ricasoli e dell'emiliano Marco Minghetti si sostanziò nel trasferimento della capitale del regno da Torino a Firenze, senza alcuna garanzia di ottenere Roma, che la Nuova Italia raggiunse il Venti Settembre 1870 solo per effetto della sconfitta di Napoleone III da parte della Prussia a Sedan (2 settembre): la terza “S” propizia all'unificazione dell'Italia: dopo la vittoria di Napoleone sugli austriaci a Solferino (24 giugno 1859) e dei prussiani sugli asburgici a Sadowa (1866), che al regno d'Italia fruttò Venezia.
   Già componente della commissione parlamentare d'inchiesta sulla rete ferrata e ministro della Marina nel governo Ricasoli (1867), comprendente esponenti della Sinistra democratica come Agostino Depretis e il gran maestro del Grande Oriente d'Italia Filippo Cordova, il 12 marzo 1870 Biancheri fu eletto per la prima volta presidente della Camera in competizione con Benedetto Cairoli, esponente della Sinistra garibaldina. Come ha fatto osservare il suo biografo Silvio Furlani nel volume VII di “Il Parlamento Italiano, 1861-1993” (voll. 23), venne confermato per ben diciotto volte in quella prestigiosa carica, anche dopo l'ascesa della Sinistra al governo con Depretis e in successione al “fratello” Domenico Farini, nominato senatore e asceso a presidente della Camera Alta. Scrupoloso nell'espletamento del prestigioso ufficio, Biancheri ebbe ruolo decisivo nel dibattito parlamentare sullo scandalo della Banca Romana e sul plico di lettere consegnate da Giovanni Giolitti a propria difesa. Poiché però non seppe arginare l'Estrema sinistra radicale, capitanata da Felice Cavallotti, corrivo a contrapporre il “partito degli onesti” a quelli “storici”, dopo le elezioni del 1895, dominate da Francesco Crispi, Biancheri non fu rieletto. A suo carico si aggiunse l'insinuazione che fosse implicato nella crisi della banca di San Remo, salvata dall'intervento della Banca Nazionale.
   Tornò presidente della Camera dopo le elezioni politiche del 1897 e nel 1899, dopo le dimissioni di Giuseppe Colombo, nuovamente nel 1902, in successione al massone Tommaso Villa, e un'ultima volta nel 1906, durante il governo presieduto per cento giorni da Sidney Sonnino. Il 30 gennaio 1907, ormai ottantacinquenne, Biancheri lasciò il seggio presidenziale adducendo che l'età e la salute non gli consentivano più “l'usata operosità e diligenza”. Dopo oltre mezzo secolo dalla prima elezione alla Camera subalpina nel collegio di Ventimiglia, piegò le vele. San Remo dopo Ernesto Marsaglia, elesse il nipote di Biancheri, Orazio Raimondo, socialista, massone, stratega del rilancio della città attraverso il Casinò e il turismo di qualità che ne fece una delle principali attrazioni turistiche italiane, come documentato da Marzia Taruffi in “Uno, cento, mille Casinò di San Remo, 1905-2015 (Ed. De Ferrari).

   Nei convegni organizzati su Biancheri anni addietro, e nuovamente in quello del marzo-aprile 2023 orchestrato da Luca Fucini, console onorario di Francia per la provincia di Imperia, è stato approfondito il ruolo protagonistico da lui svolto per collegare il Ponente Ligure all'entroterra, e in specie al Piemonte, puntando su Cuneo in alternativa alla linea Torino-Fossano-Mondovì-Savona e a quella, strategica, Torino-Alessandria-Genova, voluta da Cavour. Come ricordò il giornalista Franco Collidà nel pionieristico volume sulla ferrovia Cuneo-Nizza, pubblicato in occasione della sua riapertura, Biancheri sovrappose diverse opzioni facendole via via prevalere alla Camera grazie alla sua straordinaria facondia.
   Per propugnare i suoi progetti non esitava a lasciare lo scranno di presidente della Camera e a parlare per molte ore dal banco di deputato, sciorinando particolari tecnici e alternando sciabolate ideali. Tra i suoi cavalli di battaglia a sostegno della linea ferrata nella Valle Roia (o Roja, come all'epoca si scriveva) vi era la necessità di interpretare il sentimento di quanti “Oltralpe” non avevano cessato di sentirsi legati all'Italia. Del resto dove inizia e dove termina l'Oltralpe? Per lui, fiero avversario della cessione di Nizza alla Francia, l'Italia terminava al Varo.
   Biancheri alimentava, insomma, quel filo mai interrotto di irredentismo nizzardo poi studiato da Giulio Vignoli e Achille Ragazzoni e consegnato alle pagine del Bollettino semestrale di studi nizzardi e tendaschi “Il Pensiero di Nizza” (1995-2006), recentemente riproposto in edizione anastatica da Settimo Sigillo.
   La “Cuneo-Nizza. Storia di una ferrovia” venne studiata da Franco Collidà in una documentatissima opera del 1981: quasi 300 pagine con contributi di Max Gallo e di Aldo A. Mola. Collidà non tace le contraddizioni di Biancheri. Mentre coltivava il progetto fondamentale di quando in quando propose una bizzarra linea lungo la valle Vésubie e persino per la Valle Tinea. Benché fossero alternative del tutto irreali grazie alla sua straordinaria oratoria riusciva ad attrarre il favore dell'uditorio, che spesso aveva una idea molto vaga delle “Alpi del Mare” e dei suoi secolari problemi, in gran parte tuttora irrisolti. Che cosa se ne sa e se ne pensa oggi a Roma e a Bruxelles?
   Nel citato convegno di Valdieri sono intervenuti Pier Carlo Sommo, Walter Cesana, Andrea Benzi, Paolo Chiarenza e il generale Antonio Zerrillo.

L'ESTATE DI VITTORIO EMANUALE III
LUGLIO-OTTOBRE 1943


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 9 aprile 2023 pagg. 1 e 6.


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                                                          Mola.
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                                                          d'archivio e
                                                          meditazioni
                                                          sulla storia
                                                          dell'Italia
                                                          unita, dai
                                                          suoi albori ai
                                                          giorni
                                                          nostri.
Didascalia
Vittorio Emanuele III, re costituzionale...
Vittorio Emanuele III (Napoli, 11 novembre 1869-Alessandria d'Egitto,28 dicembre 1947), re d'Italia dal 29 luglio 1900 al 9 maggio 1946, svolse ruolo eminente nell'estate del 1943. Sostituì Benito Mussolini con il maresciallo Pietro Badoglio, avviò le trattative per ottenere l'armistizio dalle Nazioni Unite e si trasferì con il governo da Roma a Brindisi per guidare la riscossa. In migliaia di opere su quelle vicende, fondamentali non solo per la storia d'Italia, è ricordato quale spettatore o al traino di decisioni altrui. A ottant'anni dagli eventi giova ripercorrere sinteticamente quanto avvenne per dare a ciascuno il suo.
   In premessa va ricordato il sistema dei poteri fondato sullo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto re di Sardegna e adottato dal regno d'Italia alla sua proclamazione il 14 marzo 1861. Capo dello Stato, il sovrano aveva il comando delle forze armate, con facoltà di conferirne l'esercizio in caso di guerra. Nominava i ministri, responsabili dell'esecutivo, mentre il legislativo era “collettivamente esercitato dal re e da due Camere”: il senato, di nomina regia e vitalizia, e quella dei deputati, elettiva.
   Il 30 ottobre 1922 Vittorio Emanuele III incaricò Mussolini di formare il governo di coalizione costituzionale. Il 31 i ministri giurarono e presero ordinatamente le consegne dai predecessori; l'indomani s’insediarono. Il 17 e il 29 novembre le Camere votarono la fiducia a straripante maggioranza. Per assicurare la stabilità del governo dopo anni di crisi causate dalla “maledetta proporzionale” (definizione di Giolitti), il 18 novembre 1923 il Parlamento approvò la legge che tributò due terzi dei seggi al partito che ottenesse il 25% dei voti. Alle elezioni del 6 aprile 1924 la Lista incardinata sul Partito nazionale fascista (PNF) ottenne il 66% dei voti e i due terzi dei seggi che le sarebbero spettati anche senza quella riforma. Però i deputati iscritti al PNF (molti solo di recente) risultarono appena 227 su 535. Una minoranza. Gli altri erano “fiancheggiatori”, spesso tiepidi. Tuttavia nel 1925-1927 quella camera, col senato al seguito, varò le leggi cosiddette “fascistissime”: scioglimento delle associazioni e dei partiti di opposizione, soppressione dei loro giornali, decadenza dei deputati “assenteisti”, introduzione della pena di morte per attentati contro i Reali, il capo del governo e lo Stato, sostituzione dei consigli comunali e provinciali con podestà e presidi di nomina governativa. A coronamento del regime di partito unico, il 17 maggio 1928 il Parlamento approvò la legge elettorale proposta da Alfredo Rocco. La compilazione della lista di 400 deputati, da votare o respingere in blocco, spettò al Gran consiglio del fascismo, regolamentato il 9 dicembre 1928 da una legge che, contrariamente a quanto solitamente si afferma, non ebbe alcun potere sulla successione al trono.
   L'11 febbraio 1929 Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri sottoscrissero i Patti Lateranensi tra il regno d'Italia e lo Stato della Città del Vaticano, che si riconobbero a vicenda, mettendo fine alla “questione romana” aperta nel 1870 con l'annessione di Roma e del Lazio. Alle elezioni del 24 marzo 1929 il PNF ottenne quasi il 99% dei voti, un successo replicato nel 1934 (99,8%). A conclusione della conquista dell'Etiopia, il 9 maggio 1936 fu proclamato l'Impero. Con l'annessione dell'Austria da parte di Adolf Hitler l'Italia confinò con la Germania. Suggestionati dal nazionalsocialismo molti fascisti ritenevano sempre più ingombrante la monarchia. Lo diceva anche il duce, sia pure in privato.
...assediato dai fascisti repubblicani.
Nell'aprile 1938 Vittorio Emanuele III subì l'affronto della nomina a primo maresciallo dell'Impero, titolo dal Parlamento conferito a Mussolini. Come re non ne aveva alcun bisogno. Avverso a ogni forma di “razzismo”, nel dicembre 1938 emanò le leggi razziali perché approvate dalle Camere. A differenza della Costituzione della Repubblica, lo statuto non prevedeva il rinvio delle leggi con parere motivato, né pubbliche riserve. Se, per non firmarle, egli avesse abdicato avrebbe messo suo figlio Umberto di fronte allo stesso bivio. Se anche questi avesse abdicato e nessun principe sabaudo avesse accettato la Corona per non firmare quelle leggi, a norma dello statuto le Camere in seduta congiunta avrebbero nominato un Reggente (verosimilmente Mussolini), incarica sino al 1955, quando Vittorio Emanuele principe di Napoli avrebbe raggiunto l'età per regnare. Più nessuno avrebbe arginato chi puntava a liquidare la monarchia.
   Dal 1939, tramite Pietro d'Acquarone, ministro della Real Casa, il sovrano tastò la disponibilità di gerarchi (a cominciare da Galeazzo Ciano, insignito dell'Ordine della SS. Annunziata dopo l'annessione dell'Albania) a un “cambio di rotta” per evitare che l'Italia finisse succuba della Germania. Tutti si defilarono. In assenza di interlocutori, non gli rimase che avallare il governo Mussolini all'apogeo del consenso, dal “patto di Acciaio” alla neutralità (settembre 1939) e all'intervento in guerra del 10 giugno 1940, deliberato anche per propiziare la resa della Francia e scongiurare l'irruzione dei tedeschi irrompessero nel  “Midi”, come avvenne nel novembre 1942.
L'iniziativa del Re: revocare Mussolini...
Dall'inizio del 1943, fallita l'aggressione alla Grecia nell'ottobre 1940, perduta l'intera Africa Orientale nel 1941, dopo la ritirata dalla Libia e dal fronte del Don nell'Unione sovietica (1942), la sconfitta dell'Italia era ormai ineluttabile. Il cosiddetto patto Roma-Berlino-Tokyo non funzionava affatto per la perdurante pace tra il Giappone e l'Unione sovietica. In assenza di iniziative di Mussolini per un armistizio separato, Vittorio Emanuele III mirò a salvare l'Italia dalla debellatio e dalla sua spartizione tra i vincitori, ventilata dalla Gran Bretagna. Si valse dell'unica leva sicura: alcuni generali e i carabinieri, capaci di operare secondo i due canoni necessari: segretezza ed efficienza. L'urgenza dell'azione fu dettata dallo sbarco degli anglo-americani in Marocco e Algeria (novembre 1942), dal loro ormai indiscutibile dominio sul Mediterraneo, dalla forzata resa dell'ultimo bastione dell'esercito in Tunisia, agli ordini del maresciallo Giovanni Messe (maggio 1943), dalla “fronda” insorgente all'interno dei gerarchi dopo il vasto rimpasto di ministri attuato da Mussolini in marzo, fonte di diffusi malumori ai vertici del regime e senza speciale vantaggio per il “fascismo”, e, infine, dall'assalto anglo-americano alla Sicilia (10 luglio), completo di atti criminosi contro la popolazione civile.
   A Dino Grandi, decorato del Collare della SS. Annunziata, il re confidò di aver bisogno di un voto del Gran consiglio del fascismo, come fosse una “terza Camera”. Il bombardamento di Roma in coincidenza con il fallimento dell'ennesimo incontro Mussolini-Hitler (19 luglio) impose l'accelerazione. Quando lesse l'ordine del giorno Dino Grandi-Luigi Federzoni-Giuseppe Bottai, pervenutogli tramite Cesare Maria De Vecchi (mentre il massone Domenico Maiocco lo fece avere a Ivanoe Bonomi, capofila degli antifascisti), il re constatò che i gerarchi si limitavano a chiedere al duce di deporre il comando della guerra senza però rimuoverlo da capo del governo né intaccare il regime. 
   Mentre i partiti antifascisti e i più rappresentativi esponenti del pre-fascismo erano ancora pressoché irrilevanti nel Paese e agli occhi dei nemici, Vittorio Emanuele III passò all'azione. In un colloquio di venti minuti a Villa Savoia, poco dopo le 17 del 25 luglio 1943, comunicò al duce la revoca da capo del governo. “Fermato” (non “arrestato”) e sorvegliato in una caserma di carabinieri, Mussolini si dichiarò disponibile a collaborare. La somma dei decreti in pochi giorni emanati da Badoglio e i Verbali del governo (pubblicati a cura di Aldo G. Ricci) indicano la lunga preparazione sottesa al “cambio” e sfatano la leggendaria incertezza del sovrano tra Badoglio e il maresciallo Enrico Caviglia, lontano dalle leve del potere e privo dei necessari riservatissimi contatti internazionali. Lo stesso vale per le misure adottate dal capo di stato maggiore dell'Esercito, Mario Roatta, per reprimere manifestazioni che dall’esultanza potevano volgere in insorgenza sia di sovversivi sia di fautori del “duce”, come narrò anche il partigiano monarchico Beppe Fenoglio in Primavera di bellezza (1960). Gli anglo-americani (e non solo essi) constatarono che il governo controllava l'ordine pubblico e smantellava il regime. Aveva dunque i requisiti per eseguire le condizioni che da sin dal Memorandum di Quebec (18 agosto 1943) gli anglo-americani avevano prospettato per concedere all'Italia di uscire dalla guerra. Non tutte le decisioni di Badoglio risultarono lungimiranti. In particolare, lo scioglimento completo della Camera dei fasci e delle corporazioni, dalla quale sarebbe bastato escludere i soli fascisti, inceppò il regime bicamerale e sovraespose il re.
...e ottenere di arrendersi per salvare lo Stato
  Il 12 agosto il generale Giuseppe Castellano  partì da Roma alla volta di Lisbona per contattare l'Alto comando anglo-americano e avviare e trattative armistiziali. Vi giunse il 16 previo incontro a Madrid con l'ambasciatore britannico Samuel Hoare, che dal 1917 era stato alcuni anni tenente colonnello nel servizio segreto militare inglese a Roma.
   Contro i calcoli del governo italiano, d'intesa con l'Unione sovietica gli anglo-americani avevano approntato da tempo lo strumento immodificabile di resa dell'Italia “senza condizioni”. Esso fu consegnato in forma sintetica al generale Castellano e nel testo “lungo” al generale Giacomo Zanussi che, ignaro della missione del collega, a sua volta raggiunse Lisbona il 25. Al rientro di Castellano a Roma, dopo rapida valutazione l'“armistizio breve” obtorto collo fu accettato. Al termine di febbrili consultazioni Castellano lo sottoscrisse il 3 settembre a Cassibile (Siracusa). Preludio alle ulteriori durissime condizioni (sottoscritte da Badoglio il 29 settembre sulla nave inglese “Nelson”, ancorata a Malta), lo strumento di resa riconosceva il “governo del re” e quindi lo Stato incardinato sulla Corona. Il generale Eisenhower, comandante in capo degli Alleati, si riservò la data della pubblicazione. A Roma perdurò la convinzione che sarebbe stato proclamato il 12 (in una lettera privata Badoglio accennò addirittura al 16). Esso invece fu imposto da Algeri l'8 settembre, quando il governo era ancora impreparato ad affrontare la prevedibile reazione della Germania. Dopo vivace discussione, presenti le cariche militari supreme e il maggiore Luigi Marchesi, il re concluse: “Adesso sappiamo” (Angelo Squarti Perla, Le menzogne di chi scrive la storia, ed. Gambini, 2023). In poche ore, di concerto con Vittorio Emanuele III, il re Badoglio provvide al necessario per mettere al sicuro la famiglia reale, il governo, il comandante supremo Vittorio Ambrosio e i capi di stato maggiore delle tre Armi.
    Il re rifiutò la proposta di riparare su una nave degli Alleati (“territorio” dei vincitori). In assenza di alternative praticabili (raggiungere la Sardegna via nave in partenza da Civitavecchia), fu allestito il trasferimento in auto da Roma verso Pescara, via per Tivoli-Avezzano. Sulle 5 di mattino del 9 settembre la vettura del Re partì per prima con lo stendardo del Capo dello Stato. Le altre (con Badoglio, il principe ereditario Umberto, la Regina e il loro seguito) si accodarono alla spicciolata. Tutto fu tranne una “fuga”. Un fuggiasco non percorre strade ordinarie né innalza le sue insegne. Il governo conferì il comando di Roma (“città libera” dall'agosto, essa comprendeva lo Stato della Città del Vaticano) al generale Giorgio Calvi di Bergolo, genero del sovrano, poi autorizzato a stipulare la resa ai tedeschi soverchianti. Nel pomeriggio del 9 il Re presenziò all'aeroporto di Pescara al consulto tra Badoglio e i vertici militari per concertare la meta, fissata nella Puglia, non ancora raggiunta dagli anglo-americani ed ove erano in corso duri combattimenti di reparti italiani contro i germanici, costretti dall'eroico generale Nicola Bellomo a ritirarsi da Bari. Verso le 23 dal molo di Pescara la famiglia reale si imbarcò sulla corvetta “Baionetta”, giunta da Ortona con Badoglio già a bordo. Scortata dall'incrociatore “Scipione Africano”, essa proseguì verso un porto sicuro, durante la navigazione individuato in Brindisi.
   All'arrivo Vittorio Emanuele III lanciò un appello agli italiani. Il governo si insediò, sia pure in condizioni molto precarie. Gli Alti Comandi trasmisero direttive non sempre recepite né rilanciate dai destinatari, in via di dissolvimento. 
Il Re trasmise i poteri ma serbò la Corona
Conclusa l'occupazione della Sicilia e intrapresa quella della Calabria, allo sbarco nella piana di Salerno gli anglo-americani furono tenacemente fronteggiati dai germanici. Con una spericolata operazione il 12 settembre il maggiore delle SS Otto Skorzeny prelevò Mussolini dall'Albergo Imperatore sul Gran Sasso e lo trasferì in Germania, cespite dello Stato fascista repubblicano d'Italia, poi Repubblica sociale italiana. Dopo il “suicidio” del Maresciallo Ugo Cavallero, suo ospite a Frascati, il maresciallo tedesco Kesselring ottenne da Rodolfo Graziani di porsi a capo di un esercito repubblicano mentre non solo nel Mezzogiorno reparti fedeli al giuramento al re si battevano contro gli occupanti.
   Gli anglo-americani tennero una condotta ambigua nei confronti di Vittorio Emanuele III. Da un canto ne avevano bisogno perché era il perno dello Stato (diplomazia, forze armate...) e garantiva l'esecuzione delle condizioni di resa. Dall'altro, anche dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia contro la Germania (13 ottobre), ostacolarono la riorganizzazione del regio esercito, intrapreso tra grandi difficoltà e giunto nondimeno ad assumere veste di Raggruppamento Motorizzato, fulcro dei futuro Corpo Italiano di Liberazione e di sei Gruppi di combattimento. Il colonnello Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo assunse il comando del Fronte militare clandestino. Arrestato e seviziato nella prigione di via Tasso, fu ucciso alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944, come altri militari, antifascisti, ebrei, massoni e detenuti comuni. Il Re e il principe Umberto passarono ripetutamente in rassegna reparti dell'Esercito, riorganizzato da Giovanni Messe, rilasciato dagli inglesi su sollecitazione di Vittorio Emanuele III che lo aveva avuto aiutante di campo. Al di là di fanti, marinai e avieri, dei carabinieri e della pubblica sicurezza, circa 400.000 militari italiani concorsero alla guerra di liberazione.
   Ottenuto il riconoscimento dell'Italia quale “cobelligerante” e consolidate le relazioni internazionali anche con l'Unione sovietica, il governo Badoglio non ebbe la collaborazione del Comitato centrale di liberazione nazionale costituito in Roma dall'agosto 1943 e presieduto da Ivanoe Bonomi. Gli alleati, soprattutto gli statunitensi, ventilarono l'abdicazione immediata del Re, la rinuncia al trono del principe ereditario, il passaggio della corona al nipote, di appena sette anni, e la nomina di un Reggente (nella persona di Badoglio?). Tali proposte furono inizialmente condivise da Benedetto Croce e da Carlo Sforza, repubblicano veemente benché collare della SS.Annunziata e senatore del regno come gli rinfacciò Camillo Canciani in Vittorio Emanuele III fu complice del fascismo? (Roma, 1945). Esse furono fermamente respinte dal Re. Sgarbatamente pressato dagli Alleati, il 12 aprile 1944 il sovrano annunciò che avrebbe trasmesso tutti i poteri al principe ereditario, ma in Roma, quando fosse liberata. Tenne per sé la Corona.
   Il 22 aprile fu costituito il secondo governo Badoglio, con la partecipazione dei partiti del CLN. Alla presenza del re i ministri giurarono sul proprio onore di servire l'Italia. Non mantennero la promessa di osservare la “tregua istituzionale”. Fecero anzi di tutto per oscurare il sovrano e suo figlio, Luogotenente del regno dal 5 maggio 1944. Il 9 maggio 1946 Vittorio Emanuele III abdicò e si trasferì in Egitto con la regina Elena, cittadino di pieno diritto dell'Italia che aveva salvato dalla catastrofe. Si congedò dalla vita quattro giorni prima che la Costituzione della Repubblica lo condannasse all'esilio.  
   Il repentino crepuscolo del sovrano e della monarchia fu tutt'uno con quello dell'Italia, a vantaggio dei vincitori che conseguirono l'obiettivo col trattato di pace del 10 febbraio 1947: cancellarla dal novero delle maggiori potenze, quale si era affermata negli ottanta anni dalla proclamazione del regno. Vi fu (e vi è) poco da gioirne, come poi disse Croce alla Costituente contro la ratifica dell'umiliante diktat imposto all'Italia, con la drammatica mutilazione dei suoi confini, soprattutto sul fronte orientale, raggiunto con grande sacrificio nel 1918-1924. 
Aldo A. Mola 

DIDASCALIA: Arriva a breve in libreria “Vita di Vittorio Emanuele III, 1869-1947. Il Re discusso” di Aldo A. Mola. Pubblicato da Bompiani-Giunti (come la sua Storia della Massoneria e le biografie di Silvio Pellico e Giosue Carducci), il volume (592 pagine e 8 di illustrazioni, euro 22) sintetizza lunghe ricerche d'archivio e meditazioni sulla storia dell'Italia unita, dai suoi albori ai giorni nostri.

GLI ACCORDI DI SARETTO (1944)
L'EUROPA CHE NON C'È


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 2 aprile 2023 pagg. 1 e 6.


La
                                                          copertina del
                                                          volume di
                                                          Marta Arrigoni
                                                          (martasaretto@libero.it),




























                                                          punto di
                                                          arrivo di
                                                          decenni di
                                                          studio e
                                                          valida base in
                                                          vista dell'80°
                                                          dell'accordo
                                                          di Saretto. Il
                                                          19 maggio 1945
                                                          il socialista
                                                          Giuseppe
                                                          Saragat,
                                                          ambasciatore a
                                                          Parigi,
                                                          avvertì il
                                                          ministro degli
                                                          Esteri Alcide
                                                          De Gasperi:
                                                          “La situazione
                                                          è tutt'altro
                                                          che
                                                          rassicurante e
                                                          tale da
                                                          preoccupare
                                                          coloro che
                                                          auspicano
                                                          nell'interesse
                                                          della patria e
                                                          del pacifico
                                                          assetto
                                                          dell'Europa
                                                          un'intesa
                                                          sempre più
                                                          cordiale tra
                                                          l'Italia e la
                                                          Francia (…) La
                                                          Francia vuole
                                                          annettersi gli
                                                          alti bacini
                                                          della Roia,
                                                          Vesubia,
                                                          Tinea, il
                                                          massiccio
                                                          dello
                                                          Chaberton, i
                                                          colli del
                                                          Moncenisio e
                                                          del Piccolo
                                                          San Bernardo.
                                                          Ma la Francia
                                                          vuol
                                                          annettersi
                                                          soprattutto le
                                                          valli del
                                                          Pellice e la
                                                          valle
                                                          d'Aosta”,
                                                          previo
                                                          plebiscito da
                                                          celebrare
                                                          “nella scia di
                                                          un esercito di
                                                          occupazione”.
                                                          L'ultima
                                                          parola toccò
                                                          al Trattato di
                                                          pace del 10
                                                          febbraio 1947,
                                                          nettamente
                                                          sfavorevole
                                                          all'Italia su
                                                          entrambi i
                                                          confini
                                                          dell'Italia,
                                                          con la Francia
                                                          e, peggio, con
                                                          la Jugoslavia,
                                                          in spregio al
                                                          suo concorso
                                                          alla guerra
                                                          contro la
                                                          Germania di
                                                          Hitler e i
                                                          suoi alleati
                                                          interni e
                                                          internazionali,
                                                          sia come Stato
                                                          co-belligerante,




























