Proposte Associazione di Studi Storici Giovanni Giolitti-Associazione Studi Storici Giovanni Giolitti

Proposte

IL DUCE E FRATEL PASCHETTO

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 12 Novembre 2023 pagg. 1 e 6.
DIDASCALIA : Copertina di una riedizione
                          di Giovanni Hus il veridico, con introduzione
                          di A.A.M. e una nota del “fratello” Giovanni
                          Oggero, Carmagnola, Edizioni Arktos, 2006.
                          Oggero ricorda l'inchiesta sulla Massoneria
                          condotta dall'“Idea nazionale” nel 1912-1913 e
                          cita “tra i più ossessionati antisemiti e
                          antimassoni l'ex prete Graziosi” (un lapsus
                          ...provvidenziale), che poi fu tra quanti
                          premettero su Mussolini per il varo delle
                          leggi razziali”.Dal gelido Pellice al biondo Tevere
A volte accade che un'affermazione sia esatta e al tempo stesso no. È quanto avviene da tempo su un aspetto della biografia di Paolo Antonio Paschetto. Fu o non fu massone? Probabilmente, con tutti i guai che imperversano sulla faccia della Terra e nei suoi cieli, sempre più affollati di satelliti anziché di paciosi Dei, la maggior parte dei lettori penserà sia una questione trascurabile e sarà tentato di voltare pagina. Però... C'è un però. A Paschetto (Torre Pellice, 12 febbraio 1885-9 marzo 1963), infatti, dobbiamo l'emblema dello Stato d'Italia. Intesta tutti i documenti di valore legale, dalla “Gazzetta Ufficiale” alle carte d'identità, ai passaporti e via continuando. Quindi la curiosità sull’eventuale iniziazione alla Libera Muratoria del suo creatore è più che legittima. Chissà mai che la Repubblica sia in odore di massonismo? Sarebbe un bene o un male assoluto? Il dollaro USA è un coacervo di simboli massonici. Tutto sommato ha retto nel tempo e regge. Sarà per quell'Occhio che veglia dalla punta della Piramide? Prima di rispondere alla domanda se dunque Paolo Paschetto sia stato o no iniziato in loggia, giova ripercorrerne sinteticamente la vita, analiticamente ricostruita da Silvia Silvestri nel “Dizionario biografico degli italiani”, al quale rimandiamo chi voglia saperne di più.
   Suo padre, Enrico, pastore valdese, dalla non sempre gaia valle nativa, punteggiata di combe e di ricordi delle passate persecuzioni, nel 1889 migrò a Roma con la moglie, Luigia Oggioni, milanese, di famiglia garibaldina, evangelica, e i figli. Insegnò ebraico in una scuola metodista e poi in una battista. Terzogenito, dopo il liceo classico Paolo si iscrisse all'Istituto di Belle Arti e cominciò ad emergere appena ventenne. Nel 1907 vinse il concorso per ornare il biglietto di cinque lire (all'epoca un tesoretto) e si affermò in un'arte apparentemente minore, la decorazione, coltivata con garbo e delicatezza rispondenti al gusto poetico crepuscolare. Sua moglie, Italia Angelucci, sposata nel 1911, a sua volta istoriò cuoio, rame, ceramica e tela su sua ispirazione. Collaboratore di “Bilychnis” e di altre riviste evangeliche e riformate di studi religiosi, tra il 1912 e il 1914 Paschetto si dedicò all'impresa che ne perpetua la fama: la decorazione del Tempio valdese che nella Città Eterna si affaccia su piazza Cavour, alle spalle del Tribunale, all'epoca in costruzione tra polemiche e scandali sul suo costo esorbitante e ora sede della Corte di Cassazione. Docente di ornato all'Istituto di Belle Arti dal 1914 (lo rimase sino al 1949), l'anno seguente, quasi trentenne, fu mobilitato. Nel 1916 venne congedato per difetto alla vista e poté tornare alla sua vocazione di artista.

Claudia Particella, l'amante del cardinale
Nel 1913 una sua tavola raffigurante il rogo dell'eretico Hus fu scelta da Benito Mussolini per illustrare il suo Giovanni Huss il veridico, un “saggio storico” omesso dall'Opera Omnia del “duce”. Renzo De Felice, suo maggior biografo, gli dedica appena una nota a pie' di pagina, ma poi scrisse la prefazione all'edizione oubblicata da Reverdito. «Tra le sue opere giunte alla pubblicazione (fu) certo la più ambiziosa e altrettanto certamente una delle meno riuscite. Il volume non è in pratica che un violento libello contro la Chiesa privo di sostanziale valore, se non per documentare un particolare tipo di interessi del suo autore in questo periodo e il suo proposito di tenere viva la polemica anticlericale un po' a tutti i livelli.» Il “libello”, invero, aveva genesi, motivazioni e propositi politici meditati. Per coglierli nella loro ampiezza occorre fare un passo all'indietro e richiamare alla memoria l'altro libello “giovanile” del rivoluzionario Mussolini: Claudia Particella, l'amante del cardinale.
   Più fortunato di Huss il veridico, questo “romanzaccio storico” (definizione di Mussolini medesimo in una lettera a Torquato Nanni), incluso nell'Opera Omnia, è stato ripubblicato in tiratura limitata, ma subito cestinato perché sommamente “scomodo” sia per chi in Mussolini vede l'uomo degli “esecrati Patti Lateranensi”, sia per chi non gli cede volentieri la palma dell'anticlericalismo e lo considera un opportunista, persino ingaggiato “a noleggio” dal servizio militare segreto di un Paese non proprio amico, secondo recenti asserzioni. La sua trama ricalca un scampolo di storia minore: la passione di Carlo Emanuele Madruzzo, ultimo principe-vescovo di Trento, per un'affascinante e di molto più giovane fanciulla, insidiata (aggiunge Mussolini) dal viscido don Benizio e bersaglio di un attentatore, che due volte la manca e pugnala la sua fida Rachele ma viene perdonato e si relega in chissà quale monastero. Superate spavaldamente tante prove, Claudia infine muore avvelenata, esclamando “muoio, muoio, muoio” per un paio di pagine.
   Il romanzo uscì a puntate nella prima metà del 1910 in “Il Popolo”, foglio socialista diretto da Cesare Battisti a Trento. Letto “con molta avidità” per i suoi risvolti pruriginosi e ossessivamente anticlericali, gli rese pochi spiccioli, di cui però aveva assoluto bisogno dal suo rientro in Forlì ove il 17 gennaio, senza vincoli ufficiali e, quel che è peggio, senza lavoro né fissa dimora, s'accasò con Rachele Guidi, sposata con rito civile nel 1915.
   Al di là dei limiti letterari, Claudia Particella offre molti spunti di riflessione per cogliervi la traccia lasciata in Mussolini dal Convitto nel quale studiò a Forlimpopoli, retto da Valfredo Carducci, fratello minore del grande Giosue, “maestro e vate della Terza Italia”, e per certi brividi profetici che il lettore attento non manca di cogliere nella fluente prosa del feuilleton.
   Valgano d'esempio alcune citazioni. Per il “cardinale” Madruzzo (che si attendeva dal papa speciale comprensione, ovvero la restituzione allo stato laicale per poter prender in moglie Claudia) l'amore era «esasperato ormai in una di quelle tragiche passioni che sconvolgono una vita». Quando decise di albergare (o “recludere”) l'amante in un remoto castello a picco su un lago, il porporato esclama: «L’ora delle grandi risoluzioni è forse imminente.» C'è già il Mussolini delle “decisioni irrevocabili”(10 giugno 1940). Il “popolo di Trento” odiava Claudia perché la riteneva responsabile della sua rovina economica. «Le donne soprattutto erano furibonde. Consideravano Claudia una fortunata rivale e nel loro odio v'era l'invidia e la gelosia.» «Le collere represse e gli odi lungamente covati e le miserie non lenite aspettavano una nuova occasione per prorompere»; ma secondo Madruzzo «il popolo è sempre bestia e non mancherà di curvarsi a un altro dominatore». Quindi poteva infischiarsi bellamente della disapprovazione popolare.
   A cospetto della processione finale, che “il popolo” credeva “di purificazione” ma che lui aveva orchestrato quale estremo omaggio alla memoria di Claudia, Madruzzo riflette: «Non è concesso agli umani di leggersi nell'animo reciprocamente. Ogni uomo ha una o molte pagine chiuse nel libro della sua vita. V'è in noi una parte che non viene, né può venir mai alla superficie. Noi siamo profondamente stranieri gli uni agli altri. Quella che si dice fusione delle anime è una delle tante illusioni necessarie all'esistenza. L'anima umana è sola, non ha sorelle. La madre non può leggere il pensiero del figlio, il giudice non può penetrare nel mistero della colpa…». Parole autobiografiche?
   «Il mondo è bello» Mussolini fa dire a Claudia, riecheggiando Carducci. «Sono gli uomini che lo guastano.»
   A rovinarlo erano anzitutto i preti (specialmente i gesuiti) che il romanzo mette alla gogna pagina dopo pagina con un crescendo di invettive. «Il Concilio di Trento non aveva riformato i costumi depravati del clero, alto e basso. Dal Vaticano la corruzione dilagava nel mondo cattolico, sino alle ultime parrocchie perdute fra le montagne.» Perciò la “morale” dei contemporanei «era elastica, pieghevole, specie nei riguardi del clero, che pareva godesse dell'impunità. Molto si perdonava. La Chiesa di Roma del resto aveva dato il malo esempio. I successori della cattedra di Pietro si erano macchiati dei più nefandi delitti». I papi sintetizzavano la «turpitudine universale», da Alessandro VI e Leone X a Clemente VII che «manteneva buon numero di donne lascive, fra le quali celebre un’africana»: aneddoti carpiti dalla copiosa letteratura del tempo (non consta abbia attinto da opere poderose come quella di Gregorovius).

Giovanni Hus il
                          veridico, con introduzione di A.A.M. e una
                          nota del “fratello” Giovanni Oggero,
                          Carmagnola, Edizioni Arktos, 2006. Oggero
                          ricorda l'inchiesta sulla Massoneria condotta
                          dall'“Idea nazionale” nel 1912-1913 e cita
                          “tra i più ossessionati antisemiti e
                          antimassoni l'ex prete Graziosi” (un lapsus
                          ...provvidenziale), che poi fu tra quanti
                          premettero su Mussolini per il varo delle
                          leggi razziali”.Elogio dell'eresia
Due anni dopo la pubblicazione di Claudia Particella Mussolini scrisse Giovanni Huss il veridico. Notiamo, per inciso, che l' “eretico” (o riformatore) compare solitamente come Hus (1369-1415). Il futuro “duce” si dedicò al “libretto” (definizione sua) nella forzata pausa della carcerazione. Arrestato il 14 ottobre 1911 con i repubblicani Pietro Nenni e Aurelio Lolli per istigazione alla violenza, resistenza alla forza pubblica e altri reati compiuti per protesta contro l'impresa di Libia, il 23 novembre Mussolini fu condannato a un anno di reclusione, pena commutata in appello a cinque mesi e mezzo. Venne rilasciato il 12 marzo 1912, in tempo per scatenare l'offensiva contro i socialriformisi, culminata a luglio con la loro espulsione dal partito nel congresso di Reggio Emilia.
   Nella prefazione al libro Mussolini lamentò le «gravi difficoltà» incontrate perché le opere latine dell'eretico non erano reperibili e quelle «in czeco o voltate in czeco non sono state ancora tradotte in italiano». Riteneva tuttavia di «aver fatto opera non inutile», soprattutto per «il pubblico dei liberi pensatori», con un libro atto a suscitare nell'animo dei lettori «l’odio per qualunque forma di tirannia spirituale e profana: sia essa teocratica o giacobina». Tutto si può dirne tranne che non sia stato esplicito: né papato, né impero e neppure i giacobini, che nell'Italia dell'epoca (come in quelli delle Compagnie di Santa Fede) erano sinonimo di massoni.
   Perciò risulta assai curioso che il libro sia uscito nella “Collezione storica de I Martiri del Libero Pensiero” diretta da Guido Podrecca, già direttore di “L'Asino”, la rivista anticlericale più famosa del tempo, istoriata dalle formidabili “vignette” di Gabriele Galantara (Ratalanga), iniziato nella prestigiosa loggia “Propaganda massonica” del Grande Oriente d'Italia (matricola 24.616).
   Che cosa potevano avere in comune i tre? Giovanni Huss il veridico comincia, con un po' più di “dottrina”, da dove il futuro “duce” aveva lasciato Laura Particella. «I movimenti ereticali – egli annotò – rappresentano tentativi d'opposizione alla Chiesa di Roma decaduta dal suo ministerio antico, schiava del mercantilismo profano, legata al Dio Mammone, al denaro che umilia tutte le fedi. Nel XIV secolo la Chiesa cattolica era diventata una colossale agenzia d'affari spirituali e materiali: i primi servivano di pretesto e di maschera ai secondi. Roma era la sede centrale della Ditta, ma le filiali erano disseminate in tutta Europa. […] I conventi che, secondo i primitivi fondatori avrebbero dovuto costituire un asilo di uomini puri, erano diventati il ricettacolo di tutti i parassiti, adoranti il Signore con letizia di sensi e di piaceri viziosi. Dalla sensualità e dalla rapacità dei monaci nessuno – maschio o femmina – si salvava […] La venalità della gerarchia ecclesiastica non conosceva limiti, né ostacoli. Le cariche si compravano e si vendevano». Insomma, «il popolo era l'unico che portasse la Croce in quel mondo di gaudenti». Perciò «ogni eresia ha qualche cosa di sociale, talvolta socialistico». «Gli eretici – concluse con guizzo autobiografico – parlano in nome del popolo e al popolo». Il movimento hussita, osservò verso la fine del saggio, si compose «di due elementi inscindibili, il religioso e il nazionalistico». Era un'osservazione non peregrina, perché, sia pure confusamente, anticipava la sua svolta dell'estate 1914, quando, a cospetto della discesa in campo di tutti i partiti socialisti a sostegno dei governi dei rispettivi paesi, balzò dall'antimilitarismo che nel 1911-1912 gli era costato il carcere all'interventismo. Nel cui composito schieramento si ritrovò a fianco dei liberi pensatori e dei massoni che assunsero l'avanguardia della guerra contro gli Imperi Centrali. Campione di movimentismo funambolico (era l'“uomo in cerca”, come bene osserva De Felice), Mussolini si accostò all'ala massonica più scomoda per i poteri centrali dell'Ordine, da anni impegnati a fare da ponte per il transito dei socialriformisti a sostegno delle Istituzioni. D'altronde, nel 1908 era stato proprio il socialriformista più prestigioso, Leonida Bissolati Bergamaschi, a infilare il partito socialista nel tunnel imboccato, con esito politicamente catastrofico, dal Grande Oriente nella lotta per l'abolizione dell'insegnamento del catechismo cattolico nella scuola dell'obbligo.
   Con Huss il veridico Mussolini fece intendere che si può combattere il clero senza entrare necessariamente in loggia, da posizioni “rivoluzionarie”, tornando al popolo. Non per caso nell'aprile dell'anno seguente ottenne che nel Congresso di Ancona il Partito socialista italiano espellesse i massoni, quinta colonna della borghesia e dei “bocchi popolari” incardinati sulla convergenza di radicali, riformisti e liberali “progressisti”.