                                                          sia con il
                                                          CorpoVolontari
                                                          della
                                                          Libertà.
Didascalia
Ma quale Europa?
Di che Europa stiamo parlando? I “27” soci dell'Unione Europea non hanno unità politica, né militare. Non tutti hanno identica moneta, né, meno ancora, codici civili e penali in comune. Quand'è il momento, si disconoscono. Spesso si comportano come bambini capricciosi. E quindi buffi. Sotto l'ombrello difensivo (???) della NATO, per intervenire nella guerra d'Ucraina mandano persino vecchie forniture dell'URSS. L'Unione pare spesso una giostra di gelosie e di conflitti. Non ha mai fatto seriamente i conti con la decolonizzazione: un evento che dura da ottant'anni, si è verificato “in ordine sparso”, caoticamente ed è stato surrogato con altre forme di dominio. Di lì la sua miopia dinnanzi alla grande migrazione, che ne è una tra le conseguenze più vistose. Tra un anno vedremo quanti suoi elettori andranno alle urne per votarne i rappresentanti in un Parlamento vagante.
   Questa Europa non è quella sognata dai tanti che ottant'anni orsono, anche a prezzo della vita, si batterono per la federazione dei suoi popoli in nome della libertà. Ne ha scritto Marta Arrigoni in “I Patti di Saretto del 30-31 maggio 1944 tra storia e memoria”.
Gli accordi italo-francesi di Saretto
Gli “Accordi di Saretto” del 31 maggio 1944 si collocano in un arco temporale, in un contesto bellico e in un quadro politico italiano generale e locale che li rende un unicum nell'ambito della lotta di liberazione italiana e francese. Ebbero il primo impulso da Costanzo Picco, ufficiale del regio esercito, rimasto in Francia dopo la resa incondizionata del 3-29 settembre 1943. Presero corpo nella primavera avanzata del 1944, quando le “bande” partigiane piemontesi erano investite da massicci rastrellamenti da parte di reparti germanici e della Repubblica sociale italiana e si stavano “politicizzando” sempre più.
   I preliminari della collaborazione tra i due fronti della lotta di liberazione furono avviati il 12 maggio 1944 con un incontro al col Sautron (2800 metri sul livello del mare). Il 22 maggio a Barcelonnette (Val di Larche) Maurice Lecuyer, comandante della resistenza francese nelle Basse Alpi, e Tancredi (Duccio) Galimberti, comandante delle formazioni “Giustizia e Libertà” in Piemonte e valle d'Aosta, con ampia delega “politica” di Ferruccio Parri, comandante generale delle bande del Partito d'azione, sottoscrissero un primo accordo militare. Redatto in francese, esso impegnava a intensificare i legami tra le valli dei due lati della frontiera. Il 30-31 maggio i delegati dei Movimenti uniti della resistenza francese e quelli del Comitato di liberazione nazionale del Piemonte sottoscrissero accordi politici e militari a Saretto (borgata di Acceglio, in alta Valle Maira, in provincia di Cuneo). In breve, però, la loro efficacia svaporò.
   Il contesto bellico generale mutò drasticamente. Il 17 gennaio 1944 gli anglo-americani sbarcarono ad Anzio-Nettuno ma cozzarono con la tenacia dei tedeschi attestati agli ordini del maresciallo Kesselring sulla linea Gustav. La completa distruzione dell'Abbazia di Montecassino (15 febbraio), ordinata dal maresciallo inglese Harold Alexander, non comportò vantaggi operativi per gli anglo-americani e i corpi aggregati, come i polacchi. Suscitò anzi indignazione in Italia e molte riserve anche all'estero.
   A fine maggio il comandante americano Marc Clark si trovò dinnanzi alla scelta strategica: muovere verso l'Adriatico, avvolgere il nemico, costringendolo alla resa o alla fuga precipitosa, e chiudere la guerra in Italia con una vittoria decisiva oppure puntare su Roma. Scelse il successo più vistoso. Entrò nella Città Eterna il 4 giugno, vigilia dello sbarco anglo-americano in Normandia (6 giugno), militarmente di gran lunga più importante. I tedeschi ripiegarono sulla “linea gotica” (da Viareggio a Pesaro) e vi ressero per mesi. Il quadro politico-diplomatico internazionale, già modificato con l'inserimento dell'Urss e di France Libre nella Commissione militare alleata di controllo in Italia, si intersecò con quello politico interno. Il 12 aprile, ruvidamente pressato dagli anglo-americani, Vittorio Emanuele III annunciò che alla liberazione di Roma avrebbe trasferito tutti i poteri della Corona al principe ereditario, Umberto di Piemonte. Il 22 aprile il maresciallo Pietro Badoglio formò a Salerno il suo secondo governo con esponenti dei partiti del Comitato di liberazione nazionale. Il 18 giugno si insediò il governo presieduto da Ivanoe Bonomi.
   In quel contesto la “guerra partigiana” nelle regioni amministrate dalla Repubblica sociale italiana incontrò crescenti difficoltà come documenta il carteggio tra Giorgio Agosti e Dante Livio Bianco, con riferimento al teatro liguro-piemontese. La “pianurizzazione” avrebbe aumentato i rischi di cattura e di eliminazione di commissari politici e comandanti militari, ormai noti ai loro nemici, e avrebbe fatto trovare le “bande” impreparate a svolgere un ruolo decisivo nell'“ora x”. Questa convinzione si fondava sulla certezza che, giunti a Roma, gli anglo-americani sarebbero presto sbarcati sulla costa ligure per respingere i tedeschi dalle Alpi occidentali.
   L’intensificazione delle relazioni tra partigiani italo-francesi prese corpo nei giorni che lasciavano ritenere imminente la “svolta” militare nello scacchiere italiano. Per valutare la portata degli incontri di Sautron, Barcelonnette e Saretto occorrono due precisazioni. In primo luogo balza evidente l'asimmetria dei “poteri” delle due delegazioni. Quella francese faceva capo a un governo non ancora insediato sul territorio nazionale ma riconosciuto dalle Nazioni Unite. Le sue forze da mesi combattevano in Italia, con comportamenti talora deplorevoli (basti rievocare “La ciociara”) e assai peggiori di quelli tenuti dai militari anglo-americani. La delegazione italiana, invece, operava su mandato del CLN del Piemonte, ma era costituita solo da esponenti del Partito d'Azione, il cui vertice regionale tenne per sé l'esclusiva dell'iniziativa, proprio per il suo possibile rilievo generale. Sennonché nel maggio 1944 i CLN dell'Italia non ancora liberata non rappresentavano il governo nazionale. Nella fase cruciale i vertici torinesi del partito decisero di emarginare Galimberti con argomenti personalistici sconcertanti. Il 27 maggio Agosti ne precisò a Bianco il motivo (“la necessità che una trattava simile non cada nelle mani di Leo (Scamuzzi, NdA)” e della cerchia di Galimberti. Aggiunse realisticamente: “A mio avviso queste trattative e gli accordi che ne deriveranno non possono avere per noi dei risultati militari o politici molto importanti”.
   Nel Diario sotto la data del 29 maggio 1944 Bianco annotò l'incontro con suo cognato, Gigi Ventre, Ezio Aceto, comandante militare del II settore e “col delegato pel Piemonte delle forze della resistenza francese (l'avvocato Jean Lippmann, NdA). Persona simpaticissima. Proseguiamo tutti insieme, in corriera, per Acceglio, dove pernottiamo”. L'impiego di un mezzo pubblico, attraverso molti paesi e con varie soste di servizio, indica che pochi giorni dopo l'“ultimatum” della RSI (25 maggio) i partigiani potevano muoversi su un ampio territorio senza soverchi timori di controllo.
   Al termine di due giorni di colloqui nella Trattoria-Albergo di Saretto (passata in eredità a Marta Arrigoni, che ne ha curato il restauro) Max Juvenal e Bianco sottoscrissero il “documento” che, redatto in francese, va sotto il nome di “accord de Saretto”. Sull'onda di visioni condivise tra “confrères”, i delegati convennero che “aussi pour l'Italie – ainsi que pour la France – la meilleure forme de gouvernement pour assurer le mantien des libertés démocratiques et de la justice sociale, est celle républicaine”. Il 22 aprile i ministri del secondo governo Badoglio erano entrati in carica giurando sul proprio onore di rispettare la “tregua istituzionale”. Perciò Agosti sollecitò Bianco a informare Juvenal che quella clausola del “documento” andava cassata.
Quando la Francia di De Gaulle voltò le spalle
Gli eventi bellici che si susseguirono in Italia e Oltralpe, a cominciare dallo sbarco in Normandia e dall'insediamento a Roma del governo presieduto da Bonomi, ridimensionarono la portata politica e militare dell'accordo di Saretto, peraltro mai pervenuto a Roma. La riorganizzazione delle formazioni partigiane, “dopo ampie e laboriose trattative” (come scrisse Bianco), anche in vista degli assetti di potere postbellici portò alla stipula dell'accordo tra due divisioni di Giustizia e Libertà e due divisioni “autonome”, una comandata da Enrico Martini (“Mauri”), ufficiale di stato maggiore e dichiaratamente monarchico, “valoroso e popolare comandante” (Bianco), l'altra da Piero Cosa, affiancato da Dino Giacosa, fiero repubblicano. Lo “spirito” dell'accordo fu sintetizzato in un memorandum che rivendicò il valore innovativo delle “forze partigiane”, premessa del “radicale rinnovamento politico, morale e sociale del paese”, l'instaurazione di “una sana democrazia” e la libera scelta da parte del popolo italiano degli “ordinamenti che più gli convengono” (Valle Pesio, 7 agosto 1944).
   L'accordo, detto “della Certosa”, perché discusso e deliberato alla Certosa di Pesio, al suo 7° punto andò oltre quello di Saretto. Mentre Juvenal e Bianco avevano auspicato il ritorno alla fraternità italo-francese, senza alcun cenno all'Europa, il memorandum della Certosa affermò: “Siamo contro tutti i nazionalismi e gli imperialismi e, senza per nulla rinnegare l'alto valore umano e storico dell'ideale nazionale e della tradizione patriottica italiana, auspichiamo una federazione di liberi popoli del nostro continente, che, lasciando intatta nei tratti essenziali la fisionomia delle singole nazioni, realizzi una vera comunità europea, sola via per assicurare una pace duratura e garantire le migliori possibilità di progresso.” I firmatari non indicarono alcun limite territoriale all’auspicata federazione europea. Il 4° punto dell'accordo, come già era avvenuto per quello di Saretto, risultò irricevibile da parte dei comunisti e dei socialisti del CLN piemontese. Esso recitò: “Intendiamo impegnare tutte le nostre forze contro l'instaurazione e la conservazione di qualsiasi regime totalitario e dittatoriale, di qualsiasi tipo e colore” e aggiunse: “Siamo perciò contro la dittatura della reazione (grosso capitale, alta finanza, agrari, militaristi, ecc.) non meno che contro quella del proletariato o di qualsiasi altra classe o gruppo.”
   Mentre il testo era al centro della discussione, il 15 agosto l'operazione “Dragoon” cambiò drasticamente il contesto bellico e politico generale. Un convoglio di 300 navi da guerra, 2.000 trasporti e mezzi da sbarco rovesciò rapidamente sulla costa francese tra Cannes e Tolone quasi 100.000 uomini (americani e corpi francesi agli ordini del generale de Lattre de Tassigny) senza incontrare significativa resistenza da parte della 19^ armata germanica. Il crinale alpino divenne spartiacque tra i tedeschi, che dalla pianura si affrettarono a raggiungerlo per controllare le rotabili, e gli alleati. La resistenza d'Oltralpe venne incorporata nell'esercito francese. Alle 7 del 25 agosto la 2^ divisione corazzata francese entrò in Parigi, seguita mezz'ora dopo dalla 4^ divisione americana. Alle 15 e 15 il comandante tedesco della piazza Dietrich von Choltitz chiese la resa.
   Nessuno tra i partigiani italiani, neppure in Piemonte, previde la svolta della Francia verso l'Italia all'indomani dell'operazione “Dragoon” e dell'ingresso di De Gaulle in Parigi. Il 14 febbraio 1944 il segretario generale agli Esteri, Renato Prunas, già ministro plenipotenziario a Lisbona, informò Badoglio che secondo de Panafier, rappresentante della Francia presso la Commissione di controllo e del Comitato consultivo per l'Italia, De Gaulle aveva in animo, “appena regolate le maggiori questioni italo-francesi, di promuovere una qualche forma di federazione latina” e aveva costituito un apposito ufficio “Italia” ad Algeri presso il Commissariato francese agli Esteri. Però il 15 marzo sempre da Algeri il generale Giuseppe Castellano, capo della Missione militare italiana presso il comando delle forze alleate, riferì a Prunas che secondo “un ben quotato funzionario del ministero degli Esteri di De Gaulle” il governo Badoglio non comprendeva figure rappresentative dell'opinione pubblica italiana ed era colpevole di “non aver ancora ufficialmente dichiarato la completa rinunzia alle famose rivendicazioni sulla Francia”.
   Dopo l'annuncio dell'istituzione della Luogotenenza da parte di Vittorio Emanuele III, su ruvida pressione anglo-americana in risposta al suo memorandum del 21 febbraio, l'ambasciatore francese Massigli incalzò il governo Badoglio per un “cambio di passo” nei rapporti italo-francesi. Il 5 maggio venne sollecitata la “pubblica sconfessione delle rivendicazioni fasciste: Savoia, Corsica, Nizza, Tunisia”.  Il 15 da Tangeri il console generale Alberto Berio aggiunse che De Gaulle intendeva trattare solo con “un'Italia nuova, radicalmente sbarazzata dal fascismo”, retta con forme istituzionali liberamente scelte dal popolo. Erano trasparenti le sue riserve nei confronti della monarchia e l'indebita interferenza nella futura scelta referendaria.
   Nel frattempo il CLN dell'Alta Italia premeva per essere riconosciuto quale autorità centrale dell'“entire resistance activity” sia politica sia militare nell'Italia settentrionale (31 maggio 1944), in un quadro internazionale fortemente pregiudicato dall'andamento generale della guerra. Il 10 giugno la segreteria generale degli Esteri ne informò Badoglio, ormai prossimo a essere estromesso dal governo. Constava che sin dal 1° aprile “l'organizzazione italiana della resistenza si era accordata con quella di Tito sulla base di una linea confinaria al Tagliamento'”. Sull'integrità territoriale dell'Italia postbellica si addensavano nubi sempre più fosche. Il 6 luglio da Salerno Bonomi, assicurò a De Gaulle che il nuovo governo, da lui presieduto in successione a Badoglio, tra i compiti fondamentali aveva “una chiarificazione tra Francia e Italia e il progressivo rinsaldarsi della loro amicizia”. Il 17 agosto, due giorni dopo lo sbarco franco-americano sulla costa francese sud-orientale, Bonomi informò il ministro della Guerra, Alessandro Casati, che il Comandante supremo del corpo di spedizione alleato in Italia riconosceva “i patrioti italiani come esercito combattente, comandato e diretto da ufficiali e comandanti” facente parte “delle Forze di Spedizione Alleate in Italia”; ma essi dovevano portare “un distintivo regolarmente notificato in base alle leggi internazionali”. Ogni rappresaglia contro di loro “sarebbe dunque violazione delle leggi di guerra che legano anche la Germania”. Quante “bande” si adeguarono? Il 7 ottobre, mentre si infittivano i timori di svalicamento di truppe francesi in Valle d'Aosta, Prunas riferì a Bonomi, per la sua veste di ministro degli Esteri, di aver comunicato all'ambasciatore francese a Roma, Maurice Couve de Murville, l'“insoddisfazione” dell'Italia perché le autorità francesi consideravano “ripristinato lo stato di guerra fra noi e la Francia” e assumevano misure vessatorie nei confronti degli 800 mila italiani residenti in Francia, benché 1200 volontari italiani nella sola Parigi, a prezzo di un centinaio fra morti e feriti, avessero concorso alla liberazione di Parigi.
   Lo “spirito di Saretto” era ormai un lontano ricordo. Gli anglo-americani volgevano la loro precipua attenzione ai problemi politico-militari dell'Estremo Oriente: la guerra contro il Giappone e le posizioni di tutti i Paesi interessati a quell'area, dall'India all'“Indocina”, alla Cina stessa e all'Unione sovietica, che solo l'8 agosto 1945, dopo il bombardamento atomico americano su Hiroshima, avrebbe dichiarato guerra all'impero nipponico. Anche l'Italia il 12 luglio 1945 dichiarò guerra al Giappone. Ma il conflitto mondiale non era tra ideali e ideologie bensì tra potenze. L'“Europa” nacque su basi del tutto diverse dallo “spirito di Saretto”.
Aldo A. Mola


DIDASCALIA La copertina del volume di Marta Arrigoni (martasaretto@libero.it), punto di arrivo di decenni di studio e valida base in vista dell'80° dell'accordo di Saretto.
Il 19 maggio 1945 il socialista Giuseppe Saragat, ambasciatore a Parigi, avvertì il ministro degli Esteri Alcide De Gasperi: “La situazione è tutt'altro che rassicurante e tale da preoccupare coloro che auspicano nell'interesse della patria e del pacifico assetto dell'Europa un'intesa sempre più cordiale tra l'Italia e la Francia (…) La Francia vuole annettersi gli alti bacini della Roia, Vesubia, Tinea, il massiccio dello Chaberton, i colli del Moncenisio e del Piccolo San Bernardo. Ma la Francia vuol annettersi soprattutto le valli del Pellice e la valle d'Aosta”, previo plebiscito da celebrare “nella scia di un esercito di occupazione”. L'ultima parola toccò al Trattato di pace del 10 febbraio 1947, nettamente sfavorevole all'Italia su entrambi i confini dell'Italia, con la Francia e, peggio, con la Jugoslavia, in spregio al suo concorso alla guerra contro la Germania di Hitler e i suoi alleati interni e internazionali, sia come Stato co-belligerante, sia con il CorpoVolontari della Libertà.


DE GASPERI L'ONNIPOTENTE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 26 marzo 2023 pagg. 1 e 6.


Alcide De
                                                          Gasperi (o
                                                          anche
                                                          Degasperi)
                                                          (Pieve Tesino,
                                                          3 aprile 1881
                                                          - Sella di Val
                                                          Sugana, 18
                                                          agosto 1954)
                                                          ritratto da
                                                          Attilio Melo
                                                          (1954).  
                                                           Per una
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                                                          storia
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                                                          giugno 1946
                                                          racchiuse
                                                          nelle mani il
                                                          potere
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                                                          segretario
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                                                          Democrazia
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                                                          all'aprile
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                                                          partito dal
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                                                          comunali della
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                                                          ministro degli
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                                                          giugno 1944,
                                                          presidente del
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                                                          successione a
                                                          Ferruccio
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                                                          dicembre 1945,
                                                          su
                                                          designazione
                                                          del consiglio
                                                          dei ministri
                                                          (formulata la
                                                          sera del 10
                                                          giugno 1946)
                                                          alle 0.30 del
                                                          13 giugno
                                                          accettò di
                                                          esercitare le
                                                          funzioni di
                                                          Capo dello
                                                          Stato in
                                                          manifesta
                                                          contrapposizione
                                                          al legittimo
                                                          sovrano,
                                                          Umberto II di
                                                          Savoia. Per
                                                          non suscitare
                                                          un conflitto
                                                          tra monarchici
                                                          e repubblicani
                                                          dalle
                                                          conseguenze
                                                          imprevedibili,
                                                          alle 16 dello
                                                          stesso 13
                                                          giugno il Re
                                                          lasciò
                                                          l'Italia per
                                                          il Portogallo
                                                          denunciando il
                                                          “gesto
                                                          rivoluzionario”
                                                          del “suo”
                                                          governo. De
                                                          Gasperi
                                                          replicò in
                                                          termini
                                                          inusitatamente
                                                          aspri e ai
                                                          giornalisti
                                                          dichiarò di
                                                          “essere” il
                                                          Capo dello
                                                          Stato,
                                                          suscitando
                                                          perplessità
                                                          anche Oltre
                                                          Tevere.  
                                                           Sino
                                                          all'elezione
                                                          del napoletano
                                                          Enrico De
                                                          Nicola,
                                                          monarchico e
                                                          liberale, a
                                                          Presidente
                                                          provvisorio
                                                          della
                                                          Repubblica
                                                          italiana, lo
                                                          statista
                                                          concentrò i
                                                          poteri di Capo
                                                          provvisorio
                                                          dello Stato,
                                                          presidente del
                                                          Consiglio e
                                                          ministro degli
                                                          Esteri. Il
                                                          Verbale
                                                          dell'insediamento
                                                          del suo
                                                          successore
                                                          lascia una
                                                          spessa coltre
                                                          di dubbi sulla
                                                          legittimità
                                                          dell'esercizio
                                                          delle funzioni
                                                          dei giorni
                                                          13-18 giugno.
                                                          L'edizione
                                                          straordinaria
                                                          della
                                                          “Gazzetta
                                                          Ufficiale
                                                          della
                                                          Repubblica
                                                          Italiana” (1°
                                                          luglio 1946)
                                                          infatti
                                                          recita: “Oggi
                                                          alle ore 13 in
                                                          una sala di
                                                          Montecitorio
                                                          (non al
                                                          Quirinale, né
                                                          al Viminale,
                                                          all'epoca sede
                                                          del governo,
                                                          NdA) ha avuto
                                                          luogo
                                                          l'insediamento
                                                          del Capo
                                                          provvisorio
                                                          dello Stato
                                                          Enrico De
                                                          Nicola al
                                                          quale l'On. De
                                                          Gasperi ha
                                                          trasmesso i
                                                          poteri di
                                                          Presidente
                                                          della
                                                          Repubblica da
                                                          lui
                                                          esercitati,
                                                          nella sua
                                                          qualità di
                                                          presidente del
                                                          Consiglio, dal
                                                          giorno
                                                          dell'annuncio
                                                          dei risultati
                                                          definitivi del
                                                          referendum
                                                          istituzionale”
                                                          (18 giugno,
                                                          NdA): una
                                                          formula
                                                          arzigogolata
                                                          ed elusiva dei
                                                          “fatti” nella
                                                          loro oggettiva
                                                          sequenza. Alla
                                                          cerimonia
                                                          presenziarono
                                                          il presidente
                                                          della
                                                          Costituente,
                                                          Giuseppe
                                                          Saragat, i
                                                          vicepresidenti
                                                          Terracini,
                                                          Micheli, Conti
                                                          e Pecorari,
                                                          tutti i
                                                          Ministri,
                                                          l'ultimo
                                                          presidente
                                                          della Camera,
                                                          Vittorio
                                                          Emanuele
                                                          Orlando
                                                          (sconfitto da
                                                          De Nicola
                                                          nella
                                                          competizione
                                                          per la
                                                          successione a
                                                          De Gasperi) e
                                                          l'ex
                                                          presidente
                                                          della Consulta
                                                          Nazionale,
                                                          Carlo Sforza,
                                                          Collare della
                                                          SS. Annunziata
                                                          ed ex senatore
                                                          del regno,
                                                          animosamente
                                                          repubblicano.
                                                            Come ha
                                                          scritto
                                                          Francesco
                                                          Malgeri, uno
                                                          dei suoi
                                                          biografi, “De
                                                          Gasperi non
                                                          deluse le
                                                          attese di
                                                          Togliatti”. Lo
                                                          confermano i
                                                          saggi di Aldo
                                                          G. Ricci,
                                                          Aspettando la
                                                          Repubblica. I
                                                          governi della
                                                          transizione,
                                                          1943-1946 (ed.
                                                          Donzelli) e Il
                                                          compromesso
                                                          costituente. 2
                                                          giugno 1946-18
                                                          aprile 1948
                                                          (ed. Bastogi).
                                                          Ne scrisse
                                                          anche Nico
                                                          Perrone in Il
                                                          realismo
                                                          politico di De
                                                          Gasperi
                                                          (BastogiLibri,
                                                          2022). Fra il
                                                          13 e il 19
                                                          giugno (giorno
                                                          nel quale la
                                                          “Gazzetta
                                                          Ufficiale
                                                          della
                                                          Repubblica
                                                          Italiana”
                                                          pubblicò il
                                                          cambio della
                                                          forma dello
                                                          Stato per
                                                          l'esito del
                                                          referendum
                                                          istituzionale,
                                                          senza bisogno
                                                          di speciale
                                                          “proclamazione”)
                                                          le sentenze e
                                                          gli atti con
                                                          efficacia
                                                          giuridica (per
                                                          es. gli atti
                                                          notarili)
                                                          continuarono a
                                                          essere emanati
                                                          “in nome del
                                                          Re”.  
                                                           All'indomani
                                                          delle
                                                          dimissioni del
                                                          governo
                                                          comprendente
                                                          esponenti dei
                                                          sei partiti
                                                          del Comitato
                                                          centrale di
                                                          liberazione
                                                          nazionale (DC,
                                                          PCI, PSIUP,
                                                          Democrazia del
                                                          Lavoro,
                                                          Partito
                                                          d'azione,
                                                          Democrazia del
                                                          lavoro:
                                                          l'“esarchia”
                                                          di cui ha
                                                          scritto Giulio
                                                          Andreotti in
                                                          Concerto a sei
                                                          voci), il 15
                                                          luglio 1946 De
                                                          Gasperi formò
                                                          una nuova
                                                          coalizione:
                                                          democristiani,
                                                          comunisti,
                                                          socialisti e
                                                          Partito
                                                          repubblicano
                                                          (guidato da
                                                          Randolfo
                                                          Pacciardi),
                                                          cui seguì un
                                                          “tripartito
                                                          DC, PCI, PSI
                                                          e, dopo il
                                                          viaggio di De
                                                          Gasperi negli
                                                          Stati Uniti
                                                          d’America, il
                                                          quadripartito
                                                          centrista (DC,
                                                          PSLI -cioè
                                                          Partito
                                                          socialista dei
                                                          laboratori
                                                          italiani,
                                                          futuro Partito
                                                          socialista
                                                          democratico-,
                                                          PRI, Partito
                                                          liberale)
                                                          durato (con
                                                          vari cambi e
                                                          diverse
                                                          prospettive;
                                                          persino un
                                                          monocolore con
                                                          appoggio
                                                          esterno del
                                                          Partito
                                                          nazionale
                                                          monarchico)
                                                          sino alle
                                                          elezioni del
                                                          1953, che
                                                          segnarono il
                                                          repentino
                                                          crepuscolo
                                                          dello statista
                                                          trentino.
                                                          Negli otto
                                                          anni scarsi
                                                          tra l'11
                                                          dicembre 1945
                                                          e il 2 agosto
                                                          1953 De
                                                          Gasperi
                                                          presiedette
                                                          nove diversi
                                                          governi, dalla
                                                          composizione
                                                          cangiante.
                                                          Alla sua morte
                                                          l'Italia era
                                                          in ripresa
                                                          economica ma
                                                          le prospettive
                                                          politiche
                                                          rimanevano
                                                          incerte. Si
                                                          risolsero
                                                          dieci anni
                                                          dopo (4
                                                          dicembre 1963)
                                                          con il primo
                                                          governo
                                                          organico di
                                                          centro-sinistra
                                                          (DC, PRI, PSDI
                                                          e PSI)
                                                          presieduto da
                                                          Aldo Moro, con
                                                          Nenni
                                                          vicepresidente,
                                                          Saragat agli
                                                          Esteri, Paolo
                                                          Emilio Taviani
                                                          all'Interno e
                                                          Andreotti alla
                                                          Difesa.
Didascalia
Dall'età monarchica alla Repubblica
   Non vi sono sondaggi recenti su chi sia stato l'uomo più “potente” in Italia dall'Unità a oggi. Possiamo però immaginare le risposte. Probabilmente a nessuno vengono in mente i nomi dei re. Sovrano di un'Italia ancora tutta da fare, Vittorio Emanuele II ebbe un sacco di guai con ministri taccagni, corrivi a ridurne la “lista civile”, cioè gli spiccioli a disposizione di chi aveva fatto l'Italia. Lo stesso accadde per Umberto II e Vittorio Emanuele III. In tutti i momenti critici anche quest'ultimo, talora a torto dipinto come reazionario, non decise mai la formazione di un governo se non dopo aver consultato i presidenti delle Camere e i maggiorenti dei partiti. Anche meno imperioso fu Umberto II. Rispettosissimo dello statuto, da Luogotenente del regno (5 giugno 1944-9 maggio 1946) il Principe di Piemonte rimase impigliato nella rete del Comitato centrale di liberazione nazionale, che gli impose la firma di decreti i cui contenuti e i cui obiettivi non condivideva affatto. Ma non aveva alternative. Può sembrare allora scontato concludere che l'uomo più “potente” sia stato Benito Mussolini, mascella volitiva, pupille mobili e minacciose e gesto marziale sino alla parodia di se stesso. Quando il 30 ottobre 1922 egli fu incaricato di formare il governo di coalizione costituzionale un quotidiano di provincia lo salutò “Erculeo scopatore”, non per involontario accenno a sue “intemperanze” ma auspicando che spazzasse via la putredine dei partiti borghesi: un progetto che accomunava fascisti, estrema sinistra, nonché partiti e correnti anti-sistema, come i repubblicani e clericali anti-sabaudi perché anti-unitari. Però, come sappiamo, allo scoccare dell'ora fatale, il 25 luglio 1943 a Vittorio Emanuele III bastarono venti minuti per revocarlo da primo ministro e sostituirlo con Pietro Badoglio.
   Nelle prime settimane il maresciallo d'Italia e duca di Addis Abeba apparentemente governò con pugno di ferro. Da un canto si concesse anche alcuni eccessi, dall'altro si mosse a passi felpati su terreni più impervi. Non esitò a sciogliere il Partito nazionale fascista, il Gran consiglio, popolato da gerarchi per i quali provava ricambiata antipatia, e persino la Camera dei fasci e delle corporazioni: un azzardo statutariamente sconsiderato, perché paralizzò il Senato, di cui era componente, ma poco assiduo anche per via dei suoi impegni diplomatici e militari. Lasciò invece qual era la Milizia volontaria di sicurezza nazionale. Si limitò a cambiarne i vertici e a imporre che sostituissero i fasci con le stellette del regio esercito. D'altronde nei giorni fatidici essa non aveva mosso paglia in difesa del “duce”. Non che la Milizia fosse un puro e semplice “dopolavoro partitico”, però poteva impensierire. Il suo scioglimento fu decretato nel dicembre 1943, quando era in corso la riorganizzazione delle regie forze armate e quindi, se anche gli anglo-americani non avessero insistito per fare chiarezza, la sua sopravvivenza risultava ormai inammissibile. Poteva costituire, o almeno sembrare, una sorta di potenziale quinta colonna del neonato Partito fascista repubblicano. Tanto più che il 27 ottobre 1943 in veste di Capo dello Stato nazionale repubblicano (una delle tante denominazioni che precorsero la Repubblica sociale italiana) Mussolini aveva decretato lo scioglimento delle Forze armate regie e la costituzione di quelle repubblicane.
   La fantasiosa caccia all'uomo più potente nella storia d'Italia può quindi spingersi a passare rassegna i presidenti del Consiglio e/o segretari dei partiti susseguitisi al governo dopo l'avvento della repubblica, sino, per esempio ad Aldo Moro (ma sappiamo quale fu la sua tragica fine), Giulio Andreotti (che però subì un processo devastante e mancò l'elezione al Quirinale, considerata naturale approdo di una lunga e prestigiosa carriera) e Bettino Craxi, che morì esule ad Hammamet... Di quelli seguenti sono note ascesa e caduta, fortune e sventure, quasi la mitologica “invidia degli dei” si accanisca sui vertici del governo italiano senza distinzione tra “politici” e “tecnici” incaricati di reggere la barra del governo in mari sempre più tempestosi: da Lamberto Dini a Mario Monti e Mario Draghi. A lungo venerato quale salvatore della patria, contro tutte le più scontate previsioni anche “SuperMario” si vide sbarrata l'elezione alla presidenza della Repubblica e, dopo aver condotto al voto un Paese litigioso, è divenuto bersaglio della peggiore tra le critiche possibili: il silenzio.
De Gasperi: il borghese Onnipotente assoluto 
   Eppure l'Italia ebbe per qualche settimana al vertice un Onnipotente assoluto: Alcide Degasperi o, come nell'uso prevalente, De Gasperi (Pieve Tesino, Trento, 3 aprile 1881-Sella di Valsugana, Borgo Valsugana, 19 agosto 1954). Il  suo “caso” fu talmente anomalo che di rado viene evocato, quasi un brutto ricordo, un precedente scomodo. Anche chi scrive scordò di menzionarlo nel novero dei presidenti della Repubblica, scritto a commento del libro di Tito Lucrezio Rizzo su “I Capi dello Stato dalla monarchia alla repubblica, 1848-1922 (ed. Herald).
   Non solo per ammenda, merita ricordare come il tutto accadde nei giorni convulsi seguiti al referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946.
   In un articolo pubblicato nel glorioso mensile fiorentino “Il Ponte” ne scrisse Mario Bracci, uno dei protagonisti di quei giorni:“Storia di una settimana, 7-12 giugno 1946”. Giurista di valore, militante del Partito d'azione Bracci vergò di suo pugno la bozza di una legge di due soli articoli per segnare la svolta: “art. 1: Dalle ore 0 del giorno 11 giugno le funzioni (cancellato: i poteri) del Capo dello Stato sono (cancellato: saranno) esercitati dall'on. Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio in carica nel giorno (cancellato: il gior) delle elezioni 2 giu. 1946; art. 2: L'esercizio delle funzioni di Capo dello Stato (cancellato: spetta) da parte del Presidente del Consiglio de Gasperi cesserà all'atto dell'elezione del Capo provvisorio dello Stato che sarà fatta dall'Assemblea Costituente secondo la norma dell'art. 2 del D.leg. Lgt (decreto legge luogotenenziale) 16 marzo 1946, n. 98”, ovvero una “legge” emanata da Umberto II.
   Il documento non figura nei “Verbali del Consiglio dei ministri” curati da Aldo G. Ricci (ed. Poligrafico dello Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Governo de Gasperi, vol. VI, 2) comprendente la trascrizione dei verbali con formidabile apparato critico: opera di riferimento indispensabile. Prima di arrivare al punto, va annotato che, a volte dettagliati su specifiche dichiarazioni dei partecipanti, i Verbali non ricalcano esattamente lo svolgimento dei lavori ma ne offrono ampia sintesi. Ma non deve stupire. A volte Francesco Crispi e Giovanni Giolitti sintetizzarono in poche righe di proprio pugno i lunghissimi lavori dei Consigli da loro presieduti. Al confronto, quelli del governo De Gasperi pubblicati da Ricci sono molto più ricchi. Vale per la seduta del 23 maggio 1946, l'ultima prima delle votazioni del 2-3 giugno sulla forma dello Stato e per l'elezione della Costituente. Essa iniziò alle 10.30, venne sospesa alle 14.30, riprese alle 18 e terminò alle 22.30. Ma il verbale conta appena sedici pagine a stampa. Nel suo corso De Gasperi dovette assentarsi e, non si sa con quale criterio, fu sostituito una tantum da Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano e ministro di Grazia e giustizia. In tale veste “il Migliore” (come Togliatti venne detto lasciando tra parentesi le sue “imprese” a Mosca, in Spagna e non solo) aveva illustrato poco prima lo schema di un decreto legge sull'indipendenza della magistratura mirante a “mantenere una distinzione fra Magistrato requirente e Magistrato giudicante”. Un tema sempre attuale.
La disputa sul Referendum e il...salto nel buio
   Il Consiglio dei ministri tornò a riunirsi l'8 giugno. Prese atto delle contestazioni sui dati del referendum. Il liberale Giovanni Cassandro di concerto con giuristi dell'Università di Padova (Agostino Padoan e altri) chiedeva che il governo desse conto anche dei voti nulli e che l'esito finale venisse calcolato sulla base dei votanti, non dei soli voti validi, come invece stava facendo il ministro dell'Interno Giuseppe Romita. Di passaggio questi ammise che a quel momento, cinque giorni dopo la chiusura delle urne, mancavano ancora i verbali di 22 delle 32 circoscrizioni elettorali. Molti dei presenti, però, avevan fretta di arrivare alle conclusioni: diroccare la monarchia.Togliatti propose di intestare subito i decreti “Repubblica italiana” e che le sentenze venissero pronunciate “in nome del popolo italiano” anziché “del Re”. Ma il liberale Leone Cattani obiettò che il governo non aveva la competenza per farlo. Cozzò contro le repliche di Togliatti, Cianca, Brosio (liberale repubblicano, ministro della Guerra), Cevolotto, Gullo (a suo dire la repubblica era stata “dichiarata il 2 giugno”) e Bracci, secondo il quale il potere esecutivo doveva immediatamente “passare al Capo provvisorio dello Stato e al Consiglio dei ministri”.
   Alle 20 del 10 giugno il governo si riunì sotto la botta della Corte Suprema di Cassazione. Alle 18 nella Sala della Lupa di Montecitorio il presidente Giuseppe Pagano aveva letto i risultati provvisori dello scrutinio e convocato una altra adunanza (l'ultimo giorno utile ope legis era il 18) e, in cauda venenum, annunciato che in quella sede avrebbe indicato “il numero complessivo degli elettori votanti” (non dei soli voti validi) e quello dei “voti nulli”. Dei quali però (schede bianche, annullate, contestate...) sino a quel momento la “macchina” del Ministero dell'Interno non si era minimamente occupata. 
   Iniziarono giorni affannati: occorreva esaminare oltre 20.000 ricorsi su circa 35.000 seggi, una montagna di obiezioni e, soprattutto, conteggiare davvero tutti i voti. Impossibile risalire alle schede. Togliatti abilmente mise le mani avanti: forse erano già state distrutte e comunque non erano a Roma. Bisognava esaminare i verbali. Un'impresa gigantesca e dopotutto inutile. L'esito della verifica doveva essere comunicato nell'“adunanza” fissata dal presidente Giuseppe Pagano per le 18 del 18 giugno. La partita, però, non era “giuridica”. Era politica. E così venne risolta. La notte dell'11, subito dopo l'approvazione del “progetto” Bracci, concitatamente il governo decretò festivo il martedì 12. Nessuno se ne accorse. Nella notte tra il 12 e il 13 il governo varcò il Rubicone. Decise di conferire al presidente del Consiglio le funzioni di Capo dello Stato. Leone Cattani si oppose. Ma fu l'unico. Tanti altri plaudirono il quartetto di flauti e violini De Gasperi, Romita, Togliatti e Nenni che, dopo febbrili contatti con il Quirinale, decise il conferimento dell'esercizio dei poteri sovrani a De Gasperi. Questi, pur con animo turbato come si arguisce dalla risposta data a Epicarmo Corbino che gliene chiese conto, accettò. Perché? Quali fossero le sue convinzioni e se abbia votato monarchia o repubblica rimangono un mistero. Però il “suo” partito  (altra cosa dagli elettori) era per il “cambio”. Il Consiglio nazionale a larga maggioranza. I giovani quasi all'unanimità. Tra i ministri democristiani Mario Scelba era repubblicano intransigente. D'altra parte, egli stesso era legato a filo doppio al patto del CLN. Accipit. Così, per volere del Consiglio dei ministri non eletto dagli italiani ma nominato dal re, Alcide De Gasperi assunse tutti i poteri. Già deputato alla Dieta di Vienna, da capogruppo del Partito popolare alla Camera dei deputati il 16-17 novembre 1922 aveva propugnato il voto a favore del governo Mussolini. Acqua passata. Un po' torbida ma remota. Il primo a non farci caso nel 1946 era il ministro per l'Industria e il Commercio, Giovanni Gronchi, che nel governo Mussolini era stato sottosegretario all'Industria (titolare Teofilo Rossi di Montelera) e aveva dinnanzi a sé un luminoso futuro.
   Nelle due sedute presiedute da De Gasperi nella curiosa doppia veste di Capo provvisorio dello Stato e di presidente del Consiglio (quanto basta per non volere alcuna riforma della Carta vigente) il governo, assente Cattani, varò l'amnistia già deliberata da Umberto II (furto con destrezza?), “soppresse” il Senato del regno (ma la corte dei conti rifiutò di registrare il decreto perché eccedeva le competenze dell'esecutivo), ideò l'ANAS, destituì di ogni fondamento molte norme della “cosiddetta”, “sedicente” o “pseudo” Repubblica sociale (ma senza retroattività della loro “applicazione”) e proclamò festa della Repubblica l'11 giugno: proprio il giorno nel quale non era avvenuto nulla di significativo. La Festa venne poi fissata il 2 giugno, inizio della votazione, anziché il 19, giorno nel quale la “Gazzetta Ufficiale” dette notizia della sua nascita. Nel frattempo (e se ne parlò nella seduta del 21 giugno) incombevano la questione dei confini e la sorte delle colonie, di cui De Gasperi era ministro. 
   Vicende che meritano di essere meglio ricordate.
Aldo A. Mola 

DIDASCALIA: Alcide De Gasperi (o anche Degasperi) (Pieve Tesino, 3 aprile 1881 - Sella di Val Sugana, 18 agosto 1954) ritratto da Attilio Melo (1954).
   Per una serie di congiunzioni astrali, primo e unico nella storia d'Italia nel giugno 1946 racchiuse nelle mani il potere supremo. Già segretario della Democrazia cristiana sino all'aprile 1946 (il partito dal maggior seguito elettorale, come emerse nelle elezioni comunali della primavera 1946), ministro degli Esteri dal 18 giugno 1944, presidente del Consiglio dei ministri in successione a Ferruccio Parri l'11 dicembre 1945, su designazione del consiglio dei ministri (formulata la sera del 10 giugno 1946) alle 0.30 del 13 giugno accettò di esercitare le funzioni di Capo dello Stato in manifesta contrapposizione al legittimo sovrano, Umberto II di Savoia. Per non suscitare un conflitto tra monarchici e repubblicani dalle conseguenze imprevedibili, alle 16 dello stesso 13 giugno il Re lasciò l'Italia per il Portogallo denunciando il “gesto rivoluzionario” del “suo” governo. De Gasperi replicò in termini inusitatamente aspri e ai giornalisti dichiarò di “essere” il Capo dello Stato, suscitando perplessità anche Oltre Tevere.
   Sino all'elezione del napoletano Enrico De Nicola, monarchico e liberale, a Presidente provvisorio della Repubblica italiana, lo statista concentrò i poteri di Capo provvisorio dello Stato, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Il Verbale dell'insediamento del suo successore lascia una spessa coltre di dubbi sulla legittimità dell'esercizio delle funzioni dei giorni 13-18 giugno. L'edizione straordinaria della “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana” (1° luglio 1946) infatti recita: “Oggi alle ore 13 in una sala di Montecitorio (non al Quirinale, né al Viminale, all'epoca sede del governo, NdA) ha avuto luogo l'insediamento del Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola al quale l'On. De Gasperi ha trasmesso i poteri di Presidente della Repubblica da lui esercitati, nella sua qualità di presidente del Consiglio, dal giorno dell'annuncio dei risultati definitivi del referendum istituzionale” (18 giugno, NdA): una formula arzigogolata ed elusiva dei “fatti” nella loro oggettiva sequenza. Alla cerimonia presenziarono il presidente della Costituente, Giuseppe Saragat, i vicepresidenti Terracini, Micheli, Conti e Pecorari, tutti i Ministri, l'ultimo presidente della Camera, Vittorio Emanuele Orlando (sconfitto da De Nicola nella competizione per la successione a De Gasperi) e l'ex presidente della Consulta Nazionale, Carlo Sforza, Collare della SS. Annunziata ed ex senatore del regno, animosamente repubblicano.
  Come ha scritto Francesco Malgeri, uno dei suoi biografi, “De Gasperi non deluse le attese di Togliatti”. Lo confermano i saggi di Aldo G. Ricci, Aspettando la Repubblica. I governi della transizione, 1943-1946 (ed. Donzelli) e Il compromesso costituente. 2 giugno 1946-18 aprile 1948 (ed. Bastogi). Ne scrisse anche Nico Perrone in Il realismo politico di De Gasperi (BastogiLibri, 2022). Fra il 13 e il 19 giugno (giorno nel quale la “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana” pubblicò il cambio della forma dello Stato per l'esito del referendum istituzionale, senza bisogno di speciale “proclamazione”) le sentenze e gli atti con efficacia giuridica (per es. gli atti notarili) continuarono a essere emanati “in nome del Re”.
   All'indomani delle dimissioni del governo comprendente esponenti dei sei partiti del Comitato centrale di liberazione nazionale (DC, PCI, PSIUP, Democrazia del Lavoro, Partito d'azione, Democrazia del lavoro: l'“esarchia” di cui ha scritto Giulio Andreotti in Concerto a sei voci), il 15 luglio 1946 De Gasperi formò una nuova coalizione: democristiani, comunisti, socialisti e Partito repubblicano (guidato da Randolfo Pacciardi), cui seguì un “tripartito DC, PCI, PSI e, dopo il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti d’America, il quadripartito centrista (DC, PSLI -cioè Partito socialista dei laboratori italiani, futuro Partito socialista democratico-, PRI, Partito liberale) durato (con vari cambi e diverse prospettive; persino un monocolore con appoggio esterno del Partito nazionale monarchico) sino alle elezioni del 1953, che segnarono il repentino crepuscolo dello statista trentino. Negli otto anni scarsi tra l'11 dicembre 1945 e il 2 agosto 1953 De Gasperi presiedette nove diversi governi, dalla composizione cangiante. Alla sua morte l'Italia era in ripresa economica ma le prospettive politiche rimanevano incerte. Si risolsero dieci anni dopo (4 dicembre 1963) con il primo governo organico di centro-sinistra (DC, PRI, PSDI e PSI) presieduto da Aldo Moro, con Nenni vicepresidente, Saragat agli Esteri, Paolo Emilio Taviani all'Interno e Andreotti alla Difesa.
   Aldo Alessandro Mola


162 ANNI DI CAPI DELLO STATO
NELL'OPERA DI TITO LUCREZIO RIZZO


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 19 marzo 2023 pagg. 1 e 6.