Paschetto, massone a sua insaputa?
Nell'Huss il terzetto Podrecca-Ratalanga-Mussolini “reclutò” Paolo Paschetto, pubblicandone la xilografia del rogo dell'eretico tratta da “Bilychnis”. Come si saldavano quei tre anelli? Nelle prime elezioni politiche del dopoguerra (16 novembre 1919) la lista capeggiata da Mussolini nel collegio di Milano comprese Potrecca accanto ad Arturo Toscanini, Tommaso Marinetti e altre celebrità, tutte avviate alla sonora e si può dire umiliante sconfitta. Tuttavia molti militanti anticlericali di punta continuarono a scommettere sul Mussolini neo-pagano. Era il caso della associazione Giordano Bruno e del periodico “La Ragione”, il cui “Almanacco, 1923” pose in copertina il fascio littorio ritto sulla cupola di San Pietro e scrisse che la data più importante del 1922 era la vittoria fascista del 28 ottobre.
   E Paschetto? In occasione di un convegno incentrato su di lui (1° giugno 2016) nella Casa Valdese di Torre Pellice in collaborazione con il Collegio circoscrizionale Piemonte-Valle d'Aosta del Grande Oriente d'Italia, il gran maestro Stefano Bisi ribadì che il vincitore dei concorsi per il bozzetto della Repubblica italiana era stato sicuramente massone. Invece lo storico Daniele Jalla, della Società di studi valdesi e nipote dell'artista, escluse che dietro l'ideazione dell'emblema dello Stato «ci fosse alcuna intenzione di simbologia particolare» e concluse perentoriamente: «Il nonno non è stato massone. Una convinzione famigliare basata sui fatti ha trovato riscontro negli archivi della massoneria italiana: il suo nome non figura negli elenchi degli iscritti.» Chi aveva ragione? In effetti nella matricola del Grande Oriente (per altro incompleta) Paschetto non compare. Ma “la prova provata” del suo massonismo andava cercata altrove. Nelle ricerche d'archivio ci vuole infinita pazienza. Ma il risultato paga.
   Possiamo dunque affermare, documento alla mano, che Paolo Antonio Paschetto, professore all'Istituto di Belle Arti di Roma, residente in via Scipione 119, nato a Torre Pellice il 12 febbraio 1885, fu Enrico, venne iniziato massone a Roma nella loggia “Nazionale” della Serenissima Gran Loggia d'Italia il 21 febbraio 1917 e subito elevato al grado di maestro. Il 28 maggio ascese al grado 9° della scala del Rito scozzese antico e accettato. Ascese a Cavaliere Eletto dei IX.
   Quindi aveva ragione Bisi. Paschetto fu massone. Ma non del Grande Oriente d'Italia. Non sappiamo quanto sia rimasto attivo e quotizzante. Di sicuro dopo il forzato scioglimento delle logge sotto l'offensiva squadristica scatenata da Mussolini (1925), per continuare a professare la sua arte alla Gloria del Grande Architetto dell'Universo Paolo Antonio dovette tenere ben celato (anche in casa...) il suo non fortuito passaggio tra le Colonne. Diversamente non gli sarebbero stati affidati incarichi in opere pubbliche di prestigio, comprese vetrate al ministero della Pubblica istruzione, poi dell'Educazione nazionale.
   Altra cosa è l'interrogativo sul nesso tra la sua iniziazione e l'emblema della Repubblica. Ma è questione da esaminare a parte.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA : Copertina di una riedizione di Giovanni Hus il veridico, con introduzione di A.A.M. e una nota del “fratello” Giovanni Oggero, Carmagnola, Edizioni Arktos, 2006. Oggero ricorda l'inchiesta sulla Massoneria condotta dall'“Idea nazionale” nel 1912-1913 e cita “tra i più ossessionati antisemiti e antimassoni l'ex prete Graziosi” (un lapsus ...provvidenziale), che poi fu tra quanti premettero su Mussolini per il varo delle leggi razziali”.


LUIGI CAPELLO, SACERDOTE DI MARTE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 5 Novembre 2023 pagg. 1 e 6.
La
                                  tomba di Luigi Capello individuata
                                  dopo lunghe ricerche e fotografata nel
                                  cimitero del Verano (Roma) dalla
                                  professoressa Maria Luisa Suprani
                                  Querzoli, che l'ha riordinata “curata”
                                  e la raccomanda alle Istituzioni e a
                                  quanti hanno a cuore la Memoria
                                  dell'Italia. Il Diploma di grado 33°
                                  del Rito scozzese Antico e accettato
                                  rilasciato al gen. Capello dal Sovrano
                                  Gran Commendatore Achille Ballori il
                                  15 dicembre 1915 (Archivio Centrale
                                  dello Stato, Carte Capello, pubblicato
                                  nella copertina di Luigi Capello, un
                                  militare nella storia d'Italia, a cura
                                  di Aldo A. Mola, Cuneo, L'Arciere,
                                  1987).Caporetto non fu una “disfatta”
La Festa dell'unità d'Italia e delle Forze Armate è propizia per riproporre all'attenzione il generale Luigi Capello, una figura centrale nella storia militare e politica d'Italia dalla guerra per la Libia all'avvento del regime fascista (1911-1927). Di Luigi Cadorna qualche cosa è stato detto recentemente nella puntata di “Una giornata particolare” dedicata da Aldo Cazzullo a “La disfatta di Caporetto”, didatticamente discutibile e fuorviante sin dal titolo. Infatti la “battaglia di Caporetto” fu, sì, una sconfitta e si risolse nella “rotta”. Costò circa 30.000 caduti, 300.000 prigionieri, altrettanti “sbandati” e ingente perdita di armi e magazzini. L'offensiva austro-tedesca determinò l'arretramento degli italiani sulla linea dal Monte Grappa al Piave, ma non fu “la disfatta”, cioè una catastrofe irrimediabile, tale da compromettere qualunque possibilità di ripresa. Non generò né il crollo dell'esercito né il collasso dell'Italia. Anzi, come mostrarono i fatti e riconosce la storiografia, la ritirata, coordinata dal Comandante Supremo Cadorna secondo il piano approntato da tempo, pose le basi della “battaglia d'arresto” e le premesse per la riscossa e la vittoria sull'impero austro-ungarico del 3-4 novembre 1918. Con essa gli italiani ottennero di attraversare in armi l'Austria, per colpire da sud la Germania, che cacciò Guglielmo II e si arrese a confini inviolati. Fu l'Italia di Vittorio Emanuele III a dare la spallata vincente nella Grande Guerra.
   Nel racconto televisivo il generale Capello, comandante della II Armata, la più ingente mai allestita dall'Esercito italiano (circa 900.000 uomini), è rimasto marginale, mentre Cadorna è stato bersaglio di “addebiti”, che in realtà vanno a suo merito: a cominciare dalla sua motivata preoccupazione (non “ossessione”) per il “disfattismo” che nel corso del 1917 saliva dal paese al fronte. Cadorna lo denunciò al presidente del Consiglio Paolo Boselli in quattro lettere, rimaste senza risposta, e in audizioni in sede di governo, neppure messe a verbale. Quanto alle misure adottate dal Generalissimo per reprimerlo, va constatato che non vi fu alcun mutamento formale né sostanziale dopo la successione di Armando Diaz a Cadorna il 9 novembre 1917. Lo documentano le statistiche delle condanne a morte pronunciate in contraddittorio dai Tribunali di guerra: 1008 nei quarantun mesi di guerra, di cui 728 eseguite. A parte il picco del maggio 1917 e quelle dell'ottobre  seguente, le condanne pronunciate nel febbraio e nell'aprile del 1918 furono identiche a quelle del maggio e del luglio 1916, mentre le 10 condanne sentenziate nel luglio 1918 furono pari a quelle dell'aprile 1917. Eppure Diaz ebbe importanti vantaggi su Cadorna: un fronte ridotto di centinaia di chilometri, armamento nettamente migliore, in specie nell'artiglieria e nell'aviazione, ingenti rifornimenti di vestiario e di alimenti. Sino al 1914 l'Italia era un paese ancora prevalentemente agricolo. Il suo apparato industriale era nettamente inferiore a quello di Germania, Francia e Gran Bretagna. La “macchina bellica” giunse a pieno regime con la primavera del 1918. Inoltre, dopo “Caporetto” tutti si schierarono compattamente a sostegno delle forze armate al motto “resistere, resistere, resistere”. La guerra divenne “della nazione”, come titola una mostra curata da Aldo G. Ricci. A differenza di quant'era avvenuto nel 1917, nel 1918 nessun socialista intimò “non più un inverno in trincea”. I cattolici non rilanciarono l'esortazione di Benedetto XV a porre fine alla “inutile strage”. Alla Camera prevalse il “fascio nazionale”. Anche personalità pacate come Ernesto Nathan, gran maestro del Grande oriente d'Italia e già sindaco di Roma, incitarono a schiacciare come serpenti persino i “pacifisti”.

I Comandanti sotto inchiesta
Poi avvenne l'inverosimile. Dall'ingresso in guerra la Camera dei deputati aveva sfiduciato due governi: quello presieduto da Antonio Salandra, che il 20 maggio 1915 le aveva estorto l'intervento, tenendola all'oscuro degli accordi segretamente conclusi a Londra il 26 aprile precedente con la Triplice Intesa anglo-franco-russa, e quello di Paolo Boselli, costretto alla dimissioni proprio il 24 ottobre 1917, da deputati ignari di quanto stava accadendo al fronte. Su impulso degli umori serpeggianti in un Parlamento che si riunì anche in “comitati segreti” per non far trapelare all'esterno le sue profonde divisioni, il 18 gennaio 1918 fu istituita la “Commissione d'inchiesta sugli avvenimenti dall'Isonzo al Piave (24 ottobre-9 novembre 1917)”. Essa “udì” 1012 “testimoni”: 101 generali, 29 deputati, tre senatori e militari di tutte le armi. Concluse i lavori nel giugno 1919 e ne pubblicò le conclusioni in due volumi. La Relazione venne scritta dal colonnello Fulvio Zucaro “sotto l'assillo di altrui ansiosissima impellente pressione”, cioè incalzato dal presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti. Per primo fu stampato il secondo tomo: “Le cause e le responsabilità degli avvenimenti”. Mentre la guerra imperversava, la Commissione, presieduta da Carlo Caneva, a suo tempo rimosso dal comando della guerra in Libia ma ripagato con la nomina a generale d'esercito, e formata da militari e da tre “politici” (incluso il socialista e massone Orazio Raimondo), pose implicitamente sotto accusa i vertici delle forze armate. Tra altri furono sospesi dalle funzioni Luigi Cadorna, che guidava con prestigio e alto credito la delegazione italiana al comando interalleato a Versailles, e Luigi Capello, comandante della V Armata, da lui rapidamente organizzata in vista della riscossa. Anche in altri Stati in guerra i “Generalissimi” vennero sostituiti, ma mai destituiti proprio per non demoralizzare la “macchina bellica” sottoposta a tensioni senza precedenti e per non divaricare forze armate e “politici”.
   L'istituzione della Commissione d'inchiesta rispose invece all'intento di mostrare che nessuno era “intoccabile”. Ma sino a quale grado poteva spingersi? In forza dello statuto del 1848 il comando delle forze di terra e di mare era prerogativa del re. Il sovrano non lo esercitava personalmente ma tramite un comandante nominato dal governo: il capo di stato maggiore dell'esercito, istituito nel 1882. Le sue funzioni erano state precisate per i tempi ordinari, ma non in caso di guerra. Non vi aveva provveduto neppure Giovanni Giolitti, che nel 1911 dichiarò guerra all'impero turco per la sovranità sulla Libia. L'“Inchiesta su Caporetto” rischiava di superare il livello di guardia e di investire la Corona, bersaglio di quanti in Italia proclamavano di voler “fare come in Russia”: una rivoluzione che per rovesciare la “borghesia” doveva anzitutto abbattere la monarchia. Le polemiche assunsero toni violentissimi.
   Contrariamente a quanto si proponeva Nitti, la pubblicazione delle risultanze della Commissione gettò benzina sul fuoco. Di Cadorna essa convenne che molti testimoni ne riconobbero “l'alto ingegno e le preclare qualità di energia”. Nessuno ne pose in dubbio l'“onorabilità di uomo, di cittadino e di soldato”. Però gli venne imputata la “presunzione dell'infallibilità del giudizio proprio”, l'“insofferenza di ogni diverso giudizio e apprezzamento”, il suo “isolamento da tutto il resto dell'esercito, dalle autorità civili e dalla popolazione”. Per di più pareva “pessimo conoscitore di uomini”. La Commissione concluse che Cadorna era “un tipo pronunciatissimo, qual altro mai, di egocentrico”. Però proprio quella “forma mentale” costituiva anche “una forza” perché ne derivava “la calma di fronte a situazioni difficili e la tenacia dei propositi, entrambe alimentate dalla fiducia in sé”. Come Cadorna mostrò, in guerra e nel difficile dopoguerra.
   Di tutt'altro tenore sono le pagine dall'Inchiesta dedicate al generale Luigi Capello, “oggetto di critiche assai severe per parte di un gran numero di testimoni” che ne deplorarono il “carattere aspro e irascibile, ed un linguaggio adirato, violento, talora inqualificabile”. Il suo sistema di governo delle truppe si era basato “sul terrore, sulle minacce, sull'oppressione e sarebbe stato improntato persino a crudeltà”. Durissimo nei confronti dei generali ai suoi ordini, nei riguardi delle truppe assunse persino la forma di vessazione. Era stato tacciato di “prodigalità di sangue” sin dai tempi della guerra di Libia. La sua reputazione era quindi “artifiziosa”, propiziata “da uomini politici, scrittori, artisti e sovrattutto da giornalisti che ne secondarono l'ambizione di salire sempre più in alto fino alla maggiore carica dell'esercito”. La Commissione non ne mise in forse le “alte doti intellettuali” e le “qualità di energia e di organizzazione” ma, tramite i “testimoni”, ne dipinse l'arrivismo, l'ambizione sfrenata e la “sopraffazione” del Comandante Supremo, che dette “preminente importanza alle qualità tecniche” del suo subordinato in funzione della vittoria. In conclusione la Commissione dichiarò di astenersi dal pronunciare un giudizio che ne avrebbe leso profondamente l'onore. Però acquisì e pubblicò quanto bastava per classificarlo “un macellaio”.

Luigi Capello: un “fratello d'Italia”...
Ma chi era davvero Capello e quale fu il suo itinerario successivo alla rimozione e dalla pubblicazione della risultanze dell'Inchiesta?
   Nato a Intra nel 1859, di famiglia piccolo borghese, allievo dell'Accademia Militare a 16 anni, sottotenente di fanteria a 19, ufficiale di Stato Maggiore a 27, dopo la Scuola di Guerra, accompagnò al servizio la pubblicazione di articoli spesso polemici sul conservatorismo nelle forze armate. Colonnello dal 1898, il 15 aprile 1910 venne iniziato massone nella loggia torinese “Fides” e fu registrato nella matricola del Grande Oriente d'Italia al numero 31.681. Da due settimane era maggior generale. Dunque, non entrò in loggia per fare carriera. Dal Settecento la massoneria era riferimento dei militari: nel regno di Sardegna, nell'Italia franco-napoleonica e, ancor più, con la fusione del “movimento” di Garibaldi, primo massone d’Italia <?>, nel regio esercito. Prima di lui erano entrati in loggia uno stuolo di ufficiali, da Giacomo Sani a Ugo Cavallero, futuro Maresciallo d'Italia. Comandante della Brigata Abruzzi dal 1910, Capello si distinse nella guerra di Libia con la vittoria sui turchi a Derna. Comandante della 25^ divisione in Sardegna, con l'intervento fu assegnato alla III Armata. Tenente generale, a inizio agosto 1916 ottenne il primo successo dell'intera Intesa: l'ingresso in Gorizia, dopo lunga preparazione. Stimato da Cadorna, che non ne condivideva né il massonismo né la manifesta ricerca di consensi in ambienti non propriamente militari, il 1° giugno 1917 fu nominato comandante della II Armata. In un mese di attacchi (18 agosto-15 settembre) occupò l'altipiano della Bainsizza. L'offensiva si esaurì. In vista della probabile stasi invernale e di un attacco nemico ormai libero sul fronte con la Russia, stravolta dalla rivoluzione, e mentre i franco-inglesi ritirarono le artiglierie “prestate” all'Italia, Cadorna ordinò il passaggio dallo schieramento offensivo alla “difesa a oltranza” su tre linee. Fautore della controffensiva, Capello non eseguì le disposizioni. Da Vittorio Emanuele III il 6 ottobre fu insignito della Gran croce dell'Ordine militare di Savoia, decorazione suprema. Sofferente di nefrite e temporaneamente sostituito dal generale Montuori, solo il 19 ottobre, dopo un colloquio con Cadorna, impartì tardivamente le disposizioni necessarie al cambio di schieramento. Tornò al comando il 23, vigilia dell'offensiva austro-germanica che, dopo un bombardamento iniziato alle 2 del mattino, travolse proprio il tratto di fronte di sua competenza e azzerò le comunicazioni telefoniche e telegrafiche. L'artiglieria del XXVII corpo d'armata non sparò un colpo. Il suo comandante, Pietro Badoglio, fu irreperibile per un giorno.
   Dopo la rotta, il 26 novembre Capello fu nominato comandante della V Armata. Rimosso, si difese prontamente con la Memoria “La 2^ Armata e gli avvenimenti dell'ottobre 1917”. Nel settembre 1919, dopo la pubblicazione dell'Inchiesta, fu collocato a riposo, come Cadorna. Era la fine? Aveva sessant'anni. Continuò a difendersi con libri, articoli, conferenze, dai toni spesso polemici mentre i governi, di modesta consistenza politica, miravano a smobilitare e a pacificare gli animi con la celebrazione del sacrificio, culminata con la tumulazione del Milite Ignoto all'Altare della Patria.
   Comprensibilmente ansioso di ottenere una riparazione solenne, Capello assecondò il “movimentismo” di Benito Mussolini, che gliela lasciò intravvedere. Il 31 ottobre 1922 sfilò con i generali Gustavo Fara e Sante Ceccherini, massoni come lui, alla testa del corteo di militi festeggianti l'insediamento del nuovo governo, che ebbe Diaz ministro della Guerra. Da metà febbraio 1923 il quadro politico ebbe assetto definitivo con la fusione dei nazionalisti nel Partito nazionale fascista, suggellata dalla dichiarazione di incompatibilità tra fasci e logge massoniche, seguita nel 1924 dall'espulsione dei massoni dal partito. Capello, che aveva presieduto varie iniziative della Milizia fascista, scelse l'Ordine liberomuratòrio. La Relazione della seconda Commissione d'inchiesta sui fatti del 1917 attenuò gli addebiti nei suoi confronti e gli riconobbe le qualità di comandante premuroso anche dei suoi soldati, ma rimase inedita. Mussolini preferì tenere sotto scacco tanti generali.