La
                                                          copertina del
                                                          Opera di Tito
                                                          Lucrezio
                                                          Rizzo, Il Capo
                                                          dello Stato
                                                          dalla
                                                          monarchia alla
                                                          Repubblica
                                                          (1848-2022),
                                                          Roma, Herald
                                                          Editore. I
                                                          proventi
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                                                          educazione
                                                          alla legalità
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                                                          “Carcere. Se
                                                          lo conosci lo
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                                                          cooperativa
                                                          sociale
                                                          Infocarcere
                                                          per la
                                                          prevenzione
                                                          del bullismo
                                                          tra i giovani
                                                          e nelle
                                                          scuole.
Didascalia
  Sommo Sacerdote
Il Capo dello Stato? Solitudine e immersione nel corpo vivo della cittadinanza.
Ne abbiamo in memoria visioni icastiche. Il presidente Sergio Mattarella fermo dinnanzi alle bare dei migranti a Cutro o abbracciato dalla folla nelle centinaia di visite alle città d’Italia. Il Presidente che sale la gradinata dell'Altare della Patria cammina sulle orme di Vittorio Emanuele III che il 2 novembre 1921 seguì a piedi la salma del Soldato Ignoto dalla Stazione Termini alla Basilica di Santa Maria degli Angeli. Il Capo dello Stato è Sommo Sacerdote del rito nel quale quotidianamente si riconoscono moltitudini di cittadini che vedono, ricordano e sentono la Patria come “religione”: legame che è entusiasmo e cordiglio. All'insediamento egli giura, come facevano i Re, presenti la Casa e il Parlamento. Fedeltà allo Statuto albertino un tempo. Alla Costituzione repubblicana poi.
   La complessità e, al tempo stesso, la genuina “semplicità” del Presidente della Repubblica sono illustrate da Tito Lucrezio Rizzo in “Il Capo dello Stato dalla monarchia alla repubblica, 1848-1922” (Herald Editore). Opus magnum, il volume è punto di arrivo di ventennale elaborazione che unisce dottrina giuridica, chiarezza espositiva in lingua italiana purissima (pregio ormai raro) e cognizione personale conseguita nei decenni di servizio al Quirinale che lo hanno veduto infine Consigliere Caposervizio per la Sicurezza della Presidenza della Repubblica.
   L'opera inanella i profili dei presidenti (una tantum merita ricordarli nella loro sequenza: Enrico De Nicola, Luigi Einaudi, Giovanni Gronchi, Antonio Segni, Giuseppe Saragat, Giovanni Leone, Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella) non attraverso aneddoti da rotocalco ma individuando il filo conduttore che ne ha ispirato e retto l'azione di magistrati supremi dello Stato.
Risalire la china
Un obiettivo, questo, tutt’altro che agevole da conseguire all'indomani della seconda guerra mondiale, della lacerazione del Paese in regimi contrapposti per alleanze diplomatico-militari e ideologiche e del referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946. I voti a favore della monarchia non furono molto inferiori a quelli favorevoli al cambio istituzionale: circa 10.700.000 contro 12.700.000, con un milione e mezzo di schede bianche e un altro milione e mezzo di cittadini esclusi dal voto: Venezia Giulia e Istria, Bolzano, i militari ancora prigionieri di guerra, quelli privati del diritto di voto politico per motivi politici o non raggiunti dagli uffici elettorali operanti in condizioni oggettive oggi inimmaginabili.
   Toccò dunque proprio ai primi Presidenti riannodare i fili dell'Unità. Un compito improbo. Non tutti scommettevano fosse possibile in un mondo dal febbraio 1946 avviato alla “guerra fredda”. Eppure ce la fecero. Dal 1869, regnante Vittorio Emanuele II di Savoia (1820-1878), l'Italia ebbe il principe di Napoli (poi Vittorio Emanuele III), che poi conferì al figlio Umberto (1904-1983) il titolo di principe di Piemonte. La Repubblica esordì con il napoletano Enrico De Nicola, già presidente della Camera dei deputati all'ascesa di Benito Mussolini a capo del governo, e con il piemontese Luigi Einaudi, già ministro e governatore della Banca d'Italia. Sud e Nord. Liberali, monarchici e senatori del regno, entrambi si spesero per assicurare la continuità dello Stato a prosecuzione dell'opera svolta dai Re d'Italia dall'origine sino al tempestoso dopoguerra. Come bene spiega il prof. Rizzo, si valsero di Uffici che, malgrado la povertà dei tempi, mostrarono fedeltà alla missione e orgoglio di servire la Patria nei suoi “corpi” (diplomazia, forze armate, magistratura, amministrazione pubblica statale e locale...) per la ricostruzione del Paese. Il “miracolo italiano” degli anni seguenti non cadde dal cielo. Fu opera quotidiana di una dirigenza niente affatto improvvisata e di italiani, molti dei quali migrarono verso regioni più organizzate o cercarono all'estero, sino nell'America meridionale, il lavoro che in Italia ancora non c'era.
Cultura e Uffici
Tra i perni della vita pubblica, come argomenta l'Autore, vi fu l'attenzione dedicata dai Presidenti a istruzione e ricerca scientifica. Nel 1946 l'Italia contava ancora una massa impressionante di analfabeti. L'esercizio del diritto di voto come libera scelta e partecipazione civile comportava cognizione personale. Di lì l'appello martellante dei capi dello Stato a promuovere l'istruzione primaria, protrarre l'obbligo scolastico effettivo (conquista assai tardiva), espandere la secondaria superiore e le Università nella fiducia (non sempre assecondata nei fatti) di conciliare la moltiplicazione degli Atenei con qualità e indipendenza della docenza da condizionamenti partitici e clientelari. 
   Ai profili dei Presidenti effettivi il prof. Rizzo accompagna l’illustrazione di due figure di pregio: Cesare Merzagora, “supplente” nella lunga malattia di Antonio Segni, colpito da ictus cerebrale in circostanze politicamente drammatiche, e il Segretario generale della presidenza della Repubblica Gaetano Gifuni, che ebbe il merito di propiziare l'opera dei capi dello Stato e bene rappresenta la falange di quanti, nel corso dei decenni, si sono riconosciuti nel “servizio”. All'origine, argomenta Tito Lucrezio Rizzo con un denso capitolo di storia istituzionale, vi fu la transizione dalla monarchia al nuovo ordinamento avviata da Luigi Einaudi con Ferdinando Carbone e, ancor più, con Nicola Picella, che (egli annota) “si avvalse prevalentemente del personale proveniente dal disciolto Ministero della Real Casa, il che consentì di non disperdere preziose esperienze professionali, acquisite da quanti conoscevano assai bene il funzionamento della struttura operante nell'ambito della Dotazione”. Alle spalle vi erano gli anni del “primato della legge morale nell'incertezza di quella civile, dal crepuscolo della Monarchia all'alba della Repubblica”, da decenni anni al centro della sua meditazione giuridica, storiografica e filosofica.
   Al magistero, impartito anche da cattedre della “Sapienza” e di “Tor Vergata” di Roma, e allo studio dei Capi dello Stato Tito Rizzo ha accompagnato l'analisi  della legislazione sociale della Nuova Italia, il volume su “Le Ragioni del diritto” (tradotto anche in cinese) e i due robusti saggi sull'etica nelle istituzioni più amate dagli italiani e “Alle fonti dell'etica. Religioni, diritto, politica, scienza, economia” (Herald Editore, 2022). Nei suoi lavori la profondità del pensiero si accompagna al nitore dell'esposizione, scevra dalla retorica, alimentata dal profondo “credo” nei valori fondanti della libertà e della fratellanza umana. Non sono parole al vento, formulette d'occasione, ma cespite della “speranza”: una virtù teologale senza la quale si precipiterebbe nel cinismo e nella disgregazione della società. Vi si avverte l'alta lezione del suo Maestro, Giovanni Cassandro, tra le voci più schiette del liberalismo italiano.
Il volume
                                                          è stato
                                                          presentato
                                                          nella
                                                          prestigiosa
                                                          Biblioteca
                                                          Casanatense di
                                                          Roma (via
                                                          Sant'Ignazio
                                                          52) per
                                                          iniziativa
                                                          dell’Associazione
                                                          Culturale
                                                          Visioni e
                                                          Illusioni, con
                                                          interventi del
                                                          prof. Ernesto
                                                          Lupo, primo
                                                          presidente
                                                          emerito della
                                                          Corte di
                                                          Cassazione, e
                                                          dei professori
                                                          Paolo Leone
                                                          (che ha
                                                          rievocato la
                                                          formazione
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                                                          Giovanni,
                                                          dalla
                                                          Costituente
                                                          alla
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                                                          della
                                                          Repubblica),
                                                          Alessandro
                                                          Acciavatti e
                                                          Silvio
                                                          Berardi,
                                                          autore della
                                                          biografia di
                                                          Cesare
                                                          Merzagora. Con
                                                          plauso dei
                                                          partecipanti,
                                                          il
                                                          giureconsulto
                                                          Ernesto Lupo
                                                          ha evidenziato
                                                          la pochezza
                                                          dottrinale e
                                                          concettuale
                                                          delle proposte
                                                          di elezione
                                                          diretta del
                                                          presidente
                                                          della
                                                          Repubblica.
Didascalia
Umberto II: continuità dello Stato in un'Italia che è anche “il Mondo”
Per congiunzione astrale, dopo precedenti apprezzate edizione  e quasi quattrocento articoli pubblicati in riviste prestigiose quali “Nuova Antologia” e “Libro Aperto”, il volume di Tito Lucrezio Rizzo ha assunto la veste definitiva nel quarantennale della morte di Umberto II di Savoia, quarto Re d'Italia. In tono sommesso esso costituisce omaggio alla memoria di un sovrano che si trovò sulle spalle il “brut fardèl” della Corona in una condizione tragica. Tenuto all'oscuro delle complesse trattative condotte dal governo italiano per ottenere che gli anglo-americani concedessero la “resa senza condizioni” sottoscritta a Cassibile il 3 settembre 1943, la mattina del 9 il principe ereditario lasciò Roma alla volta di Pescara con il Re, la Regina, il capo del governo Pietro Badoglio e i vertici militari per mettere al sicuro lo Stato. Combattuto dal dubbio sull'opportunità di rientrare subito nella Capitale, si attenne al dovere che gli veniva dal rango dinastico e militare: “Obbedisco”, come il Garibaldi narrato da Aldo G. Ricci. Conobbe la diffidenza dei vincitori e con condotta specchiata ne guadagnò la stima anche per il valore militare “sul campo” che gli meritò due prestigiose onorificenze. Da Luogotenente del Regno, con esercizio di tutti i poteri dal 5 giugno 1944 al 9 maggio 1946, e poi da Re fu apprezzato da statisti quali il premier britannico Winston Churchill e fugò le riserve di Benedetto Croce nei confronti della Casa. All'abdicazione e alla partenza dei geniori per l'Egitto, una decisione assunta all'interno della Famiglia, con un faticoso periplo da un capo all'altro d'Italia Umberto II non perorò la causa della Dinastia ma mostrò il volto della Ricostruzione possibile, da fondare sulla pacificazione delle coscienze. Perciò promise un referendum confermativo della nuova carta costituzionale in caso di vittoria della monarchia nel plebiscito del 2-3 giugno 1946. All'indebita assunzione delle funzioni di capo dello Stato da parte di Alcide De Gasperi alle 0.30 del 13 giugno, per scongiurare la contrapposizione tra due sovrani di uno stesso Stato, Umberto II si offrì alla Storia. Lasciò l'Italia da Re deplorando il “gesto rivoluzionario”, un vulnus lacerante che egli concorse a sanare nei trentasette anni d'esilio raccomandando a tutti, a cominciare dai monarchici, “Italia innanzi tutto”.
   Partendone, sapeva di lasciare alla Patria uomini di specchiato talento che, liberi dal giuramento prestatogli, avrebbero servito lo Stato d'Italia.
   Con altrettanta forza evocativa il volume di Tito Lucrezio Rizzo fa intendere   al lettore sagace quanto è indispensabile per comprendere la complessità della storia d'Italia dalla sua nascita a oggi e agli anni a venire. A differenza degli altri Stati d'Europa (e non essi soli), la sua capitale racchiude al proprio interno uno Stato sovrano, la Città del Vaticano, che siede in tutte le Organizzazioni internazionali, a cominciare dall'ONU. La Chiesa cattolica apostolica romana è retta dal successore dell'Apostolo Pietro, martirizzato in Roma come ricordano le catene venerate in San Pietro in Vincoli. Il pontefice è però anche vescovo di Roma. Universalità e radicale identità con la Città Eterna costituiscono un unicum irripetibile.
   Sempre per congiunzione astrale la pubblicazione del volume di Rizzo ci ricorda l'imminenza del Giubileo, pegno di dialogo non solo tra le religioni abramitiche ma tra “tutti gli uomini di buona volontà”, sollecitati dalla meditazione sulla storia a “deporre i calzari”, a lasciare alle spalle quanto divide e a valorizzare quotidianamente e senza riserve quanto può unire. Nelle pagine di Tito Rizzo la riflessione sul Capo di uno Stato diviene dunque speculum della necessità delle Istituzioni, fondamento irrinunciabile della libertà dei cittadini.
Aldo A. Mola

Didascalia: 
1- La copertina del Opera di Tito Lucrezio Rizzo, Il Capo dello Stato dalla monarchia alla Repubblica (1848-2022), Roma, Herald Editore. I proventi derivanti dalla vendita del libro sono devoluti al progetto di educazione alla legalità denominato “Carcere. Se lo conosci lo eviti”, ideato dalla cooperativa sociale Infocarcere per la prevenzione del bullismo tra i giovani e nelle scuole.

2- Il volume è stato presentato nella prestigiosa Biblioteca Casanatense di Roma (via Sant'Ignazio 52) per iniziativa dell’Associazione Culturale Visioni e Illusioni, con interventi del prof. Ernesto Lupo, primo presidente emerito della Corte di Cassazione, e dei professori Paolo Leone (che ha rievocato la formazione giuridica e il ruolo politico di suo padre, Giovanni, dalla Costituente alla presidenza del Consiglio e della Repubblica), Alessandro Acciavatti e Silvio Berardi, autore della biografia di Cesare Merzagora. Con plauso dei partecipanti, il giureconsulto Ernesto Lupo ha evidenziato la pochezza dottrinale e concettuale delle proposte di elezione diretta del presidente della Repubblica.




MORTE E RESURREZIONE DI UN'ELITE
IL SENATO DEL REGNO 1939-1948


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 12 marzo 2023 pagg. 1 e 6.


   Un consesso di patrioti    
   Il 23 marzo 1939 Vittorio Emanuele III inaugurò la XXX legislatura pronunciando il rituale Discorso della Corona, concordato, come da prassi,  con il capo del governo, Benito Mussolini. La Camera di 400 deputati, eletta in blocco nel 1934 sulla base della legge 17 maggio 1928, era stata sostituita con quella “dei Fasci e delle Corporazioni”, parte di nomina, parte con elezione di secondo grado. I suoi componenti presero nome di “consiglieri”. Alle acclamazioni il re rispose movendo la destra, come soleva fare. Secondo il numero straordinario della “Gazzetta Ufficiale” rispose “salutando romanamente”. Non venne chiesta una rettifica. Ben altro premeva. Malgrado la conferenza a Monaco di Baviera (28 settembre 1938) avesse scongiurato la guerra, l'Europa era inquieta. “Per mettere in valore le risorse del suo Impero – disse il re-imperatore – l'Italia, pur non cullandosi nella illusione della pace perpetua, desidera che la pace duri il più a lungo possibile”. Al termine del suo discorso i parlamentari intonarono “gli inni della rivoluzione fascista” e, dopo l'uscita dei Reali, tributarono “un'ardente manifestazione di devozione e di affetto al Duce”. Se la Camera era totalmente asservita a Mussolini, il Senato ne era in gran parte succubo o latitante.
   Dopo un lustro di totale stasi, tra il 25 marzo e il 20 ottobre 1939 con tredici “infornate” vennero nominati 211 senatori, compresi quattro dignitari dell'Albania (la cui corona in aprile era stata assunta da Vittorio Emanuele III) per la categoria 20^, riservata a quanti avevano “con meriti e servizi eminenti illustrato la patria”. Quali?
   I nuovi patres erano “fascisti”? Alcuni sì, anche se neppure Mussolini spiegò mai quale fosse precisamente la “dottrina” del fascismo. Divise e rituali a parte, il fascismo nacque e rimase politeista. Perciò dilagò. I nuovi senatori erano nazionalisti, ex liberali, democratici, riformisti o semplicemente “uomini d'ordine” (industriali, agrari, banchieri, scienziati, artisti...) che si riconoscevano nel governo ed erano orgogliosi di entrare a far parte della Camera Alta dopo aver servito a lungo lo Stato. Erano diplomatici, militari, magistrati, accademici di chiara fama, che non avevano bisogno di alcuna tessera di partito. Tra i generali possono essere ricordati Angelo Tua, Valentino Bobbio, che intervenne presso Mussolini a favore del nipote Norberto, Melchiade Gabba, Raffaele Montuori, Guglielmo Nasi, l'ammiraglio Inigo Campioni, fucilato con Luigi Mascherpa su sentenza di un tribunale della Repubblica sociale italiana, e Ambrogio Clerici. Prevalenti furono i nuovi patres per la categoria 21^: Alberto Beneduce, socialista, antifascista, già oratore del Grande Oriente d'Italia, presidente dell'Istituto per la ricostruzione italiana, e Luigi Burgo (di confessione evangelica, a conferma che il Senato non accoglieva solo cattolici). Foltissima fu la rappresentanza dell'aristocrazia d'ogni regione: Giuseppe Asinari Rossillon di Bernezzo, Salvatore Denti Amari di Pirajno, Febo Borromeo d'Adda, Ugolino della Gherardesca, Luigi Arborio Mella di Sant'Elia, Alfredo Dentice di Frasso... Fascisti? Le loro biografie dicono tutt'altro. Erano patrioti, come Federico Baistrocchi, Arrigo Serpieri, Luigi Aldrovandi Marescotti, Ambrogio Bollati, Giorgio Emo Capodilista, Carlo Torlonia. Alcuni nuovi patres, come il massonofago Paolo Orano, vantavano molte genuflessioni al regime e al suo duce, ma costituivano una minoranza. Di diritto, di pensiero e di fatto in maggior parte erano anzitutto e soprattutto “uomini del Re”, come lo erano stati i presidenti della Camera Alta Tommaso Tittoni e Luigi Federzoni, che nelle lettere a Mussolini lo appellavano “Eccellenza” (in quanto capo del governo) anziché “duce”, che sapeva di partito. Nella seduta che il 16 maggio 1936 approvò l'istituzione dell'Impero mentre al banco della presidenza, a cominciare da Mussolini, con le mani alla cintola, erano tutti in camicia nera, i senatori l'avevano bianca, a eccezione di Giovanni Gentile e pochi altri.
  Scialuppa nella tempesta
Fiutato il vento, Mussolini mirò a imbrigliare il Senato. La sua presidenza fu conferita al bergamasco conte Giacomo Suardo (1883-1947), senatore per la categoria 21^, una sola legislatura da deputato e modesti incarichi governativi, prono al duce. La legge 19 gennaio 1939, n. 129 ridusse drasticamente le materie che richiedevano sedute plenarie delle Camere. Le altre furono competenza di Commissioni (nuova denominazione degli “Uffici”) con funzioni deliberanti (una mortificazione delle Assemblee, fatta propria dalla Repubblica). Le votazioni in aula divennero esclusivamente pubbliche e in molti casi si ridussero a chiassose “acclamazioni”. Con la dichiarazione di guerra (10 giugno 1940) i lavori delle Commissioni non ebbero più alcuna pubblicità. I senatori di nuova nomina giurarono dinnanzi all'Ufficio di Presidenza anziché in Aula. L'obiettivo del duce era chiaro: soffocare l'opposizione dei patres monarchici.
   Va peraltro aggiunto che Mussolini non svigorì solo le Camere ma anche il Gran consiglio del fascismo, “organo della rivoluzione”. Esso non fu più convocato dal 7 dicembre 1939 al 24 luglio 1943, quando approvò l'ordine del giorno Grandi-Federzoni-Bottai-De Marsico che “pregò il Re” di esercitare i poteri statutari sottraendo a Mussolini il comando delle forze armate.
   Il 20 ottobre 1940, vigilia del rovinoso attacco dell'Italia alla Grecia, Suardo inviò a Mussolini una servile informativa sull'allineamento del Senato al regime, ricordata da Aldo Pezzana in Gli uomini del Re. Il Senato durante e dopo il fascismo (Foggia, Bastogi, 2001): 454 dei 497 patres erano iscritti al partito. Gli altri erano suddivisi in “irriducibili” (i liberali Abbiate, Albertini, Bergamini, Canevari, Casati, Conci, Croce Serristori, Tomasi della Torretta), gli ebrei (Castellani, Diena, Levi, Loria, Mayer, Morpurgo, Segrè Sartorio), i “non frequentanti” per motivi di salute o vaghi pretesti (Badaloni, De Nicola, Di Rovasenda, Einaudi, Frassati, Mosca, Vigliani...), i “non iscritti ma non contrari”, soprattutto militari, come Dallolio, Pecori Giraldi, e diplomatici, quali Guglielmo Imperiali, Giuseppe Salvago Raggi e l'antico socialista Adolfo Zerboglio, deputato di Alessandria. Su tutti spiccava il maresciallo Enrico Caviglia, collare della SS. Annunziata (quindi “cugino del Re”), da Suardo bollato “una carogna” per il suo fiero antifascismo.
   Sic stantibus rebus dal 20 ottobre 1939 non avvennero altri ingressi nella Camera Alta.
   Tre anni e mezzo dopo, il 6 febbraio 1943, il re nominò 34 senatori, tra i quali Carlo Costamagna, Guido Donegani, Giacinto Motta ed Edoardo Rotigliano. Il regime scricchiolava, non solo per le sconfitte militari ma anche, e soprattutto, per il peggioramento delle condizioni di vita quotidiana, il razionamento dei beni di prima necessità, la divaricazione tra la retorica mussoliniana e la realtà. Tra l'8 e il 12 novembre 1942 gli anglo-americani erano sbarcati in Marocco e Algeria. In dicembre l'Armata Rossa aveva travolto quella italiana sul fronte del Don. Nella conferenza di Casablanca (14-26 gennaio1943) gli Alleati decisero l'assalto all'Italia per imporle la resa senza condizione. Il 2 febbraio l'armata tedesca comandata da von Paulus aveva perso la battaglia di Stalingrado. Tra il 6 e il 15 febbraio Mussolini sostituì i titolari dei ministeri principali: Esteri, Giustizia, Educazione nazionale, Finanze, Lavori pubblici, Corporazioni, Scambi e valute. Furono rimossi Galeazzo Ciano, Dino Grandi, Giuseppe Bottai, Host Venturi mentre Luigi Federzoni da tempo era ai margini della “politica”. Il duce stesso pose le premesse della “cospirazione” dei gerarchi del 24-25 luglio, illusi di conservare un fascismo senza Mussolini. I regimi monocratici crollano con la caduta del loro “capo”. Ma l'Italia non era una diarchia. Era ancora monarchia.
  Vittorio Emanuele III aveva un progetto del tutto diverso: sostituire Mussolini e sciogliere il partito nazionale fascista quale premessa per la richiesta di armistizio. Lo sbarco anglo-americano in Sicilia (10 luglio) impresse l'accelerazione. I senatori non rimasero inerti a cospetto della crisi. Il 22 luglio 63 patres presenti in Roma “data la gravità della situazione” chiesero a Suardo la convocazione del Senato in seduta plenaria. Molti erano di recente nomina, altri indossavano il laticlavio da anni. La richiesta non fece alcun cenno al fascismo. Tre giorni dopo venne superata dalla revoca di Mussolini da capo del governo e dalle dimissioni di Suardo da presidente del Senato, sostituito con Paolo Thaon di Revel. Sentito il re, il 3 agosto Badoglio, che non aveva competenza in materia ma era ansioso di ergersi a campione della “svolta”, decise di non pubblicare la richiesta dei 63 senatori. Il giorno prima aveva decretato lo scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni, del Gran Consiglio del fascismo e di altre organizzazioni del regime e impose le stellette alla Milizia volontaria di sicurezza nazionale, sciolta il 6 dicembre. Dato l'assetto bicamerale del Parlamento, l'azzeramento della Camera paralizzò il Senato, concentrò i poteri nelle mani del governo e sovraespose la Corona, privata dello scudo statutario del legislativo. Vittorio Emanuele III rifiutò di firmare un decreto propostogli da Badoglio, corrivo ad assumere il potere legislativo, e lamentò all'aiutante di campo Paolo Puntoni: “Cominciamo bene. Per prima cosa vogliono farmi firmare un decreto anticostituzionale”. In balia della tempesta, il Senato non svolse alcun ruolo nelle settimane conclusesi con la resa incondizionata sottoscritta dal generale Giuseppe Castellano a Cassibile (3 settembre) e con il trasferimento da Roma Brindisi del capo del governo, della Famiglia Reale e dei capi di stato maggiore (9-11 settembre).
Abolizione ed epurazione del Senato: RSI e Alta corte “partigiana”.
Nella prima seduta il governo dello Stato fascista repubblicano d'Italia, poi Repubblica sociale italiana (Rocca delle Caminate, 27 settembre 1943), decretò lo scioglimento e l'abolizione del “Senato di nomina regia” e ne privò i componenti delle prerogative e immunità che li rendevano giudicabili solo dall'Assemblea, costituita in Alta Corte di giustizia. Perciò ebbe mano libera per far processare e condannare a morte i senatori firmatari dell'ordine del giorno del 25 luglio:  Federzoni, De Vecchi e De Bono, che, prigioniero, venne fucilato con Galeazzo Ciano e altri gerarchi a Verona il 6 gennaio 1944. Aveva 78 anni. Altrettanto avvenne per Inigo Campioni, pluridecorato, governatore di Rodi, fucilato il 24 maggio 1944 a Parma con il contrammiraglio Luigi Mascherpa, iniziato massone nella Gran Loggia d'Italia, al termine del vergognoso “processo degli ammiragli”.
   Sul regio Senato calò dunque subito la scure della RSI. Ma pochi mesi dopo scese anche quella dei governi del regno. Dopo la defascistizzazione, avviata dall'indomani della revoca di Mussolini, con l'avvento del governo del Comitato di liberazione nazionale presieduto da Ivanoe Bonomi (18 giugno 1944) giunse l'ora dell’epurazione. In premessa va ricordato che il Comitato centrale di liberazione nazionale sin dall'esordio (agosto 1943) e poi dalla sua auto-proclamazione (ottobre) aveva rifiutato di collaborare con il governo del re. Nella primavera del 1944 l'offensiva contro la monarchia divenne incalzante. Su pressione degli statunitensi il 12 aprile Vittorio Emanuele III comunicò che avrebbe conferito tutti i poteri al principe ereditario Umberto di Piemonte in Roma, quando la Capitale fosse stata liberata. Il 26 maggio 1944 fu emanato il regio decreto legge per la punizione degli “atti rilevanti” compiuti per “il mantenimento del regime fascista e dell'ingresso dell'Italia in guerra”. Il “legislatore”, cioè il governo, sommò una filza di equivoci. Quando nacque il regime? Nell'ottobre 1922? Allora sul banco degli imputati andavano chiamati quanti avevano votato a favore del governo Mussolini. Non solo “liberali” (Croce, Orlando, De Nicola, Einaudi, oltre a Casati, ministro nel suo governo...) ma anche Alcide De Gasperi e una lunga serie di “democratici”. Datò dal 3 gennaio 1925? Ma allora era nulla la nomina a senatori di quanti avevano avuto il laticlavio dopo quella data, a cominciare appunto da De Nicola e da molti capifila dell'antifascismo (con esclusione di socialcomunisti e azionisti, s'intende). E quale sarebbe stata la sorte di Badoglio, duca di Addis Abeba?
   Il 7 agosto 1944, il sedicente conte Carlo Sforza, alto commissario per l'epurazione, propose al presidente dell'Alta corte di giustizia, istituita per giudicare i conniventi del regime, la decadenza di 307 senatori. Per lui il Senato era “un club vitalizio di vecchi funzionari, vecchi generali, vecchi e non vecchi industriali, vecchi terrieri”. Per la prima volta venne introdotta in Italia una legge retroattiva. Giuristi niente affatto fascisti, come Guido Astuti, Massimo Severo Giannini e Arturo Carlo Jemolo, deplorarono la grave violazione del principio fondamentale di diritto “nullum crimen sine lege”. La “connivenza” con l'avvento del regime era un'“invenzione” per colpire avversari politici, declassati a nemici del popolo. Precorrendo la sentenza, Sforza, chiese subito al presidente del Senato, Tomasi della Torretta, di interdire ai senatori sotto accusa l'accesso a Palazzo Madama. Essi vennero privati dei diritti civili. L'obiettivo era dichiaratamente politico: togliere al re il sostegno della classe dirigente di sua fiducia, intimorire e piegare ogni opposizione all'avvento della repubblica di cui era fautore. Va ricordato che nel “famigerato ventennio” nessuno ne aveva messo in discussione il rango e il ruolo di senatore, benché fosse all'estero, assente alle sedute, e non mancasse occasione di vituperare le istituzioni dello Stato italiano.
   L'elenco degli “epurati” è lunghissimo. Ottanta di essi (a cominciare da Pietro d'Acquarone, ministro della Real Casa, artefice con il re della revoca di Mussolini) ricorsero ma si videro respingere l'istanza. Trentatré morirono in attesa del responso. Nei loro confronti fu ordinato il “non luogo a procedere per decesso”. La loro “lista” si apre con Giovanni Agnelli, defenestrato dalla Fiat, e comprende l'israelita Elia Morpurgo, deputato dal 1895 al 1919, morto mentre veniva deportato nel Reich e nondimeno “epurato”. Diciannove ottennero la revoca dell'ordinanza (Vittorio Cini, Luigi Burgo, Umberto Locatelli, Aldo Rossini...). Per diversi motivi in ventisette (De Vecchi, Federzoni...) non ricorsero affatto. Per la “nuova Italia” avevano già dato, rischiando la fucilazione da parte dei mussoliniani a oltranza.
Resurrezione, sì, ma tardiva.
Il calvario del regio Senato e dei suoi componenti continuò. Sino al referendum istituzionale del 2-3 giugno1946 la Camera Alta rimase in una sorta di limbo. Con l'avvento della repubblica aleggiò l'interrogativo: che cosa fare? De Gasperi si affrettò a dichiarare lo scioglimento del Senato ma la corte dei conti non registrò il decreto perché esorbitante dalle sue competenze. Quindi i patres sopravvissero persino oltre la fine della monarchia. Non solo. Con varie sentenze la Corte di Cassazione via via accolse i ricorsi contro la dichiarazione della loro decadenza, propugnati da uno specchiato giurista quale Giuliano Vassalli, antifascista a ventiquattro carati.
   Con la legge costituzionale 29 ottobre 1947, n. 3 (entrata in vigore il 7 novembre, giorno della sua pubblicazione in “Gazzetta Ufficiale”) il capo provvisorio dello Stato De Nicola promulgò quanto deciso dal governo De Gasperi: “soppressione del Senato e determinazione della posizione giuridica dei suoi componenti”. Uccise l'uomo morto? Sì e no. Molti senatori si videro reintegrati dalla Cassazione. Non solo. L'Assemblea costituente deliberò che nella prima legislatura repubblicana il Senato avrebbe compreso 107 “senatori di diritto” per meriti antifascisti di varia natura e 237 eletti. Molti di essi erano stati senatori del regno.
   Il loro peso politico non fu affatto marginale per la storia d'Italia. Nelle elezioni del 18-19 aprile 1948 la Democrazia cristiana ottenne la maggioranza dei seggi alla Camera dei deputati, ma non altrettanto in Senato, ove conquistò 133 seggi sui 237 in palio (meno del 50%) e ne ebbe ancor meno per l'ingresso dei “senatori di diritto”, tra i quali anche ex parlamentari cattolici. Si fermò a 151 patres su 344. Perciò, constatato di non avere la maggioranza per governare da sola, si rassegnò a condividere il “potere” con i partiti “laici”: repubblicani, socialdemocratici e liberali, parecchi dei quali monarchici. Essa stessa, d'altronde, contava nelle sue file monarchici notori, garanti della continuità dello Stato e convinti che le disposizioni “transitorie e finali” della Costituzione fossero tali di nome e di fatto e che pertanto prima o poi sarebbe stato cancellato il divieto di rientro e di soggiorno in Italia della Regina Elena, di Umberto II e della sua famiglia.
   Non avvenne. Perciò, per tenere viva la Tradizione, il Re, mai abdicatario, costituì la Consulta dei senatori del regno, aperta agli “uomini dello Stato”, anche “in servizio” in nome e a garanzia della continuità della storia d'Italia.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Giacomo Acerbo, barone dell'Aterno, sottosegretario alla presidenza del Consiglio all'avvento del governo Mussolini, già iniziato massone nella loggia “Nazionale” della Gran Loggia d'Italia ministro dell'Agricoltura dal 1929 al 1935 e delle Finanze dal 6 marzo al 25 luglio 1943, componente della Consulta dei senatori del Regno dal 10 luglio 1961. Nel 1962 il presidente Antonio Segni gli conferì la Medaglia d'Oro di benemerito della Scuola. 



I SENATORI DURANTE IL FASCISMO
SCUDO DELLA CORONA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 5 marzo 2023 pagg. 1 e 6.


Tommaso
                                                          Tittoni (Roma,
                                                          1855-1931).
                                                          Ministro degli
                                                          Esteri nel II
                                                          governo
                                                          Giolitti (3
                                                          novembre
                                                          1903-16 marzo
                                                          1905),
                                                          presidente del
                                                          Consiglio ad
                                                          interim (16
                                                          marzo-28 marzo
                                                          1905),
                                                          ministro degli
                                                          Esteri nel
                                                          primo governo
                                                          presieduto da
                                                          Alessandro
                                                          Fortis (1905)
                                                          e nel III
                                                          governo
                                                          Giolitti
                                                          (1906-1909),
                                                          ambasciatore a
                                                          Parigi. Venne
                                                          creato
                                                          senatore il 25
                                                          novembre 1902.
                                                          Presidente del
                                                          Senato dal 1
                                                          dicembre 1919
                                                          il 20 aprile
                                                          1929 fu
                                                          sostituito dal
                                                          nazional-fascista




























                                                          Luigi
                                                          Federzoni.
Didascalia
  Nel 1912 i riformisti vennero espulsi dal Partito socialista perché si erano congratulati con Vittorio Emanuele III, scampato di misura all'attentatore Antonio D'Alba. Conservare il Senato qual era assunse il carattere di difesa delle istituzioni, mentre eventi esterni minacciavano di precipitare l'Italia nel caos. Lo si vide con la “settimana rossa” del giugno 1914. Il 20-21 maggio 1915 il Parlamento approvò la richiesta di pieni poteri avanzata il 17 dal governo Salandra “in caso di guerra”. Con l'ingresso nel conflitto le Camere persero il controllo della politica estera e militare, cioè del Paese. Durante le sedute in “comitato segreto” sulla condotta della guerra Alfredo Frassati, proprietario e direttore della “Stampa” di Torino e senatore dal 24 novembre 1913, riferì a Giolitti, chiuso nella solitudine di villa Plochiù a Cavour, che nella Camera Alta non era “penetrata nessuna delle ansie che agitano tutti i petti. Mi pare ogni giorno di più che i socialisti hanno ragione di scrivere come paragrafo primo del loro programma: abolizione del Senato”. Nel dopoguerra le sorti del Senato parvero precipitare. Chi non era per la sua eliminazione, quanto meno ne propugnava l'elettività. Per l’estrema sinistra il Parlamento andava sostituito con un’assemblea di commissari politici, sul modello dei soviet. Per loro il re e Casa di Savoia andavano spazzati via: eliminazione fisica o esilio. Canti popolari, vignette satiriche, libelli propagandistici alimentavano la visione del tutto deformata della monarchia: clan di parassiti e vecchie cariatidi che sguazzavano nel lusso “affamando il popolo”. I repubblicani erano fautori del monocameralismo. Il Partito popolare italiano, fondato il 18 gennaio 1919 su impulso di don Luigi Sturzo (“prete intrigante”, secondo Giolitti), al decimo punto del programma propose la “riforma elettorale politica con il collegio plurinominale a larga base con rappresentanza proporzionale. Voto femminile, Senato elettivo con prevalente rappresentanza dei corpi della nazione (corpi accademici, comuni, province, classi organizzate) (CdA)”. Il movimento dei fasci di combattimento abborracciato da Benito Mussolini con apporti disparati e contraddittori a sua volta propose di conferire “alle corporazioni professionali ed economiche diritto di eleggere i corpi dei Consigli Tecnici Nazionali”, sostitutivi delle Camere: un modello non troppo lontano dai soviet.
  Anche l’unica costituzione varata nel dopoguerra, la Carta del Carnaro, abbozzata dall'anarco-sindacalista Alceste de Ambris e perfezionata da Gabriele d'Annunzio per dar veste alla Reggenza di Fiume (agosto-settembre 1920), ignorò un consesso che in seconda lettura filtrasse la legislazione attraverso la saggezza degli anziani. Il “popolo” era chiamato a esprimersi direttamente in un clima di mistica unione, propiziata dalla trasformazione della Città in sacra rappresentazione perpetua. La canzone più in voga inneggiava alla Giovinezza, primavera di bellezza... Nata come canto goliardico, con debite modifiche fu adottata dagli Arditi e poi dalle “squadre” fasciste. Nel discorso d’insediamento alla guida del Grande Oriente d’Italia persino il cinquantenne Domizio Torrigiani nel giugno 1919 si presentò quale espressione della “Giovinezza”.
  Incalzato da avversari e nemici, il Senato si arroccò nella difesa della propria tradizione. Nel 1918-1919 se ne occupò Tommaso Tittoni in articoli sui Conflitti tra le due Camere in Inghilterra e la riforma della Camera dei Lords. Alla morte del venerando Giuseppe Manfredi il 18 novembre il re nominò presidente il conte Adeodato Bonasi (San Felice sul Panaro, Modena, 1838 - Roma, 1920), ma con l’inaugurazione della prima legislatura postbellica Tittoni fu eletto presidente.
   Tra i nuovi patres si contarono gli artefici della vittoria: Armando Diaz (24 febbraio 1918), Enrico Caviglia, l’industriale Ettore Conti (22 febbraio 1919), i generali Pietro Badoglio, Guglielmo Pecori Giraldi, l’ammiraglio Umberto Cagni di Bu Meliana, cui seguirono Alberico Albricci, l’industriale Dante Ferraris, esponente dell'influente Associazione torinese Meccanici metallurgici e affini e Carlo Sforza. Nell’ottobre 1919, in vista delle imminenti elezioni col sistema proporzionale, il governo presieduto da Francesco Saverio Nitti varò 59 nuove nomine: un ampio ventaglio di personalità eminenti: Ernesto Artom, il clinico Leonardo Bianchi, l’ebreo livornese e massone Dario Cassuto, Giovanni Ciraolo, commissario della Croce rossa italiana e presidente del Rito simbolico italiano, che fece pervenire a d'Annunzio aiuti per due milioni di lire dell’epoca, Marco di Saluzzo, Pietro Ginori Conti, Ludovico Fulci, Gaetano Mosca, Nino Tamassia. In Senato entrarono due economisti di fama, Achille Loria (studiato dallo storico Bruno di Porto, recentemente defunto) e il quarantaseienne Luigi Einaudi che, narrò poi, si ritrovò con i capelli neri in mezzo a un’assemblea di patrioti incanutiti e avvertì appieno quale pegno costituisse il laticlavio. Il Senato bilanciava l’irruzione alla Camera di duecentocinquanta deputati socialisti e popolari e i giovanissimi esponenti della “trincerocrazia”. Altrettanto fece Giolitti durante il suo quinto ministero e in vista delle sfortunate elezioni del maggio 1921. Su suggerimento di Benedetto Croce, propose senatore il grecista Roberto Ghiglianovitch, benché avvertito che era suo acre e spesso immotivato nemico. Lo constatò quando ne subì in aula un attacco violentissimo e, sportosi a domandare chi mai fosse quell’esagitato senatore, da Croce si sentì rispondere: “È quel professore di greco che io ho sulla coscienza di averti fatto nominare”.
   Dopo Paolo Boselli, Luigi Luzzatti, Giuseppe Marcora, tutti statisti i cui nomi riecheggiavano nelle aule parlamentai dagl’inizi del Regno unitario, nel giugno 1921 fu la volta di Alfredo Baccelli, Agostino Berenini, Alfredo Lusignoli (prefetto di Milano), Cesare Nava, Edoardo Pantano, Olindo Malagodi... In Senato v’era dunque posto per tutti: socialisti, ex repubblicani, cattolici e israeliti, purché ponessero l’Italia al di sopra di ogni particolarismo. Tra le dimissioni dell’ultimo governo  Giolitti (luglio 1921) e l’insediamento di Mussolini alla presidenza del Consiglio (31 ottobre 1922) si contarono altri sedici laticlavi, una sorta di velario dell’Italia liberale. Ne beneficiarono Pietro Tomasi della Torretta dei principi di Lampedusa, unico senatore voluto dal socialriformista e poi democratico Ivanoe Bonomi, rieletto in una lista comprendente Roberto Farinacci, “il più fascista”. Il 19 ottobre 1922 il re nominò senatori il duca Giovanni Battista Borea d’Olmo, il cui antenato, Tomaso, ispirò il Barone rampante di Italo Calvino (come narrato da Luca Fucini), Giuseppe Volpi di Misurata, il professore Vittorio Puntoni, grecista insigne e padre del suo futuro aiutante di campo, generale Paolo, il cattolico conciliatorista marchese Filippo Crispolti, il massone Ettore Pais, romanista insigne, e Camillo Peano, presidente della Corte dei conti pochi giorni prima dell’avvento di Mussolini e in carica sino al 31 dicembre 1928, quando apprese dai giornali di essersi dimesso  per far posto a un fiduciario del duce.
Le mire del fascismo contro il Senato
Asceso alla presidenza di un governo di coalizione statutaria, Mussolini non puntò alla fascistizzazione del Senato. Il 31 ottobre 1922, quando formò il governo, i senatori iscritti al PNF  erano 2 su circa 400, cioè lo 0,5%. Il 27 novembre 1922 la Camera Alta lo approvò con 187 voti contro 19. 
  I candidati al laticlavio, proposti dal governo, passavano al vaglio severo del re. Dalla memoria ferrea, curioso d’ogni aneddoto, Vittorio Emanuele III, apparentemente arido, in realtà onniveggente, sapeva tutto dei “personaggi pubblici”. Dopo la designazione spettava all’Assemblea ratificare la nomina. Nei quasi sei anni tra il 5 novembre 1922, quando fu nominato Giovanni Gentile, e il 20 maggio 1928, tre giorni dopo la legge che conferì al Gran consiglio del fascismo la composizione della Camera, i nuovi senatori furono appena 86: pochi se confrontati al cambio politico in atto. Il 1° marzo 1923 ebbe luogo la prima “infornata”, aperta dal presidente della FIAT di Torino, Giovanni Agnelli. Lo seguirono lo scultore Leonardo Bistolfi, massone notorio e influentissimo sulla strategia della “raffigurazione della patria”, il nazionalista Enrico Corradini, l’economista Maffeo Pantaleoni, l’antico ministro giolittiano, poi giolittofago e “fratello” Ferdinando Martini, primo ideatore di una Enciclopedia italiana, il generale e quadrumviro Emilio De Bono il 15 ottobre 1925 raggiunto in Senato da Cesare Maria De Vecchi, creato conte di Val Cismon. Poiché non aveva né tre legislature, né cariche accademiche, militari o altri titoli (censo compreso), questi fu nominato ministro di Stato e, dopo un iter travagliato, ottenne il laticlavio per quella categoria.
  I rapporti tra il duce del fascismo e la Camera Alta furono a lungo assai freddi. Nel 1924-1925 Mussolini fece ripetutamente i conti con gli umori del Senato. Nel 1924 si verificò un incidente abbastanza clamoroso. Il 20 settembre lo scrittore Ugo Ojetti, autore tra altro del Proclama della Vittoria firmato da Diaz, fu nominato senatore per le categorie 20^ e 21^ (illustrazioni della patria e alto censo). Il 23 novembre l’apposita commissione di verifica lo escluse dalla 20^. Ojetti s’affrettò a documentare d’essere pienamente in regola per la 21^. Era tra i giornalisti meglio pagati d’Italia. Però fu contrariato dal mancato riconoscimento di avere “bene meritato della patria”. La commissione di convalida dei titoli oppose identica riserva alla nomina del poeta napoletano Salvatore Di Giacomo, che rimase escluso dalla Camera Alta perché, a differenza del conterraneo suo e caldo estimatore Benedetto Croce, nominato senatore per la 21^ categoria, zeppa di industriali, banchieri, proprietari fondiari e affaristi, il poeta viveva da poeta e non aveva il reddito richiesto. Ojetti ebbe l’astuzia di farne una questione d’orgoglio: non per sé ma per solidarietà con Di Giacomo, come il 5 dicembre 1924 scrisse al presidente Tommaso Tittoni: “Delle ragioni della mia rinunzia devo pur dire all’Eccellenza Vostra la più grave. Della categoria 20^ è insieme a me rimasto escluso Salvatore Di Giacomo, ma purtroppo egli non ha il modesto censo sufficiente per essere come me ammesso nella categoria 21^. Da questo confronto con quel poeta purissimo, io scrittore sarei per sempre addolorato e umiliato”. Una furba lezione di stile.
  L’anno seguente la tensione tra il presidente del Consiglio e la Camera Alta si manifestò in molteplici modi: per esempio con le obiezioni opposte ai “titoli” in primo tempo presentati da De Vecchi a suffragio della nomina. In Senato incontrò poi l'astensione (che in Senato valeva per voto contrario) di Croce e altri nella votazione sulla legge “contro la Massoneria”, da Mussolini in persona presentata come “la più fascista”. Nessun pater, però, chiese la verifica del numero legale: uno strumento procedurale che avrebbe potuto costringere almeno al rinvio della votazione stessa, con smacco del governo. Perciò, proprio a cavallo di quel voto (20 novembre 1925) il Gran Consiglio del fascismo, che all’epoca era nient'altro che un consesso ‘privato’, progettò una riforma del Senato, proprio mentre vi entrava il principe ereditario Umberto di Piemonte, giunto alla maggiore età (14 novembre 1925). Presenti e oranti parecchi monarchici, il Gran consiglio ipotizzò tre vie: lasciare immutato il Senato, salvo aumentare le categorie dalle quali trarne membri; formare entrambe le Camere con rappresentanti delle “corporazioni”; inserire tali rappresentanze nel Senato. Scartate le due prime proposte, macchinose e contraddittorie, fu accolta la terza, in attesa che venisse formulata in versione più chiara. Nel frattempo “gli attuali membri del Senato (avrebbero mantenuto) la loro carica e dignità”. Il Gran consiglio, comunque, concluse che il numero dei patres sarebbe rimasto, qual era, illimitato. I senatori sarebbero stati divisi in due classi: quelli di nomina regia e vitalizi; e quelli espressi dalle corporazioni, con mandato novennale, a loro volta comunque nominati dal re ed equamente ripartiti tra esponenti dei lavoratori e dei datori di lavoro. Con modeste varianti, era la “riforma Luzzatti”, affossata dal Re e da Giolitti nel 1911. Poiché, però, le corporazioni erano ancora tutte da inventare, a differenza della precedente che già aveva avuto il pregio della confusione, la riforma prospettata dal Gran Consiglio rimase sulla carta. 
  Mussolini capì quanto fosse alto quel bastione. Sin dalla XII riunione (1 maggio 1923) il Gran consiglio del fascismo aveva messo allo studio la “riforma costituzionale”, affidata a una commissione formata da Giorgio Del Vecchio, Michele Bianchi e da un ex sacerdote massonofago. Fra le attribuzioni e prerogative del capo del governo (legge 24 dicembre 1925, n. 2263) non comparve alcun cenno a Senato e senatori. Più invadente fu la costituzionalizzazione del Gran consiglio (9 dicembre 1928, n. 2693). In forza dell’articolo 5, il presidente del Senato (correttamente menzionato con precedenza su quello della Camera) ne avrebbe fatto parte “a cagione delle sue funzioni”. Anche l’“organo della rivoluzione” si fermò comunque sulla soglia della Camera Alta. 
  Dopo l’abolizione del libero confronto per l’elezione dei deputati, a ridosso e all’indomani della firma dei Patti lateranensi, si susseguirono cinque infornate di nuovi patres per un insieme di 136 laticlavi in poco più di tre mesi. Un incremento senza precedenti, che riportò la Prima Camera oltre i 400 membri, che era il tetto fissato dal 1928 per quella dei deputati. Il 2 marzo 1929 i senatori in carica toccarono un nuovo apice: 459, poco al di sotto dei 464 del 1892. Neppure quelle nomine, tuttavia, comportarono la fascistizzazione del Senato. Vi si contò infatti un nutrito numero di alti ufficiali. Il 2 marzo 1929 fu nominato senatore l’avvocato Enrico De Nicola (Napoli, 1877-1959) per le categorie 2^ e 3^. Convocato il 6 maggio, giurò il 15. Anche lui abbacinato dalla luce del fascismo sulla via di Damasco o “riserva del re” per quando fossero venuti i giorni difficili dello scontro tra Corona e governo?
  All'inaugurazione della XXVIII legislatura (20 aprile 1929) il Senato contava 11 prìncipi del sangue, membri di diritto, e 323 componenti di nomina regia. Dal suo insediamento per ben quattro anni non venne conferito alcun laticlavio. Con l'istituzione del segretariato generale (24 maggio 1929) ne fu ammodernata l'organizzazione. Il 15 dicembre 1929 Mussolini rafforzò il potere di capo del governo aggiungendo l'obbligo della sua firma a quella del re e dei ministri per tutte le leggi e i decreti. Suoi obiettivi precipui in quegli anni furono il consolidamento del regime di partito unico e la celebrazione della Rivoluzione fascista, che stentava a imporsi nelle ovattate sale di Palazzo Madama, benché molti patres risultassero iscritti all’Associazione fascista dei senatori: adesione burocratica, priva di vincoli ideologici, a differenza di quanto asserito da Emilio Gentile.
  In vista dello scioglimento della Camera, nel 1933, dopo quattro anni di stasi, riprese alla spicciolata il conferimento di laticlavi, per un insieme di 75 nuovi senatori, tra i quali Pietro Ago, Donato Etna (figlio naturale di Vittorio Emanuele II), Arturo Bocchini (capo della polizia), Giorgio Emo Capodilista, Luigi Arborio Mella, Antonio Albertini, Guido Viale, Euclide Silvestri, Isaia Levi, Nicola Pende, Carlo Torlonia e Giovanni Marro: sintesi di mezzo secolo della storia d'Italia. Altre nomine seguirono nel 1934: Pietro d'Aquarone, Luigi Barzini, Giuseppe Belluzzo, Balbino Giuliano, Giovanni Battista Imberti (ex giolittiano, poi popolare, in seguito filofascista e soprattutto monarchico) e industriali come Giorgio Falck, Mario Crespi, Rinaldo Piaggio. “Fascisti”? Pochi. Qualcuno aveva ricevuto la tessera del partito “ad honorem”. Non la rimandò al mittente, anche se non ne aveva speciale bisogno. Poi dal 27 aprile 1934 per cinque anni, caso unico nella storia, non si registrarono altri ingressi alla Camera Alta. Le nuove nomine avvennero il 25 marzo 1939 in un quadro interno e internazionale rapidamente e tumultuosamente cambiato. In peggio. Isolato e incalzato dalla frangia repubblicana del PNF il re aveva bisogno che il Senato tornasse a farsi sentire. Vedremo quando e come esso si ridestò.
  Dal 1929, in successione a Tommaso Tittoni, suo presidente era il nazional-fascista titubante Luigi Federzoni, in carica sino al 2 marzo 1939. Il 23 marzo fu ruvidamente sostituito dal bergamasco Giacomo Suardo, prono a Mussolini. Per il Senato del regno iniziò un calvario, che merita di essere narrato a parte.
Aldo A. Mola.

DIDASCALIA: Tommaso Tittoni (Roma, 1855-1931). Ministro degli Esteri nel II governo Giolitti (3 novembre 1903-16 marzo 1905), presidente del Consiglio ad interim (16 marzo-28 marzo 1905), ministro degli Esteri nel primo governo presieduto da Alessandro Fortis (1905) e nel III governo Giolitti (1906-1909), ambasciatore a Parigi. Venne creato senatore il 25 novembre 1902. Presidente del Senato dal 1 dicembre 1919 il 20 aprile 1929 fu sostituito dal nazional-fascista Luigi Federzoni.



IL SENATO DEL REGNO
ALLA RICERCA DELLA DIRIGENZA PERDUTA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 26 febbraio 2023 pagg. 1 e 6.


Luigi
                                                          Luzzatti
                                                          (Venezia, 1
                                                          marzo
                                                          1841-Roma, 27
                                                          marzo 1927),
                                                          economista di
                                                          fama europea,
                                                          iniziato alla
                                                          massoneria,
                                                          pioniere delle
                                                          banche
                                                          popolari e di
                                                          una moneta
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                                                          presidente del
                                                          Consiglio
                                                          (1910-1911),
                                                          propugnò la
                                                          parziale
                                                          elettività del
                                                          Senato. Una
                                                          proposta che
                                                          avrebbe
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                                                          ibrido, mezzo
                                                          di nomina
                                                          regia
                                                          (vitalizio),
                                                          mezzo elettivo
                                                          (a tempo): due
                                                          categorie di
                                                          difficile
                                                          conciliazione.
                                                          Il Regio
                                                          Senato (o
                                                          Camera Alta),
                                                          di cui fu
                                                          componente dal
                                                          1921, era un
                                                          cenacolo di
                                                          uomini “per lo
                                                          Stato”.
                                                          L'urgenza di
                                                          riflettere sul
                                                          ruolo della
                                                          monarchia
                                                          sabauda nella
                                                          dello Stato
                                                          d'Italia
                                                          emerge dal
                                                          recente saggio
                                                          “Il fantasma
                                                          della nazione.
                                                          Per una
                                                          critica del
                                                          sovranismo”.
                                                          In oltre 200
                                                          pagine il suo
                                                          autore,
                                                          Alessandro
                                                          Campi, compie
                                                          il piccolo
                                                          capolavoro di
                                                          citare tutti
                                                          (Bossi, La
                                                          Malfa,
                                                          Togliatti,
                                                          Salvini...)
                                                          tranne i re da
                                                          Carlo Alberto
                                                          a Umberto II,
                                                          gli Istituti e
                                                          gli Uffici
                                                          della
                                                          monarchia.
                                                          Come scrivere
                                                          la storia
                                                          della Chiesa
                                                          dell'Otto-Novecento
                                                          tacendone i
                                                          papi da Pio
                                                          VII a Pio XII,
                                                          il collegio
                                                          cardinalizio e
                                                          gli Ordini
                                                          religiosi.
Didascalia
  Il 10-13 giugno 1946 il governo da lui stesso nominato il 10 dicembre 1945 mise  Umberto II al bivio: rimanere in Italia, a rischio di uno scontro armato  tra opposte fazioni, o allontanarsene. Nella certezza di un pacifico rientro, il re optò per l'espatrio. Appena arrivato in Portogallo, però, confidò a Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, di essere rimasto vittima di un “trucco”. I maggiorenti dei sei partiti al governo gettarono alle ortiche monarchia e monarchici ma avevano bisogno di una classe dirigente per far funzionare la macchina dello Stato. Si registrò un cambio ai vertici di tutti i settori dell'amministrazione pubblica. Ne era avvenuto un altro vent'anni prima, con il passaggio dalla democrazia parlamentare al regime di partito unico. Come ha ampiamente documentato Guido Melis nel magistrale La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista (ed. il Mulino), il governo Mussolini impose ai pubblici impiegati l'iscrizione al partito nazionale fascista, ma fece fuoco con la legna che c'era: una dirigenza che si era formata tra fine Ottocento ed età vittorioemanuelina-giolittiana. Il “ricambio” richiese quasi un decennio (1922-1931). Lo stesso avvenne nel 1943-1948, con due differenze rispetto a quel precedente. Avvenne a scaglioni, secondo tempi e aree geo-politiche diverse, a partire dal “regno del Sud” alla liberazione di Roma e sino, undici mesi dopo, ai governo presieduti da Ferruccio Parri e da Alcide Degasperi (come il segretario della Democrazia cristiana si firmava). Lo Stato aveva (come ha) bisogno di classe dirigente. Per formare u alto funzionario o un dirigente apicale non basta la tessera di parrito: occorrono venti-trent'anni di “lavoro sul campo”. Pertanto, uniti nella cancellazione del fascismo e della monarchia, i  partiti (a  cominciare dal quello comunista pilotato dal navigato Palmiro Togliatti) fecero incetta del personale che aveva cognizione della “macchina”: quello che aveva fatto apprendistato prima del regime e si era affinato nel suo corso. Nel 1945 un prefetto di 60 anni aveva alle spalle una “carriera” iniziata almeno nel 1915: varie ere geologiche prima, secondo la narrazione basata sulle cronache dei partiti.
   La necessità di far leva su personale competente fu dettata anche dal baratro aperto tra vertice dello Stato e Paese con lo scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni (2 agosto 1943) e dalla conseguente paralisi del Senato del regno: un vuoto durato sino all'elezione della Assemblea costituente e alle elezioni del Parlamento il 17-18 aprile 1948, in un “mondo” del tutto diverso rispetto a quello del 1945-1946. In piena “guerra fredda” all'esarchia del Comitato di liberazione nazionale, comprendente comunisti e socialisti ,  era seguita una coalizione di centro, incardinata su democrazia cristiana, liberali, repubblicani e socialdemocratici. Ne ha scritto magistralmente Aldo G. Ricci  in “La rinascita dei  partiti in Italia” (Fondazione Ug Spirito). I costituenti cercarono di diversificare le due Camere, differenti per età dei loro componenti (venticinquenni i deputati, almeno quarantenni i senatori) e corpo elettorale. Era fatale che divenissero sempre più simili. Però, meno male, sono due. Così, benché ormai pressoché identiche,  si possono correggere a vicenda.
    Diversa era stata l'età monarchica, con la netta differenziazione tra la Camera elettiva e il Senato, di nomina regia e vitalizio. Giova ripercorrerne alcune vicende dal primo Novecento al regime di partito unico.     
Un'Italia in bilico 
  A fine Ottocento frange clericali asserivano che l’Italia era preda dell’“Internazionale giudaica”. I socialisti davano per scontato che la “rivoluzione” dovesse passare attraverso l’eliminazione della monarchia e di tutti i suoi istituti monarchici, a cominciare dal Senato. Il 14 novembre 1901 un regio decreto stabilì che le nomine di presidente, vicepresidenti e membri del Senato sarebbero state deliberate “indi innanzi” dal governo, ma non ebbe attuazione. Presidente del Senato era l'ottantenne Giuseppe Saracco. Nel 1904, dopo l'elezione della nuova Camera, il re nominò presidente del Senato il settantaseienne Tancredi Canonico, che nel 1908 fu sostituito dal piacentino Giuseppe Manfredi, patriota intemerato e giureconsulto di rango supremo, come documentato dal mai abbastanza rimpianto Corrado Sforza Fogliani.
  Numericamente stabile (358 membri nel giugno 1900; 348 alla vigilia delle elezioni del 1904; 371 nel maggio del 1909; 380 il 3 giugno 1911, cinquantenario del Regno), nell’età giolittiana la Camera Alta resse agli assalti di quanti cercarono di renderla almeno parzialmente elettiva. Per consolidarla il re e il presidente del Consiglio Giolitti non esitarono a includervi radicali  come Malachia De Cristoforis, già gran maestro del Grande Oriente italiano (GO-I), ammanicato con quello di Francia, e il repubblicano Adolfo Engel, gran maestro aggiunto del GOI, furente essere stato sconfitto da un cattolico nel collegio di Treviglio alle elezioni del 1904. Vi entrarono anche repubblicani. Il re era il Capo dello Stato di tutti gli italiani e il Senato era il loro specchio.  
    Giolitti mirava   alla  conciliazione silenziosa tra lo Stato e i cattolici eletti deputati, consiglieri provinciali e comunali, membri delle amministrazioni di casse di risparmio, ospedali, scuole...: ma uti singuli, non come esponenti di un partito. Questo sarebbe stato una sciagura sia per lo Stato, sia per la Chiesa. Mirò a prevenirla con la laicizzazione silenziosa. In un’Italia le cui piazze si empivano ora di tardive proteste contro il rogo di Giordano Bruno ora di processioni salmodianti, lo statista rimase l’uomo delle conciliazioni incrociate.
Luigi Luzzatti ripropone la parziale elettività della Camera Alta
In coincidenza con l’introduzione del suffragio quasi universale maschile (1912, sperimentato l'anno seguente) fu riproposto l’annoso tema della parziale elettività del Senato. Ogni elezione politica ebbe per contorno infornate di nuovi patres: cattolici, anticlericali, positivisti, fideisti, destra e sinistra, artisti e imprenditori..., l’Italia qual era, insomma. Il laticlavio continuò a non comportare emolumenti di sorta. Al tempo stesso intese onorare anche persone di condizioni modeste, proprio per confermare che la monarchia non era fortilizio del privilegio, bastione contro l’ascesa di chi avesse come unici titoli personali talenti e volontà. Minimo comune denominatore erano e rimasero la fedeltà all’Italia. La Camera alta conservò il requisito di “partito dello Stato”.
  Personalità, che erano altrettanti capitoli di storia d’Italia, confluivano in un cenacolo che di anno in anno andava oltre la dimensione di mero organo politico-legislativo e diveniva sempre più un consesso di “saggi”: vera e propria “riserva della Corona” per i momenti del bisogno, quando fossero messe in gioco le sorti dello Stato e il re dovesse far leva su uomini votati alla continuità dello Stato.. Non per caso la Prima Camera all'occorrenza diveniva Alta corte per giudicare i ministri indiziati di reati compiuti nell'esercizio delle funzioni (fu il caso di Nunzio Nasi, condannato a pene esorbitanti per piccole distrazioni amministrative mentre era apprezzato ministro della Pubblica Istruzione) ed era unico giudice dei propri stessi componenti: condizione, codesta, che ne faceva un corpo sacro all’interno dell’ordinamento statutario, come scrissero i più acuti studiosi dello Statuto, da Emilio Crosa a Giuseppe Maranini e ha ripetuto Aldo Pezzana in Gli uomini del Re (ed.Bastogi) 
  Memore delle critiche nel 1892 rivoltegli da Andrea Guarneri, nel 1913 l’onnipotente Giolitti concordò con il re l’ingresso in Senato di molti “busti insigni” della Terza Italia. Altrettanto fece il suo successore, Antonio Salandra. Dopo i ministri della Guerra Domenico Grandi (29 marzo 1914) e Vittorio Zupelli (15 novembre) vennero creati senatori Luigi Albertini, comproprietario e direttore del “Corriere della Sera”, Lelio Bonin Longare, Roberto Brusati (fratello del primo aiutante del re), Guglielmo Marconi, Francesco Ruffini, Leone Wollemborg, Giuseppe Pitrè...: quanto di meglio l’Italia contasse dall’antropologia alle invenzioni, dall’imprenditoria alla comunicazione di massa, dalle armi alle arti e al pensiero giuridico. Quei laticlavi coronavano il successo di quanti avevano dedicato la vita allo studio, al lavoro, al servizio dello Stato. Se Napoleone aveva detto che ogni soldato aveva nello zaino il bastone di maresciallo, così si poteva ripetere che ciascun italiano avrebbe potuto conseguire il laticlavio senatoriale, non riservato dominio di una casta e, meno ancora, di una sola parte politica. I senatori erano boni viri e il Senato non era mala bestia proprio perché al suo interno si raccoglievano in operosa dialettica le posizioni più disparate. 
  Eppure continuava ad aleggiare la richiesta che divenisse almeno in parte elettivo. 
 Il 28 aprile 1910 Luigi Luzzatti (Venezia, 1841 - Roma, 1927), presidente del Consiglio dal 31 marzo di quell’anno al 30 marzo 1911, illustrò alla Camera Alta il progetto di riforma: dalla sessione parlamentare ventura la Corona avrebbe demandato al consesso l’elezione di presidente e vicepresidenti. Propugnò inoltre una “legge interpretativa dello Statuto” per “ammodernare” il Senato. Al progetto lavorarono alcuni tra i giuristi più prestigiosi. Presieduta da Gaspare Finali, la Commissione, appositamente istituita, ebbe Giorgio Arcoleo quale relatore di maggioranza. Questi propose il numero chiuso, una quota di membri nominati motu proprio dal re e un’altra formata con elezioni di secondo grado da corpi accademici e ordini professionali. Il tutto risultò farraginoso. Non conduceva comunque all’elettività diretta, sollecitata dai radicali, da alcuni liberali progressisti e vista con favore dai socialisti riformisti.
   Il progetto dette ala all’ultimo dibattito di elevato tenore su natura e scopi della Camera Alta. Il senatore calabrese Antonio Cefaly dichiarò la sua netta avversione nei confronti del numero chiuso, giacché sin dall’istituzione la libertà di modificarne la composizione era stata garanzia per il superamento di contrapposizioni rigide tra i due rami del Parlamento. La proposta incappò in altri ostacoli insormontabili. Il duca Riccardo Carafa d’Andria scrisse nella “Nuova Antologia” che essa non era “giustificata da necessità urgente. Il Senato è stato sempre assai scrupoloso, e specialmente in questi ultimi anni, nell’evitare conflitti con l’altro ramo del Parlamento e non si è mai opposto a leggi o riforme che fossero o paressero ispirate da un’idea di progresso o di libertà. Qualche legge sociale ebbe la precedenza in Senato ed in Senato, per esempio, sarebbe quasi certamente approvata una legge che regolasse il divorzio, mentre non so quale sorte essa potrebbe incontrare nella Camera elettiva.” La riforma avanzata da Luzzatti altro non era che “una concessione all’Estrema Sinistra in compenso di tutte le cose che le si negavano”. In conclusione, “il Senato, composto in grandissima parte di uomini che combatterono e soffrirono per l’unità e l’indipendenza del Paese, sarà favorevole ad ogni passo diretto verso una maggiore armonia fra la sua funzione ed i tempi nuovi, ma resisterà ad ogni tentativo di sopraffazione di plebi le quali, come dice Socrate, non possono far né i grandi beni né i grandi mali”.
Rattazzi-Giolitti: così com'era il Senato aveva reso e poteva rendere grandi servizi alla monarchia
Il 17 novembre 1910, da Roma, Urbano Rattazzi jr rispose a una lettera di Giolitti, sinora non ritrovata, sulla spinosa e ormai incombente parziale elettività della Camera alta. “Avverso sin dal primo giorno alla proposta di riforma lanciata con cinica leggerezza da Luzzatti al Paese che non la chiedeva e vi è tuttora indifferente”, egli scrisse, “ero in questi giorni molto preoccupato per il timore che la vanità della Commissione, e specialmente dell’on. Arcoleo, non che quella di senatori che si prestano con sciocche interviste a riempire le colonne dei giornali, potessero davvero dar corpo a quest’ombra e rovinare un’istituzione che, così com’è, ha reso e può rendere ancora in momenti difficili grandi servizi al Paese e alla Monarchia (…). Le tue considerazioni così elevate, chiare e precise demoliscono con poche parole tutto l’edificio di carta pesta costruito dalla maggioranza della Commissione, e non ti nascondo che mi piacquero e mi persuasero tanto da non saper resistere alla tentazione di comunicarle ai comuni amici Inghilleri, Cefaly, Todaro, Filippo Mariotti e pure a Manfredi (presidente del Senato, NdA), i quali tutti le accolsero con plauso e dichiararono di associarvisi intieramente (...) mi parve doveroso di sgombrare dall’ambiente del Senato il dubbio che tu, pur troppo designato in Parlamento e ovunque quale padre e sostenitore di questo ministero presieduto da un cattivo pazzo, avessi anche la responsabilità della riforma del Senato, la quale, ove fosse davvero accolta sarebbe il principio di una prossima fine delle istituzioni monarchiche.” 
   Il 9 febbraio 1911 Vittorio Scialoja, suscitando “approvazioni vivissime e commenti”, sentenziò in Senato: “Se venisse in quest’Aula un ambasciatore, come avvenne nei tempi remoti di Roma, e chiedesse: ‘Che fa quest’Assemblea così solenne? Che fa questa adunanza di uomini così insigni ’ e noi gli rispondessimo: ‘Cerca di riformarsi perché non è di sé contenta’, resterebbe alquanto meravigliato e dovrebbe pensare essere l’Italia la più fortunata delle nazioni, se a tanta Assemblea ne può facilmente sostituire una migliore”. Negò poi che la progettata riforma rispondesse a una necessità sentita in quel momento dal popolo italiano e ammonì: “Il modificare articoli dello Statuto ha sempre un lato pericoloso”. “Ora quali sono gl’inconvenienti che si sentono ogni tanto deplorare? Nessuno ha mai messo in dubbio l’alta dignità del Senato: nessuno! Dunque qualche riformetta ci vuole, ma sia la medicina adatta al male, non la clinica chirurgica per un piccolo raffreddore.” Scialoja respinse infine la pretesa che la Camera Alta dovesse farsi copia dell’altra: “L’avere due Camere di funzione politica dello stesso tipo, è assai peggio che l'averne una sola (…). La Camera fa gli Annali, il Senato deve essere il custode della Storia, il custode delle linee fondamentali, direttive del progresso italico”.
  A Luzzatti non restò che gettare la spugna. Lo fece però scoprendo la Corona. Il 15 febbraio ringraziò i patres della “lieta accoglienza fatta alla proposta della elettività per il seggio della presidenza”. “Presi gli ordini sovrani, come li avevo presi per la comunicazione del 28 aprile scorso, e in conformità a deliberazione concorde del consiglio dei ministri”, preannunziò apposito disegno di legge e prese atto che le discussioni sulla proposta dell’elettività, “ispirata dal culto degli istituti monarchici rappresentativi, frutteranno decoro alla patria nostra, che, fiaccola di vita perenne, si tramanderà più bella, più libera, più grande, alle generazioni future, sotto la guida sicura della Dinastia di Savoia, vigilante a guardia della nostra indipendenza, custodia indefettibile delle guarentigie costituzionali”. 
  La proposta di rendere almeno parzialmente elettiva la Camera alta si perse per via. Non se ne sentiva bisogno mentre per l’elezione della Camera dei deputati venne introdotto il suffragio quasi universale maschile, che suscitò le riserve di Arcoleo, propenso a conferire alle donne almeno quello amministrativo giacché, diversamente, “a fil di logica, il censo, l’alfabeto, il voto avrebbero carattere sessuale: prolifico per gli uomini, sterile per le donne”. Bisognava difendere il Parlamento mentre i partiti estremi bollavano il Senato come “assemblea di retrogradi o di antenati” e il socialmassimalista Benito Mussolini lo definiva  “gerontocomio”.
    Quel Senato, di nomina regia e vitalizio, concorse a reggere le sorti dell'Italia durante la Grande Guerra. E poi? Il seguito merita di essere rievocato.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Luigi Luzzatti (Venezia, 1 marzo 1841-Roma, 27 marzo 1927), economista di fama europea, iniziato alla massoneria, pioniere delle banche popolari e di una moneta unica europea, ministro più volte, presidente del Consiglio (1910-1911), propugnò la parziale elettività del Senato. Una proposta che avrebbe generato un ibrido, mezzo di nomina regia (vitalizio), mezzo elettivo (a tempo): due categorie di difficile conciliazione. Il Regio Senato (o Camera Alta), di cui fu componente dal 1921, era un cenacolo di uomini “per lo Stato”. L'urgenza di riflettere sul ruolo della monarchia sabauda nella dello Stato d'Italia emerge dal recente saggio “Il fantasma della nazione. Per una critica del sovranismo”. In oltre 200 pagine il suo autore, Alessandro Campi, compie il piccolo capolavoro di citare tutti (Bossi, La Malfa, Togliatti, Salvini...) tranne i re da Carlo Alberto a Umberto II, gli Istituti e gli Uffici della monarchia. Come scrivere la storia della Chiesa dell'Otto-Novecento tacendone i papi da Pio VII a Pio XII, il collegio cardinalizio e gli Ordini religiosi. 