...al carcere e all'oblio
I devastanti assalti squadristici alle logge culminarono con quello alla sede del Grande Oriente, difesa personalmente da Capello. La sua opposizione al regime incipiente divenne palese. Come scrive, sulla scorta di molti saggi e documenti, Maria Luisa Suprani Querzoli in Malgrado. La verità sul generale Luigi Capello (Mazzanti Libri, 2023), si avvicinò all'antifascismo militante di “Pace e Libertà” e fu artatamente coinvolto nell'attentato alla vita di Mussolini ordito dal socialista riformista (non massone) Tito Zaniboni, tallonato da Carlo Quaglia che agiva d'intesa con i servizi di polizia per compromettere quel che rimaneva delle opposizioni non estreme. Il 4 novembre 1925 Zaniboni fu arrestato nella camera d'albergo dalla cui finestra si accingeva a sparare al “duce”. Capello fu a sua volta arrestato a Torino quale suo complice. Era la prova del coinvolgimento della massoneria, proprio mentre il Senato stava per discutere la legge che proibiva ai pubblici impiegati l'iscrizione a società segrete, come le logge erano dipinte. Senza alcun elemento probante, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato nell'aprile 1927 condannò Capello a trent'anni di reclusione (tre dei quali in regime cellulare) e alla radiazione dall'esercito. Nelle piazze ne era stata chiesta l'esecuzione capitale. Scontò la pena parte tra le sbarre, parte in clinica a Formia e dal 1935 nella sua modesta abitazione a Roma, condivisa con la moglie, Lidia Bongiovanni, e la figlia Laura Borlenghi. Morì il 24 giugno1941, amareggiato dalla perdita di Derna, sua gloria di quarant'anni prima. Il regime impose funerali strettamente privati. Nel 1946 sua figlia pubblicò “Generale Capello: Numero 3264” (Garzanti): curiosamente il numero del suo diploma di alto dignitario del Rito Sozzese Antico e Accettato. Solo nel 1947 fu “riabilitato”. Però rimase in un cono d'ombra sino alla pubblicazione del suo Memoriale “Caporetto perché?” (Einaudi, 1967), con prefazione di Renzo De Felice. Dal carcere soleva scrivere alla moglie: “La storia è galantuoma”. Ma lo è solo grazie a studiosi che vanno oltre gli opportunismi: “per la Verità”, come appunto scriveva Luigi Capello.
Aldo A. Mola


Didascalia: La tomba di Luigi Capello individuata dopo lunghe ricerche e fotografata nel cimitero del Verano (Roma) dalla professoressa Maria Luisa Suprani Querzoli, che l'ha riordinata “curata” e la raccomanda alle Istituzioni e a quanti hanno a cuore la Memoria dell'Italia.
   Il Diploma di grado 33° del Rito scozzese Antico e accettato rilasciato al gen. Capello dal Sovrano Gran Commendatore Achille Ballori il 15 dicembre 1915 (Archivio Centrale dello Stato, Carte Capello, pubblicato nella copertina di Luigi Capello, un militare nella storia d'Italia, a cura di Aldo A. Mola, Cuneo, L'Arciere, 1987).
   Già biografato da Angelo Mangone (Da Gorizia alla Bainsizza. Da Caporetto al carcere, Mursia, 1994) e da Dario Ascolano (Biografia militare e politica, Longo, 1999), dopo lungo oblio Luigi Capello è riproposto da Maria Luisa Suprani Querzoli in Luigi Capello. Profilo di un generale italiano (TralerigheLibri, 2022) e in Malgrado. La verità sul generale Luigi Capello (Mazzanti 2023, pp. 550), basato su ampia documentazione archivistica e vasta bibliografia. Per un inquadramento generale della sua figura rimangono fondamentali il profilo scrittone dal Generale CdA Oreste Bovio in Sacerdoti di Marte (Ufficio Storico SME) e ID., Storia dell'Esercito Italiano (Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito). Prendendo spunto dal profilo di Caneva, Bovio definisce “ampia ma non esauriente” la Relazione della Commissione d'inchiesta. Essa addossò la responsabilità della “rotta di Caporetto” a Cadorna e ad alcuni suoi sottoposti e «assolse il governo e le parti politiche, che pure non erano esenti da errori e da colpe».

GARIBALDI SCRITTORE?
PERCHÈ? PER CHI?

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria”
di domenica 22 Ottobre 2023 pagg. 1 e 6.
Al Quirinale
                                                Vittorio Emanuele II
                                                accoglie Garibaldi,
                                                presente l'Aiutante di
                                                Campo del Re, Giacomo
                                                Medici del Vascello, già
                                                comandante del 2°
                                                Reggimento dei
                                                Cacciatori delle Alpi.
                                                Nella Prefazione ai
                                                romanzi storici
                                                Garibaldi disse chiaro e
                                                tondo perché li scrisse:
                                                «1° Per ricordare
                                                all'Italia molti dei
                                                suoi valorosi, che
                                                lasciarono la vita sui
                                                campi di battaglia per
                                                essa. 2° Per trattenermi
                                                colla gioventù italiana
                                                sui fatti da lei
                                                eseguiti. 3° Per
                                                ritrarre un onesto lucro
                                                dal mio lavoro. Ecco i
                                                motivi che mi spinsero a
                                                farla da letterato in un
                                                tempo in cui credetti
                                                meglio far niente che
                                                far male.» Generale,
                                                deputato, artefice
                                                dell'unità nazionale
                                                Garibaldi si reggeva
                                                sulle grucce, non aveva
                                                né stipendi né pensioni.
                                                Scrisse di getto e
                                                pubblicò “Clelia”
                                                (uscito nel 1870 in
                                                inglese prima che in
                                                italiano) e “Cantoni il
                                                volontario” (1870), “I
                                                Mille”, specchio di
                                                «un'anima che sente le
                                                miserie e le vergogne
                                                del suo paese», e le
                                                “Memorie”, intraprese
                                                nel 1871, completate
                                                l'anno seguente e
                                                pubblicate nel 1874.
                                                Benché tradotti nei Due
                                                Mondi, i romanzi non gli
                                                fruttarono quel che
                                                sperava. Viveva in
                                                condizioni miserevoli.
                                                Alcuni Comuni gli
                                                assicurarono una
                                                pensione di 3.000 lire
                                                annue. Nel 1876 accettò
                                                il “dono nazionale” e
                                                nel 1880 grazie al
                                                giureconsulto piacentino
                                                e futuro presidente del
                                                Senato Giuseppe Manfroni
                                                ottenne l'annullamento
                                                delle nozze con
                                                Giuseppina Raimondi e
                                                sposò la provvida
                                                compagna Francesca
                                                Armosino, dalla quale
                                                aveva avuto Rosa, Clelia
                                                e Manlio. La sua, sì, fu
                                                “una vita inimitabile”.Pare che questi editoriali abbiano ventiquattro lettori. Uno in meno di quanti ne contavano i Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Forse perché si occupano di temi tristi: il passato che non passa, il presente che angoscia, il buio pesto del futuro. Per di più sull'Arno l'editorialista va per questioni di “lingua”, sì, ma solo quella che gusta una succulenta “fiorentina”. Pecca di gola (gastrimarghìa), uno dei sette vizi capitali (una volta erano otto). Orbene, accade che un paio dei ventiquattro lettori, sorpresi di scoprire che, con tutto quel che ebbe da fare, Garibaldi abbia trovato anche il tempo di scrivere romanzi, hanno chiesto di saperne di più. In effetti il  nome del Generale non compare nei repertori dei letterati famosi. Forse perché egli disse chiaro e tondo che, posata la spada, impugnò la penna per continuare la sua “missione”. Scoprì anche il gioco degli scrittori che si dichiarano devoti esclusivamente alle muse ma controllano ogni giorno se arrivano i sempre magri diritti d'autore.
   Ricordiamo, allora, in via preliminare, che Garibaldi scrisse quattro romanzi: “Cantoni il volontario”, “Clelia, il governo dei preti”, “I Mille” e “Manlio”. Il primo, scritto in memoria ddel forlivese Raffaele Cantoni caduto nella sfortunata battaglia di Mentana (1867), è poco noto. Ebbe una prima edizione nel 1870, un'altra nel 1873. Finì in un cantone. Ristampato in poche neglette copie, è disponibile gratuitamente in internet. Modesto beneficio Garibaldi trasse dal “Clelia” e dai “Mille”. “Manlio” rimase inedito.
     Tornò allora a occuparsi di “politica”. Sulla fine della vita, affaticato dagli acciacchi ma sempre vigile, ammonì che occorreva  «governare meglio o cadere». Dall'affiliazione alla Giovine Italia all'impresa dei Mille, la sua stella polare fu Italia unita, indipendente, libera. Già in Sudamerica insegnava  «Libertad para todos y si no es para todos no es libertad» fu il suo motto. Per arrivarci bisognava organizzarsi.
   Al segretario della Società nazionale, Giuseppe La Farina, all'inizio del decisivo 1859 Garibaldi ripeté che «dovendo promuovere movimenti di popolo, sarebbe bene cominciare con qualche cosa di organizzato per poter dirigere la corrente come si deve». Non era più tempo di improvvisazioni né, soprattutto, di indulgere alle «cose mazzinesche», alle «suggestioni che potrebbero venirci da quei di Londra», alle «commedie che Mazzini chiama rivoluzioni». «Noi non dobbiamo esser partito – ribadì invece Garibaldi ad Agostino Bertani il 13 dicembre 1859 –, ma dominare i partiti tutti.». Dopo l'armistizio di Villafranca (luglio 1859) non rimise in discussione gli obiettivi ultimi, ma scelse la sua via. «A Vostra Maestà – scrisse a Vittorio Emanuele – è nota l'alta stima e l'amore che vi porto; ma la presente condizione in Italia non mi concede d'ubbidirvi, come sarebbe mio desiderio. Chiamato dai popoli mi astenni fino a quando mi fu possibile; ma se ora, in onta di tutte le chiamate che mi arrivano, indugiassi, verrei meno ai miei doveri e metterei in pericolo la santa causa dell'Italia. Permettetemi, quindi, Sire, che questa volta vi disubbidisca. Appena avrò adempiuto il mio assunto liberando i popoli da un giogo aborrito, deporrò la mia spada ai Vostri piedi e vi ubbidirò fino alla fine dei miei giorni.»
   Mantenne la promessa, ma a modo suo. Dopo la proclamazione del Regno (1861) Garibaldi rimase condizionato dal mancato compimento dell'unità. La necessità di congiungere all'Italia Roma, Venezia e Trento continuò a imporgli l'azione, senza però cedere alla faziosità dei “rivoluzionari” dilettanti. Fu lui a professare il programma cavouriano di governare il Mezzogiorno senza gli stati d'assedio e di farne anzi la piattaforma per mostrare la validità del liberalismo italiano. «Italia e Vittorio Emanuele, ecco la nostra repubblica, ecco il voto delle moltitudini» fu il suo programma.

  Col 1870, ormai definitiva la rottura con Mazzini, Garibaldi cominciò a insistere più esplicitamente sul rinnovamento delle istituzioni: non per mutar la monarchia in repubblica, ma per introdurre correttivi democratici nello Stato e nella condotta dell'amministrazione. «Che fa l'Italia? – s'interrogava nella primavera del 1873 – Non accenneremo ai miserabili suoi governanti già condannati dal disgusto universale.» Sotto accusa erano invece «Massoni, Mazziniani, Internazionalisti [...] egualmente fautori dell'indolenza democratica [...] e quindi del trionfo effimero ma reale dell'oppressione e della menzogna. Invano si chiamarono a conciliazione le parti diverse della democrazia». Denunciò il “tarlo” della discordia, del dottrinarismo. La Sinistra doveva cercare in se stessa le ragioni della sua debolezza politica e trovarvi rimedio senza indulgere ad addebitarla a speciale malizia degli avversari. “Predicò” per formare il «fascio» delle «associazioni oneste», «la Massoneria, la Mazzineria, la fratellanza artigiana, le società d'operai, di reduci, Internazionali fasci operai, ecc.». Per sgombrare il campo almeno da un equivoco, negò l'esistenza di «garibaldini». I suoi seguaci dovevano sentirsi e dichiararsi solo e sempre “italiani”.

   Sin dal 1870, col memoriale “Due parole di storia”, Garibaldi tracciò lo spartiacque tra il suo gradualismo e l'avventurismo di altri, incompatibile con le prospettive di crescita democratica aperte dall'unificazione nazionale: «Io ho spinto i miei concittadini a delle imprese temerarie qualche volta, ma me le perdonino [...]. Comunque, noi non vogliamo delle Rivoluzioni-miserie. Frattanto, i miei concittadini si preparino a temprar l'animo e il corpo, a mostrar che l'Italia facendo farà davvero [...]. Ripeto: aspettare l'ora. Non far rivoluzioni da farci beffeggiare». Contro i seminatori di discordie, i provocatori di guerre civili, Garibaldi rivendicò: «Io ho sempre inteso di appartenere alla Nazione Italiana.»