ELETTI, VOTATI, VOCATI
CREPUSCOLO DELLA “RAPPRESENTANZA”


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 19 febbraio 2023 pagg. 1 e 6.

Hieronymus




























                                                          Bosch (1460 ?
                                                          - 1516 ).
                                                          L'imbonitore.
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                                                          sulla
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                                                          popolare”.
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                                                          oggi i
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                                                          tutte, debbono
                                                          dare risposte.
                                                          La massiccia
                                                          astensione dal
                                                          voto non è una
                                                          passeggera
                                                          febbre
                                                          influenzale ma
                                                          patologica.
Didascalia
    Quis custodiet ipsos custodes?
“Bisogna che venite appresso a me!”/disse er Leone ar Popolo animale. / E tutti quanti agnedero cor Re,/ ma doppo un po' de strada ecchete che/ er Re rimase in coda, cor Cignale.// “Ritorna ar posto indove t'eri messo”/ je disse quello “e insegnece er cammino...”. “ Va là” rispose er Re “tanto è lo stesso:/ oggi chi guida un popolo è destino/ che poi finisce per andaje appresso”.
   Questa brillante sintesi della “dottrina delle élites” (piccolo vanto del pensiero politico italiano, secondo Norberto Bobbio) non è di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto o Roberto Michels, ma di Carlo Alberto Salustri (Roma, 1871-1950: morì appena nominato senatore a vita da Luigi Einaudi, monarchico e liberale), celebre come Trilussa dal più famoso tra i suoi pseudonimi (ne riparleremo). Come tante sue poesie, “Er Re Leone” va riletta per rispondere ai quesiti che si affollano sull'esito delle elezioni regionali di domenica scorsa, 12 febbraio, penultima del Carnevale 2023.
   Al netto dei commenti di auto-consolazione e auto-assoluzione su chi ha vinto un po' di più o ha perso un po' di meno, va constatato che ormai il crollo della partecipazione elettorale non è affatto un malessere passeggero, come si vuol far credere, bensì patologico. Fingere che non lo sia significa fare gli struzzi. Non è assenteismo per distrazione di massa. Segnala che si è aperta la grande faglia tra corpo elettorale e la sua rappresentanza. E' anche anche l’ultimo appello alla “politica” affinché si dia una mossa e si sforzi di percepire quel che pensano i cittadini, a cominciare dalla politica estera e quindi militare dello Stato d'Italia.
   Da decenni molte votazioni amministrative si sono svolte nell'indifferenza di un numero crescente di elettori. I primi segnali sono arrivati da Mezzogiorno e grandi isole, ma anche da aree periferiche dell'Italia centro-settentrionale. In alcuni casi superiore al 70 per cento, quell'astensione è stata a lungo classificata come manifestazione episodica e circoscritta di malumori locali, una febbricciattola del sistema democratico in sé granitico. La beata auto-celebrazione della “democrazia” ha accompagnato anche l’elezione di parlamentari in collegi per motivi vari rimasti vacanti e assegnati come feudi blindatissimi a candidati di assoluta fiducia del “mandante”. Paradigmatiche rimangono l'elezione del dottor Antonio Di Pietro (il fu stato magistrato più amato dagli italiani) nel collegio del Mugello e (in tempi meno arcaici ma dal profilo identico) quella di taluni “democratici” nel collegio di Siena, passato di mano in mano sino a Enrico Letta, sciacquato nella Senna. In molti casi tali “ludi cartacei” (come li definiva quel tizio che poi agli italiani impose il voto obbligatorio) si risolsero in una finzione mortificante, fatta apposta per dissuadere qualunque tentativo di capovolgere l'esito scontatissimo con candidature alternative. Un seggio parlamentare venne procacciato, quando era ministro, a Roberto Gualtieri, che lo abbandonò per la candidatura, molto più ghiotta, a sindaco di “Roma capitale” in vista del Giubileo, con tutto quel che ne discende in termini di potere e di controllo di fondi pubblici e privati nel prossimo triennio.
   Vien bene, a proposito della Città Eterna, memorizzare quanto ha detto papa Francesco il 2 febbraio agli 82 gesuiti congolesi guidati dal padre provinciale Rigobert Kyungu S. J., raccolti a dialogo anziché ad audiendum verbum dopo l'incontro di preghiera nella cattedrale “Notre Dame du Congo” a Kinshasa: “La chiesa, ha osservato il pontefice, non è una multinazionale della spiritualità”. Si contrappone alla “cultura pagana molto generalizzata” , distillato di “denaro, potere e fama”, opposto a “vicinanza, misericordia e tenerezza”. “Le istituzioni senza vicinanza e senza tenerezza faranno anche del bene, ma sono pagane”. Sappiamo a chi si riferisce.
   Il rifiuto di un numero crescente di cittadini di accedere ai seggi elettorali, dunque, non è affatto nuovo ma dallo scorso 12 febbraio si è imposto all'attenzione in misura assillante, sia per le percentuali, salite in parecchi comuni e in alcuni quartieri oltre la soglia più pessimistica, sia per la specificità delle due regioni chiamate a rinnovare il presidente e il consiglio. Per abitanti, reddito pro-capite e “rappresentatività”, il Lazio e la Lombardia sono altra cosa rispetto a “consorelle” chiamate al voto alla spicciolata in precedenti occasioni. Valga il caso dell'Umbria, ove il Partito democratico registrò la prima inattesa sconfitta. Lì la posta in gioco attizzò la partecipazione. In consultazioni successive la partecipazione andò sempre più scemando. Il campanello d'allarme fu ignorato. Ma ora? Una settimana addietro l'elettorato ha voltato le spalle malgrado la mobilitazione di un'imponente  macchina promozionale, risultata autoreferenziale e non priva di risvolti e risultati patetici, come quella frettolosamente allestita a sostegno della dottoressa Letizia Maria Brichetto Arnaboldi Moratti.
Eletti e votati quando c'era il re...
Per valutare se la frana dell'afflusso ai seggi elettorali sia davvero grave giova un sintetico panorama della storia delle elezioni. La premessa è scontata. Il diritto di voto fu la grande conquista della democrazia partecipativa moderna. Non quella dell'antichità, che ad Atene e a Roma lo riservava a minoranze o lo immaginava decisione “diretta” della comunità auto-convocata (alla Rousseau, per intenderci), ma quella varata in Francia dopo la Rivoluzione dell'Ottantanove. Malgrado ben noti e deplorevoli eccessi, il suffragio universale è speculare alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Scandì le sue diverse fasi e le svolte che si susseguirono, sino ai plebisciti chiesti da Napoleone Bonaparte per avallare il colpo di Stato del 18 brumaio e la sua proclamazione a imperatore dei francesi. Il “modello” fu esportato nei Paesi via via contagiati dal messaggio rivoluzionario e/o assoggettati dalle armate napoleoniche. Segnò un punto di non ritorno. Dopo il crollo di Napoleone, la richiesta di ripristinare assemblee elettive rimase obiettivo dei liberali costituzionali al di qua e al di là dell'Atlantico.
   Come scrisse Giosue Carducci, che lo sapeva per cognizione personale, furono le “società segrete” (anzitutto la massoneria) a praticare e a predicare i due canoni cardinali della politica moderna: elettività alle cariche, durata ope legis del loro esercizio e rielettività solo dopo un congruo intervallo per scongiurare il rischio che l'esercizio del potere (non del solo “capo” ma anche del suo “seguito) si trasformi da democratico in indeterminato e generi fatalmente il culto della personalità e determini la fuoriuscita dal regime costituzionale. Per rimanere al “caso Italia”, dopo decenni di cospirazioni, moti e insurrezioni il Quarantotto di metà Ottocento vide fiorire una molteplicità di Costituzioni. La più limpida e feconda fu lo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Savoia nel regno di Sardegna il 4 marzo 1848, preceduto dalle regie patenti che nel novembre 1847 introdussero l'elettività dei consigli comunali, provinciali e divisionali, modellati sull'esempio dell'età franco-napoleonica. Il voto era riservato a un numero esiguo di cittadini e non era obbligatorio. Per eleggere deputati in collegi uninominali ai seggi si recava chi voleva. La legge elettorale però prevedeva che al primo turno dovesse affluire almeno un terzo degli aventi diritto, pena la nullità della votazione. Era la garanzia della rappresentatività effettiva degli eletti, fondata sulla partecipazione degli aventi diritto, non sulla loro indifferenza. La storia, con secoli di dominio straniero e di guerre contro gli invasori aveva insegnato  che i cittadini dovevano far quadrato a sostegno delle istituzioni anche attraverso la leva militare obbligatoria, prolungata con la “milizia paesana” di cui ha scritto il generale Oreste Bovio in “Pagine di storia” (Ed. Roberto Chiaramonte, 2023). 
   I pilastri dello Stato erano tre “S”: la Spada, la Scheda, i Soldi. L'articolo 25 dello Statuto era chiarissimo: i regnicoli contribuivano “indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato”. Per gli evasori fiscali, come per evasione dall'obbligo di leva, non erano previsti sconti. 
   Con la proclamazione del regno d'Italia la legge elettorale di quello di Sardegna divenne nazionale. Come ricorda Pierluigi Ballini, la percentuale dei votanti si attestò costantemente intorno al 60%. L'affluenza più elevata venne registrata in Sicilia e nel Mezzogiorno. Finalmente liberi dai Borbone, i meridionali scommisero sulla nuova dirigenza di votati, molti dei quali avevano alle spalle decenni di prigionia o di esilio. Erano vocati. La partecipazione al voto rimase nettamente inferiore nel Veneto e in alcune province lombarde, succube del clero anti-unitario, ove essa a volte risultò persino al di sotto del 30%. Sia la Sinistra democratica (“garibaldini”, ex mazziniani,  radicali, protosocialisti) sia alcune frange illuminate della Destra propugnarono il suffragio universale, introdotto nel 1913, quando nessuno statista immaginava che di lì a poco l'Europa si sarebbe buttata a corpo morto nella fornace della Grande Guerra. L'intervento venne deliberato dalle Camere obtorto collo e senza alcun avallo degli elettori. Fu estorto alla Camera da un governo consapevole di avere il sostegno di appena 120 deputati su 508 e che l'opinione pubblica era prevalentemente contraria. “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole...”.
   Nel regime monarchico i rappresentanti dei cittadini venivano dunque “eletti”. All'epoca erano un’élite, cioè una “dirigenza” non precostituita per nascita o censo ma votata. Chiunque poteva candidarsi. La decisione usciva dalle urne. L'elettività alle cariche e un'ampia gamma di forme di promozione sociale aprì l'ascesa alle cariche supreme anche a cittadini di modeste condizioni. L'elenco potrebbe essere lunghissimo. A parte il corpo diplomatico, tutti gli altri uffici dello Stato e l'ingresso nella dirigenza politica risultarono “aperti”. Accadde anche per le forze armate, in specie per l'Esercito, che vide salire in vetta un esponente della “piccola borghesia” quale Luigi Capello, comandante dell'Armata più corposa mai esistita in Italia prima e dopo di lui. Il regime statutario conciliò i principi della gerarchia e del merito, che dallo Statuto passarono nella Costituzione repubblicana (anche se largamente ignorati e spesso calpestati, come l'art. 97 secondo i quale “agli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni si accede mediante concorso” . La gerarchia era nell'organicità degli uffici, il merito veniva vagliato dalla scuola, che funse da “ascensore sociale” e propiziò l'affermazione in posizioni apicali a prescindere dalle condizioni originarie. Non per caso la legge elettorale conferì il diritto di voto sulla base del grado di istruzione, anziché solo sul censo. Tra i principali artefici della Nuova Italia bastino i nomi dell'albese Michele Coppino, il più innovativo ministro della Pubblica istruzione dal 1861 a oggi, nato da un ciabattino e da una cucitrice, e di Carducci. Figlio di un “chirurgo” squattrinato (non “medico”, come all'epoca accadeva), allievo all'Università grazie a una “borsa di studio”, fu nominato docente universitario a 25 anni. Curiosamente entrambi erano stati iniziati in loggia. Coppino nell' “Ausonia” di Torino (1860), Carducci nella “Felsinea” di Bologna (1866):
   Il regime rappresentativo incentivò la partecipazione alla vita politica. Ogni cittadino sentiva di potere e dovere esercitare la sua quota di sovranità. Il corpo della “nazione”, somma dei “popoli d'Italia” come argomentò Vittorio Emanuele II, era il vivaio dal quale la Terza Italia attingeva sempre nuove energie sulla base della libertà del voto.
   Per ironia della sorte o per l'eterogenesi dei fini che si diverte a deviare l'illusorio “corso della storia”, proprio l'avvento del voto universale maschile e dei partiti di massa (1919) precipitò il Paese sulla china che condusse al regime di partito unico, al voto obbligatorio, alla tessera di partito quale requisito indispensabile per l'accesso ai pubblici impieghi e al giuramento di fedeltà al duce del regime, imposto a tutti gli impiegati, compresi i docenti universitari. Accadde in Italia ma all'epoca molto peggio avveniva nell'Unione sovietica e in altri Stati totalitari di Europa e di altri continenti. Nel 1929, 1934 e 1939 votò il 98% degli “aventi diritto” e il governo ottenne ogni volta consenso plebiscitario. Gli  eletti non erano propriamente “élite” ma i più “devoti al partito” anziché all'Italia, col risultato che il nazionalismo si risolse nella catastrofe dello Stato. Quanti “gerarchi” erano “vocati”?
… all'alba  della repubblica...
Dal crollo del partito unico e dalla discussa vittoria sulla Monarchia la Repubblica ereditò l'obbligo del voto. Sui documenti di quanti lo evadevano veniva stampigliata la scritta mortificante “Non ha votato”, quasi fosse una colpa “morale” oltre che una (non sempre voluta) infrazione di legge. Alcuni insigni giuristi liberali, come Giovanni Cassandro, propugnarono l'obbligatorietà del voto, nella visione superiore del concetto di cittadinanza. La realtà però rimase altra. Ampia parte dell'elettorato restò succuba di pulsioni estreme. Erano gli anni della cortina di ferro, della divisione tra Democrazia cristiana e Fronte popolare, di temute insurrezioni eterodirette, ampiamente documentate da opere recenti quasi subito dimenticate. Le scelte razionali rimasero professione di minoranze esigue. Il partito d'azione, che contò sulla concentrazione più elevata di “intelletti”, si frantumò quattro mesi prima dell'elezione della Costituente. Giuseppe Saragat, che guidò parte dei socialisti italiani verso la libertà democratica, venne lapidato dai socialcomunisti. Come poi accadde a Bettino Craxi.
   Al netto delle critiche che li angustiarono e ne profetizzarono il tramonto, per un un trentennio i partiti alimentarono la partecipazione alla vita pubblica e il rinnovamento della dirigenza attraverso i loro riti interni e quelli elettorali, dai piccoli comuni al Parlamento. Il cittadino rimase a lungo convinto che, sommando un voto all'altro, la sua scelta personale potesse davvero incidere e determinare il corso generale della vita politica.
   Quando si spensero le illusioni? Paradossalmente proprio quando l'orizzonte divenne meno fosco: il crollo dell'Unione sovietica, la riunificazione della Germania, l'alba dell'Unione europea. Preceduta dalla “prova generale” dell'artificioso “scandalo” montato sulla '“P2” (una mistificazione da ricordare per tutte le sue nefaste conseguenze), dal 1992-1993 la campagna di discredito dei partiti e della “politica” (con rutto di tamburi di certi “media”) travolse il regime repubblicano postbellico senza generarne un altro. Dei vecchi “soci” del Comitato di liberazione nazionale sopravvisse solo l'ex Partito comunista italiano.
   Dalle macerie non nacquero fiori. Iniziò la grande fuga dalla vita pubblica. Il processo fu lento ma inarrestabile. Ora se ne vedono le conseguenze ultime. Vale per la “politica” come per l'istruzione pubblica. Bastarono pochi anni per svuotare la Scuola. Occorreranno generazioni per rimediare al guaio. Chiusa l'epoca degli uomini cosmico-storici (come descritti da Hegel) seguì quella dei comici e/o di “avvocati del popolo”, tribuni né eletti né vocati. Piaccia o meno, nel 1994 e per altre due volte Silvio Berlusconi ebbe il suffragio di metà dei voti, molto molto più di quanti ne ha avuti il partito dell'attuale presidente del Consiglio, che il 25 settembre 2022 ottenne i 16% degli aventi diritto al voto.
   Tempo è venuto di domandarsi perché manchino non tanto elezioni (convocate per ratificare candidati pre-confezionati) ma “vocazioni”. Occorre ripartire dalla centralità dello Stato, garante dei diritti dei cittadini, e da un'amministrazione pubblica rispondente alle loro urgenze quotidiane. Altrettanto, e ancor più, vale per le decisioni sul problema dei problemi: la politica estera e militare in un mondo che è in guerra e che, come ricorda papa Francesco dichiarandosi “un po' pessimista”, va “avanti, avanti, avanti verso il baratro.”
    Chi si illude che si possa ignorare quel che pensano i cittadini sino alle elezioni dei deputati all'Europarlamento nel 2024 e che nel frattempo tutto resta com'è ha un'idea bislacca della democrazia elettorale, della “rappresentanza”, e confonde la pazienza con la rassegnazione a non contare nulla. Ma oggi i cittadini sono informati e controllano le zampate “der Re leone”.      
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Hieronymus Bosch (1460 ? - 1516 ). L'imbonitore. Molti scommettono sulla “credulità popolare”. Promettono. Ma oggi i cittadini sono informati e non si fanno più abbindolare. Le Istituzioni, tutte, debbono dare risposte. La massiccia astensione dal voto non è una passeggera febbre influenzale ma patologica.    


IL PARTITO DELLO STATO
I SENATORI DEL REGNO, NON ELETTI MA VOTATI


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 12 febbraio 2023 pagg. 1 e 6.

Luigi
                                                          Girolamo
                                                          Pelloux (La
                                                          Roche en
                                                          Savoie,
                                                          1839-Bordighera,
                                                          1924). Figlio
                                                          di un medico
                                                          eletto al
                                                          Parlamento
                                                          subalpino
                                                          (1857-1860),
                                                          allievo
                                                          dell'Accademia
                                                          militare di
                                                          Torino, alla
                                                          cessione della
                                                          Savoia alla
                                                          Francia (1869)
                                                          optò per la
                                                          cittadinanza
                                                          italiana, come
                                                          già aveva
                                                          fatto suo
                                                          fratello Leone
                                                          nel 1860.
                                                          Comandò
                                                          l'artiglieria
                                                          che il 20
                                                          settembre 1870
                                                          aprì la
                                                          breccia a
                                                          Porta Pia.
                                                          Eletto
                                                          deputato a
                                                          Livorno nel
                                                          1881 e
                                                          confermato
                                                          alla Camera
                                                          sino al 1892,
                                                          ministro della
                                                          guerra nei
                                                          governi
                                                          Rudinì,
                                                          Giolitti e
                                                          ancora Rudinì
                                                          (1891-1896),
                                                          fu presidente
                                                          del Consiglio
                                                          nel 1898-1900.
                                                          Lasciato il
                                                          servizio
                                                          militare
                                                          (1902) si
                                                          stabilì a
                                                          Bordighera,
                                                          ove morì.
                                                          Venne nominato
                                                          senatore nel
                                                          1896, come suo
                                                          fratello. Lo
                                                          storico Oreste
                                                          Bovio, autore
                                                          di “Pagine di
                                                          storia”
                                                          (Chiaramonte
                                                          Ed., 2023), in
                                                          “Sacerdoti di
                                                          Marte” (Ed.
                                                          Ufficio
                                                          storico dello
                                                          Stato Maggiore
                                                          dell'Esercito)
                                                          ha giustamente
                                                          scritto che
                                                          “La patente di
                                                          reazionario
                                                          che ancora
                                                          oggi alcuni
                                                          studiosi
                                                          attribuiscono
                                                          a Pelloux è
                                                          del tutto
                                                          ingiustificata”.
                                                          Ma i “luoghi
                                                          comuni” e i
                                                          “manuali”
                                                          scolastici
                                                          sono rigidi:
                                                          “rigor
                                                          mortis”. 
Didascalia
    La Costituzione è “rigida”? Allora va ripensata.
   I costituzionalisti insegnano che lo Statuto Albertino del 1848 era flessibile mentre la Costituzione della Repubblica è rigida. Ma non è affatto immutabile. Quando lo ha voluto, il legislatore l'ha modificata, talvolta in modo opportunistico e maldestro. L'intero Titolo V (Regioni, province, comuni) è stato messo a soqquadro da una maggioranza risicata. Fatto il danno, diviene difficile riparare. Vittime illustri delle Camere sono stati gli articoli 56 e 57 della Carta, con il drastico “taglio” di deputati e senatori, senza significativo risparmio per lo Stato né miglioramento apprezzabile della qualità dei “rappresentati della Nazione”. Mentre occorre la diversificazione di formazione e competenze delle due Camere, il Parlamento ha conferito l'elezione del Senato ai diciottenni (qualcuno proponeva i sedicenni) nella fatua illusione di ampliare la partecipazione al voto. E allora? L'astensione aumenta sia nelle “amministrative”, sia nelle “politiche”. Le “verità” sono “scomode”, ma vanno dette. La Carta vigente fu pensata e approvata con l'occhio rivolto a un passato che nel gennaio 1948 era già remoto. Quando già esisteva l'ONU e, a fronte della “guerra fredda”, l'Italia stava per aderire alla Nato (1949), la Costituzione non affrontò il “problema dei problemi” di uno Stato sia pure a sovranità limitata, cioè la politica estera, fugacemente accennata nell'articolo 11 (“L'Italia ripudia la guerra...”), destinato a rimanere una petizione di principio. Perciò, al netto di elogi d'occasione, bisogna prendere che venne scritta mentre incombeva l'imposizione del punitivo “Trattato di pace”, quando non esisteva neppure l'ombra dell'Unione Europea, del G7, del G20 e dei rapporti globali odierni economici e, purtroppo, militari. In quel “mondo” Africa e Asia erano ancora “colonie”. La Carta va “ripensata” nel suo insieme. Il “corpo” dello Stato d'Italia è cresciuto. Per dargli una veste istituzionale non bastano “rattoppi” occasionali. Come da decenni si ripete, occorre una stagione costituente. 
   Analogo interrogativo si pose sul finire dell'Ottocento a proposito del Senato del regno.
Una Camera “ringiovanita”. Un Senato immobile. 
Il 29 giugno 1881 il Parlamento approvò la legge elettorale proposta dalla “Sinistra storica” guidata da Agostino Depretis. Il diritto di voto fu conferito ai maschi che sapessero leggere e pagassero 19,80 lire di imposte dirette, una somma modesta. Gli elettori crebbero da seicentomila 600.000 a poco più di due milioni, il 20 per cento dei maschi ventunenni. Nel maggio 1882 fu introdotto lo scrutinio di lista in collegi circoscrizionali, per garantire l'elezione di candidati di minoranza: un sistema arzigogolato. Nel 1892 si tornò al collegio uninominale, ancor oggi rimpianto, nel quale l'elettore può essere ingannato una volta sola e diffida di candidati paracadutati “dall'alto”.Secondo Giuseppe Galasso, storico sommo, nel 1882 vennero eletti deputati competenti e assidui ai lavori. 
  Risultò quindi urgente “ammodernare” anche il Senato, che era di nomina regia e vitalizio. Ma come? A intuire che la sua immobilità poteva essere pericolosa per il futuro delle istituzioni  fu  Ruggiero Bonghi (Napoli, 1826-Torre de Greco, 1895), deputato dal 1860, già ministro della Pubblica istruzione. Nel 1884 denunziò nella “Nuova Antologia” il decadimento del “regime parlamentare”: “L’uno o l’altro partito diventa governo. Ebbene, quantunque il partito che occupa il governo abbia una maggioranza in suo sostegno, non è punto certo che la rappresenti, anzi è assai probabile, e in più casi è più che probabile, che non la rappresenti. Se è così, che cosa resta di rappresentativo al regime parlamentare? Gli eletti non rappresentano i collegi; i partiti dividono la Camera, nessun d’essi la rappresenta, non che tutta, neanche in maggioranza. Non v’ha dubbio, il regime parlamentare si è sviluppato dal rappresentativo; ma è un figliuolo che ha soffocato il padre. Quando io penso al regime stesso, così come vige tuttora, mi ricorre a mente quel verso - cattivo, sì, ma non peggio di quanto va diventando la cosa -: Questi è un uomo che morra.” 
  Lo pensava anche Marco Minghetti, ultimo presidente del Consiglio della “Destra storica” (1873-1876). “Per mio avviso”, questi scrisse nel subito celebre saggio su “L'ingerenza dei partiti nella pubblica amministrazione”, “la Corona deve accuratamente serbare le prerogative che le accorda lo Statuto e mai lasciare che altri le usurpi, imperocché quelle prerogative, ben usate sia nella scelta di ministri sia negli scioglimenti della Camera, possono in talune circostanze salvare il Paese.” Tra di esse spiccava la scelta dei senatori, che non poteva essere lasciata in balìa del presidente del Consiglio di turno, come Depretis, giunto a farne nominare 220 in otto anni e nove mesi di governo. Riempiendo il Senato di ex deputati ligi al governo impoveriva la dignità della nomina regia, spogliava la Camera Alta della sua superiore indipendenza dalle passioni partitiche contingenti e recideva alla radice il suo requisito di Istituto super partes.
   Decenni prima, nel saggio  sulla Monarchia rappresentativa in Italia Cesare Balbo aveva configurato il Senato quale vera e propria élite. “Soffiando su tutta Europa continentale il vento democratico del Quarantotto, tutti gli statuti italiani dati al principio di quell’anno fecero senati non ereditari ma a vita. Se invece di gennaio, febbraio e marzo, fossero nati nei mesi successivi, è poco dubbio che non sarebbero rimaste nemmeno quelle due ultime reliquie aristocratiche dell’elezione dei senatori fatti a vita e da principi: ché i senatori si sarebbero fatti eleggere a tempo dal popolo. Un senato per rimaner senato, per fare effetto diverso in qualche parte dalla Camera dei deputati, debb’essere diverso da questa, diverso nella durata e nell’elezione. Se vogliamo istituzioni repubblicane, facciamo una repubblica; ma se vogliamo monarchia, facciamo istituzioni monarchiche; verità sempre da per tutto; in tutto verità.”
   Determinante per la continuità del Senato fu il passaggio di Francesco Crispi dai fautori dell’elettività di entrambe le Camere (propugnata dal cattolico Fedele Lampertico e, ai suoi esordi, da Domenico Farini, componente del Consiglio dell'Ordine del Grande Oriente d'Italia) a quella della esclusiva nomina regia dei patres conscripti. Ebbe il conforto dalle amare riflessioni di Gaetano Mosca sulla nuova classe dirigente: “Il tempo farebbe pure dimenticare la prima origine impura di molte fortune e molte influenze; ai figli nati in elevata fortuna sarebbero risparmiate le bassezze e le contraddizioni che, per arrivarvi, furono necessarie ai padri...”.  
   Materia prima della “teoria delle élites” elaborata da Mosca fu proprio il Senato del Regno.
  Per una fortunata congiunzione astrale tra calcoli di potere e invenzioni della “buona stella” che costituiscono caratteristica della storia d’Italia, a conferma dell’eterogenesi dei fini anche nella vita politica, proprio Crispi e il suo emulo Giolitti di infornata in infornata gonfiarono a dismisura il corpo del Senato ma al tempo stesso ne serbarono elevato il rango, riscattandosi dall’insinuazione che la quantità dovesse necessariamente comportare lo scadimento della qualità. Ogni nuovo senatore recò alla Camera Alta un capitolo della storia d’Italia, che affondava radici nelle cospirazioni liberali e nelle patrie battaglie del Risorgimento.
   In quegli anni entrarono in Senato Giosue Carducci, maestro e vate della Nuova Italia e Costantino Nigra, decano della diplomazia. Sarebbe stato umiliante che per concorrere alla vita parlamentare italiana quelle personalità dovessero assoggettarsi a notabili locali, talora più forti persino del potere corruttivo di prefetti e viceprefetti, come narrò Amedeo Nasalli Rocca nelle sue gustosissime Memorie di un prefetto. Accadeva, per esempio, che, non essendo riuscito a convincere gli elettori a votare per il candidato che gli era stato raccomandato, il sindaco di un piccolo borgo scolasse da solo tutto il vino acquistato coi fondi neri governativi per propiziarne il successo e venisse rinvenuto ubriaco in un fosso: sconfitto, alle urne e senza speranza di essere premiato con l’ambita croce di cavaliere.
   Nominato presidente del Consiglio, Giolitti camminò nel solco tracciato da Depretis e Crispi. Nelle due infornate del 10 ottobre e 21 novembre 1892, prima e dopo il rinnovo della Camera, tra parecchi patres di fama non imperitura inserì quanti bastavano a conservare lustro alla nomina regia e vitalizia.
   Nel 1892 il Senato riservò a Giolitti un’accoglienza gelida. Il suo governo contava un solo pater, il savoiardo ammiraglio Antonio Pacoret de Saint-Bon, che morì pochi mesi dopo la nomina. Un affronto alla Camera Alta? Il precedente ministero, però, presieduto da Antonio di  Rudinì, ne aveva avuti appena due. La ragione era dunque altra. In Giolitti la Camera Alta intravvide chi avrebbe chiesto ai patres che non si contentassero del laticlavio come fosse una onorificenza, ma concorressero con maggiore partecipazione al grigio travaglio di elaborazione delle leggi. Alla proclamazione del Regno, nel 1861, i senatori erano 211. Dopo il trasferimento della capitale da Torino a Firenze risultavano 276. Divennero 308 con l’annessione di Roma. Nel passaggio dalla Destra alla Sinistra (marzo 1876) se ne contavano 328. Depretis li portò a una media di circa 330 durante il suo decennio di governo. Crispi li fece balzare a 411 nel 1890 e a 416 nel 1891. Giolitti, fece di più. Li accrebbe a 464. Poche decine meno dei 508 deputati. Come prevedibile, venne chiamato a darne conto in Assemblea. Andrea Guarneri lo accusò di mettere a repentaglio l’intero edificio “alla cui sommità v’ha, o signori, la Maestà del Trono di Italia”. Come al solito, Giolitti eluse le questioni di principio, terreno lubrico d’interminabili dispute bizantine, e andò al punto che gli premeva. Da anni la Camera Alta faceva registrare un grave e non edificante assenteismo. Nelle due votazioni più importanti della precedente legislatura (1890-1892), sull'abolizione dello scrutinio di lista e ritorno al collegio uninominale e sull’esercizio provvisorio del bilancio per sei mesi, dei 375 senatori in carica in aula se ne contarono appena 83 per la prima legge e 116 per la seconda. Quello fu anche il numero di presenze più elevato fatto registrare dai patres nell’arco dell’intera legislatura: meno di un terzo dei componenti. Non era dunque il governo a mancare di rispetto al Senato immettendovi energie nuove, in gran parte provenienti dalla Camera e quindi aduse alla dialettica parlamentare. Erano i senatori, a volte presuntuosi e assenteisti,  ad aver trascurato il loro dovere. La Camera Alta non era un’Assemblea di congerrones, cioè di compagnoni, come avrebbe lamentato a suo tempo Marco Tullio Cicerone, che in Aula si trovavano di quando in quando quasi per divertimento. Il Senato del Regno era la Prima Camera. Tenuta, come l’antica, a far sì che sempre si dicesse “Senatus populusque romanus” e mai “Populus et senatus”. La differenza non era poca. Il Senato doveva comprovare con la propria condotta che il re tale era “per grazia di Dio” prima che “per volontà della nazione”. Giolitti era conscio che non tutte le assenze potevano essere addebitate a negligenza, giacché molti senatori erano anziani, cagionevoli di salute, residenti in lande remote dalla capitale, difficile da raggiungere per chi abitava nelle grandi isole o nelle province periferiche del Regno. Ammise che gli ex deputati costituivano il gruppo più numeroso dei nuovi senatori. Ma se il Senato voleva non solo una “vetrina” di celebrità ma un'assemblea politica, poiché non ci si poteva attendere partecipazione assidua di diplomatici, militari, magistrati, scienziati, cattedratici e accademici in missione e dediti alle loro discipline, era bene che la Camera Alta venisse rinvigorita con ex deputati, molti dei quali avevano titoli anche per altre categorie. 
Come veniva preparata una “infornata”? 
In pagine scritte col pennino intinto nell’amaro inchiostro di chi temeva l'avvento dei clericali, nel Diario di fine secolo Domenico Farini lasciò resoconto minuzioso di come fossero decisi i laticlavi da proporre al Re, Umberto I. Narrò il colloquio avuto all'Hotel “Suisse” di Torino con il presidente del Consiglio generale Luigi Pelloux. Scorrendo le liste trasmessegli dal precedente presidente del Consiglio e quelle da più parti pervenute i due passarono in rassegna vizi e virtù degli aspiranti senatori. Poiché la Camera Alta contava un solo ammiraglio, che a detta del ministro Benedetto Brin non sapeva né leggere né scrivere, s’imbatterono nella candidatura di un suo pari grado che secondo il re era “un grande intrigante”. A Pelloux risultava anzi che mentre era imbarcato sul “Colombo” aveva persino rubato. Occorreva bilanciare nomi di sinistra con altri di destra. I due si scambiarono battute feroci. Miceli era “un rammollito”. La candidatura dell’ex deputato di Milano Luigi Rossi pareva sostenuta dalla duchessa Litta (vale a dire dal re, di cui era notoriamente intrinseca) benché fosse mezzo radicale, mezzo socialista, dotato di ingegno e cultura e quindi “un uomo che può riuscire in Assemblea molesto”. Ulderico Levi, in aggiunta a Ugo Pisa, avrebbe portato gl’israeliti a due su trenta in una sola tornata. Troppi. “E di Parpaglia che dici?” domandò Pelloux. Farini di rimando: “mi pare una brava persona, ma bada, in Sardegna che ora ha un solo senatore, vi ha un vecchio parlamentare che non si può trascurare: il Salaris”. Pelloux replicò: “Sì... il Salaris... ma è vecchio e non verrà mai. Parpaglia è ottimo”. Farini: “Ma Salaris, ufficiale fino dal 1848 nei cacciatori sardi, è un liberale, ha undici legislature”. “E del Piaggio, ex deputato, che diresti?” domandò Pelloux. Rispose Farini: “Non credo si debba nominare chi è direttore d’una società come quella di navigazione, tanto legata al Governo”. Pelloux: “Così pare anche a me. Ma dicono che il Piaggio è amministratore delegato e non direttore generale... ”. “Questa è ipocrisia da curiali, quasi che il titolo muti la sostanza...”. Infine i due concordarono nel deplorare “il pettegolezzo giornalistico intorno alle nomine senatorie, le autocandidature, le sfacciate pretese, le impudenze inaudite”. A un certo punto Pelloux esclamò che “in mezzo a tanto putiferio, il meglio sarebbe di non far nulla di nulla”. Fu incoraggiato da Farini che gli osservò come i patres già fossero 326, oltre a tre che ancora non avevano prestato giuramento e a cinque principi del sangue, uno dei quali gli era inviso per legami con gli Orléans. Era il 13 ottobre 1898.
  Il 17 novembre avvenne l’infornata di trenta senatori, aperta proprio dall’uomo del “Colombo”. Comprese Giuseppe Carle, Antonio Cefaly, diadoco di Giolitti nel Mezzogiorno e massone, il garibaldino Abele Damiani, che Pelloux aveva detto a Farini di non volere “assolutamente”, i due ebrei Ulderico Levi e Ugo Pisa, Luigi Miceli, Salvatore Parpaglia (ma non Salaris), Erasmo Piaggio e il giolittiano e proprietario della “Stampa” di Torino, Luigi Roux, perché in fondo, pettegolezzi per pettegolezzi, era bene avere amico almeno uno dei giornali più influenti.
Malgrado tutto...
   Il Senato mostrò di essere il luogo istituzionale più propizio per lanciare messaggi politici a futura memoria, come il conferimento dei collari della SS. Annunziata a sovrani, presidenti di repubbliche e principi esteri lo era per le linee che lo Stato si apprestava a percorrere nelle relazioni internazionali. Se n’ebbe la conferma il 14 giugno 1900. Nel 1870, l’anno di Porta Pia, alla Camera Alta venne chiamato il laniere di Schio Alessandro Rossi, clericale e massonofago. Nell’anno del Giubileo il laticlavio fu conferito ad Antonio Fogazzaro, il più prestigioso scrittore cattolico italiano tra Otto e Novecento, più volte candidato al premio Nobel per la letteratura come documentato da Enrico Tiozzo. La Corona non precludeva l'Aula senatoria ai talenti acclarati e non badava alle contese in corso tra clericali e anticlericali. Lo scrittore era “un nome”. 
   Va ricordato infine che l’ingresso in Senato non comportava alcuna remunerazione e neppure alcuna “quota” da parte dei suoi componenti: una un “patto” alla pari tra Monarchia e Patres, come spiegò Luigi Einaudi, monarchico e liberale “a schiena dritta”.
    Il regio Senato, in sintesi, era e rimase un “élite”, con tutte le contraddizioni interne del nome, che indica una classe dirigente esistente “di per sé, non “eletta” (élite derivi da eligere) e tuttavia “votata”: non dal suffragio popolare, però, ma dalla propria vocazione. Un groviglio che merita un'apposita trattazione. 
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Luigi Girolamo Pelloux (La Roche en Savoie, 1839-Bordighera, 1924). Figlio di un medico eletto al Parlamento subalpino (1857-1860), allievo dell'Accademia militare di Torino, alla cessione della Savoia alla Francia (1869) optò per la cittadinanza italiana, come già aveva fatto suo fratello Leone nel 1860. Comandò l'artiglieria che il 20 settembre 1870 aprì la breccia a Porta Pia. Eletto deputato a Livorno nel 1881 e confermato alla Camera sino al 1892, ministro della guerra nei governi Rudinì, Giolitti e ancora Rudinì (1891-1896), fu presidente del Consiglio nel 1898-1900. Lasciato il servizio militare (1902) si stabilì a Bordighera, ove morì. Venne nominato senatore nel 1896, come suo fratello. Lo storico Oreste Bovio, autore di “Pagine di storia” (Chiaramonte Ed., 2023), in “Sacerdoti di Marte” (Ed. Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito) ha giustamente scritto che “La patente di reazionario che ancora oggi alcuni studiosi attribuiscono a Pelloux è del tutto ingiustificata”. Ma i “luoghi comuni” e i “manuali” scolastici sono rigidi: “rigor mortis”. 



PER UNA NUOVA COSTITUENTE
IL SENATO DEL REGNO, PER ESEMPIO 


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 5 febbraio 2023 pagg. 1 e 6.

Carlo
                                                          Alberto di
                                                          Savoia-Carignano,
                                                          Re di
                                                          Sardegna.
                                                          Busto in
                                                          marmo. Un
                                                          tempo orgoglio
                                                          del Palazzo
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                                                          Saluzzo, da
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                                                          1848 per
                                                          costituire il
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                                                          Sardegna
                                                          spiccano
                                                          Cesare Alfieri
                                                          di Sostegno,
                                                          Gaspare
                                                          Coller,
                                                          nominato
                                                          presidente del
                                                          consesso,
                                                          Alessandro e
                                                          Annibale di
                                                          Saluzzo,
                                                          Alberto
                                                          Ferrero della
                                                          Marmora, Carlo
                                                          Ignazio
                                                          Giulio,
                                                          Giuseppe
                                                          Manno,
                                                          Giovanni
                                                          Nigra,
                                                          Emanuele Pes
                                                          di
                                                          Villamarina,
                                                          Luigi e
                                                          Giacinto
                                                          Provana di
                                                          Collegno,
                                                          Vittorio
                                                          Amedeo Sallier
                                                          de la Tour,
                                                          Lodovico Sauli
                                                          d'Igliano,
                                                          Roberto
                                                          Tapparelli
                                                          d'Azeglio,
                                                          Girolamo
                                                          Tornielli,
                                                          Cesare
                                                          Trabucco di
                                                          Castagnetto.
                                                          Con decreti
                                                          successivi
                                                          nominò
                                                          senatori, fra
                                                          altri, Ettore
                                                          Gerbaix de
                                                          Sonnaz,
                                                          l'arcivescovo
                                                          Luigi Nazari
                                                          di Calabiana,
                                                          Agostino
                                                          Chiodo,
                                                          Ferdinando
                                                          Prat, Luigi
                                                          Cibrario,
                                                          Gabriele De
                                                          Launay e don
                                                          Ferrante
                                                          Aporti.  
                                                           Nei
                                                          primi tempi di
                                                          regno Vittorio
                                                          Emanuele II
                                                          creò senatori
                                                          Luigi Des
                                                          Ambrois de
                                                          Nevache,
                                                          Federigo
                                                          Sclopis,
                                                          l'archiatra
                                                          Spirito Riberi
                                                          (al quale,
                                                          spirando, il
                                                          garbatissimo
                                                          Carlo Alberto
                                                          disse “Vi
                                                          voglio bene,
                                                          Riberi; ma
                                                          muoio”), Luigi
                                                          Provana del
                                                          Sabbione,
                                                          Cesare Della
                                                          Chiesa di
                                                          Benevello,
                                                          Ferdinando
                                                          Arborio
                                                          Gattinara di
                                                          Breme e
                                                          Giuseppe
                                                          Siccardi, che
                                                          legò il nome
                                                          all'abolizione
                                                          di privilegi
                                                          ecclesiastici.
                                                             
                                                           Per una
                                                          rassega delle
                                                          costituzioni
                                                          vigenti in
                                                          Italia
                                                           dal
                                                          Settecento a
                                                          oggi v. “Le
                                                          Costituzioni
                                                          italiane” a
                                                          cura di A.
                                                          Aquarone, M.
                                                          D'Addio e G.
                                                          Negri, Milano,
                                                          Comunità,
                                                          1958,
                                                          ricalcato in
                                                          parte da “Le
                                                          Costituzioni
                                                          Italiane,
                                                          1786-1948” a
                                                          cura di E.
                                                          Fimiani e M.
                                                          Togna, con
                                                          prefazione di
                                                          Maria Elena
                                                          Boschi e
                                                          prefazione di
                                                          Giovanni
                                                          Legnini,
                                                          L'Aquila,
                                                          Textus, 2015.
Didascalia
    All'outlet del costituzionalismo imperfetto?  
 Nuovamente molto si parla di riforma dello Stato.Vengono presi a prestito istituti di terre lontane, diversissimi, come presidenzialismo, semipresidenzialismo, primierato e simili, e proposti alla rinfusa, come capi di vestiario in svendita all' Outlet del costituzionalismo imperfetto. Con le solite condizioni allettanti: soddisfatti o rimborsati, oppure “si accettato resi”. Se dopo la prima sommaria prova “nel camerino”, il“popolo”constata che la giacca risulta di manica troppo larga o troppo lunga e il pantalone cade male può restituire e indossare un altro abito...costituzionale? Ogni quante stagioni? Così non funzionano le forme dello Stato. Due considerazioni s'impongono: in primo luogo, come mai altrove gli Stati hanno una forma che dura nei secoli? Si vedano la monarchia britannica, gli Stati Uniti d'America e, dopo vari esprimenti, la repubblica francese, punto di arrivo di un processo millenario che fa di Macron il successore di De Gaulle, Napoleone, Luigi XIV, sino alla unzione davidica dei re. Qual è il segreto  della lunga durata delle Istituzioni? Semplice: durano quando calzano ai popoli, i cui caratteri – come ricorda il generale Claudio Graziano in “Missione” - sono frutto di secoli e secoli. Lo stesso vale per l'Italia, uno stato giovane, che somma circa cent'anni di monarchia rappresentativa e settantacinque di repubblica parlamentare: un sistema il cui pregio principale sta nella continuità, come ognuno  capisce se confronta  lo Statuto albertino del 4 marzo 1848 con la Costituzione del 1 gennaio 1948. Chi voglia approfondire può leggere con profitto il libro di Tito Lucrezio Rizzo, per decenni Consigliere del Quirinale, Il Capo dello Stato dalla Monarchia alla Repubblica, 1848 al 2022 (ed.Herald). 

  La riforma costituzionale anni addietro proposta da Matteo Renzi puntava al riassetto armonico dei tre poteri apicali dello Stato, con opportune modiche di competenze, ma nella piena salvaguardia  della loro identità, necessaria all'equilibrio della democrazia, garantita dalla sovranità dei cittadini. Non cedeva alla chimera dell' uomo unico (e “forte” ) al comando né alle sirene del monocameralismo, tipica dei giacobini e dei sovietici e realizzata dalla non rimpianta Repubblica sociale italiana. Anni di impossibile diarchia di partito unico e monarchia rappresentativa si risolsero  nella prevalenza logico-cronologica della monarchia costituzionale, che ispirò i costituenti quando scrissero la Carta della repubblica parlamentare.
Merita dunque ripercorrere per sommi capi genesi e vita del Senato del Regno, che dal 1848 dette corpo al regime parlamentare in Italia e propiziò lo sviluppo civile, sociale, economico e culturale del Paese sorto dall'accorpamento dei popoli d'Italia raccolti attorno al tricolore sabaudo. Senza indulgere a sterili accenti nostalgici, stiamo ai fatti. Lo Statuto albertino nacque in un mese di  “Consigli di conferenza” presieduti personalmente da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, sovrano di un regno che usava ufficialmente due lingue  e, caso unico  in Italia, rispettava tre confessioni religiose: la cattolica (di Stato), la valdese e l'israelita e riconobbe i cittadini uguali dinanzi alle legge, osservassero o meno un culto. L'importate era che rispettassero le leggi e fossero fedeli al re e a suoi reali successori per il  bene indivisibile del patria.
Vediamo dunque il primo mezzo secolo del Senato del Regno, dall'origine a fine Ottocento. In altri articoli parleremo delle sue vicende successive. E' il modo pacato di offrire un contributo costruttivo al confronto sulle riforme costituzionali che ricorrentemente si affaccia sull'orizzonte della politica non inquinata da urla scomposte.
Quando Carlo Alberto istituì il Senato
   Fra il 3 aprile 1848, Carlo Alberto di Sardegna nominò i primi 58  senatori  e le ultime nomine decretate da Vittorio Emanuele III il 6 febbraio 1943, il Senato del Regno contò in tutto 2404 membri designati. Però solo 2362 furono convalidati e prestarono giuramento divenendo a tutti gli effetti componenti della Prima Camera o, come si disse, Camera Alta per distinguerla da quella elettiva. I senatori erano di nomina regia, vitalizi e in numero aperto. Le differenze tra natura, composizione, poteri e scopi dei due rami del Parlamento furono profonde. Lo divennero ancor più quando, per effetto della “legge Alfredo Rocco” del 17 maggio 1928 n. 1079, la Camera elettiva cessò di essere frutto di libero confronto-scontro tra partiti e candidati e risultò preconfezionata dal Gran consiglio del fascismo ertosi a “partito unico”. Il Senato assunse dignità anche maggiore quando, con la legge 19 gennaio 1939 n. 129, la Camera votata nel 1934 approvò la propria sostituzione con quella “dei fasci e delle corporazioni”, infarcita di “eletti di secondo grado”. 
Quest’ultima evocò per contrasto il ruolo che la Camera Alta era chiamata a esercitare in presenza di reiterati assalti di Mussolini allo Statuto, orgoglio per Casa Savoia molto prima che Vittorio Emanuele II fosse proclamato re d’Italia. 
La Camera dei fasci e delle corporazioni fu formata da componenti del consiglio nazionale del Partito Nazionale Fascista, dal profilo culturale e professionale generalmente modesto, e in parte dal Consiglio nazionale delle corporazioni. Quei deputati, o “consiglieri”, come ordinariamente furono detti, erano almeno venticinquenni e ricevettero indennità annua fissata dalla legge. Parecchi di essi avevano un impiego negli enti fascistizzati o parafascisti e non avrebbero avuto altrimenti di che vivere. Con votazioni sempre palesi essa  doveva deliberare entro un mese i disegni di legge che riceveva dal duce.
Invertendo la pena etrusca, il nuovo contaminò il vecchio. La legge recitò  che il Senato e la Camera avrebbero “collaborato col Governo per la formazione delle leggi”. Vennero subordinate al governo. 
“D’altronde”, affermò Mussolini in La dottrina del fascismo nel 1938 posto a preambolo del nuovo statuto del PNF, “ammesso che il secolo XIX sia stato il secolo del socialismo, del liberalismo, della democrazia”, non era detto lo fosse anche il seguente. “Le dottrine politiche passano, i popoli restano. Il fascismo vuole lo Stato forte, organico e al tempo stesso poggiato su una larga base popolare. Non crea un suo “Dio”, né cerca vanamente di cancellarlo dagli animi come fa il bolscevismo. Il fascismo rispetta il Dio degli asceti, dei santi, degli eroi e anche il Dio così com’è visto e pregato nel cuore ingenuo e primitivo del popolo.” 
In 37 articoli     lo statuto del PNF non fece alcun cenno al re né alla monarchia. I tesserandi declamavano: “Nel nome di Dio e dell’Italia, giuro di eseguire gli ordini del duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario, col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista”. Quanto quel giuramento fosse vincolante si vide il 26 luglio 1943, Benché il partito avesse raggiunto il massimo degli iscritti ma non si registrò alcuna manifestazione di massa contro la revoca di Mussolini da capo del governo. Solo un labile cenno ricordava che dalla direzione del partito dipendeva l’“Unione Nazionale Fascista del Senato. Alcuni “storici”, come Emilio Gentile,  ne hanno dedotto che il PNF avesse prono ai suoi ordini il Senato del Regno. Così però non era. Infatti l’Unione raccoglieva solo una parte dei patres conscripti, come i senatori eran detti nell’antica Roma. Il capo del governo esigeva dai dipendenti pubblici il giuramento di fedeltà al duce in aggiunta a quello al re e ai suoi reali successori ma non ricambiava chiedendo ai suoi iscritti analogo impegno verso il re, benché il Gran consiglio fosse da un decennio “organo costituzionale”: un guazzabuglio di contraddizioni creato apposta per isolare sempre più il sovrano. La Camera Alta era e rimase un osso duro da rodere da parte del Duce, perché, pur con percorso segmentato, dalla promulgazione dello Statuto esso fu l’unico fulcro di un possibile “partito dello Stato”.
Il Senato, “partito del Re”
Dagli esordi, nel 1848, il Senato del Regno si trovò tra due fuochi. Da un canto doveva assumere la funzione di “partito del re”, dall’altro acquistare rappresentatività della nazione. Le nomine di patres talora precorsero l’annessione di nuove terre alla Corona sabauda  e le elezioni della Camera dei deputati, come quelle indette a distanza ravvicinata nel 1860-1861 proprio per suggellare il conseguimento dell’unità nazionale nei confini in quel momento possibili. Gli elettori furono convocati il 25 marzo 1860 per eleggere i deputati di un Regno comprendente Lombardia, ducati padani, legazioni pontificie e Toscana da poco annessi al Regno di Sardegna, previo plebiscito. Il 29 febbraio Vittorio Emanuele II conferì 33 laticlavi senatoriali a personalità di spicco delle nuove terre. Tra il 18 e il 23 marzo seguirono due piccole “infornate” (com’eran dette le nomine di parecchi senatori in uno stesso giorno), per un insieme di altri 33 membri. Il 29 febbraio era stato il turno soprattutto di lombardi; poi fu la volta di tosco-emiliani. Tutte designazioni di alto prestigio. Rispondevano allo scopo: conservare al Senato il rango di “legione sacra” della monarchia e farne la “vetrina del Regno”, il consesso delle figure più illustri nei campi indicati dalle ventuno categorie dallequali eran tratte:  politici, militari, magistrati, alti burocrati, docenti, con speciale riguardo per gli esponenti della cultura intesa quale sintesi suprema di otium e negotium, pensiero e azione, sapere scientifico e partecipazione alla vita politica nazionale.
Altrettanto avvenne sull'inizio del 1861, dopo l’annessione di Marche, Umbria e delle Due Sicilie. I comizi elettorali furono convocati per il 27 gennaio. Una settimana prima, il 20, il re nominò 57 patres. Aperta dallo storico, arabista e patriota siciliano Michele Amari e chiusa dal giurista napoletano Giuseppe Vacca (1810-1876), poi ministro di Grazia, giustizia e culti nel governo La Marmora (1864-65), l'“infornata” comprese una carrellata di celebrità, i cui nomi riassumevano decenni di storia e talora congiungevano l’età franco-napoleonica e i moti liberali del 1820-1831 con il regno d'Italia poco dopo proclamato dalle Camere (14 marzo 1861).
Rendere parzialmente elettivo il Senato per rivitalizzarlo?
Ancor prima di essere nominato presidente del Consiglio Camillo Cavour aveva auspicato che il Senato divenisse almeno parzialmente elettivo, proprio per levargli di dosso la patina di accolta di “camelots du Roi”. Però la svolta sanguigna assunta dalla Rivoluzione in Francia e la chiassosa inconcludenza della Camera dei deputati presto lo convinsero che non era prudente insistere su propositi innovatori proprio mentre occorreva far quadrato attorno alla Corona. La sconfitta militare a Novara, l’abdicazione di Carlo Alberto, il proclama di Moncalieri, il conflitto con gli ecclesiastici fecero il resto anche se proprio in Senato il programma di modernizzazione di Azeglio e di Cavour incontrò resistenze accentuate e se Vittorio Emanuele II tentò di sostituire il primo ministro con il presidente della Prima Camera, il sardo Giuseppe Manno. 
Nel 1852 il barone Domenico Carutti di Cantogno (1821-1909, nominato senatore nel 1889) osservò che il Senato doveva rappresentare “specialmente lo spirito di conservazione”, ma rilevò che “la facoltà della Corona, assoggettando soverchiamente la podestà esecutiva, diminui(va) la considerazione e la corsa dell’intera assemblea, qualunque sia l’autorità personale dei singoli suoi membri. Tale sistema impertanto o presto o poi dovrà cedere il luogo alla elezione, verso la quale inclinano sensibilmente le società moderne”. La sua opinione non nasceva solo dal fatto che tanti suoi sodali erano stati nominati senatori ma lui no.
A chiedere che il Senato venisse abolito rimasero i sempre più rari nostalgici della Convenzione repubblicana francese del 1792, l’assemblea che dapprima votò il regicidio e poi fu teatro dell’aggressione al suo tiranno Massimiliano Robespierre e segnò il passaggio dal Terrore al Termidoro. Più ampio e articolato rimase il ventaglio di quanti insistevano per l’elettività almeno parziale della Camera Alta. Argomentato e tenace fu il siciliano Francesco Crispi. Le vicende del Regno però rimasero troppo incalzanti perché si potessero modificare a cuor leggero natura e funzioni di un pilastro portante dello Stato qual era il Senato. La spedizione garibaldina per “Roma o morte”, intrecciata al brigantaggio infestante le regioni che essa avrebbe dovuto attraversare, il trasferimento della capitale a Firenze, abbrunato dalla sanguinosa repressione della protesta torinese, la guerra del 1866 e la rivolta repubblicana di Palermo, la sfortunata campagna garibaldina nell'Agro Romano spenta a Mentana nel novembre 1867, le insorgenze contro la tassa sulla macinazione delle farine, indispensabile per avviare al pareggio il bilancio d'esercizio, l'annessione di Roma e una geremiade di guai, compresa la devastante epidemie di colera del 1867 e da un canto indussero a lasciare lo Statuto qual era, dall’altro spinsero molti esponenti della Sinistra ad accostarsi alla Corona nella forma più esplicita: l'ingresso nella Camera Alta. 
Il 23 marzo 1876 Vittorio Emanuele II nominò senatore Isacco Artom (Asti, 1829-1900). Ebreo osservante, come Costantino Nigra “apprendista diplomatico” a fianco di Cavour, all'avvento della Sinistra (18 marzo) fu rimosso da segretario generale del ministero degli Affari Esteri e subito risarcito con l'inclusione tra gli “uomini del re”. Nel triennio seguente il Senato fu approdo di altri esponenti della Destra, preziosi per la continuità delle istituzioni nel cambio tra le due maggioranze, e di rappresentanti della Sinistra, a conferma che, al di sopra dei rispettivi retaggi, vi erano le “fortune indivisibili” dell’Italia e di Casa Savoia, come si sentiva ripetere nei banchetti politici e nelle rievocazioni patriottiche.
Era davvero difficile pensare che un italiano famoso per merito non fosse anche senatore, posto che non preferisse essere eletto alla Camera dei deputati. Qualcosa però appunto mancava alla Camera Alta: il conforto esplicito della “volontà della nazione”. Si vedrà se e come venne rimediato.
Aldo Mola

DIDASCALIA Carlo Alberto di Savoia-Carignano, Re di Sardegna. Busto in marmo. Un tempo orgoglio del Palazzo civico di Saluzzo, da lui donato al Comune.
  Tra i primi 58 patres nominati da Carlo Alberto il 3 aprile 1848 per costituire il Senato del regno di Sardegna spiccano Cesare Alfieri di Sostegno, Gaspare Coller, nominato presidente del consesso, Alessandro e Annibale di Saluzzo, Alberto Ferrero della Marmora, Carlo Ignazio Giulio, Giuseppe Manno, Giovanni Nigra, Emanuele Pes di Villamarina, Luigi e Giacinto Provana di Collegno, Vittorio Amedeo Sallier de la Tour, Lodovico Sauli d'Igliano, Roberto Tapparelli d'Azeglio, Girolamo Tornielli, Cesare Trabucco di Castagnetto. Con decreti successivi nominò senatori, fra altri, Ettore Gerbaix de Sonnaz, l'arcivescovo Luigi Nazari di Calabiana, Agostino Chiodo, Ferdinando Prat, Luigi Cibrario, Gabriele De Launay e don Ferrante Aporti.
   Nei primi tempi di regno Vittorio Emanuele II creò senatori Luigi Des Ambrois de Nevache, Federigo Sclopis, l'archiatra Spirito Riberi (al quale, spirando, il garbatissimo Carlo Alberto disse “Vi voglio bene, Riberi; ma muoio”), Luigi Provana del Sabbione, Cesare Della Chiesa di Benevello, Ferdinando Arborio Gattinara di Breme e Giuseppe Siccardi, che legò il nome all'abolizione di privilegi ecclesiastici.
     Per una rassega delle costituzioni vigenti in Italia  dal Settecento a oggi v. “Le Costituzioni italiane” a cura di A. Aquarone, M. D'Addio e G. Negri, Milano, Comunità, 1958, ricalcato in parte da “Le Costituzioni Italiane, 1786-1948” a cura di E. Fimiani e M. Togna, con prefazione di Maria Elena Boschi e prefazione di Giovanni Legnini, L'Aquila, Textus, 2015.
 



GIOLITTI 1915-1928
TRAMONTO DELLO STATISTA E DEL REGIME LIBERALE


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 29 gennaio 2023 pagg. 1 e 6.