   Conscio della necessità di non isolare il “movimento” dalle componenti più caute del liberalismo, spiegò che i contrasti dovevano rimanere interni alla “famiglia”. Ampliamento del diritto di voto, eliminazione delle imposte indirette, dei dazi sui consumi, della tassa sulla macinazione e sul sale, da sostituire con un'imposta diretta e progressiva, abolizione della pena di morte, emancipazione femminile, interventi a favore delle classi e delle regioni più povere furono il terreno d'incontro tra Garibaldi, le diverse componenti della democrazia radicale e la nuova generazione di uomini politici, orientata da suoi antichi e fedeli seguaci come Aurelio Saffi, con il quale aveva condiviso l'epopea della Repubblica romana del 1849.
   Poiché sulla sua figura e sul suo pensiero si sono accumulate dicerie infondate è bene fissare alcuni punti fermi su un aspetto centrale della sua personalità: la religiosità. Nella congerie di suoi scritti e appunti occorre distinguere i “documenti” relativi alla vita militare e politica, quelli concernenti affetti domestici e amicizie e le carte cui affidò i suoi pensieri su temi generali. Tra queste ultime speciale rilievo occupano le sue riflessioni sulla religiosità. Esse includono tre diversi temi: Dio, le religioni, le chiese intese come clero. Al riguardo, oltre alle lettere, vanno presi in esame anche i suoi discorsi e gli scritti letterari, le cui pagine gli rimasero dinnanzi agli occhi e sotto la penna più a lungo di quanto gli potesse accadere per un proclama, un messaggio, una lettera dettata (e spesso solo firmata) o vergata sul tamburo, nel vortice dell’azione. Nelle prose d’arte (per quanto arte povera, come non esitò mai a dichiarare e a riconoscere) Garibaldi compì anzi uno sforzo per conferire veste definitiva alle proprie riflessioni. Debitamente confrontate con le altre fonti utili a coglierne il pensiero, esse conducono ad affermare che Garibaldi fu credente in Dio personale, creatore e ordinatore dell’universo, provvido nei confronti delle sue creature.
   Valga a conferma l’incipit del capitolo LXIII di Clelia, il governo dei preti: «Era una di quelle aurore che ti fan dimenticare ogni miseria della vita per rivolgerti tutto intiero alle meraviglie colle quali il Creatore ha fregiato i mondi. L’alba primaverile che spuntava dall’orizzonte, così graziosamente tinta dei colori dell’Iride, t’incantava...» Poco oltre, il capitolo intitolato Morte ai preti gronda di invettive contro il clero: «Tra le astuzie dei sardanapali pretini, ricchissimi com’erano, sempre mercé la stupidità dei fedeli, non ultima fu quella d’impiegare gli artisti più eminenti nella illustrazione delle loro favole.» Ai capolavori di Michelangelo e Raffaello contrappose la libertà e la dignità nazionale, «vero capo d’opera di un popolo».
   Contraddizione? No. Attendeva che la Chiesa (altra cosa dal clero) si liberasse dal gravame del potere temporale e tornasse evangelica e missionaria.
   In I Mille, un romanzo (mancato) sull’impresa che lo rese celebre nel mondo, Garibaldi toccò i vertici dell’anticlericalismo militante. Nella prefazione si scusò pubblicamente perché gli parve di avervi detto «abbastanza male» dei preti. Nello stesso libro, tuttavia, le roventi esecrazioni di papi, imperatori, preti (soprattutto i gesuiti) si alternano all’esaltazione, talora ingenua ma sempre appassionata, della «religione della libertà» e della religiosità in sé quale vincolo necessario all’umano incivilimento. Nell’accorato capitolo 61°, La morente, descrive la straziante agonia di Marzia, una delle eroine del romanzo accanto a Lina (Rosalia Montmasson, moglie di Francesco Crispi, personaggio storico mescolato a quelli di fantasia): «Marzia sentiva vicinissima la morte, ma dotata di sì supremo coraggio e di quell’eroismo filosofico capace di affrontarla come una conosciuta, come una transizione naturale della materia, accennò colle labbra un bacio verso Lina, che fu seguito da P. e dai cari presenti; non articolò più parola e passò tranquilla all’Infinito!» Materialismo panico? o spiritualismo?
   Il capitolo conclusivo del romanzo, Il sogno, condensa le sue contraddizioni e indica la via del loro superamento. L’eroe assiste al «sorgere del figlio Maggiore dell’Infinito che spuntava dalle cime dell’Apennino (sic!)». Mentre contempla l’aurora, intravvede il nuovo ordinamento dell’Italia unita, «un governo di tutti e per tutti» («non so se lo chiamassero Repubblicano» tiene a precisare), fondato sulla giustizia e sua garante. Descrisse il “miracolo”: la riesumazione gloriosa delle ossa dei martiri caduti per la patria («Si scopron le tombe, si levano i morti,/ i martiri nostri son tutti risorti...») e, al tempo stesso, alla redenzione dei «chercuti» incluso il «santissimo padre, non più panciuto e con le pantofole dorate, ma calzato con un buon pajo di stivali, snello e robusto che consolava il vederlo». Pio IX dirigeva di persona i preti intenti alla bonifica delle Paludi Pontine: «chi colla vanga, colla zappa e coll’aratro; altri lavoravano la terra che era una delizia.» A quell’afflizione educativa, alla fatica quale risarcimento dei danni inflitti alla società non erano però solo i preti nella visione di Garibaldi: dinnanzi ai suoi occhi si affollava «una quantità di finanzieri d’ogni classe, di pubbliche sicurezze, di impiegati al lotto e tanta altra gente inutile alla società ed ora resa utilissima». «I preti diventati laboriosi ed onesti. Tutte le cariatidi della Monarchia, come i primi consueti al dolce far niente ed a nuotare nell’abbondanza, oggi piegano la schiena al lavoro. Non più leggi scritte. Misericordia! Grideranno tutti i dottori dell’Universo, oggi obbligati anche loro a menare il gomito per vivere. Finalmente una trasformazione radicale in tutto ciò che abusivamente chiamavasi civilizzazione e le cose non andavano peggio! Anzi scorgevasi tale contentezza sul volto di tutti, e tale soddisfazione per il nuovo stato sociale, ch’era un vero miracolo!»
   Il sogno garibaldino di palingenesi va dunque molto oltre la o le chiese o, se si preferisce, guarda altrove:l a politica. Su religione e religiosità tornò in una lunga nota esplicativa sul concetto di Infinito: Scrisse: «Nelle presenti controversie della Democrazia mondiale, in cui si scrivono dei fascicoli numerosi per provare Dio gli uni, per negarlo gli altri, e che finiscono per provare e per negare nulla, io credo sarebbe conveniente stabilire una formola edificata sul Vero, che potesse convenire a tutti ed affratellare tutti. Per parte mia accenno e non insegno. Può il Vero, o l’Infinito, che sono la definizione l’uno dell’altro, servire all’uopo? Io lo credo; ma non lo insegno. V’è il tempo Infinito, lo spazio, la materia, come lo prova la scienza; quindi incontestabile. Resta l’intelligenza infinita. È essa parte integrante della materia? Emanazione della materia? La soluzione di tale problema è superiore alla mia capacità.»
   Ricalcò analoghe riflessioni in La religione del vero: «Ov’è Dio? io ne so tanto quanto un prete ma io, apostolo del Vero, risponderò: Non lo so, ed avrò detto la verità mentre un prete vi risponderà con una delle definizioni che certamente saranno false se non vi risponde com’io vi rispondo. Chi è Dio? Il Regolatore di Mondi [...] sì, quell’intelligenza infinita, la cui esistenza, gettando lo sguardo nello spazio e contemplando la stupenda armonia che regge i corpi celesti ivi disseminati chiunque deve confessare». Il Regolatore dei Mondi per lui era il massonico Grande Architetto dell'Universo. Scrisse infine la sua professione di fede: «Il mio infimo corpo è animato siccome sono animati i milioni d’esseri che vivono sulla terra, nelle acque e nello spazio infinito non eccettuando gli astri, che possono essere animati pure. Come tutti quegli esseri io sono dunque dotato di una quantità qualunque d’intelligenza e se l’intelligenza universale, che anima il tutto, fosse Dio, io avrei allora una scintilla animatrice emanata da Dio e sarei dunque una parte infinitamente piccola della Divinità ma ne sarei una parte; quell’idea mi nobilita, mi soddisfa, fa qualche cosa del mio nulla e contribuisce ad elevarmi sulle miserie di questa vita.»

   Garibaldi, condottiero, politico, scrittore, si poneva domande comuni a tanti uomini. E tentava risposte sue, forse ingenue ma sicuramente sincere, pacate. Una sorta di mano tesa verso tutti, un invito alla tolleranza universale. «Semplice, bella, sublime è la religione del vero: essa è la religione di Cristo perché tutta la dottrina di Cristo poggia sull’eterna verità. L’uomo nasce uguale all’uomo, Indi... Non fate ad altri ciò che non vorreste per voi. Chi non ha fallito getti la prima pietra sul delinquente. Simbolo di fratellanza il 1° precetto e simbolo di perdono il 2°. Simboli, precetti, dottrina che praticati dagli uomini costituirebbero quel grado di perfezione e di prosperità, a cui è suscettibile di giungere. Ma no, dice il prete: al di fuori della bottega son tutti dannati! Chi non è con me è con Satana e condannato a bruciare in eterno...»
   Garibaldi credé nell’immortalità dell’anima? In un appunto in nota al Clelia osservò: «Il cadavere conserva ancora la materia. Ma ove? L’intelligenza dorme o si è divisa?»
   Non aveva certezze e, ciò che più conta, non s’impancava a formulare e a imporre verità che per primo non possedeva. Quello degl’interrogativi senza risposta è il Garibaldi vero. È anche un Garibaldi molto attuale, giacché non propone una dottrina, un catechismo, un insegnamento né, meno ancora, un modello al quale attenersi rigidamente. Offre solo un esempio: quello di chi convive con i dubbi, reputa di non arrivare a darsi alcuna soluzione definitiva e tuttavia non si abbandona alla disperazione né diviene scettico o indifferente. Sente che di giorno in giorno la vita si esaurisce, ma non ne prova angoscia. Attende senza nulla pretendere. Vive, lascia vivere e nel frattempo fa quel che sente di dover fare per «guarire la gran piaga della miseria.»

Aldo A. Mola

DIDASCALIA. Al Quirinale Vittorio Emanuele II accoglie Garibaldi, presente l'Aiutante di Campo del Re, Giacomo Medici del Vascello, già comandante del 2° Reggimento dei Cacciatori delle Alpi. Nella Prefazione ai romanzi storici Garibaldi disse chiaro e tondo perché li scrisse: «1° Per ricordare all'Italia molti dei suoi valorosi, che lasciarono la vita sui campi di battaglia per essa. 2° Per trattenermi colla gioventù italiana sui fatti da lei eseguiti. 3° Per ritrarre un onesto lucro dal mio lavoro. Ecco i motivi che mi spinsero a farla da letterato in un tempo in cui credetti meglio far niente che far male.» Generale, deputato, artefice dell'unità nazionale Garibaldi si reggeva sulle grucce, non aveva né stipendi né pensioni. Scrisse di getto e pubblicò “Clelia” (uscito nel 1870 in inglese prima che in italiano) e “Cantoni il volontario” (1870), “I Mille”, specchio di «un'anima che sente le miserie e le vergogne del suo paese», e le “Memorie”, intraprese nel 1871, completate l'anno seguente e pubblicate nel 1874. Benché tradotti nei Due Mondi, i romanzi non gli fruttarono quel che sperava. Viveva in condizioni miserevoli. Alcuni Comuni gli assicurarono una pensione di 3.000 lire annue. Nel 1876 accettò il “dono nazionale” e nel 1880 grazie al giureconsulto piacentino e futuro presidente del Senato Giuseppe Manfroni ottenne l'annullamento delle nozze con Giuseppina Raimondi e sposò la provvida compagna Francesca Armosino, dalla quale aveva avuto Rosa, Clelia e Manlio. La sua, sì, fu “una vita inimitabile”.
 

DIRITTI CIVILI E ISLAM
GIUSEPPE GARIBALDI DIXIT

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria”
di domenica 15 Ottobre 2023 pagg. 1 e 6.
La
                                                        copertina
                                                        dell'edizione
                                                        anastatica di
                                                        “Clelia, il
                                                        Governo dei
                                                        preti” a cura di
                                                        A.A.M. nella
                                                        collana “Il
                                                        Feuilleton”
                                                        diretta da
                                                        Giovani Arpino
                                                        (Torino, Meb,
                                                        1973). In “La
                                                        mietitura del
                                                        turco” Giosue
                                                        Carducci
                                                        (1835-1907) nel
                                                        giugno 1897
                                                        sferzò l'ignavia
                                                        dell'Europa
                                                        centro-occidentale
                                                        (sempre uguale a
                                                        se stessa:
                                                        impotente) a
                                                        cospetto delle
                                                        stragi degli
                                                        armeni e dei
                                                        greci. Scrisse:
                                                        «Il Turco miete.
                                                        Eran le teste
                                                        armene/ che ier
                                                        cadean sotto il
                                                        ricurvo acciar:/
                                                        ei le offeriva
                                                        boccheggianti e
                                                        oscene/ a i
                                                        pianti
                                                        dell'Europa a
                                                        imbalsamar.//
                                                        (...) Il Turco
                                                        miete. E al
                                                        morbido tiranno/
                                                        manda il fior
                                                        delle elleniche
                                                        beltà./ I
                                                        monarchi di
                                                        Cristo
                                                        assisteranno /
                                                        bianchi eunuchi
                                                        a l'harem del
                                                        Padascià.» In
                                                        soccorso dei
                                                        greci si mosse
                                                        una legione di
                                                        volontari
                                                        garibaldini,
                                                        guidato da
                                                        Ricciotti
                                                        Garibaldi. Nella
                                                        battaglia di
                                                        Domokòs (17
                                                        maggio 1897)
                                                        cadde anche il
                                                        cinquantaduenne
                                                        forlivese
                                                        Antonio Fratti,
                                                        patriota e
                                                        deputato alla
                                                        Camera.Lo Stato d'Italia è uno “stato di diritto” da quando, nel 1861, il Regno fece proprio lo Statuto albertino del 4 marzo 1848 il cui articolo 24 recita: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono uguali dinnanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammessibili alle cariche civili e militari, salvo le eccezioni determinate dalle leggi”. La confessione religiosa cessò di essere discriminante. Col tempo la libertà di coscienza garantita dallo Statuto divenne costume condiviso, grazie a uno stuolo di spiriti universali. Non accadde altrettanto in regimi teocratici, che subordinano i diritti dei cittadini a una confessione religiosa. Lo spiegò Garibaldi nei suoi romanzi, scritti “per il popolo”. 