Giovanni
                                                          Giolitti
                                                          ritratto da
                                                          Antonio Piatti
                                                          per la Città
                                                          di Cuneo
                                                          (rimosso dal
                                                          Palazzo
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                                                          immenso
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                                                          Mussolini, in
                                                          servile
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                                                          “duce” da
                                                          parte della
                                                          futura
                                                          volubile
                                                          “culla della
                                                          Resistenza”).
                                                            Il suo
                                                          profilo è
                                                          pubblicato in
                                                          “Cosmopolis.
                                                          Rivista
                                                           di
                                                          filosofia e
                                                          teoria
                                                          politica”
                                                          (Università di
                                                          Perugia) con
                                                          quelli di
                                                          Filippo
                                                          Turati,
                                                          Benedetto
                                                          Croce, Luigi
                                                          Sturzo,
                                                          Antonio
                                                          Gramsci,
                                                          Altiero
                                                          Spinelli,
                                                          Carlo e Nello
                                                          Rosselli,
                                                          Giuseppe
                                                          Capograssi e
                                                          di altri
                                                          eminenti
                                                          rappresentanti
                                                          della “Libertà
                                                          e democrazia
                                                          nella cultura
                                                          politico-giuridica




























                                                          italiana”.
Didascalia
    “Moriar in patria saepe servata” pare abbia detto Cicerone porgendo il collo ai sicari che gli mozzarono la testa e, orrendo omaggio, la recarono ad Antonio. Al generale Paolo Puntoni, suo primo aiutante di campo, Vittorio Emanuele III osservò imperturbabile: “Non si può dire che da quando s'è formata l'Italia le cose siano andate proprio bene per la mia Casa! Solo mio nonno (Vittorio Emanuele II) ne è uscito bene, Carlo Alberto (il bisnonno) dovette abdicare, mio padre (Umberto I) fu assassinato”. Lo aspettavano l'abdicazione e l'espatrio. Non andò molto meglio ai maggiori statisti italiani. Nel 1861, appena proclamato il regno d'Italia, Camillo Cavour morì cinquantunenne per una febbre così violenta da suscitare sospetti e leggende. Travolto dalla sconfitta nella prima guerra d'Africa nel 1896, Francesco Crispi chiuse gli occhi a Napoli nel 1901 pressoché dimenticato. Con alto senso dello Statoil suo principale avversario, Giovanni Giolitti, volle che gli fossero rese solenni onoranze. Mussolini finì affisso per i piedi a Piazzale Loreto dopo una morte ancora al centro di diverse narrazioni. Alcide De Gasperi visse gli ultimi mesi estromesso dal potere. Aveva fallito l'obiettivo di varare la legge elettorale, combattuta come “truffa”, che avrebbe assicurato stabilità al governo. Negli ultimi anni il liberale Luigi Einaudi si rifugiò tra i suoi libri all'“Eremo” di Dogliani. Rifiutato ogni patteggiamento mortificante, il socialista Bettino Craxi preferì morire ad Hammamet. E Giolitti? Non gli andò molto meglio.         
Per una pace nella giustizia interna e internazionale  
 Costretto a lasciare Roma sotto la minaccia di attentato alla sua vita (17 maggio 1915) Giolitti visse appartato nella villa avita a Cavour, un borgo ai piedi della Rocca. Valicato un ponticello sul rio Marrone, dal giardino di casa andava a passeggiare sotto la cortina di glicini nel vasto parco, rifugio della sua orgogliosa solitudine di deputato da 34 anni, quattro volte presidente del Consiglio e ministro dell'Interno. Mentre divampava la prima guerra mondiale, rimaneva la Stella Polare dei “moderati”: liberali pensosi, democratici veri e cattolici conciliati con lo Stato. 
  Dal seggio di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo il 14 agosto 1916 auspicò, con la vittoria, “la cessazione del più immane macello di uomini che lo storico ricordi e una pace sicura”. Un anno dopo indicò le fondamenta della futura ricostruzione: “Sarebbe pericolosa illusione credere che si possa riprendere con poche varianti l’andamento della politica estera a base di trattati segreti e della politica sociale ed economica del periodo storico che ha preceduto la guerra. Quel periodo è definitivamente chiuso, come fu chiuso il periodo dell’antico regime dalla rivoluzione francese. Questa guerra, che non è più solo un urto di eserciti ma un conflitto di popoli che vi gettarono senza misura vite ed averi, ha dimostrato la necessità di profonde mutazioni nella condotta della politica estera, ha messo in vista le eroiche virtù del nostro esercito e del nostro popolo, ma, d’altra parte, ha in stridente contrasto rilevato insaziabile avidità di danari, disuguaglianze nei sacrifici, ingiustizie sociali; ha mutato le condizioni della pubblica economia, ha concentrato ricchezze in poche mani, ha accresciuto in modo senza precedenti le ingerenze dello Stato e quindi le responsabilità dei governi. È inevitabile che, a guerra finita, lo spirito pubblico, specialmente nelle classi popolari, si trovi profondamente mutato. Quando milioni di lavoratori delle città e della campagna, la parte più virile della nazione, affratellati per anni dai comuni pericoli, sofferenze e disagi eroicamente sopportati per la patria, torneranno alle povere loro case, ritorneranno con la coscienza dei loro diritti e reclameranno ordinamenti improntati a maggiore giustizia sociale che la patria riconoscente non potrà loro negare”. Poche settimane dopo l’Italia si misurò con la rotta di Caporetto (24 ottobre) e l’Europa con la cosiddetta “rivoluzione d’ottobre” in Russia (7-16 novembre secondo il calendario giuliano).
   Il 12 agosto 1918 da Cuneo ancora una volta Giolitti parlò al Paese: “Possano gli avvenimenti bellici del 1918 avvicinare il termine della orrenda carneficina e fare che una giusta pace consenta al mondo il ritorno alla vita civile, al progresso, alla libertà. Ma sia pace e non tregua, non ritorno alla politica degli armamenti, preparazione di nuovi conflitti. L’immane catastrofe che si abbatté sul mondo persuada i popoli tutti della assoluta necessità di grandi riforme negli ordinamenti interni ed internazionali, fondandoli sulla giustizia e sulla libertà, poiché se le assemblee dei rappresentanti dei popoli continueranno a non avere sulla politica estera un’influenza decisiva e se i rapporti tra le Nazioni continueranno ad essere retti con le vecchie norme della diplomazia, sarà vano sperare in una pace sicura e i progressi delle scienze non serviranno ad assicurare ai nostri figli un migliore avvenire, ma a rendere i futuri conflitti così orribili da far impallidire il ricordo di quelli ai quali ora assistiamo”. Come provò la seconda guerra mondiale, chiusa con il lancio di due bombe atomiche americane sul Giappone.
   Il 12 dicembre 1918 le difficoltà di instaurare la “pace sicura” ispirarono anche il suo breve discorso al Consiglio provinciale di Cuneo: “Non solo il nemico è vinto, non solo è distrutto l’esercito nemico, ma sono distrutti anche gli imperi nemici, e il principio di nazionalità trionfa in tutta l’Europa. La riconoscenza del popolo italiano verso i valorosi nostri soldati e verso i condottieri che li guidarono alla vittoria sarà eterna, come eterno sarà il nome degli eroi che sacrificarono la vita per la salvezza e la grandezza della Patria. L’ingresso trionfale del Re d’Italia a Trento e Trieste, e la certezza di una pace che soddisfi tutti gli italiani, segnano l’inizio di una èra nuova nella storia d’Italia. Questa sarà èra di libertà, di giustizia sociale, di fecondo lavoro, di progresso, di prosperità, se la pace secondo i principi del grande presidente Wilson, sarà una pace definitiva fra i popoli, e se le classi ricche accetteranno con patriottico slancio i sacrifici finanziari che occorrono per tenere alto il credito dello Stato, delle Province e dei Comuni, e per mantenere gli impegni assunti verso le classi popolari, e specialmente verso i combattenti, i mutilati e le famiglie dei morti in guerra. L’eroico esempio di milioni di soldati che alla patria offersero la vita dovrà far parere lieve qualunque sacrificio finanziario”.
A chi il potere di deliberare lo stato guerra?
   Nel discorso al Consiglio provinciale di Cuneo del l0 agosto 1917 Giolitti propose di trasferire dal re al Parlamento la deliberazione dei trattati internazionali. Ne fece il caposaldo del suo programma postbellico.Tornato in Aula (da osservatore poco propenso a prendervi la parola), dal seggio di presidente del Consesso cuneese nel dopoguerra Giolitti riassunse il programma nazionale “in una sola parola: lavorare” (12 agosto 1919). Urgevano ordine pubblico e disciplina per scongiurare il collasso finanziario dello Stato. La sovranità sulla politica estera rimase il perno dei suoi ragionamenti, perché ne dipendevano le spese militari, il ritorno alla normalità, il superamento delle tensioni nel Paese. Vi tornò nel discorso di Dronero del 12 ottobre 1919. Senza evocare le prerogative della Corona osservò “la più strana delle contraddizioni” degli ordinamenti italiani:“Mentre il potere esecutivo non può spendere una lira, non può modificare in alcun modo gli ordinamenti amministrativi, non può creare né abolire una pretura, un impiego d’ordine, senza la preventiva approvazione del parlamento, può invece, per mezzo di trattati internazionali assumere, a nome del Paese, i più terribili impegni che portino inevitabilmente alla guerra; e non solo senza le approvazioni del Parlamento, ma senza che né Parlamento né Paese ne siano, o ne possano essere in alcun modo informati [...]. Nel 1848, quando fu sancito l’articolo 5 dello Statuto, il segreto diplomatico era norma di tutti gli Stati d’Europa, e le guerre erano fatte da eserciti professionali; ora invece [...] le guerre sono diventate conflitti di popoli, che si gettano uno sull’altro con tutta la massa della popolazione atta alle armi, con tutti i mezzi di distruzione dei quali possono disporre, e il conflitto cessa soltanto quando una delle parti è in completa rovina. È quindi vera necessità storica che i rapporti internazionali siano ora regolati dai rappresentanti dei popoli, sui quali è giusto che cadano queste terribili responsabilità [...].Come corollario necessario dell’autorità data sulla politica estera al parlamento, la dichiarazione di guerra dovrà sempre esser sottoposta in precedenza alla sua approvazione. Sarebbe una grande garanzia di pace se in tutti i paesi fossero le rappresentanze popolari a dirigere la politica estera; poiché così sarebbe esclusa la possibilità che minoranze audaci, o governi senza intelligenza e senza coscienza riescano a portare in guerra un popolo contro la sua volontà”.
   Lo Statuto era flessibile.Toccava al Parlamento, non a Vittorio Emanuele III, fare la prima mossa. 
Incaricato dal re di formare per la quinta volta il governo, Giolitti propose di conferire al Parlamento il potere di “deliberare” guerra (altra cosa dal “dichiararla” e dal “proclamarla”: prerogativa del sovrano), ma il disegno di legge non fu discusso. Sciolta la Camera, lo ripresentò. Invano. Si dimise. Se ne videro le conseguenze dal 10 giugno 1940 quando per la seconda volta l'Italia entrò in guerra contro grandi potenze (Francia, Gran Bretagna, Unione Sovietica, Stati Uniti d'America...) senza approvazione preventiva delle Camere, ormai ammutolite.  
Dal 1923: a u secolo dall'amaro crepuscolo di uno statista liberale
Rassegnate le dimissioni da presidente del Consiglio (giugno 1921), Giolitti vide allontanarsi la soluzione del problema che costituiva il porro unum et necessarium della sua visione della Nuova Italia. Non ne parlò più né in Aula né in pubblico. Nell’ultimo discorso agli elettori (Dronero, 16 marzo 1924) ripercorse rapidamente “le ragioni dell’azione politica”. Evocò la guerra implacabile condotta contro di lui dal partito popolare e citò la lettera a Malagodi (“che cosa può venire di buono per il paese da un connubio don Sturzo-Treves-Turati?”). Non disse parola sulla crisi di fine ottobre 1922. Il governo Mussolini non era nato in Parlamento ma era costituzionale. Nominato dal sovrano, aveva prestato giuramento di fedeltà al re e allo Statuto, si era presentato alle Camere e aveva ottenuto la fiducia “dai partiti liberali e democratici alla quasi unanimità”. Era stato il Parlamento, non il governo, a varare la nuova legge elettorale, detta “Acerbo” dal nome del suo relatore, approvata a maggioranza dalla commissione presieduta da Giolitti stesso, per parte sua favorevole al ritorno al collegio uninominale, “più rispondente all’essenza del sistema rappresentativo ed al sentimento del nostro popolo che desidera scegliere liberamente e direttamente i suoi rappresentanti”. Lo statista concluse evocando le glorie del partito liberale e la propria coerenza “in nome dei principi di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di devozione alla monarchia”. Il proposito di trasferire dalla Corona al Parlamento l’“approvazione dei trattati internazionali”, ovvero la sovranità nazionale, era ormai archiviato.
   Il 7 febbraio 1924 aveva presieduto il consiglio provinciale di Cuneo. Vi rivendicò di aver salvato l’indipendenza di Fiume e si dichiarò lieto che il governo Mussolini avesse completato la sua opera conseguendone l’annessione. Rieletto deputato nelle elezioni del 6 aprile, nulla disse nella seduta consiliare cuneese del 15 maggio. Il 13 ottobre 1924 Giolitti fu rieletto presidente con 37 preferenze, 5 schede bianche e due voti dispersi. Ringraziò i colleghi per averlo confermato a ricoprire l’ufficio. Non aggiunse altro. Non presenziò alla seduta del 22 dicembre 1924, presieduta dal suo fido Marco Aurelio Saluzzo di Saluzzo, già sottosegretario di stato e senatore. Tornò in Consiglio il 20 aprile 1925. Il 10 agosto, benché assente, fu eletto ancora una volta presidente con appena 29 preferenze su 37 presenti e 60 consiglieri in carica. Il 15 ottobre presiedette i lavori. Sapeva che era ormai giunto per lui “il momento del collocamento a riposo”, ma avrebbe obbedito di buon grado continuando a tenere l’“alto ufficio” conferitogli con mandato quadriennale.
   Sennonché il 17 dicembre 1925 ventitré consiglieri sottoscrissero la richiesta che il presidente della Provincia fosse politicamente allineato col governo nazionale: doveva avere la tessera del PNF o il beneplacito di Mussolini. L’amministrazione locale attendeva un cospicuo finanziamento straordinario per la prosecuzione di opere pubbliche avviate da anni. Come a Roma voleva il “duce”, furono i cuneesi (consiglieri del partito popolare, vari “liberali”, gli sparuti nazionalfascisti) a tradire Giolitti. Lo privarono della tribuna alternativa all’Aula parlamentare per rivolgersi al Paese, come aveva fatto anche nella Grande Guerra. In risposta, il 21 dicembre si dimise da presidente e, “per elementare senso di dignità”, da rappresentante dei mandamenti di Prazzo e San Damiano. Lo comunicò agli elettori da Roma, ove il 15 ottobre 1882 aveva datato il programma di aspirante deputato. Là egli era stato mandato dagli elettori politici e là rimase, almeno idealmente, deputato in carica sino all’ultimo giorno di vita. Tanti cuneesi lo tradirono o non lo capirono mai. Venne dimenticato per quasi mezzo secolo: “Ministro della mala vita” secondo la miope e ingenerosa etichetta appiccicatagli dall'interventista Gaetano Salvemini e da tanti sedicenti democratici. Ora lo deplora anche Paolo Mieli nel “Corriere della Sera”.
   Quel 21 dicembre fu un triste Solstizio d’Inverno per il partito liberale che nel discorso del 16 marzo 1924 Giolitti aveva chiesto di votare per non disperdere il ricordo di Cavour, Azeglio, Rattazzi, Lanza e Sella. Il 18 gennaio 1926 il consesso cuneese prese atto sbrigativamente delle sue dimissioni. Il consigliere Giorgio Tornari cercò invano di leggerne o farne leggere il testo. Il presidente provvisorio della seduta si oppose perché, a suo dire, era già iniziata la votazione. Così “a larga maggioranza” le sue dimissioni furono approvate senza neppure la rituale proposta di ripensamento. Con lui si dimisero Marcello Soleri, Aurelio di Saluzzo e altri liberali, seguiti da socialisti.
   I discorsi del 12 ottobre 1919 e del 16 marzo 1924 vanno confrontati con le relazioni di presentazione dei disegni di legge del suo quinto governo: un’eredità impegnativa non solo per quelli immediatamente seguenti ma anche per il secondo dopoguerra: controllo delle industrie da parte dei lavoratori, trasformazione del latifondo e colonizzazione interna e obbligo dell'istruzione a coronamento del disegno di legge sulla cittadinanza presentato alla Camera il 7 luglio 1911, trasformato nella legge 13 giugno 1912, n. 555, che indicò i requisiti dell’“italianità”, a particolari condizioni concessa agli stranieri.
L'eredità dell' “età liberale” 
   Nei quarantasei anni dalla prima elezione alla Camera dei deputati e nei quaranta di consigliere provinciale Giolitti parlò solo nelle sedi istituzionali o, in forma programmata, ai suoi elettori. In rarissime funzioni civili pronunciò poche parole. Predilesse il contatto diretto con la popolazione. Stringeva mani, ricambiava saluti, chiacchierava con la curiosità del pius agricola gravato della responsabilità di pater familias della Nuova Italia. Quando poteva conversava in dialetto, con Vittorio Emanuele III o con i compaesani. Non si rivolse mai alla “piazza”. Non mirò mai ad attizzare passioni irrazionali. Additò invece gli ideali dai quali era nata l’Italia libera, indipendente e una, con un Parlamento demandato a modificarne gli ordinamenti secondo la volontà dei cittadini, dal 1912 elevati a elettori, compartecipi della sovranità. Preparò sempre accuratamente i discorsi. Li stese, corresse e copiò di suo pugno. Ciascuno di essi era frutto di lunghe ricerche sintetizzate in montagne di appunti. Ogni discorso veniva poi distillato in cartelle fitte di frasi lapidarie, spesso con parole sottolineate. Infine stringeva il tutto in una scaletta sintetica. La parola fluiva alta, solenne, rapida. Il 16 marzo 1928 motivò il suo voto contrario alla legge, proposta dal ministro nazionalfascista Alfredo Rocco, che attribuiva al Gran consiglio del fascismo la scelta dei deputati. Poiché “esclude(va) qualsiasi opposizione di carattere politico, (essa) segna(va) il decisivo distacco dal regime retto dallo Statuto”. 
   “Dicendi peritus” anche per lui il “politico” è anzitutto “vir bonus” (parole di Cicerone), orgoglioso di rappresentare alla Camera elettiva i “fieri montanari” della sua terra, senza mai rinnegare “la fede liberale che professai in tutta la mia vita, e che fu quella di tutti i nostri rappresentanti dal 1848 in poi”.
Aldo A. Mola

DIDSCALIA: Giovanni Giolitti ritratto da Antonio Piatti per la Città di Cuneo (rimosso dal Palazzo Comunale nel cui Salone d'onore campeggiò un immenso ritratto di Mussolini, in servile omaggio al “duce” da parte della futura volubile “culla della Resistenza”).
  Il suo profilo è pubblicato in “Cosmopolis. Rivista  di filosofia e teoria politica” (Università di Perugia) con quelli di Filippo Turati, Benedetto Croce, Luigi Sturzo, Antonio Gramsci, Altiero Spinelli, Carlo e Nello Rosselli, Giuseppe Capograssi e di altri eminenti rappresentanti della “Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana”.
 




GIOVANNI GIOLITTI
COME NACQUE E PENSO' UNO STATISTA 


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 22 gennaio 2023 pagg. 1 e 6.

Didascalia
    Oggi tanti rimpiangono i “partiti”. Si dimentica che in principio vi era lo Stato, la monarchia costituzionale, che si valeva di una dirigenza sin dall'infanzia formata all'idea di operare per l'Italia: diplomatici, militari, docenti, scienziati, artisti, ecclesiastici soccorrevoli e una miriade di funzionari e impiegati pubblici di condizioni modeste ma fieri della propria missione civile. Il piemontese Giovanni Giolitti ne è un esempio illustre. Memore del proprio lungo “apprendistato”, quando fu al governo rispettò sempre i talenti dei Travèt, ai quali non venne mai né chiesta né imposta una “tessera” ma solo la fedeltà al servizio dello Stato. Merita di essere meglio conosciuto.       
Candidato alla Camera a sua insaputa, eletto e dichiarato ineleggibile
Nelle Memorie della mia vita Giovanni Giolitti (Mondovì, 27 ottobre 1842-Cavour, 17 luglio 1928) scrisse di aver appreso di essere candidato alla Camera dalla “lettera circolare” in cui Antonio Riberi, deputato uscente, comunicò che non si sarebbe ripresentato e “senza dir(gli) niente” avanzò il suo nome. Aggiunse: «Fui appoggiato anche dagli altri due deputati che si ritiravano [Luigi Ranco, ingegnere, e Spirito Riberi, avvocato, NdA]; ma, non tenendoci molto, rifiutai di andare a fare il solito giro di campagna elettorale.» La realtà fu del tutto diversa da come la narrò. Va ricordata perché essa incise sulla maturazione di Giolitti dall'alta burocrazia alla politica e lo segnò per sempre. La sua candidatura venne affacciata il 9 settembre 1882 in una riunione di notabili confluiti dal Piemonte a Dronero per lo scoprimento del monumento di Gustavo Ponza di San Martino, giureconsulto e ministro del regno di Sardegna. Lì il munifico conte Deodato Pallieri, che da vent'anni propiziava la burocratica carriera di Giolitti (entrato in magistratura a vent'anni e dal 1869 “prestato” al ministero delle Finanze, ove collaborò con Quintino Sella) assicurò a Riberi la nomina a senatore se avesse rinunciato alla Camera. A volerlo deputato fu anzitutto il presidente del Consiglio Agostino Depretis, massone, che il 21 agosto, in vista delle elezioni lo nominò consigliere di Stato ponendolo al riparo dall'estrazione a sorte tra i deputati eccedenti il numero riservato ai pubblici dipendenti e di decadere, come era accaduto a Giosuè Carducci nel 1876.
    Il  16  settembre  Francesco Blanchi , fratello di un prestigioso notaio locale, propose a Giolitti la candidatura. Altri seguirono. Sondati alcuni deputati e notabili, egli accettò ma, fiero della “storia di famiglia” e di quanti ne avevano propiziato l'ascesa (a cominciare dagli zii materni, Melchior e Luigi, magistrati, e Alessandro Plochiù, generale: tutti scapoli) precisò che non intendeva “fare fiasco” e rischiare “una meschina figura”. A istruirlo e a dettargli quasi parola per parola la lettera programmatica agli elettori del Collegio di Cuneo furono alcuni amici influenti: Angelo Garelli, procuratore del Re, l'ex deputato Agostino Moschetti e Nicolò Vineis, massone e direttore del quotidiano cuneese “La Sentinella delle Alpi”, che da quasi trent'anni era il regista delle elezioni parlamentari locali. Dopo turbinosa altalena di candidature Giolitti scese in campo in una terna comprendente Sebastiano Turbiglio, massone, docente di storia della filosofia alla “Sapienza” di Roma, e Luigi Roux, direttore della “Gazzetta Piemontese” (futura “La Stampa”) di Torino, contro il quale si schierò Vittorio Bersezio, già direttore dello stesso quotidiano, storico e autore delle celebri Miserie 'd Monsù travet.
   Il 15 ottobre Giolitti vergò laboriosamente la “lettera agli elettori” e la mandò a Garelli che ne cancellò un paio di frasi a suo avviso controproducenti e la affidò alla “Sentinella”. Su suggerimento di Moschetti l'aspirante deputato scrisse l'inciso famoso: «Allorché gli uomini di Stato più eminenti e gli operai sono concordi in un programma, vi ha la certezza che questi risponde ai veri bisogni del Paese». Dall'esordio Giolitti si mostrò dunque “politico” autentico: capace di ascolto, di sintesi e animato da princìpi saldi e condivisi. Non si mosse da Roma ma sollecitò il sostegno di decine di notabili (sindaci, pretori, farmacisti, militari, il padre di un parroco della sua valle Maira...) con lettere personali. sollecitandone il sostegno. Alle 19 del 29 ottobre il procuratore Garelli gli telegrafò: era il primo eletto con 5310 preferenze su 6864 votanti. Un successo clamoroso, superiore alle sue prudenti previsioni.
   Sennonché il 13 marzo 1883 la Giunta permanente sulle ineleggibilità e incompatibilità parlamentari, formata dai deputati più prestigiosi, stabilì che era ineleggibile perché retribuito dall'erario con propine per le sue funzioni di consigliere di Stato. Giolitti se ne adontò perché percepì che la pronuncia ne metteva in discussione l'onestà morale prima che politica, quasi avesse truffato gli elettori, candidandosi benché ineleggibile. Approntò scrupolosamente la difesa. Il 21 aprile la illustrò in Aula. Aveva percepito 20 lire per ogni pratica esaminata, ma le aveva sbrigate quasi sempre a casa propria facendo risparmiare allo Stato “le spese di locale, carta, oggetti di cancelleria, lumi e simili”. Richiesti di approvare “per alzata” la proposta di decadenza i presenti rimasero seduti.
   Per un soffio l'Italia rischiò di non averlo deputato, né capofila dell'opposizione piemontese al governo Depretis nel 1886, né ministro del Tesoro e delle Finanze nel governo presieduto da Francesco Crispi (1889-1891), né cinque volte presidente del Consiglio e ministro dell'Interno tra il 1892 e il 1921, né altro ancora. Gli otto mesi dalla candidatura alla Camera alla conferma dell'elezione a deputato di “homines abhorrentes servitium et amatores libertatis inctintu naturali” (come gli aveva scritto Pallieri) furono per lui di noviziato alla “politica” e innervarono la sobria “retorica” dei suoi interventi in Parlamento sino al 16 marzo 1928. Meritano di essere riletti.
Amministratori e politici? “Una riunione di amici”
Per comprendere la sua concezione della politica, dell'esercizio del mandato parlamentare e la sua coerenza di monarchico e liberale al servizio dello Stato nelle Aule parlamentari in continuità con gli uffici di pubblico impiegato ai ministeri di Grazia e Giustizia e delle Finanze, giova passare in rassegna i pochi discorsi da lui pronunciati al di fuori delle Camere dal 1886 al 1899 (anche per difendere il suo onore dalle accuse mossegli in connessione con lo “scandalo della Banca Romana” che nel 1893 gli costò le dimissioni da presidente del governo), specie nel Consiglio provinciale di Cuneo di cui fu componente dal 1886 al 1925. 
  Lasciata il 16 marzo 1905 la guida del governo, per seri motivi di salute, il 14 agosto Giolitti fu eletto presidente del Consiglio provinciale di Cuneo. In tale veste espose la sua visione di “buona amministrazione”: «Il nostro consesso – disse – non è che una riunione di amici che si stimano e si amano, animati dal solo intento di procurare il bene degli amministrati, non divisi da dissensi di natura politica, poiché tutti sono devoti alle patrie istituzioni; e, se qualche volta vi è lotta, ciò dipende unicamente dal fatto che ognuno vede le cose dal proprio punto di vista.»
   Il 2 ottobre 1910 pronunciò poche eloquenti parole all’inaugurazione della nuova sede della Cassa di Risparmio di Cuneo. Mentre a Roma, da lui propiziato e assecondato, era sindaco Ernesto Nathan, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia, e alla guida di comuni e province si moltiplicavano i “blocchi popolari” di liberalprogressisti, radicali e socialriformisti, nel silenzio “ossequioso e ammirante” dei presenti Giolitti scandì che la Cassa era il punto di convergenza e di collaborazione “delle idee clericali e socialiste, moderate e radicali”. «La questione sociale – aggiunse – noi la risolviamo elevando le classi più umili a livello di quelle più ricche”.
   Pochi giorni prima era stato ricevuto segretamente da Vittorio Emanuele III nel Castello di Racconigi. Si avvicinavano le celebrazioni del cinquantesimo del regno. Urgeva un cambio al vertice del governo. Da Cuneo Giolitti fece sapere di non aver preconcetti nei confronti di chi aveva veduto in Luigi Luzzatti l’argine laico contro l’avanzata dei cattolici deputati. Al tempo stesso non coltivava alcun altro pregiudizio: «Ognuno valga per ciò che sa e per il lavoro che compie.» Le ideologie appartenevano al passato remoto, anche perché premevano impegni che nessuno dei presenti immaginava, a cominciare dall’impresa di Libia. Non solo Marx era stato mandato in soffitta (o così gli pareva o sperava). La “pace sociale” era premessa indispensabile per affrontare nuove e severe prove, giacché «nessuna guerra moderna può svolgersi senza la decisa volontà del popolo che la fa», lontano dal “Paese che lavora. Il 30 marzo 1911, dopo il cinquantenario della proclamazione di Roma a capitale d’Italia (lasciata celebrare a Luzzatti) Vittorio Emanuele III gli affidò per la quarta volta il governo del Paese.
   All’inaugurazione della prima Camera eletta col suffragio quasi universale maschile (1913), dopo  circa tre lustri di governo, Giolitti non fu affatto scosso da chi, come il socialista Giuseppe Raimondo, ne annunciava il tramonto o, come Arturo Labriola (futuro ministro del Lavoro nel suo V governo, 1920-1921), sentenziava che vi era «da una  parte un’Italia rivoluzionaria nazionalista e dall’altra un’Italia socialista, ma non c’e(ra) più un’Italia giolittiana». Lo statista sapeva bene che vi era la cattolica, maggioritaria nel Paese, e che solo il cosiddetto “patto Gentiloni”, approdo della sospensione non expedit da parte di Pio X sin dal 1904 (come chiarito da Gianpaolo Romanato nella biografia di Pio X), aveva scongiurato divenisse più clericale di quanto, per contrapposti motivi, molti volevano. Conscio che l’Italia aveva necessità di riforme profonde nell’amministrazione della giustizia, nel sistema scolastico e nei rapporti tra capitale e lavoro, lo statista affermò che esse andavano varate subito ma avrebbero dato frutti solo sul lungo periodo. Per evitare che «il partito monarchico divent(asse) in molta parte d’Italia una minoranza» occorrevano però misure immediate e incisive. I fasci siciliani, i moti di Lunigiana del 1894 e la vasta sommossa/insurrezione del 1898 avevano indicato la via maestra: il riordino completo della fiscalità per scongiurare il declino della piccola proprietà, che costituiva «la più valida difesa dell’ordine sociale». Le classi dirigenti dovevano persuadersi che «senza qualche sacrificio esse non possono sperare durevole quella pace sociale senza cui non vi è sicurezza né per le persone né per gli averi». Lanciò un monito severo: «Io deploro quanto altri mai la lotta di classe; ma, siamo giusti, chi l’ha iniziata?».
Venti di guerra, tra irredentismo, espansione coloniale e crisi europea
Nel primo decennio del Novecento, mentre una moltitudine di movimenti, gruppi ideologici, circoli letterari, artistici e riviste davano voce alla “rivolta ideale” e dai salotti molti si appellavano alla “piazza” contro il grigiore del governo, Giolitti varò leggi speciali per accelerare il risanamento di regioni e plaghe arretrate. Al conterraneo Luigi Facta spiegò che l'Italia doveva evitare di avventurarsi in una guerra con l'impero austro-ungarico perché avrebbe dovuto dirottarvi le sue risorse e sottrarle allo sviluppo del Mezzogiorno, interrompendo l'unificazione effettiva, così provocando la rivoluzione e la crisi della monarchia: obiettivo dei repubblicani che, fece notare, erano i precipui alfieri dell'irredentismo.
   Il 28 luglio 1911 il ministro degli Esteri Antonino Paternò Castello di San Giuliano mandò a Giolitti e al sovrano il “memoriale” segretissimo sulla “probabilità” che entro pochi mesi l’Italia potesse essere “costretta a compiere la spedizione militare in Tripolitania”. Ne nasceva la «probabilità (probabilità non certezza) che il successo di tale spedizione darebbe al prestigio dell’Impero Ottomano, spinga all’azione contro di esso i popoli balcanici, entro e fuori l’impero, oggi più che mai irritati contro il regime centralista giovane-turco, ed affretti una crisi, che potrebbe determinare e quasi costringere l’Austria ad agire nei Balcani». All’orizzonte gonfiava la tempesta della guerra europea, temuta, schivata, sempre incombente. Chi avrebbe dato fuoco alla miccia?
   Il programma del settembre 1900 per l’unione dei partiti liberali giunse a una seconda svolta. Dopo l'incontro segreto del 16 settembre nel Castello di Racconigi, ove il re fissò con lui l'agenda dell'impresa di Libia, e dopo la dichiarazione di guerra all'impero turco ottomano, il 7 ottobre 1911 Giolitti ne spiegò i motivi al Teatro Regio di Torino: «Politica democratica non è sinonimo di politica fiacca, di politica impotente; la storia di tutti i popoli e gli avvenimenti che succedono sotto i nostri occhi dimostrano invece che i governi i quali sanno di rappresentare tutte le classi sociali sono i più gelosi custodi dei grandi interessi del loro paese; appunto perché non rappresentano interessi di persone o di limitate classi, ma quelli di tutto il popolo, essi sentono più vivamente il dovere di non pensare solamente alle questioni di immediato interesse, ma di assicurare anche il lontano avvenire del paese. La politica estera non può, come la politica interna, dipendere interamente dalla volontà del governo e del Parlamento ma, per assoluta necessità, deve tenere conto di avvenimenti e di situazioni che non è in poter nostro di modificare e talora neanche di accelerare o ritardare. Vi sono fatti che si impongono come una vera fatalità storica, alla quale un popolo non può sottrarsi senza compromettere in modo irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del governo di assumere tutte le responsabilità, poiché una esitazione o un ritardo può segnare l’inizio della decadenza politica, producendo conseguenze che il popolo deplorerà per lunghi anni, e talora per secoli.»  
   Profondamente radicato nella tradizione del Vecchio Piemonte, ove il lavoro era terreno di sfida civile dai tempi delle Associazioni agrarie di metà Ottocento, animato da una visione biblica del cammino dei popoli, all'inaugurazione dell'ospedale per l'infanzia “Regina Elena” in Cuneo il 14 agosto 1914 Giolitti meditò ad alta voce. Bisognava «procurare alla Patria cittadini futuri sani ed equilibrati, perché bastano due generazioni ben curate e ben educate a far rifiorire i destini di una Nazione». Lo stesso giorno, «in un momento angoscioso per tutta l’Europa e grave per il nostro Paese», dal seggio di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo egli dichiarò la solidarietà al governo presieduto da Antonio Salandra: «Senza distinzione di partiti, appoggeremo lealmente e fortemente in quella via che creda di seguire per la tutela dei nostri diritti e per assicurare all’Italia il posto che le spetta nel mondo.» Non era un’apertura di credito illimitata. Cinque giorni prima aveva infatti confidato al ministro degli Esteri, San Giuliano, la priorità di «coltivare i nostri buoni rapporti con l’Inghilterra, e fare quanto ci è possibile per limitare o abbreviare la durata e le conseguenze del conflitto». Senza entrarvi. Gli eventi ebbero tutt’altro corso: la firma dell'arrangement di Londra all’insaputa del Parlamento e del governo stesso (26 aprile 1915), la denuncia dell'alleanza con Berlino e Vienna (3 maggio), la dichiarazione di guerra contro l’Impero austro-ungarico in nome del “sacro egoismo” (23 maggio con effetto dall'indomani).
   Da quando il 17 maggio 1915 dovette lasciare precipitosamente Roma perché il governo non ne garantiva l’incolumità da un attentato mortale ormai in corso di attuazione, lo statista riparò a Cavour. Al di là di quanto disse nello scambio epistolare e in confidenze anziché dal seggio di deputato, Giolitti parlò dallo scranno di presidente del consiglio provinciale. Il 5 luglio 1915 dichiarò: «Quando il Re chiama il paese alle armi, la provincia di Cuneo, senza distinzioni di parti e senza riserve, è unanime nella devozione al Re, nell’appoggio incondizionato al Governo, nell’illimitata fiducia nell’esercito e nell’armata», impegnati in un conflitto dal quale dipendeva «l’avvenire dell’Italia per un lungo periodo della sua storia». Ma a differenza di Salandra e del ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, aveva chiaro che la guerra sarebbe durata anni. Nella forzata solitudine constatava l’imparità dei governi al “più grave disastro dell'umanità dopo il diluvio universale” anche a giudizio del premier britannico David Lloyd George. Chi avrebbe riacceso i lumi sull'Europa? La sua vita di statista era finita?
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Giovanni Giolitti (1842-1928), statista della Nuova Italia. Se ne legge un profilo nella rivista “Cosmopolis” dell'Università di Perugia.




IL TRICOLORE ITALIANO
230 ANNI  DI STORIA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 15 gennaio 2023 pagg. 1 e 6.