La scimitarra sull'Europa...
Nei suoi ultimi anni Giuseppe Garibaldi (Nizza, 4 luglio 1807-Caprera 2 giugno 1882) affinò il proprio pensiero politico. Nel 1860, messa a segno l'impresa dei Mille, senza la quale l'unità d'Italia non sarebbe mai nata, vaticinò gli Stati Uniti d’Europa. Dal 1870, dopo la guerra franco-germanica, in cui combatté a fianco dei francesi contro il militarismo prussiano, e la “Commune” del 1871 (da lui deprecata), invocò la “debellatio” dell’impero turco che opprimeva l’Europa orientale. Unì motivi religiosi e culturali a ragionamenti politici tuttora attuali. Se ancor oggi Costantinopoli è Istanbul lo si deve alla “diplomazia” di Londra e Parigi: è la pesante eredità della Guerra dei Trent'anni (1914-1945), quando i vincitori, pur in presenza dello sfascio dell'impero ottomano, lasciarono ad Ankara la cosiddetta “Turchia europea” per interdire alla Russia l'accesso dal Mar Nero al Mediterraneo attraverso gli Stretti. La miopia si paga nei secoli. Se la cosiddetta Unione Europea (irrilevante sotto il profilo politico e quindi militare) volesse per Costantinopoli una sorte migliore, dovrebbe accogliere la Turchia che ha cancellato la memoria di Ataturk e aspira a restaurare il Califfato islamico.
Garibaldi aveva idee chiare sulla Sublime Porta…
C’è un Garibaldi quasi sconosciuto. Molto oltre il corsaro, il guerrigliero, il generale, vi è il politico: alfiere della fratellanza universale e, proprio perciò, strenuo fautore della lotta per sottrarre l’Europa alla dominazione dei turchi e all'invadenza dell’Islam. Garibaldi ne scrisse ripetutamente nel suo ultimo decennio, il meno studiato e pressoché sconosciuto. Così la sua lotta contro il dominio ottomano su qualunque lembo d’Europa e contro la propagazione dell’islamismo (ideato sei secoli dopo il cristianesimo e che non ha mai fatto i conti con la Rivoluzione francese) rischia di rimanere ignorata. È un Garibaldi scomodo. Perciò vi sono buone ragioni per parlarne. Il Generale mostrò senno politico superiore a quello che di rado e avaramente gli viene riconosciuto. Il suo anticlericalismo radicale, solitamente ritenuto circoscritto alla chiesa cattolica, investì ogni forma di intrusione delle religioni nella vita civile e nella libertà delle persone. La sua lotta per la liberazione dello spazio euro-mediterraneo dai “turchi” andò però molto oltre l’ambito religioso. Fu lotta politica, legata alla valutazione positiva dell’espansione degli europei Oltremare e della colonizzazione dell’Africa settentrionale (programma condiviso da Mazzini) da parte della “civiltà occidentale”, razionale, fondata sull'intreccio di scienze, produzione, mercato, progresso civile. Garibaldi non ingabbiava il Libero Pensiero in pochi meridiani e paralleli: per lui era patrimonio universale. Considerava sua missione propugnarlo ovunque. A quel modo fu “eroe dei due mondi”, etichetta altrimenti futile.
   Nelle Memorie Garibaldi ricordò la sua lunga dimora a Costantinopoli, una pagina avvolta nel mistero. I biografi la saltano a pie' pari. Ammalatosi in uno dei tanti viaggi in Oriente (di quale morbo?), vi rimase più del previsto e si trovò alle strette: «La guerra accesa tra la Russia e la Porta (cioè l’impero turco, detto Sublime Porta, NdA) contribuì a prolungare il mio soggiorno. In tale periodo mi successe per la prima volta di impiegarmi a precettore di ragazzi, offertomi dal signor Diego, dottore in medicina, e che mi presentò alla vedova Timoni, che ne abbisognava. Entrai in quella casa maestro di tre ragazzi, e profittai di tale periodo per studiare un po’ di greco, dimenticato poi, siccome il latino che avevo imparato nei prim’anni.» I maligni imbastirono molte insinuazioni su quella lunga stagione. Garibaldi ci tornò con una pennellata quando, molti decenni dopo. In una pagina di appunti fustigò “Il prete”: «Si chiami egli prete, Ministro, dervista, Calogero, Bonzo, Papas, qualunque nome egli abbia, a qualunque religione egli appartenga, il prete è un impostore, il prete è la più nociva di tutte le creature, perché egli più di nessun altro è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli. Io ho percorso la superficie del globo. In Turchia fui obbligato di fuggire davanti ad una folla di ragazzi e di donne, perché i preti dicevan loro ch’io era un maledetto! In Cina mi successe lo stesso, e voi giunti a Canton, la più frequentata e commerciale delle città Chinesi, non potete visitarla perché sareste lapidato dalla moltitudine suscitata dai preti.»
… e sull'islamismo
L’avversione di Garibaldi nei confronti dell’islamismo non è una cappella laterale della sua vastissima basilica anticlericale. Non è dottrinale, teologica. È propriamente politica. Dall’infanzia aveva appreso, e non solo per racconti popolani ma per esperienze vissute, il pericolo dei “pirati”. Nizza, la sua città, ricordava devastanti incursioni delle flotte turche nel Cinquecento, propiziate dall’alleanza tra Parigi e Istanbul (dal 1453 soggiogata da Maometto II) contro il Sacro romano impero di Carlo V e la Spagna di Filippo II: un gioco diplomatico continuato con Luigi XIV sino a Napoleone III (alleato con Londra, Parigi e l’impero turco contro la Russia di Nicola I: la “guerra di Crimea” decantata dalla storiografia italocentrica per l’intervento del regno di Sardegna a fianco del Sultano). Sulla fine degli Anni Venti dell’Ottocento la pirateria barbaresca rimaneva così minacciosa e dannosa da indurre la Francia di Carlo X, il Piemonte di Carlo Felice e le Due Sicilie di Francesco I di Borbone a una spedizione navale comune. Vi si distinse Carlo Mameli dei Mannelli, padre di Goffredo.
   Nel 1827, ricorda il dotto garibaldologo e confratello Maurice Mauviel, il “Cortese”, brigantino sul quale viaggiava il ventenne Garibaldi, fu assalito da corsari. Il comandante, Semeria, ordinò agli uomini di non opporre resistenza per non avere la peggio. In seguito il giovane nizzardo subì due altri assalti pirateschi, mortificanti e umilianti. Gli rimasero fissi nella memoria. Ne scrisse in Manlio, romanzo contemporaneo, al quale lavorò sino all’ultimo giorno. Vi descrisse i Riffegni (abitanti del Riff, sull’Atlante marocchino, da lui ben conosciuto nel 1849) e l’Assalto di pirati alla nave “Libertà” che, al comando del capitano Schiaffino, eroe della repubblica Romana, recava “Manlio”, di soli cinque anni, verso lo stretto di Gibilterra alla volta dell’America meridionale. In quelle pagine Garibaldi non parla di “arabi”, né di “turchi”. Vi scrisse: «Come il leone, il Riffegno è bello e forte. Non so se, figlio dell’Atlas, egli si debba chiamare di stirpe caucasea. Ignorante, fiero, feroce, e considerando tutto ciò che non è mussulmano, eretico e niente più d’un cane, il Riffegno è naturalmente pirata; e molti furono gli equipagi (sic) di legni mercantili sgozzati quando trattenuti dalle calme presso coteste coste inospitali.»
   Manlio non è un romanzetto qualunque. È il “testamento politico” di Garibaldi. Un suo capitolo è un susseguirsi di colpi e di grida, culminanti in una sorta di seconda Lepanto liberopensatrice: «Marsala! Marsala
rispondeva un garibaldino all’Allah Urrah degli Ottomani e si lanciava seguito dai suoi alla riscossa dei difensori della prora.» La battaglia navale vi viene infine risolta da “Vero”, che, precedentemente ferito e curato dal piccolo Manlio, lascia febbricitante la cabina ove è ricoverato al grido «All’armi…Qui non si tratta di bende ma della pele (sic!) Avanti fratelli!».  “Vero” (nel quale Garibaldi si identifica) a colpi di revolver e di «un coltellaccio che teneva in cintura fece strage orrenda tra i barbareschi, e così i compagni, spinti dall’esempio del valoroso capo e per la propria conservazione».
Estirpare il fondamentalismo dall'Europa...
Sarebbe però meschino ridurre il pensiero di Garibaldi sull’insanabile incompatibilità fra impero turco e civiltà europea a mero riflesso di vicissitudini personali. Esso esprime una visione geopolitica di ampio orizzonte, nell’ambito della guerra secolare tra diritti dell'uomo e del cittadino civili e islam.
   Prosatore esondante, Garibaldi sapeva controllare la penna quando necessario. Perciò i suoi scritti vanno centellinati e capiti, più e meglio di quanto sinora sia stato fatto. Il 5 maggio 1873 scrisse al fido Timoteo Riboli, medico, massone, fondatore della lega per la protezione degli animali: «Mentre l’Europa progredisce che fa l’Italia? Non accenneremo ai miserabili suoi governanti già condannati dal disgusto universale, ma bensì alla parte virile e generosa che forma la sua democrazia, prodotto delle cento chiesuole in cui la dividono i suoi Archimandriti, Massoni, Mazziniani, Internazionalisti, sono egualmente fautori dell’indolenza democratica in Italia, e quindi del trionfo effimero ma reale dell’oppressione e della menzogna…». Pigiava su tasti suonati da tempo: riforme per guarire la “gran piaga della miseria”, rifiuto del programma dell’Internazionale (confisca della proprietà privata e dei diritti ereditari…) e condanna della scioperomania che avrebbe precipitato l’Italia nel disastro.
   Non parlava per sé. “Agricoltore” (come si classificò alla Camera), Garibaldi era una “filosofia politica in azione”, campione di una guerra di liberazione culturale e politica, come osservò Aldo G. Ricci in “Obbedisco. Un eroe per scelta e per destino” (Ed. Palombo). Per lui l’Occidente era contrapposto alla Turchia in un conflitto di civiltà. Lo scrisse il 4 marzo 1876 a Ferdinando Dobelli, rispondendo all’appello della gioventù slava: «La diplomazia del ventre fu incapace di prevenire l’iniziativa del macello umano. I preti nel connubio dei turchi e satolli del loro oro, hanno lanciato l’anatema contro i seguaci della croce. Ed i settari del palo, dopo d’aver lottato per tenerlo in piedi, devono oggi conformarsi allo slancio degli schiavi che preferirono la morte al servaggio. E voi, ricordatevi di tutti gli oltraggi ricevuti dai feroci ed osceni discendenti di Maometto. Il turco deve passare il Bosforo e solo alcuni ottomani, senza preti, potranno convivere, se onesti, coi loro antichi schiavi. Invalido, io invio un saluto del cuore ai fieri campioni della libertà orientale.» Non nutriva dunque alcuna ostilità nei confronti della popolazione turca ma ne aveva contro il regine teocratico che la opprimeva.
Il Solitario contro l'oscurantismo
Contro la “pax” immobilistica dettata dal Congresso di Vienna nel 1815, ribadita da quello di Parigi del 1856 e dal concerto europeo che di conflitto in conflitto riportava il Vecchio Continente ai confini e alle logiche della Restaurazione, Garibaldi pose il problema delle “nazioni senza stato”, dei popoli inchiodati alle tavole di spartizione delle grandi potenze. In lui vibrava il Risorgimento, lo spirito che aveva fatto nascere l’Italia a Stato indipendente, unica nazione emersa per somma di fortune dalla Restaurazione del 1814-15 e dalla repressione della primavera dei popoli (1848-1849).
   Agli occhi di Garibaldi la presenza della Turchia in Europa era una cappa di piombo sulla storia. Bisognava liberarsene. Non per motivi etnici, ma perché bastione del fondamentalismo oscurantista. L’occasione sembrò profilarsi dal 1875 con le rivolte antiturche, dalla Bosnia alla Bulgaria, represse dalla Sublime Porta grazie al sostegno della Gran Bretagna, sospinta dai suoi soliti calcoli geopolitici e da interessi finanziari. Il 17 luglio 1877 Garibaldi scrisse al marchese Filippo Villani: «Mandare i Turchi in Asia, ecco il provvedimento efficace per gli schiavi dell’Europa Orientale; ogni altra misura sarà una tappa di guerra.» Ma bisognava vincere gli intralci della diplomazia, come ruvidamente vergò nel Romanzo contemporaneo: «In questi ultimi tempi, massime per la questione orientale, si è manifestato nel mondo quanto di lurido esiste ancora nell’umana famiglia. L’Austria ha fatto il suo dovere di aquila o piuttosto d’avvoltoio, sostenendo sordamente la causa dell’oppressore e accatastando ogni specie d’ostacoli all’Europa Orientale. Essenzialmente tiranna essa ha fatto quanto doveva. Ma l’Inghilterra, la terra universale d’asilo, l’emancipatrice degli schiavi, non doveva, guidata da un Ebreo [lord Disraeli, NdA] lasciarsi condurre all’esterminio dei poveri servi ed al sostegno di tiranni esecrabili. No! Ed io racapricio pensandovi! […] E i preti? Peste dell’umana famiglia, hanno fatto causa comune coi massacratori degli innocenti.»
   Nel Manlio Garibaldi passò dalle staffilate contro il clero a quelle specifiche contro «il Turco, che più cristiani uccide e più titoli acquista ai godimenti ed alla gloria dell’immorale suo paradiso e, codardo come sono generalmente gli uomini sanguinari, si diverte a impalare, mutilare, squartare uomini inermi, donne, bambini!!!».
   Sospinto dall’orrore, il “Solitario” (come Garibaldi si autodefinì in Clelia) sognò una guerra di liberazione del Mediterraneo dal dominio turco, a cominciare dall’isola di Creta: «Giunta la flotta italiana sulla rada di Canea, v’incontrò la turca, composta di cinque corazzate e se ne impadronì. Mi si chiederà con quale diritto. Ed io risponderò: collo stesso diritto con cui Maometto Secondo si impadroniva di Costantinopoli ed i pirati turchi delle nostre donne, bambini, uomini, etc., per farne degli schiavi…» Non erano sfoghi letterari ma ragionamenti politici. Al marchese Villani il 15 marzo 1878 da Caprera scrisse: «Dunque dopo tanto sangue versato risulterà nell’Europa Orientale uno di quei mostruosi pasticci di cui la diplomazia va famosa. Cosa è questa lunga Turchia che dal Bosforo si estenderà all’Adriatico, passando sul corpo della Bulgaria quasi indipendente, o tra questa e la Serbia da una parte, la Macedonia e la Tessalia dall’altra, le di cui popolazioni se hanno un’ombra di dignità dovranno mantenersi in uno stato perenne d’insurrezione? Quando io dissi al principio di questa guerra: i Turchi dover passare il Bosforo per poter ottenere una pace durevole, e tale è pure la mia opinione d’oggi, ma i turchi che intendano ciò solo: il sultano, le sue odalische, i suoi eunuchi e l’immensa caterva di preti ottomani, non già la popolazione turca onesta e laboriosa che di quanti popoli abitatori del Levante è la migliore. Tale emigrazione sarebbe impossibile, converrebbe però non lasciar in Europa un solo prete turco, che basterebbe a seminar la zizzania in tutta la confederazione; e le moschee cambiar in scuole, ove s’insegnerebbe la religione del vero.»
   Garibaldi sperava in un Congresso che esercitasse l’arbitrato internazionale, la ricerca di una soluzione pattizia dei conflitti nel rispetto della libertà dei popoli, che avrebbe comportato con sé la libera navigazione nel Mar Nero (rumeno perché daco-romano) e negli Stretti.
La pace di Santo Stefano e il congresso di Berlino del 1878 dettero tutt’altri risultati: la Gran Bretagna s’impadronì di Cipro e ne fece l’isola della divisione, del conflitto permanente, quale ancora rimane: un equivoco irrisolto nel Mediterraneo orientale. E il gran Malato d’Oriente divenne sempre più la polveriera della futura conflagrazione europea, esplosa nell’estate 1914 dopo la guerra italo-turca per la sovranità sulla Libia e tre guerre balcaniche in due anni: groviglio inestricabile, letto di procuste sul quale la diplomazia inetta inchiodò l’area balcanica.
   Il Solitario aveva intravveduto e suggerito la soluzione, ma non ne vide l’approdo ultimo. Nel 1897 Creta insorse ma l’Europa fu solidale con la Sublime Porta nella repressione, come deplorò Giosue Carducci in versi staffilanti. La grande guerra si concluse sul versante orientale con la pace di Sèvres, che lasciò gli Stretti ad Ataturk (massone, sì, ma, come tanti altri “fratelli”, solo sino a quando gli fece comodo) in cambio dell’adozione dell’alfabeto latino e di una parvenza di “laicizzazione”. La seconda guerra mondiale lasciò le cose com’erano, per una somma di errori e nefandezze delle diplomazie, oggi incombenti sull'Unione Europea, a sua volta incapace di politica estera di vasto respiro.
   Aveva ragione il Solitario di Caprera. Il cui pensiero perciò venne ignorato: troppo scomodo, sempre attualissimo.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA:
La copertina dell'edizione anastatica di “Clelia, il Governo dei preti” a cura di A.A.M. nella collana “Il Feuilleton” diretta da Giovani Arpino (Torino, Meb, 1973). In “La mietitura del turco” Giosue Carducci (1835-1907) nel giugno 1897 sferzò l'ignavia dell'Europa centro-occidentale (sempre uguale a se stessa: impotente) a cospetto delle stragi degli armeni e dei greci. Scrisse: «Il Turco miete. Eran le teste armene/ che ier cadean sotto il ricurvo acciar:/ ei le offeriva boccheggianti e oscene/ a i pianti dell'Europa a imbalsamar.// (...) Il Turco miete. E al morbido tiranno/ manda il fior delle elleniche beltà./ I monarchi di Cristo assisteranno / bianchi eunuchi a l'harem del Padascià.»  In soccorso dei greci si mosse una legione di volontari garibaldini, guidato da Ricciotti Garibaldi. Nella battaglia di Domokòs (17 maggio 1897) cadde anche il cinquantaduenne forlivese Antonio Fratti, patriota e deputato alla Camera.
 


LUIGI CADORNA
RESTAURATO IL MAUSOLEO A PALLANZA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria”
di domenica 8 Ottobre 2023 pagg. 1 e 6.
Il
                                                          Mausoleo del
                                                          conte Luigi
                                                          Cadorna sul
                                                          Lungolago di
                                                          Pallanza. Il
                                                          suo restauro
                                                          viene
                                                          festeggiato
                                                          alle 10 di
                                                          sabato 14
                                                          ottobre a
                                                          Pallanza, con
                                                          interventi del
                                                          prefetto
                                                          Michele
                                                          Formiglio, del
                                                          sindaco Silvia
                                                          Marchionini e
                                                          una
                                                          Allocuzione
                                                          del colonnello
                                                          Carlo Cadorna.
                                                          Su Luigi
                                                          Cadorna v.
                                                          Pierluigi
                                                          Colloredo
                                                          Valls, Luigi
                                                          Cadorna. Una
                                                          biografia
                                                          militare,
                                                          2021, con
                                                          ampia
                                                          bibliografia;
                                                          Luigi
                                                          Cadorna-Carlo
                                                          Cadorna,
                                                          Caporetto?
                                                          Risponde Luigi
                                                          Cadorna, Roma,
                                                          BastogiLibri,
                                                          2020; e Luigi
                                                          Cadorna, La
                                                          guerra alla
                                                          fronte
                                                          italiana fino
                                                          all'arresto
                                                          sulla linea
                                                          della Piave e
                                                          del Grappa,
                                                          edizione
                                                          anastatica,
                                                          con
                                                          introduzione
                                                          di Aldo A.
                                                          Mola, Roma,
                                                          BastogiLibri,
                                                          2019.L'Italia di Luigi Cadorna è raffigurata nell'altorilievo in bronzo di Davide  Calandra sovrastante lo scranno del presidente della Camera dei deputati a Monte Citorio. Lo si può osservare più volte al giorno in televisione. Al centro domina la Monarchia costituzionale, fiancheggiata dalla Diplomazia e dalla Forza, il cui impiego, insegnò Carl von Clausewitz in “Della guerra” ne è la prosecuzione con altri strumenti. Luigi Cadorna, come suo padre Raffaele, suo zio Carlo e suo figlio Raffaele, fu militare nutrito di pensiero politico e istituzionale, con una visione ampia della storia dei popoli. Fu anche, e rimane, specchio dei nodi irrisolti dell'Italia nata dalla lunga preparazione risorgimentale ma infine sorta nel volgere di pochi mesi e, di seguito, impegnata a consolidare i muri portanti a scapito della armonia tra le sue componenti.
  
    Il Regno d'Italia che, mutata la forma istituzionale, continua nella Repubblica, nacque nel marzo 1861 dal concorso della diplomazia e della spada sotto le insegne dei sovrani sabaudi, sue fondamenta. Alla sua base esso ebbe lo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 dal re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia-Carignano. Quel cammino coronato daVittorio Emanuele II, primo Re d'Italia, e, dopo gli anni di Umberto I (1878-1900), da Vittorio Emanuele III, durante il cui regno lo Stato raggiunse il massimo di espansione territoriale con il confine al Brennero e al Quarnaro e l'annessione di Fiume.
    La premessa del percorso che condusse alla proclamazione del Regno furono il regio editto del 27 novembre 1847, che rese elettivi i componenti dei consigli comunali, provinciali e divisionali, e lo Statuto che trasformò la monarchia amministrativa in monarchia rappresentativa e istituì il Senato di nomina regia e vitalizia e l'elezione della Camera dei deputati. Quelle riforme generarono l'avvento di una vastissima e partecipe classe dirigente, politica e amministrativa, formata dall'intreccio e dalla somma  di nomine e di esiti delle leggi elettorali, prospettate dallo Statuto e via via deliberate dal Parlamento.

     Come ribadito dalla Costituzione della Repubblica, già lo Statuto precisò con chiarezza identità  e prerogative del Capo dello Stato: “comanda tutte le forze di terra e di mare”. Non fu altrettanto preciso quando enunciò che il re “dichiara la guerra, fa i trattati di pace, di alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l'interesse e la sicurezza dello Stato il permettano...”. All'alba della monarchia rappresentativa non distinse con la differenza tra deliberare, dichiarare e proclamare la guerra, tre “momenti” separati per la diversità dei suoi “attori”.
      Lo Statuto tacque su corpo diplomatico e assetto delle forze armate, in specie sul comando dell'esercito: un interrogativo che si pose all'indomani della prima non fortunata fase della guerra del 1848. Il nodo Re-ministro della guerra-comandante dell'armata era e rimase ingarbugliato perché per Statuto il potere esecutivo apparteneva “al re solo”, però “responsabile” non era il sovrano; lo erano i ministri.
L“equivoco” (come scrisse l'insuperato Piero Pieri nella “Storia militare del Risorgimento”) venne temporaneamente risolto il 7 febbraio 1849 con la nomina del generale polacco Wojchiech Chrzanowski al comando dell'Armata “sotto la sua responsabilità, in nome del Re”, come “general maggiore dell'Esercito”, “con “comando effettivo”. L'ambiguità si ripresentò nel 1859 quando, aggredito dall'Austria, il regno di Sardegna entrò in guerra forte dell'alleanza con Napoleone III, e nel 1866, quando, i generali Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini ebbero il comando delle due armate schierate contro l'impero d'Austria e operarono senza l'indispensabile coordinamento.     
   La legge 29 giugno 1882, n.831 istituì il Capo di stato maggiore dell'esercito. Ne furono titolari Enrico Cosenz (1882-1893), Domenico Primerano (sino al 1896, dopo Adua), entrambi già allievi della borbonica Scuola Militare Nunziatella di Napoli, e il torinese Tancredi Saletta. Quando nel 1908 questi fu collocato a riposo il generale più anziano e quindi vocato alla successione (“l'anzianità fa grado” recitava un efficace brocardo) era il cinquantottenne Luigi Cadorna (Pallanza, 4 settembre 1850-Bordighera, 21 dicembre 1928) dal 1907 al comando della Divisione militare di Napoli. Come egli stesso scrisse in Pagine polemiche e venne ribadito nella biografia scrittane da Perluigi Romeo di Colloredo Valls (2021), con procedura inconsueta la “successione” fu subordinata ad “accertamento”.  Secondo il regio decreto 14 novembre 1901, n. 466 tra le questioni di ordine pubblico e di alta amministrazione da sottoporsi al Consiglio dei ministri vi erano “le nomine e destinazioni dei comandanti di corpi di armata e di divisioni militari; le nomine del capo di stato maggiore dell'esercito e del primo aiutante di campo di S.M. il Re”.
  
   In vista della sostituzione di Saletta, da tempo malato, l'8 marzo 1908 il generale Ugo Brusati, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, chiese a Cadorna di dichiarargli “schiettamente” se davvero, come pareva da voci in circolazione, subordinasse la nomina a capo di stato maggiore all'ampliamento per legge dei suoi poteri soprattutto in vista di una guerra. La risposta fu netta: “S(ua) M(aestà) che dallo Statuto è creato Comandante Supremo, è pur dallo stesso dichiarato irresponsabile. Ma il comando non può neppure esistere senza un responsabile il quale perciò non può essere che il capo di S(tato) M(aggiore). Ma la responsabilità ha per necessario correlativo: 1.La libertà d'azione nella condotta delle operazioni; 2. La libertà d'azione nella preparazione della guerra in ciò che ha rapporti colle operazioni; 3.La esclusione dagli alti comandi di coloro che non ispirano la necessaria fiducia”. Cadorna non intendeva mettere in discussione le prerogative statutarie del sovrano ma osservò che il decreto legge  4 marzo 1906 aveva definito i poteri del capo di stato maggiore in tempo di pace ma non in guerra. “A deliberare, concluse, dev'essere uno solo: il responsabile”.
    Il 1° luglio 1908 capo di stato maggiore venne nominato il casertano Alberto Pollio di due anni più giovane di Cadorna. Imperando Giolitti, che impose a Vittorio Emanuele III l'immediato collocamento a riposo di Vittorio Asinari di Bernezzo, per alcune sue parole di sapore irredentistico, Cadorna ritenne ormai improbabile l'ascesa al vertice dell'esercito. La sua esclusione da comandi operativi negli anni seguenti ne suscitò reazioni sdegnate. Il 23 agosto 1912 a proposito della ventilata nomina del generale Ragni a governatore  civile e militare della Libia al figlio Raffaele scrisse: “Nominare un altro senza neppure dirmi crepa sarebbe un vero schiaffo datomi in piena guancia”. Avrebbe risposto con la richiesta ipso facto del collocamento a riposo.    

    La notte del 1° luglio 1914, quattro giorni dopo l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo a Sarajevo per mano di un terrorista serbo eterodiretto, Pollio morì improvvisamente a Torino. Sulle cause e le circostanze del suo decesso furono ricamate insinuazioni e leggende. Dal 20 marzo 1910 Cadorna era comandante della IV divisione militare (Genova-Piacenza). Ormai prossimo al congedo per motivi di età, stava progettando di prendere casa in Liguria. Il 10 luglio fu nominato capo di stato maggiore. Presidente del Consiglio da quattro mesi era Antonio Salandra, in successione a Giolitti; ministro degli Esteri era il catanese Antonino Parternò Castello, marchese di San Giuliano, il “politico” italiano più stimato da Vittorio Emanuele III. Nel volgere di poche settimane esplose la Conflagrazione europea: sequenza di mobilitazioni, ultimatum, dichiarazioni di guerra. Appena insediato, sulla scia del predecessore Cadorna approntò il piano di intervento a fianco di Vienna e Berlino, cui Roma era legata dal trattato difensivo del 20 maggio 1882. Il progetto, da Cadorna pubblicato nel 1925, rimase agli atti.
    Mese dopo mese divenne chiaro che la guerra sarebbe durata a lungo e che per l'Italia, vulnerabile su tutti i confini terrestri e marittimi e dipendente dall'estero per il proprio sistema produttivo e alimentare, sarebbe stato impossibile rimanerne fuori. Di lì la preparazione e, di seguito, la “mobilitazione occulta” orchestrata da Cadorna tra difficoltà e ritardi per portare lo strumento militare al livello necessario.     
    Senza informarlo, il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, dopo lunga segreta trattativa fecero sottoscrivere dall'ambasciatore d'Italia a Londra Guglielmo Imperiali l'“arrangement” del 26 aprile 1915. Solo il 6 maggio Cadorna fu sbrigativamente informato che l'Italia doveva intervenire entro due settimane. Ministro della guerra era il maggior generale Vittorio Zupelli. Il suo predecessore, Domenico Grandi, il 23 settembre 1914 aveva comunicato al governo le condizioni dell'esercito in vista di una mobilitazione generale concludendo che non si trovava nel complesso nelle condizioni desiderabili “per affrontare senza preoccupazione una campagna di guerra”. L'esercito avrebbe fatto “come sempre, il proprio dovere”, meglio se si fosse sentito “sospinto e accompagnato dal consenso del Paese” il cui miglior giudice però era il governo. Venne sostituito.
    Salandra e Sonnino compirono tre errori agli occhi della storia sconcertanti. Nel loro carteggio ammisero di essere andati oltre il consenso esplicito del re, del governo e senza maggioranza in parlamento. Impegnarono l'Italia a entrare in guerra entro 30 giorni dalla firma contro “tutte le potenze” dell'Intesa. A differenza di quanto aveva progettato San Giuliano, fautore di una Quadruplice Intesa, l'“accordo” (non vero e proprio Trattato) comportò l' “adesione” alla Triplice Intesa, non l'inclusione “alla pari”. Perciò l'Italia fu tenuta all'oscuro degli impegni assunti al suo interno dalla Triplice intesa. Il peso della guerra venne scaricato sul capo di stato maggiore, non consultato neppure sui “compensi” chiesti da Salandra e Sonnino, quasi la difesa dei futuri confini dell'Italia fosse una variabile esclusiva della “politica” anziché un pegno vincolante sotto il profilo militare per un Paese dal dominio coloniale già vasto, costoso e impegnativo: dall'Eritrea alla Somalia e alla Libia.
    Il precario equilibrio del governo Salandra-Sonnino fu sull'orlo di precipitare. Il 13 maggio 1915 il consiglio dei ministri verbalizzò: “considerando che intorno alle direttive  del governo nella politica internazionale manca il concorde consenso dei partiti costituzionali che sarebbe richiesto dalla gravità della situazione, delibera di presentare a S.M. il  Re le proprie dimissioni”. A mobilitazione ormai avviata, consultato per la seconda volta da Vittorio Emanuele III  Giolitti, secondo il quale l' “accordo di Londra” non vincolava lo Stato ma solo il governo, declinò l'invito a formare un nuovo esecutivo. Nessun altro se ne fece carico. Al Re non rimase che inviare alle Camere il governo in carica. Il 17 maggio il consiglio dei ministri approvò “il disegno di legge da presentare alla Camera per delegazione di poteri legislativi in caso di guerra e per l'esercizio provvisorio”. Benché in larghissima maggioranza contraria all'intervento, il 20 maggio la Camera approvò la proposta con l'opposizione dei soli socialisti e molte assenze tra i costituzionali. L'indomani altrettanto fece il Senato, pressoché unanime.
  
   All'opposto di Giolitti, che prevedeva una guerra di molti anni, Salandra aveva lasciato intendere, e forse ne era persino convinto, che il conflitto sarebbe terminato entro l'autunno. Dal canto suo, perfettamente a giorno sulle condizioni effettive dello strumento militare, logorato dall'impresa di Libia e da decenni di investimenti inadeguati, Cadorna riteneva che l'Italia non potesse affrontare una guerra “grossa” (cioè di largo impiego di uomini e armi) belliche e “lunga”. Le condizioni effettive dell'esercito nella primavera del 1915 erano quelle pochi mesi prima descritte dal ministro Domenico Grandi e poi documentate nell'“Inchiesta sugli avvenimenti dall'Isonzo al Piave: 24 ottobre-9 novembre1917”. Disponeva di una mitragliatrice per ogni chilometro di fronte. Pressoché inesistente erano l'artiglieria pesante e l'aviazione. Si producevano 2500 fucili al mese, a fronte di un milione di uomini da mettere subito in campo. Occorrevano ufficiali e sottufficiali preparati.
   