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                                                          nascita della
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                                                          L’Artistica,
                                                          Savigliano,
                                                          2008), con
                                                          prefazioni dei
                                                          sindaci di
                                                          Asti e di
                                                          Castell’Alfero,
                                                          Angelo
                                                          Marengo, di
                                                          Mercedes
                                                          Bresso, Aldo
                                                          Mola e scritti
                                                          di altri
                                                          autori: Amedeo
                                                          di Savoia,
                                                          Duca d'Aosta,
                                                          Marco
                                                          Bortolotti,
                                                          Fausto
                                                          Carpani,
                                                          Sabina
                                                          Fornaca,
                                                          Corrado Testa
                                                          e Guido Peila,
                                                          che ripercorre
                                                          le gesta di
                                                          Giuseppe De
                                                          Rolandis in
                                                          “L'Ussaro sul
                                                          Tetto” di Jean
                                                          Jono, dal
                                                          quale venne
                                                          tratto il film
                                                          diretto da
                                                          Jean-Paul
                                                          Rappenau e
                                                          interpretato
                                                          da “Fernandel”
                                                          (Fernando
                                                          Contandin,
                                                          nativo di
                                                          Perosa
                                                          Argentina, il
                                                          celebre “don
                                                          Camillo”). Il
                                                          volume di Ito
                                                          De Rolandis è
                                                          suggellato
                                                          dalla
                                                          fotografia di
                                                           Carla
                                                          Bruna Tedeschi
                                                          (poi moglie di
                                                          Sarkozy)
                                                          recante il
                                                          tricolore
                                                          italiano nella
                                                          cerimonia di
                                                          apertura delle
                                                          Olimpiadi
                                                          invernali di
                                                          Torino (2006).
                                                           
                                                           Quello
                                                          approvato a
                                                          Reggio Emilia
                                                          il 7 gennaio
                                                          1797 è solo
                                                          uno dei
                                                          tricolori
                                                          ideati per la
                                                          Nuova Italia.
                                                          La loro
                                                          molteplicità
                                                          esprime un
                                                          sentimento
                                                          diffuso dei
                                                          cittadini
                                                          italiani di
                                                          ieri e di
                                                          oggi: di varie
                                                          confessioni
                                                          religiose ed
                                                          etnie,
                                                          accomunati
                                                          dall’orgoglio
                                                          dei propri
                                                          diritti e dal
                                                          senso dei
                                                          doveri verso
                                                          lo Stato. A
                                                          beneficio
                                                          della memoria
                                                          del “défroqué”
                                                          Giuseppe
                                                          Compagnoni va
                                                          ricordato che
                                                          nell'Assemblea
                                                          della
                                                          Repubblica
                                                          Cispadana
                                                          proprio lui si
                                                          dichiarò
                                                          contrario
                                                          all'elevazione
                                                          del
                                                          cattolicesimo
                                                          a  
                                                          “religione
                                                          dello Stato”.
                                                          Dopo la
                                                          Restaurazione
                                                          non riprese
                                                          l'abito
                                                          talare; visse
                                                          a Milano
                                                          campando della
                                                          propria
                                                          prodigiosa
                                                          attività di
                                                          studioso.
                                                          Scrisse anche
                                                          una storia
                                                          degli Stati
                                                          Uniti
                                                          d'America in
                                                          29 volumi. Era
                                                          la “Terra
                                                          promessa”...
Didascalia
    L'Italia ha tante “feste”, civili e religiose. Forse troppe. Non sempre le “sente”. Poco importa avere una festa in più ma capire a chi, a che cosa e perché rendere omaggio con dispensa retribuita dal lavoro. Il 7 gennaio di ogni anno viene celebrato il Tricolore. È una “ricorrenza” nazionale, con epicentro a Reggio nell'Emilia perché, si dice, lì per la prima volta il verde il bianco e il rosso furono adottati per il vessillo di uno Stato, precisamente la minuscola Repubblica Cispadana nata su impulso dei francesi capitanati da Napoleone Buonaparte, comandante dell'Armata d'Italia mandata dal Direttorio di Parigi a sconfiggere gli Asburgici e i suoi alleati, a cominciare dal re di Sardegna.
   Come ogni anno anche nel 2023 è stato ripetuto che il tricolore, simbolo di unità e di indivisibilità dell'Italia, è stato voluto dalla Costituente quale vessillo della Repubblica. La quale, dunque, adottò la bandiera esistente, ma ne cancellò lo scudo sabaudo che vi campeggiava dal 1848. Quel tricolore aveva un secolo. L'attuale ne ha 75. Norme successive vietarono l'esposizione del tricolore originario che (ha ricordato il messaggio del presidente Sergio Mattarella) era stato innalzato dagli avi per dar vita all'unità italiana. Insomma, si festeggia un “prima” (una “repubblica” vassalla della Francia) e un “poi”, quella attuale, ma non si ricorda in debite forme che il Tricolore è nato come bandiera del Regno di Sardegna e poi di quello d'Italia.    
   L’eliminazione dell'emblema della Casa che dal 23 marzo 1848 si fece carico delle guerre per l'indipendenza, l'unità e la libertà degli italiani non cambia la verità dei fatti. Perciò quel passato merita di essere sinteticamente ricordato. Si scopre così che nel 1848 Carlo Alberto di Savoia Carignano non inventò il tricolore ma lo ricevette “per li rami”da due studenti universitari che lo avevano ideato e ne erano morti più di mezzo secolo prima. Il Tricolore dunque nacque e dovrebbe rimanere insegna della gioventù, dell'Italia che è Nuova se riconosce l'Antica, le sue radici.

  La «Bandiera dei tre colori/ è sempre stata la più bella/ noi vogliamo sempre quella/noi vogliam la libertà…». Canti del Risorgimento. Come la “Bella Gigogin” che oggi verrebbe vietata per oltraggio al pudore. Chiusi per sempre nel baule dei ricordi perduti? La bandiera italiana garrisce nell'Italia delle “cento città” se il suo passato viene recuperato senza cesure né censure. Vent'anni fa l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi restituì smalto al Tricolore e incitò con l’esempio personale a intonare il “Canto nazionale”, la cui “storia” merita di essere ripercorsa, tanto più che qualcuno vorrebbe addirittura inserirlo nella Costituzione. E' un inno neoguelfo. Cade bene.
  Dopo la prima guerra mondiale uomini saggi al governo della cosa pubblica, come Giovanni Giolitti e Benedetto Croce, d'intesa con Vittorio Emanuele III puntarono diritto all’obiettivo vero: la Festa delle Bandiere (celebrata all'Altare della Patria il 4 novembre 1920) era tutt'uno con la legge sulla cittadinanza e l’obbligo dell’istruzione (altra cosa dall’istruzione obbligatoria). Da lì bisogna ripartire. Intorno alla genesi del Tricolore molto è stato scritto, ma con lacune vistose e per obiettivi spesso di parte. Se davvero si vuole che esso unisca, tempo è venuto di ricordarne almeno per sommi capi la lunga storia, dire chi per primo lo ideò, che cosa forse volle esprimere, quali ne furono le molteplici vicissitudini.
   Una prima certezza è che il variegato “tricolore” adottato dalla Repubblica Cispadana il 7 gennaio 1797 ha poco a che vedere con quello del 1848-2023. Esso era a bande orizzontali. Quattro punte di freccia convergenti indicavano l'unione delle sue “terre”: Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, alle quali poi si aggiunsero un po' di Romagna, la Garfagnana, Massa e Carrara, accorpate in una “repubblica” del tutto artificiosa, dai confini improbabili e dalla brevissima durata. Alle spalle esso aveva stendardi reggimentali, modellati sull'esempio di quelli della francese Armata d'Italia e ornati da cifre e da simboli esoterici.
   Nel corso della caotica assemblea che il 7 gennaio 1797 ne decise l'adozione, il tricolore della Cispadana ebbe un fautore curiosissimo: Giuseppe Compagnoni (Lugo, 1754-Milano, 1833). Ordinato prete per volontà della famiglia, letterato di qualche nomea, questi era stato tra gli inquirenti del processo a carico di Giuseppe Balsamo, sedicente Alessandro conte di Cagliostro, condannato a morte con pena commutata nel carcere a vita, da scontare nel “pozzetto” della fortezza di San Leo ove morì poco prima dell’arrivo dei francesi liberatori. Compagnoni apprese che nel rito egizio Cagliostro usava nastri verdi bianchi e rossi. Nessuno sa dire perché. E nessuno ha mai spiegato perché, deposto l'abito talare e passato nelle file dei rivoluzionari, per lo stendardo della repubblica cispadana Compagnoni abbia suggerito proprio quei colori. Sappiamo invece per certo che né lui né Cagliostro furono gli inventori del Tricolore. Lo scrisse il “Messaggere Torinese” del 19 febbraio 1848 che per editoriale pubblicò il necrologio di Giuseppe De Rolandis.
  Tricolore (su modello francese) fu la bandiera del Regno italico, retto dal figlio adottivo di Napoleone I, Eugenio di Beauharnais, sotto tutela dell'imperatore. Iniziato alla Carboneria (la cui bandiera era azzurra, rossa e nera), Giuseppe Mazzini, fondatore della “Giovine Italia” nel 1831, tornò a innalzare il tricolore verde, bianco e rosso, ma nuovamente a bande orizzontali.
   In “Le bandiere dell'Esercito”, sontuoso volume pubblicato nel 1985 dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'esercito, di cui fu a lungo operoso  e lungimirante capo, il generale Oreste Bovio documenta che fu Re Carlo Alberto di Sardegna ad adottare il tricolore, che sventolò per un secolo quale vessillo nazionale. L’articolo 77 dello Statuto promulgato il 4 marzo 1848 recitava: «Lo Stato conserva la sua bandiera: e la coccarda azzurra è la sola nazionale.» Ma neppure tre settimane dopo, il 23 marzo, quando dichiarò guerra all’Impero d’Austria convinto di avere a fianco gli altri Stati dell’Italia d’allora (Regno delle Due Sicilie, Stato della Chiesa, Granducato di Toscana..., che invece via via si defilarono), Carlo Alberto lanciò un proclama «ai popoli della Lombardia e della Venezia» per annunciare che correva in loro aiuto. «Per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell’unione italiana – aggiunse – vogliamo che le nostre truppe, entrando sul territorio della Lombardia e della Venezia, portino lo scudo di Savoia sovrapposto alla bandiera tricolore  italiana.» Proprio “italiana”, si badi bene: non “del Regno di Sardegna”. Come anni prima in un gelido colloquio mattutino aveva promesso a Massimo d’Azeglio, venuta l’ora, Carlo Alberto scelse l’Italia. Lo seguì suo figlio, Vittorio Emanuele II, che distribuì personalmente i tricolori di combattimento ai reggimenti in partenza per la Crimea: una guerra decisiva per imporre all’Europa la questione italiana. Da allora il tricolore e l’Italia furono tutt’uno. Il 25 marzo 1860, dieci giorni dopo la proclamazione del Regno d'Italia da parte del parlamento, un apposito decreto stabilì  misure e caratteri della «bandiera di cui deve far uso il Regio Esercito»: col verde all’asta, il bianco e il rosso, scudo sabaudo e stemma sormontato dalla corona per le navi da guerra.
   A quel vessillo guardarono generazioni di italiani, sino alla svolta del 1946-1947.

   Il Museo degli Studenti voluto in Bologna, la Dotta, dal Rettore dell’Università, Fabio Roversi Monaco, conserva il primo tricolore italiano: la coccarda disegnata da Giovanni Battista De Rolandis (1774-1796), nativo di Castell’Alfero, ora in provincia di Asti. Iscritto alla facoltà di teologia dell’Università di Bologna e ospitato al collegio Piemontese “La Viola”, ove era docente Giuseppe Compagnoni, “Giò” De Rolandis conobbe Luigi Zamboni, di qualche anno più anziano, studente nella facoltà di legge. Insieme cospirarono per l’idea d’Italia. La coccarda sommò i colori comunali (di Asti, Milano, Cuneo e tante altre città...) con il verde. Nessuno sa esattamente perché. Forse il verde (poi distintivo della massoneria in Italia) era il colore della speranza o della giustizia, il colore della Pentecoste (cantata da Alessandro Manzoni, forse “iniziato” in gioventù) e di altre solennità della chiesa cattolica? Di sicuro sappiamo che i loro sogni vennero presto stroncati. Su delazione di un altro studente inizialmente loro compagno di cospirazione i due furono indagati, ma  con esito favorevole. Continuarono nel loro disegno e per segno distintivo fecero cucire coccarde grandi “il doppio di un baiocco di rame” con i colori della città, bianco e rosso, e “del cavadino verde”.
  La cospirazione venne dispersa. Zamboni e De Rolandis fuggirono, ma furono arrestati sul confine col granducato di Toscana. Consegnati alla polizia bolognese vennero processati, con i metodi del tempo, dal tribunale presieduto da Federico Pistrucci noto come “la mano sinistra del Maligno” e più volte sottoposti a torture efferate, comprese le pinze infuocate in parti delicate e nella schiena. Antonio Aldini, illustre giureconsulto, apprezzato da Napoleone che lo elevò a cariche apicali, in loro difesa escluse che la coccarda fosse  segnacolo di rivoluzione e di subordinazione dei giovani a progetti di “agenti” francesi, come Aurelio Saliceti. Lo fece per scagionarli e sottrarli alla tragica sorte che li attendeva. Il 18 agosto 1795 Zamboni venne rinvenuto impiccato in una celletta ove non poteva neppure stare in piedi. Strozzato? De Rolandis subì sevizie orrende affinché confessasse chi erano i suoi ispiratori, mandanti e complici. Dopo estenuanti interrogatori che lo sfinirono fu condannato a morte. Attese il supplizio stringendo tra le mani il Vangelo. Prima di essere portato alla forca, gli vennero “recise le forze”, cioè fu evirato. Condotto esangue alla Montagnola di Bologna, venne appiccato. Per inettitudine del boia, il cappio non funzionò “a dovere”. Contro le regole, l'esecuzione fu ripetuta. Lo sciagurato gli balzò sulle spalle per affrettarne la morte. Una incisione ricorda la sua tragica fine. Chi si indigna delle infamie praticate da integralisti odierni dovrebbe deplorare quelli che venivano usate in Italia dopo la Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e del cittadino. Ne scrisse Ito De Rolandis in Orgoglio tricolore, ove vengono ricostruite le vicende di altri due componenti della sua famiglia, Giuseppe, medico di fiducia di Carlo Alberto, e Secondo, che si occupò di egittologia, incluso lo studio della stele di Rosetta.
   Il Tricolore dunque è simbolo universale. Come scrisse Angelo Brofferio nel “Messaggere Torinese”, in punto di morte Giuseppe De Rolandis «voleva un’ultima volta rallegrarsi colla vista dell’italiana coccarda che, agonizzando, salutava ancora». Nel 1862 Augusto Aglebert pubblicò “I primi martiri della libertà italiana e l'origine della bandiera tricolore o congiura e morte di Luigi Zamboni di Bologna e Gio. Battista De Rolandis di Castel d'Alfero presso Asti tratta da documenti autentici”. Altri seguirono sulla sua traccia sino alle iniziative promosse da Ito (Ippolito) De Rolandis, giornalista d'assalto e saggista indomito (al liceo era soprannominato “Tritolo”) di concerto con il rettore dell'Università di Bologna, Fabio Roversi Monaco e un amico di fiducia.

   Con l’avvento della Repubblica, dal tricolore venne tolto lo scudo sabaudo, che vi aveva campeggiato per un secolo. Quando se ne celebra la festa sarebbe dunque doveroso esporre anche una delle bandiere “storiche”, di quelle in uso da Carlo Alberto a Umberto II, proprio per ricordare chi siamo e da dove veniamo (dove si vada nessun lo sa): dalla Repubblica cisalpina del 1796, anche un po’ da Cagliostro e dall'ambiguo Compagnoni, dai moti costituzionali del 1820-21, del 1831, dalle guerre per l'indipendenza e per l'unione degli italiani, nel 1848, nel 1859-1860, nel 1866, nel 1870 e nel 1915-1918 e anzitutto da due studenti antesignani della patria italiana. È una storia lunga e sofferta. Va ripercorsa e ricordata nella sua complessità.
   Il Tricolore, a conclusione, non è nato nel 1946 o con la Costituzione del 1° gennaio 1948. Ha quasi 230 anni di vita vissuta. È giusto innalzarlo, non solo per eventi sportivi, e indossarlo quale coccarda, come avvenne nell'ormai lontano 2011 quando su iniziativa dell'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano venne festeggiato il 150° dell'“unità nazionale”, ovvero della proclamazione del regno d'Italia. Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, propone che il giorno della venga elevata a festa civile. Quell'Italia era l'unica in quel momento possibile: ancora senza Venezia, Trento, Trieste. Roma sembrava inarrivabile perché il papa-re, Pio IX, era tutelato da Napoleone III, anticamente carbonaro, cospiratore, “fosco figlio di Ortensia”, favorevole all'“unione” degli italiani ma non alla loro “unità”. La festa del tricolore sarebbe finalmente occasione di una riflessione corale sullo Stato d'Italia, sulla “cittadinanza” e sulle loro radici in una civiltà millenaria, patrimonio fondamentale per l’Europa ventura.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA. La straziante impiccagione del ventiduenne “Giò” De Rolandis alla Montagnola di Bologna (23 aprile 1796).
   La storia del Tricolore italiano è stata appassionatamente narrata da Ito De Rolandis in Orgoglio tricolore. L’avventurosa nascita della nostra bandiera (Lorenzo Fornaca Ed. - L’Artistica, Savigliano, 2008), con prefazioni dei sindaci di Asti e di Castell’Alfero, Angelo Marengo, di Mercedes Bresso, Aldo Mola e scritti di altri autori: Amedeo di Savoia, Duca d'Aosta, Marco Bortolotti, Fausto Carpani, Sabina Fornaca, Corrado Testa e Guido Peila, che ripercorre le gesta di Giuseppe De Rolandis in “L'Ussaro sul Tetto” di Jean Jono, dal quale venne tratto il film diretto da Jean-Paul Rappenau e interpretato da “Fernandel” (Fernando Contandin, nativo di Perosa Argentina, il celebre “don Camillo”). Il volume di Ito De Rolandis è suggellato dalla fotografia di  Carla Bruna Tedeschi (poi moglie di Sarkozy) recante il tricolore italiano nella cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali di Torino (2006).
   Quello approvato a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797 è solo uno dei tricolori ideati per la Nuova Italia. La loro molteplicità esprime un sentimento diffuso dei cittadini italiani di ieri e di oggi: di varie confessioni religiose ed etnie, accomunati dall’orgoglio dei propri diritti e dal senso dei doveri verso lo Stato. A beneficio della memoria del “défroqué” Giuseppe Compagnoni va ricordato che nell'Assemblea della Repubblica Cispadana proprio lui si dichiarò contrario all'elevazione del cattolicesimo a   “religione dello Stato”. Dopo la Restaurazione non riprese l'abito talare; visse a Milano campando della propria prodigiosa attività di studioso. Scrisse anche una storia degli Stati Uniti d'America in 29 volumi. Era la “Terra promessa”...



A TESTA ALTA
1943-1945 CONTINUITÀ E RISCOSSA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 8 gennaio 2023 pagg. 1 e 6.
  
 
Vittorio
                                                          Emanuele III
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                                                          Regio Esercito
                                                          Italiano.
Didascalia
   “A testa alta” è l'insegna del “CalendEsercito 2023” (ed. Giunti) per l'80° dell'estate 1943, «uno dei momenti più tragici della storia nazionale». Fotografie e documenti scandiscono i mesi dalla firma della resa a Cassibile (3 settembre) alla co-belligeranza dell'Italia a fianco delle Nazioni Unite e alle due battaglie di Monte Lungo che videro in campo il I Raggruppamento Motorizzato del Regio Esercito a fianco degli Alleati. Come scrive il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, generale di CdA Pietro Serino, «in soli 98 giorni l'Esercito italiano seppe reagire, tornare a combattere e a vincere per liberare il proprio Paese, dimostrando una saldezza morale che ci fa dire, con orgoglio, A testa alta!». Pubblicato con la direzione del Colonnello Giuseppe Cacciaguerra, molto più che mero “almanacco” il “CalendEsercito 2023” è una miniera di informazioni e di spunti per ricerche e approfondimenti. Ricorda al lettore i combattimenti di Porta San Paolo a Roma, ove i civili affiancarono le Divisioni “Granatieri di Sardegna” e “Sassari”, mentre a Monterotondo reparti della “Piave” e della “Re” contrastavano l'aviolancio di paracadutisti tedeschi, e la lunga serie di combattimenti su tutto il territorio nazionale, in Sardegna, Corsica, oltre che nelle regioni quasi subito libere (Puglia e Calabria) a prezzo di duri combattimenti e l'impegno ovunque possibile oltre confine. Documenta inoltre il Fronte Militare Clandestino del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, caduto prigioniero, torturato a via Tasso, assassinato alle Fosse Ardeatine con tanti altri militari,via via sino alla Riscossa, che dà titolo alle Memorie del generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà, punto di arrivo del coordinamento tra Regio Esercito e formazioni partigiane unite “dal” e “nel” Tricolore.
   A differenza di quanto talvolta è stato scritto, in quei frangenti non morì affatto la Patria. La direttiva del capo del governo, Pietro Badoglio, all'annuncio dell'armistizio per i militari era chiaro: le forze armate italiane cessavano «ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».
   Come avvenne la Riscossa e chi la guidò? In Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio (il Mulino, 2021) Paolo Cacace conferma che la revoca di Benito Mussolini da capo del governo e la sua sostituzione con il maresciallo Badoglio furono iniziativa personale di Vittorio Emanuele III, assecondato dal ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone e dalla ristretta cerchia di militari di sua assoluta fiducia, a cominciare da Giuseppe Castellano. Il 25 luglio il Gran Consiglio del fascismo a maggioranza “esortò” il re a esercitare i poteri statutari, senza però mettere in discussione il regime. Perciò Mussolini chiese udienza al re e nel pomeriggio si recò a Villa Savoia convinto che quasi nulla sarebbe cambiato. Fu la Corona a decidere tempi e modi della “svolta”, anche sbrigativi, come il “fermo” del duce, che si dichiarò pronto a collaborare con Badoglio. Come osservò Luigi Einaudi, citato dal presidente Sergio Mattarella a Dogliani il 12 maggio 2018, chi detiene la somma dei poteri può lasciarli apparentemente dormienti per vent'anni, salvo valersene quando percepisce che è giunto il momento di usarli. Così fece il re.
Di seguito fu lui ad autorizzare la ricerca del contatto con il Comando nemico per ottenere che all'Italia, ormai in un tunnel dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, fosse concessa la “resa senza condizione”, deliberata dagli anglo-americani a carico dei vinti nella Conferenza di Casablanca su richiesta ultimativa di Stalin. L'obiettivo fu raggiunto in meno di un mese con la firma a Cassibile della resa (surrender), documentata da Elena Aga Rossi in L'inganno reciproco (ACS, 1982). Lo strumento sottoscritto dal generale Giuseppe Castellano, datato “Sicilia, 3 settembre 1943” è esplicito: la resa fu concessa (o imposta) al “governo del Re”, ovvero a Vittorio Emanuele stesso. Il “Comandante in capo” dei vincitori si riservò di stabilire «un Governo militare alleato in quelle parti del territorio italiano ove egli lo riterrà necessario nell'interesse militare delle Nazioni alleate» e di dettare «altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario che l'Italia dovrà impegnarsi ad eseguire», analiticamente contenute nell'“armistizio lungo” consegnato dal generale Dwight Eisenhower a Badoglio a Malta il 29 settembre 1943. Però con la resa la monarchia ottenne tre vantaggi preziosi per l'Italia: lo Stato non fu debellato ma riconosciuto; a differenza della sorta poi toccata alla Germania, non ne venne previsto lo smembramento; la sua forma istituzionale non fu messa in discussione. Per gli inglesi, al riguardo più lungimiranti degli americani, la monarchia costituiva una garanzia.
Il verbale del colloquio svoltosi il 29 settembre a margine della firma precisò la cornice degli eventi successivi. Il vincitore incitò il vinto a dichiarare guerra alla Germania, a «immettere nuovi elementi nel suo governo», previo il placet del generale Mason Mac Farlane e, “parlando da soldato”, a destinare alla lotta contro la Germania le “divisioni migliori”. Badoglio precisò che «per la legge italiana solo il re può dichiarare guerra» e scegliere i nuovi membri del governo. Assicurò la massima collaborazione anche in vista dell'ingresso in Roma (dato per imminente da Eisenhower, ma avenuto otto mesi dopo), accolse con freddezza l'annuncio del ritorno in Italia del “conte” Carlo Sforza, gran collare della SS. Annunziata e senatore ma accesamente repubblicano, auspicò di essere considerato “un collaboratore completo” e, su direttiva del Re, che lo aveva avuto aiutante di campo, chiese di «prendere contatto col maresciallo Messe, ora prigioniero di guerra in Inghilterra». Ne ha scritto brillantemente il generale Antonio Zerrillo nel volume Il lungo regno di Vittorio Emanuele III (BastogiLibri, 2021).
I punti di debolezza: il CLN contro la monarchia
Lo scenario istituzionale e politico italiano era però profondamente diverso da quello ventilato dal Comandante alleato. Il Comitato dei partiti antifascisti operante clandestinamente in Roma da metà agosto 1943, contrario a condividere il “passivo” della guerra e deciso a scaricarne la peso esclusivamente sulla Corona, assunto il nome di Comitato (Centrale) di liberazione nazionale tra fine settembre e inizio ottobre, rifiutò ogni collaborazione con il governo Badoglio, riservando gelida accoglienza alla proposta di collaborazione avanzata dal colonnello Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo. Lo ricorda Ivanoe Bonomi in Diario di un anno, 2 giugno 1943-10 giugno 1944. Il CLN propugnò l'immediata abdicazione del re, la rinuncia del principe Umberto alla successione e il conferimento della Corona al principe di Napoli, Vittorio Emanuele, di appena sette anni, sotto tutela di un reggente di nomina politica, contro la lettera dello Statuto. Anche molti liberali si accodarono e per bocca di Carandini fecero sapere di essere per «assemblea costituente più abdicazione».
   Per decretazione d'urgenza varata da Badoglio a inizio agosto furono sciolti il Partito nazionale fascista, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, il Gran consiglio del fascismo e tutte le organizzazioni del passato regime, ma anche la Camera dei fasci e delle corporazioni in vista dell’elezione di una nuova Camera dei deputati entro quattro mesi dalla fine della guerra. Pertanto, data la natura bicamerale del Parlamento, il Senato fu paralizzato e il re risultò istituzionalmente sovraesposto. La “monarchia rappresentativa”, fondata sull'equilibrio tra i poteri, risultò sospesa.
Sotto il profilo politico la parola passò dalle istituzioni vigenti a forze autoconvocate, come il congresso dei CLN, radunatosi a Bari il 28-29 gennaio 1944. Nel suo corso venne ribadita la richiesta di immediata abdicazione di Vittorio Emanuele III, da alcuni liberali liquidato addirittura come “cencio sporco”. Per gli anglo-americani, pur diversi nella loro grammatica politico-istituzionale, lo Stato d'Italia era quello impersonato dal re e dal governo di sua nomina. Se mai avessero avuto motivo di dubitarne (ma non ne esistono documenti probanti) a rafforzarli nella loro posizione fu la costituzione della Repubblica sociale italiana incardinata su Mussolini e succuba della Germania. Malgrado tutto, all'indomani della resa e del trasferimento del re, del principe ereditario e del governo da Roma a Brindisi, nei modi che tante polemiche hanno suscitato e ancora sollevano, i vertici delle Forze Armate furono a fianco del sovrano. Il 26 settembre 1943 Vittorio Emanuele III ordinò l'organizzazione del Raggruppamento “Piemonte”: un primo nucleo di circa 5.000 uomini. Cinque giorni dopo la dichiarazione di guerra alla Germania (13 ottobre), lo passò in rassegna nei pressi di Manduria. La riorganizzazione dell'Esercito molto deve alla tenacia di Giovanni Messe, ultimo Maresciallo d'Italia, biografato da Luigi Emilio Longo nel volume pubblicato dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito (2006) e, successivamente, dal già citato generale Zerrillo.
Il 15 novembre il Raggruppamento fu autorizzato a muovere verso la linea del fronte di combattimento. Sulle fiancate degli automezzi il colonnello Valfrè di Bonzo fece istoriare lo scudo sabaudo. A inizio dicembre venne aggregato alla 36^ divisione statunitense del II corpo d'armata e (come scrisse Gabrio Lombardi) fu incaricato di espugnare il «dosso allungato, scoperto e roccioso, spezzato in una lunga serie di ondulazioni di altezza crescente»: Montelungo. Lì, l'8 e il 16 dicembre 1944, ebbero luogo le sue prime prove con attacchi ripetuti a reparti della divisione “Goering”. Subì pesanti perdite. Il primo giorno perse 4 dei 5 ufficiali in linea. Mostrò che «l'antiquo valore/ne l'italici cor non [era] ancor morto». Lo stesso principe Umberto di Piemonte si levò in volo di ricognizione per fornire precise informazioni sul nemico, meritandosi la Silver Star, la prima delle due onorificenze conferitegli dagli anglo-americani, i quali gli attribuirono poi anche la Legion of Merit.
La riorganizzazione delle Forze Armate, a cominciare dal Regio Esercito, avvenne in quei mesi difficili per tutti. Il motto del Re e del Principe ereditario, dal 5 giugno 1944 Luogotenente del Regno, fu “Viva l'Italia”. Continuò a garrire il tricolore che dal 1848 ne aveva guidato la lunga marcia verso l'indipendenza e l'unità nazionale, come ha scritto lo storico militare gen. Oreste Bovio nell’insuperata Storia dell'Esercito italiano e in In alto la Bandiera.
Per saperne di più: mostre, convegni, studi...
Dal rovesciamento del regime fascista all’instaurazione dalla Repubblica (19 giugno 1946) si susseguirono sei diversi governi. Nell'ordine, il maresciallo Pietro Badoglio ne presiedette tre diversi dal 25 luglio 1943 al 18 giugno 1944; Ivanoe Bonomi (ex socialista riformista, democratico, esponente della Democrazia del lavoro) ne guidò due sino al 21 giugno 1945. A lui seguì il breve governo presieduto da Ferruccio Parri, comandante delle formazioni partigiane “Giustizia e libertà”, esponente del Partito d'azione, dal quale si separò nel congresso del febbraio 1946 per dar vita alla Concentrazione democratica repubblicana con Ugo La Malfa. Il 10 dicembre gli subentrò il democristiano Alcide De Gasperi, a capo di un governo formato da ministri dei sei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale (comunisti, socialisti, azionisti, democratici del lavoro, democristiani, liberali), con esclusione del Partito repubblicano italiano capitanato da Randolfo Pacciardi.
   Al ministero della Guerra si susseguirono nell'ordine i generali Antonio Sorice e Taddeo Orlando con Badoglio; il liberale Alessandro Casati con Bonomi, il democristiano Stefano Jacini con Parri e il repubblicano e massone Cipriano Facchinetti con De Gasperi. Nello stesso arco di tempo si susseguirono due soli Capi di Stato Maggiore Generale: il maresciallo d'Italia Giovanni Messe dal 18 novembre 1943 al 1° maggio 1945, quando gli subentrò il generale designato d'armata Claudio Trezzani. Capi di stato maggiore dell'Esercito furono i generali Mario Roatta sino al 18 novembre 1943; Paolo Berardi fino al 10 febbraio 1945, quando assunse il comando delle Forze Armate in Sicilia per contrastare l'Esercito volontario per l'indipendenza dell'isola; Ercole Ronco e infine il generale di divisione Raffaele Cadorna, già comandante del Corpo Volontari della Libertà, figlio di Luigi Cadorna, comandante supremo durante la Grande Guerra (su cui fa luce il volume Luigi e Carlo Cadorna, Caporetto? Risponde Cadorna, BastogiLibri, 2021).
   Capo di Stato Maggiore della Marina (carica abbinata a quella di sottosegretario della Marina) fu l'ammiraglio Raffaele De Courten; a Capo di Stato Maggiore dell'Areonautica si susseguirono i generali Pietro Piacentini e Mario Aymone Cat. Quattro furono i comandati generali dei Carabinieri: i generali Angelo Cerica fino al 9 settembre 1943, Giuseppe Pièche dal 15 novembre 1943 al 20 luglio 1944, Taddeo Orlando e dal 7 marzo 1945 Brunetto Brunetti. La loro opera si coniugò a quella dei comandanti del Corpo Italiano di Liberazione e, di seguito, dei Gruppi di Combattimento “Cremona” (gen. Clemente Primieri), “Friuli” (gen. Arturo Scattini), “Folgore” (Giorgio Morigi), “Legnano”, “Mantova”, “Piceno (gen. Emanuele Beraudo di Pralormo), impegnati nell'avanzata verso il Nord.
   “Nel decennale della Resistenza e del ritorno alla democrazia” il loro fondamentale contributo alla ricostruzione dell'Italia è stato documentato dal gen. Primieri in Il Secondo Risorgimento (Roma, Poligrafico dello Stato, 1955, con contributi di Aldo Garosci, Raffaele Cadorna, Costantino Mortati e altri) e, sulla scorta di ampia documentazione, dal generale Pierluigi Bertinaria nel convegno internazionale di studi (Milano 17-19-maggio 1984) La cobelligeranza italiana nella lotta di Liberazione dell'Europa, i cui atti sono stati pubblicati dal Ministero della Difesa-Comitato storico “Forze Armate e Guerra di Liberazione” (Roma, 1986).
   La complessa evoluzione dal Raggruppamento “Savoia” al CIL e ai Gruppi di Combattimento è stata documentata dalla Mostra al Mastio della Cittadella di Torino (C.so Galileo Ferraris), allestita dal 22 al 30 aprile per iniziativa di illustri personalità (i generali Pastorello, Cinaglia, Uzzo, Puliatti e altri) di concerto con il Museo Storico Nazionale di Artiglieria e l'Associazione Nazionale Artiglieri d'Italia. La Mostra è stata accompagnata da un minuzioso catalogo che, come ribadito dal “CalendEsercito 2023”, illustra la continuità dell'Esercito italiano dalla sua costituzione (1861) a oggi, evidenziando anche il ruolo svolto per 19 mesi dalle forze armate italiane, giunte a contare 450.000 uomini tra reparti combattenti e ausiliari; senza dimenticare gli 80.000 militari che operarono nelle formazioni partigiane sorte nell'Italia centro-settentrionale: non solo in quelle dichiaratamente monarchiche ma anche nelle file di Garibaldini, Giustizia e libertà, Matteotti e nelle brigate “bianche”, cioè di ispirazione democristiana o genericamente “cattolica”. Il panorama del contributo dato dai militari alla “Riscossa” (come Raffaele Cadorna intitolò le sue Memorie) non sarebbe completo se non venisse tenuto conto anche degli Internati Militari Italiani (la loro storia è stata recentemente documentata da Avagliano e Palmieri (ed. Mondadori) e dei prigionieri italiani negli USA e Gran Bretagna.
A ottant'anni dai “fatti”, la svolta voluta e attuata da Vittorio Emanuele III nell'estate 1943 viene ricomposta alla luce meridiana della verità storica. Meriterà di essere ulteriormente approfondita e soprattutto proposta all'attenzione di docenti e studenti anche attraverso programmi radiotelevisivi, che mettano a frutto le decine di volumi di Atti dei convegni promossi dagli Uffici storici militari e dall'Archivio Centrale dello Stato e i Verbali dei governi da Badoglio a De Gasperi curati da Aldo G. Ricci.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Vittorio Emanuele III passa in rassegna a Brindisi reparti del riorganizzato Regio Esercito Italiano. 


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