    Eletta per la prima volta a suffragio maschile quasi universale nell'ottobre 1913, la Camera che nel maggio 1915 si era sentita ricattata da Salandra rimase in agguato.  Contro l'opinione (corrente non solo all'epoca) secondo la quale il Parlamento “non fa crisi” quando lo Stato è in guerra, nel giugno 1916, dopo la spedizione austro-ungarica di primavera, la Camera sfiduciò Salandra. Il nuovo esecutivo, presieduto dall'anziano Paolo Boselli, con sette ministri senza portafoglio e molti esponenti tiepidi nei confronti dell'intervento, ebbe all'Interno il siciliano Vittorio Emanuele Orlando che doveva garantire il sostegno del Mezzogiorno senza “provocare” le opposizioni. La “politica” risultò sempre più divaricata rispetto alle esigenze vitali dell'esercito illustrate da Cadorna a Boselli in quattro lettere del 6, 8 e 13 giugno e del 18 agosto 1917 mentre da mesi in Russia, dopo il rovesciamento dello zar, imperversava la rivoluzione. Con grado invariato, anche se correntemente detto “Comandante Supremo” e “Generalissimo”, Cadorna chiese ripetutamente quali misure il governo intendesse adottare per reprimere la propaganda socialista-pacifista e combattere “i nemici interni, altrettanto se non più temibili di quelli che abbiamo di fronte” (8 giugno) e così prevenire “il crescente spirito di rivolta tra le truppe” (13 giugno) anche a cospetto di gravi reati militari compreso il passaggio al nemico (18 agosto). Cosciente dei rischi cui erano esposti che il Paese e la Monarchia mentre dilagavano renitenza alla leva e diserzioni, a cominciare dalla Sicilia, Cadorna non esitò a deplorare: “il governo sta facendo una politica interna rovinosa per la disciplina e per il morale dell'Esercito, contro la quale è mio stretto dovere protestare con tutte le forze dell'animo”. Boselli (che aveva “paura fisica” di Cadorna) non rispose.
   Trattenendo l'irritazione, Orlando attese il  suo momento. Questo venne con l'offensiva austro-germanica del 24 ottobre 1917. Secondo il piano predisposto anni prima da Cadorna, il fronte venne arretrato sulla linea dalla destra del Piave al Grappa, debitamente fortificato e ribaltò la sconfitta (non una “disfatta”) in battaglia d'arresto. Va ricordato che due mesi prima, a cospetto della decisione di Cadorna passare dallo schieramento offensivo al difensivo, inglesi e francesi ritirarono i cannoni avaramente “prestati” all'Italia.
   Lo stesso 24 ottobre, ancora ignara di quanto stesse avvenendo al fronte, la Camera sfiduciò il governo Boselli. All'emergenza militare si aggiunse quella politica. Mentre Cadorna orchestrava l'arretramento, in un colloquio con il Re Orlando subordinò l'accettazione dell'incarico di formare il governo alla sua sostituzione. Nuovo Comandante Supremo fu nominato Armando Diaz, che, a parte aspetti estrinseci, operò nel solco del predecessore, compresa l'applicazione del codice penale militare, consolidò l'Esercito grazie allo sforzo del sistema produttivo interno, sorretto dal lancio di nuovi prestiti nazionali e dall'assicurazione sulla vita dei combattenti per intervento dell'INA, e respinse le ingerenze del governo sul punto essenziale: il comando. Quando Orlando insisté per un'offensiva accampando che era meglio una nuova Caporetto che la stasi non rispose. A differenza del presidente del Consiglio era consapevole che una seconda sconfitta avrebbe rischiato la fine dell'Italia.
     Per alto senso del dovere verso la Patria Cadorna accettò di guidare la delegazione dell'Italia a Versailles, sede del comando interalleato. Era stato sempre il più coerente fautore della conduzione unitaria della guerra europea e, uomo del Risorgimento, contro i criteri di Sonnino (sino all'ultimo contrario alla dissoluzione dell'impero austro-ungarico), aveva propugnato l'offensiva dell'Italia su Lubiana e Zagabria per suscitare la rivolta dei “popoli senza Stato” che divampò nell'Europa orientale nell'ottobre 1918 e determinò il collasso degli Imperi centrali. A quel punto, però, Cadorna era già stato richiamato in Italia, “a disposizione” della Commissione d'Inchiesta sugli avvenimenti del 1917.
     Per giudizio unanime dei più illustri generali e storici militari dei diversi Stati in lotta, Luigi Cadorna fu il comandante più capace e lungimirante della Grande Guerra. 
   Aldo A. Mola
       
DIDASCALIA. Il Mausoleo del conte Luigi Cadorna sul Lungolago di Pallanza. Il suo restauro viene festeggiato alle 10 di sabato 14 ottobre a Pallanza, con interventi del prefetto Michele Formiglio, del sindaco Silvia Marchionini e una Allocuzione del colonnello Carlo Cadorna. Su Luigi Cadorna v. Pierluigi Colloredo Valls, Luigi Cadorna. Una biografia militare, 2021, con ampia bibliografia; Luigi Cadorna-Carlo Cadorna, Caporetto? Risponde Luigi Cadorna, Roma, BastogiLibri, 2020; e Luigi Cadorna, La guerra alla fronte italiana fino all'arresto sulla linea della Piave e del Grappa, edizione anastatica, con introduzione di Aldo A. Mola, Roma, BastogiLibri, 2019.    


 L'ESTATE DI VITTORIO EMANUELE III?
CONVEGNO A VICOFORTE CON IL PRINCIPE AIMONE DI SAVOIA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 1 Ottobre 2023 pagg. 1 e 6.
 DIDASCALIA:
                                                          La copertina
                                                          del volume
                                                          (ed.
                                                          BastogiLibri),
                                                          pubblicato
                                                          dall'Associazione
                                                          di studi
                                                          storici
                                                          Giovanni
                                                          Giolitti e
                                                          della
                                                          Associazione
                                                          di Studi sul
                                                          Saluzzese, e
                                                          il programma
                                                          del Convegno
                                                          di Vicoforte,
                                                          che si vale
                                                          dell'adesione
                                                          di enti,
                                                          istituti,
                                                          centri di
                                                          studio e della
                                                          Associazione
                                                          Nazionale ex
                                                          Allievi della
                                                          Nunziatella.
                                                          Nel programma
                                                          l'Italia è
                                                          prospettata
                                                          quale appariva
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                                                          che ne
                                                          iniziarono
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                                                          da Sicilia,
                                                          Calabria e
                                                          Taranto.
                                                          Impiegarono
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                                                          Roma e
                                                          diciotto a
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                                                          pianura padana
                                                          dal novembre
                                                          1944 lasciata
                                                          in balia dei
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                                                          tempi tragici
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                                                          civile.  Un innovativo convegno di studi...
  Sabato 7 ottobre 2023 il principe Aimone di Savoia presenzia in Vicoforte (Cuneo) a un convegno di studi sul “L'estate di Vittorio Emanuele III: 25 luglio-19 ottobre 1943”.
   In poche settimane l'Italia voltò pagina. La svolta fu decisa personalmente dal Re. Da tempo privo di sostegno di politici ante-fascisti e, meno ancora, di gerarchi come Galeazzo Ciano, invano sondati dal ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone per imprimere una piega diversa al corso della storia, confidando in militari fedelissimi, a cominciare dai Carabinieri, il 25 luglio Vittorio Emanuele III esercitò i poteri della Corona, mai intaccati. Sostituì al governo Benito Mussolini con il Maresciallo Pietro Badoglio, che, su sua direttiva, smantellò il regime fascista e puntò a portare l'Italia al di fuori della guerra. Con la “resa senza condizioni” (3 settembre), dettata dagli anglo-americani a nome delle Nazioni Unite, l'Italia perse la piena sovranità. Però con il trasferimento da Roma a Brindisi (9 settembre) il Re salvò la continuità dello Stato. In gran parte occupata dai tedeschi e per l'altra sottoposta agli anglo-americani, l'Italia rimase divisa tra Repubblica sociale italiana, proclamata da Benito Mussolini, policentrica e vassalla della Germania, e il Regno, unico potere riconosciuto legittimo dalle Nazioni Unite, ormai avviate alla vittoria.
Cobelligerante dal 13 ottobre, il governo di Vittorio Emanuele III riorganizzò le Forze armate, impegnate nella lotta di liberazione, e l'amministrazione pubblica, ma non ebbe la collaborazione dei partiti, in massima parte avversi al re e alla monarchia. Sottoposta a pesanti bombardamenti, invasa e bersaglio di rivalse estere antiche e nuove, l'Italia faticò a imboccare la via della riscossa ma risalì la china e, a parte la tragica amputazione sul versante orientale, mantenne quasi tutti i confini conseguiti con le guerre per l'indipendenza. Grazie all'iniziativa di Vittorio Emanuele III la sua sorte fu ben diversa da quella riservata dai vincitori alla Germania e ai suoi satelliti nell'Europa orientale, per decenni  sottoposti all'Unione sovietica, con il consenso dei partiti comunisti, a cominciare da quello italiano. 
Dal luglio 1943 al maggio 1945 il Paese visse i tempi più tragici dall'unità. 

Nel convegno del 7 ottobre (in programma dalle 10 alle 19 a Casa Regina Montis Regalis di Vicoforte, accesso libero) ne parlano, documenti alla mano, storici di diverso orientamento, uniti nella ricerca della verità dei fatti attraverso le carte d'archivio: Giuseppe Catenacci, presidente onorario dell'Associazione ex Allievi della Nunziatella, il col. Carlo Cadorna, figlio del generale Raffaele, comandante del Corpo Volontari della Libertà, i generali Tullio Del Sette, già comandante dei Carabinieri, e Antonio Zerrillo, Aldo Ricci, p. sovrintendente dell'Archivio Centrale dello Stato, i docenti Raffaella Canovi, GianPaolo Ferraioli, Rossana Mondoni con Daniele Comero, Massimo Nardini, Tito Lucrezio Rizzo, già Consigliere della Presidenza della Repubblica, Gianpaolo Romanato, Giorgio Sangiorgi. Con Gianni Rabbia presiedono Alessandro Mella e Gianni S. Cuttica.
Il convegno è promosso dall’Associazione di studi storici Giovanni Giolitti e dall'Associazione di studi sul Saluzzese, presieduta da Attilio Mola, con la adesione di enti e istituti.
La scelta di Vicoforte non è casuale. Nel suo Santuario dal 2017 riposano le spoglie di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena, traslate per iniziativa della principessa Maria Gabriella di Savoia, propiziata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

...e un volume sul lungo Regno di Vittorio Emanuele III...
 A margine del convegno viene presentato un volume sul lungo regno di Vittorio Emanuele III. Esso raccoglie gli Atti dei convegni di studi svolti a Vicoforte il 9 ottobre 2021 su “Il Re Soldato per il Milite Ignoto: la riscossa della monarchia statutaria (1919-1921)” e il 1° ottobre 2022 su “La crisi politica italiana del 1922”, a prosecuzione del percorso intrapreso con il convegno “Da Caporetto alla Vittoria” (Saluzzo, 2017-2018) e con quelli su “Il lungo regno di Vittorio Emanuele III”, scandito in “L'età vittorioemanuelina/giolittiana,1900-1921” (Vicoforte,28-29 settembre 2018),  “Corona e regime: gli anni del consenso, 1922-1937” (Vicoforte 8 ottobre 2019) e “Gli anni delle tempeste: meditazioni, ricordi e congedo, 1938-1946” (Vicoforte, 10 ottobre 2020).
   Nei loro contributi gli autori sintetizzano e innovano opere pubblicate in saggi e volumi. La serie dei convegni focalizza specifici “momenti” della prima metà del Novecento e, al tempo stesso, supera la segmentazione del lungo periodo in “eventi” che vanno collocati nella visione complessiva dello Stato. I “centenari” e/o i “periodi” via via individuati non sono tributo convenzionale a una data o a “episodi” ma fanno percepire la genesi e i capisaldi dello Stato (corona, parlamento, politica estera, forze armate,  movimenti e partiti politici, vita culturale, dinamica economica e sociale...).
   All'inizio del Novecento, aperto dal regicidio, il regno d'Italia contava appena quarant'anni dalla proclamazione e solo da trenta aveva annesso Roma, coronamento del progetto enunciato nel marzo 1861 da Camillo Cavour ma anche causa della sua drastica “condanna”, anzi “scomunica”, da parte di Pio IX. All'opposto di quanto recentemente affermato da Ernesto Galli della Loggia, non vi fu affatto una “conventio ad excludendum” dei cattolici dalla direzione dello Stato (“Corriere della Sera”, 21 settembre 2023, p.32). Contrariamente a quanto proposto da molti ecclesiastici di prestigio, come  Luigi Tosti, abate d Montecassino, e il teologo Carlo Passaglia, deputato di Montecchio e autore della “Petizione a Pio IX e ai Vescovi” sottoscritta da novemila sacerdoti fautori dell'immediata conciliazione tra la Chiesa e il Regno d'Italia il pontefice provocò la  secessione dei cattolici dalla vita politica nazionale. A quella lacerazione altre se ne aggiunsero. Mentre Giuseppe Garibaldi, “primo massone d'Italia” e da tanti democratici optarono per “Italia e Vittorio Emanuele”, la soluzione sabauda fu rifiutata dai repubblicani intransigenti, numericamente esigui e tuttavia influenti in ambenti settari, e dai socialisti che in tutte le loro componenti rifiutarono le sollecitazioni ad assumere responsabilità di governo più volte avanzate, anche dal liberal-democratico Giovanni Giolitti.

   L'ampio ventaglio di temi messi a fuoco nel volume evidenzia la centralità della monarchia statutaria nel regno d'Italia e, di conseguenza, della condotta del Re. Dopo il decennio di fine Ottocento, nel cui corso si susseguirono una decina di governi talora di brevissima durata (l'ultimo ministero presieduto dal marchese Antonio Starrabba di Rudinì resse solo quattro settimane), il regime parve trovare stabilità con la coalizione presieduta dal democratico bresciano Giuseppe Zanardelli, subentrato all'ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato. La “svolta liberale” di inizio secolo si sostanziò nella fiducia accordata al nuovo governo da parte della Camera eletta nel giugno 1900, mentre presidente del Consiglio era il generale Luigi Pelloux, già ministro della Guerra (1892-1893), e poi a quello dal novembre 1903 presieduto da Giolitti.
    Il regio decreto 14 novembre 1901, n. 466 sulle “materie da sottoporsi al Consiglio dei ministri” chiarì che il suo presidente rappresentava il gabinetto, manteneva l'unità d'indirizzo politico e amministrativo di tutti i ministeri e curava l'adempimento “degli impegni presi dal governo nel discorso della Corona, nelle sue relazioni con il Parlamento e nelle manifestazioni fatte al paese”. Precisò che il ministro degli Esteri conferiva col presidente del Consiglio su tutte le note e comunicazioni che impegnassero la politica del governo nei rapporti con quelli esteri. Dal 1892 al 1922 nessun presidente del Consiglio fu titolare degli Esteri, a differenza di quanto era accaduto con Camillo Cavour e Francesco Crispi (ma solo nel 1889-1891) e avvenne poi con Benito Mussolini che assunse Esteri e Interno. Il regio decreto del 1901 non rafforzò né la camera elettiva né il governo ma il presidente del Consiglio, interlocutore privilegiato del sovrano. Fu un passo avanti verso la futura legge istitutiva del “capo del governo” (24 dicembre 1925, n. 2263). A differenza di quanto solitamente viene detto, questa non intaccò affatto le prerogative statuarie del re. Essa infatti sancì: “Il Capo del governo è nominato e revocato dal Re ed è responsabile verso il Re dell'indirizzo generale politico del governo”.
   L'evoluzione del regime monarchico conferì maggior peso alla dirigenza politica. Erano gli anni delle riflessioni di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels sulle élites e sui partiti. Proprio per la preminenza delle “personalità” chiamate a reggere le sorti del Paese la storiografia parve chiamata a dedicare speciale attenzione ai profili politico-istituzionali del Re, dei suoi più stretti collaboratori (a cominciare dai ministri della Real Casa e dai suoi primi aiutanti di campo), dei presidenti del Consiglio e dei maggiorenti delle Camere. A lungo furono invece privilegiati altri temi, prevalentemente socio-economici. Le “dottrine politiche” prevalsero sull'azione di chi esercitò il potere, la rappresentazione travalicò i “fatti”. Alcuni dei dodici presidenti che si susseguirono alla guida dei venti ministeri alternatisi tra il 1900 e il 1922 ancora attendono biografie esaustive. Nell'ordine si alternarono, talora per brevi periodi, Saracco, Zanardelli, Giolitti, Alessandro (Sandrino) Fortis (due ministeri), Sidney Sonnino, Giolitti, Sonnino, Luigi Luzzatti, Giolitti, Salandra, Paolo Boselli, Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti (due governi consecutivi), Giolitti, Ivanoe Bonomi e Luigi Facta (due ministeri per un insieme di otto mesi): una ridda di ministri e sottosegretari che conduce a riflettere sulla centralità del Re nel regime statutario configurato quale “triangolo scaleno”, come documentato in saggi compresi nel volume. Mancano biografie scientifiche di personalità eminenti (inclusi ministri di vaste vedute ma al governo per breve periodo, Leone Wollemborg), volutamente rimaste al di fuori del governo (Ettore Ferrari) ma non delle istituzioni (è il caso di Ernesto Nathan, che tentò l'elezione alla Camera e fu sindaco di Roma con il sostegno personale del Re e del presidente Giolitti).  
   Al tempo stesso vi era e vi è motivo di porre al centro dell'attenzione forma e sostanza dei poteri apicali dello Stato, immutati dalla promulgazione della Carta Albertina al 1944. Essi furono esercitati dal Re come e quando ritenne di doverlo fare: in specie il 27-30 ottobre 1922 quando incaricò Mussolini di formare il governo, il 25 luglio 1943 quando lo revocò e il 3-8 settembre quando, in nome del governo da lui nominato, il generale Giuseppe Castellano sottoscrisse a Cassibile la resa incondizionata dell'Italia agli anglo-americani operanti in nome delle Nazioni Unite. Con quell'atto Vittorio Emanuele III garantì la continuità dello Stato d'Italia al di là della sconfitta militare.

...il Re isolato.
   Usciti da mezzo secolo di opposizione, gli esponenti di movimenti e partiti pregiudizialmente anti-statutari (ma anche molti “democratici”) non gli riconobbero alcun merito, rifiutarono di collaborare con il governo e posero imperiosamente la questione istituzionale. Il “lungo regno” di Vittorio Emanuele III formalmente si protrasse sino all'annuncio del trasferimento al figlio Umberto di Piemonte di tutte le prerogative regie, nessuna esclusa (12 aprile 1944), all'insediamento del principe a Luogotenente del regno (5 giugno), all'abdicazione del sovrano e alla sua partenza “per l'estero”, non “in esilio” (9 maggio 1946).
   Secondo la narrazione subito prevalsa e tuttora perdurante, sino al governo presieduto da Ferruccio Parri, già comandante delle formazioni partigiane “Giustizia e Libertà” (giugno 1945), l'Italia non aveva conosciuto alcuna vera democrazia. Tale affermazione fu confutata da Benedetto Croce, già stigmatizzato da Palmiro Togliatti al rientro dell'Unione sovietica di Stalin. A quel modo il filosofo si consegnò a sua volta all'emarginazione politica. La guida culturale ed “etica” dei decenni seguenti non furono più le sue opere ma i “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci, fortunosamente fatti pervenire a Togliatti da Piero Sraffa, figlio di un illustre docente universitario iniziato a una loggia del Grande Oriente d'Italia. 
   Senza pretesa di prevalere sui luoghi comuni stratificati nella narrazione mediatica e nella manualistica scolastica, gli atti dei convegni di studio raccolti in volume documentano, rettificano e offrono motivo di riflessione innovativa. L'Italia che ne emerge risulta quale venne ideata e realizzata dal Risorgimento: protagonista a pieno titolo di una storia dell'Europa che nel 1914 imboccò la discesa agl'inferi con l'inizio della nuova guerra dei trent'anni, conclusa nel 1945 con la sua lunga e tutt'oggi perdurante eclissi politico-diplomatico-militare. In tale ambito Vittorio Emanuele III emerge quale protagonista della grande storia. Rimane in attesa di essere pienamente compreso.
    Aldo A. Mola 

DIDASCALIA: La copertina del volume (ed. BastogiLibri), pubblicato dall'Associazione di studi storici Giovanni Giolitti e della Associazione di Studi sul Saluzzese, e il programma del Convegno di Vicoforte, che si vale dell'adesione di enti, istituti, centri di studio e della Associazione Nazionale ex Allievi della Nunziatella. Nel programma l'Italia è prospettata quale appariva dagli anglo-americani che ne iniziarono l'occupazione da Sicilia, Calabria e Taranto. Impiegarono oltre otto mesi ad arrivare a Roma e diciotto a raggiungere la pianura padana dal novembre 1944 lasciata in balia dei tedeschi e del suo alleato Mussolini: i tempi tragici della guerra civile.


MAFALDA DI SAVOIA ASSIA
UNA TRAGEDIA ITALIANA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 24 settembre 2023 pagg. 1 e 6.
Povera foglia frale...
Mafalda
                                                          di Savoia a
                                                          Racconigi con
                                                          la Famiglia
                                                          Reale   Il 28 agosto 1944 la principessa Mafalda di Savoia (“Muti”, in famiglia), consorte di Filippo langravio d'Assia, morì dopo una tardiva operazione al braccio sinistro, ustionato sino all'osso,  per fermare la cancrena generata dagli spezzoni di bombe che l'avevano ferita. L'intervento ebbe luogo in un ambulatorio improvvisato nel campo di concentramento tedesco di Buchenwald. Il 24 precedente migliaia di fortezze volanti partite da basi remote bombardarono a tappeto le Officine Gustloff e i dintorni. Il premier inglese Churchill, in visita a Napoli, voleva dare una lezione alla Germania, già piegata dalla sconfitta inflittale dai sovietici a Kursk. Nessuno degli incursori immaginava che al bordo del campo vivesse la figlia del Re d'Italia Vittorio Emanuele III, catturata a Roma il 22 settembre 1943 per ordine di Hitler e lì detenuta dall' 8 ottobre.
  “Povera foglia frale...” la Principessa lasciò la vita terrena.
  Ricordare la tragedia di Mafalda di Savoia-Assia significa compiere un passo avanti verso la conciliazione della memoria storica. Più serenità, più responsabilità. Ne scrisse il saggista imperiese Renato Barneschi in “Frau von Weber” (1982), autore di una accurata biografia della Regina Elena, “Rosa d'Oro della Carità”.
Casa Savoia per l'indipendenza e l'unità d'Italia
   Il 18 marzo 1983 morì a Ginevra Umberto II, iniquamente condannato all’esilio perpetuo dalla Repubblica italiana, che gli interdisse il suolo patrio, da lui invocato almeno per chiudevi la vita terrena. Scelse di essere deposto nell’Abbazia di Altacomba, antico sepolcreto della Casa. A quel modo mandò il suo ultimo messaggio agli italiani: dovevano e debbono farsi carico della propria storia, tutta. Nel feretro volle con sé il sigillo regio. Il suo duplice mònito non fu raccolto. Nel tempo sono stati pubblicati tanti diari di suoi stretti collaboratori, compreso quello di Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, egregiamente curato da Francesco Perfetti (ed. Mondadori), Ma La storia dell'ultimo Re rimane da scrivere.
  Tanti suoi sedicenti ammiratori hanno trascorso quarant'anni a frammentarsi in movimenti e gruppuscoli sempre più irrilevanti. Eppure basta rievocare la tragica fine di Mafalda di Savoia-Assia per chiudere finalmente la polemica retrospettiva contro la Casa che sin da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, sul trono dal 1831, legò le sue sorti alla lotta per indipendenza, unità e libertà degli italiani. Nella fortuna e nelle sfortune. Ne fu esempio lo stesso Carlo Alberto, che il 23 marzo 1849, la sera della battaglia di Novara, abdicò e partì per il Portogallo, ove morì di consunzione il 28 luglio, appena cinquantunenne. Al protomedico Alessandro Riberi, mandatogli dal figlio, Vittorio Emanuele II, bisbigliò quasi scusandosi: “Le voglio bene, ma muoio”. Suo  nipote, Umberto I, fu assassinato a Monza il 29 luglio 1900, poco dopo aver insediato il governo liberale guidato dall'ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato. Poi fu la volta di Vittorio Emanuele III, che abdicò, partì per l'Egitto il 9 maggio 1946 e vi morì il 28 dicembre 1947, e, appunto, di suo figlio, Umberto II, che lasciò la Patria per il Portogallo il 13 giugno 1946 senza ritorno, inseguito da una pessima dichiarazione polemica di Alcide De Gasperi, capo provvisorio dello Stato, presidente del consiglio dei ministri e ministro degli Esteri: un caso unico nella storia d'Italia.
Una principessa nella tempesta
    Vicende dimenticate, deformate da letture faziose, con cesure, censure e ampie zone d’ombra.
Fra le molte rimane ingiustificabile il lungo oblio riservato a Mafalda. La sua vicenda basta da sola a dire quanto una livorosa polemistica non vuol sentire: nel dramma della seconda guerra mondiale Casa Savoia fu tutt’uno con le famiglie italiane anche nella sofferenza e nel lutto.
   Un anno prima della tragica morte, il 28 agosto 1943, Mafalda era partita da Roma per raggiungere la sorella, Giovanna, consorte dello zar dei bulgari, Boris III, che rientrato da un tempestoso incontro con Hitler, ammalò d’improvviso, probabilmente avvelenato perché non approvava le misure contro gli ebrei e intendeva separare il proprio paese dall'alleanza con i tedeschi. Il principe Filippo d'Assia, sposato da Mafalda di Savoia nel Castello di Racconigi il 23 settembre 1925, dopo l’attentato del 20 luglio 1944 al Fuehrer era in stato d’arresto.
    Per la principessa Mafalda il viaggio di rientro in Italia fu un'odissea. Alla stazione ferroviaria di Sinaia, in Romania, venne informata della svolta in atto in Italia (proclamazione dell'armistizio, trasferimento della Casa Reale e del governo da Roma in Puglia) e invitata a rimanere. Forte del suo coraggio e convinta dell'immunità di moglie del principe d'Assia proseguì per raggiungere i figli, a Roma. L'aereo predisposto per il suo trasferimento da Budapest a Bari atterrò a Pescara. Da lì Mafalda raggiunse fortunosamente la Città Eterna. Proprio il suo rango di Prinzessin agli occhi dei nazisti, ferocemente antimonarchici, era invece un'aggravante, come ricorda Frédéric Le Moal nella biografia di Vittorio Emanuele III (trad. Gorizia, LEG). Mentre il figlio maggiore, Maurizio, già in Germania, era a portata di mano di Hitler, la regina Elena lasciando Roma ne aveva affidato i minori Enrico, Otto ed Elisabetta al sostituto segretario di Stato della Santa Sede, Giambattista Montini, che però li allontanò perché sopraggiungevano nipoti suoi. Anche i principini d’Assia finirono a loro volta in Germania.
   Nella Città Eterna caduta sotto il controllo di Kappler, Mafalda finì in un tunnel senza uscite. Si fidò dei germanici sino a recarsi alla loro ambasciata ove (le era stato assicurato) sarebbe stata chiamata al telefono dal consorte Filippo. Lì, invece, fu arrestata (22 settembre 1943) e tradotta in Germania. Nel campo di Buchenwald, che aveva per insegna “A ciascuno il suo”, inizialmente fu assegnata alla stanza 9 della baracca 15. 
Quando il Re seppe.
Come centinaia di migliaia di connazionali ignari della sorte dei loro cari (dispersi, prigionieri,...), i sovrani, il principe ereditario Umberto e tutti i suoi famigliari e amici rimasero in attesa di notizie. Era prigioniera in mani studiatamente crudeli. Della sua atroce fine il 14 aprile 1945 dettero notizia i  giornali, anche con commenti inopportuni, prima che Vittorio Emanuele III ne fosse informato. Scrissero crudamente che Mafalda di Savoia-Assia era morta per le ferite riportate nel bombardamento del lager in cui era rinchiusa. L’aiutante di campo di Umberto di Piemonte, Luogotenente del Regno, ne informò subito il generale Paolo Puntoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, affinché i sovrani “non leggessero la tremenda notizia sui giornali”. Puntoni ne riferì immediatamente al Re. Nel Diario (ed. Palazzi, poi il Mulino) annotò che il sovrano “come sempre (...) non lasci(ò) trapelare alcun turbamento” e continuò la conversazione in corso con Brunoro De Buzzaccarini. Un quarto d’ora dopo, Vittorio Emanuele III s’appartò per riferirne alla Regina. Ma quell’informazione era davvero esatta? Seguirono settimane di angoscia, sino a quando il 2 maggio, proprio il giorno della fine della guerra in Italia per la resa dei tedeschi agli anglo-americani, tramite i canali informativi della Santa Sede, giunse la conferma. Quando ne ebbe certezza, il Re assunse “quell’atteggiamento che, per chi non lo conosce a fondo, può sembrare cinico; e io so – scrisse Puntoni – che egli soffre terribilmente...”.
  Liberati, come il padre, al crollo del nazismo, Maurizio ed Enrico d’Assia furono poi ripetutamente a Villa Jela, ad Alessandria d’Egitto, ove Vittorio Emanuele III prese dimora dopo la partenza dall’Italia per l’estero (9 maggio 1946). Lo ricordò l'ultimo aiutante di campo del Re, Tito Torella di Romagnano nel suo limpido memoriale “Villa Jela” (ed. Garzanti).
   Della morte della principessa (vittima della deportazione, del bombardamento anglo-americano, del probabilmente voluto ritardo nella cura delle gravissime ferite) non si doveva parlare tra fine della guerra e il referendum istituzionale poi fissato per il 2-3 giugno1946. La morte di Mafalda in campo di concentramento provava che Casa Savoia aveva duramente pagato la sua opposizione al dominio nazista. Dal settembre 1943 la Corona aveva trasformato il conflitto in lotta di liberazione. Ancora una volta, come Carlo Alberto aveva promesso a Massimo d'Azeglio, essa aveva posto a servizio della Patria la persona del sovrano, i suoi figli e i suoi beni. Eppure doveva rimanere misconosciuta la figura di Mafalda, delicata e forte a un tempo, dedita alla beneficenza al pari della madre, Elena. Per quotidiani ed emittenti radiofoniche  incitanti all’odio e al disprezzo di tanti “antifascisti” (che nei confronti della monarchia usarono gli stessi argomenti dei più fanatici “repubblichini” di Salò) la morte di Mafalda in un campo di concentramento nazista sparigliava le carte. Lo stesso valeva per la sorte della figlia minore dei sovrani, Maria, di cui ha scritto la principessa Maria Gabriella di Savoia in La vita a Corte in Casa Savoia. Né se ne poté scrivere dopo il referendum, frutto di migliaia di brogli largamente documentati in documenti mai confutati.
   Il silenzio su Mafalda coprì due altri aspetti della verità. Anzitutto la pietas di padre Herman Joseph Tyl. Questi ne riconobbe la salma, con sollecitudine la sottrasse al forno crematorio, cui era destinata, e la fece avviare a Weimar ove fu sepolta come “donna sconosciuta”. Nel lager del resto la Principessa era stata registrata sotto il nome di “frau von Weber”. Sette marinai di Gaeta internati a Weimar però ne individuarono la sepoltura e la segnarono. Fu la conferma della fraternità nel dolore, propria degli italiani. Ma anche questo doveva passare sotto silenzio, come ha ricordato Mariù Safier nella oggi introvabile biografia di Mafalda, scritta con penna lieve e ricchezza documentaria (Mafalda di Savoia Assia dal bosco dell'ombra, poi arricchita in Mafalda di Savoia Assia. Un ostaggio nelle mani di Hitler, ed. Bastogi).
 Ricomporre la Memoria
  Quasi ottant'anni dopo il cambio istituzionale del giugno 1946 la straziante sorte di Mafalda di Savoia-Assia s'impone quale parte integrante Mariu
                                                          Safier Mafalda
                                                          di Savoiadella storia dell’Italia del Novecento. I sovrani, il principe ereditario, tutta Casa Savoia portarono il lutto al braccio, come milioni di connazionali. Erano gli stessi che all’inizio del secolo avevano scommesso su un progresso civile, morale e sociale ininterrotto, senza traumi bellici. Poi però l'Italia dovette fare i conti con la Grande Guerra e nel ventennio seguente fronteggiare la grande depressione economica con l’IRI, le bonifiche, il rilancio industriale e manifatturiero, sempre nella certezza che il lavoro premia più delle avventure belliche. La concordia deve prevalere sull'odio, sull'invidia di classe, sulle falsità spacciate per storiografia, come deplora Angelo Squarti Perla nel saggio Le menzogne di chi scrive la storia, di imminente pubblicazione per la BastogiLibri.
   Quell’Italia commise vari errori, e anche gravi. Ma in una monarchia statutaria responsabile degli errori non è solo il Re (né, meno ancora, un sovrano costituzionale e “isolato” quale fu Vittorio Emanuele III) sibbene l’intera dirigenza, a cominciare dalla Camera dei deputati, dal 1919 eletta a suffragio universale maschile e quindi de cittadini che dal 1924 in poi votarono compattamente a favore del Partito nazionale fascista, anche quando divenne “partito unico”. Nessuno si oppose all'intervento in uerra del 10 giugno 1940. Osò dirlo con franchezza il principe Aimone di Savoia, duca d'Aosta. Privato della carica militare, fu a sua volta costretto all’esilio. Lo scrisse suo figlio, Amedeo di Savoia, in Cifra Reale. 
   Il ricordo della figlia del Re morta nel campo di sterminio ove s’ergeva la Goethe Eiche, la Quercia di Goethe, costituisce dunque un invito perpetuo a riflettere sulla storia d'Italia del Novecento con passione, perché si tratta di pagine dolenti, ma finalmente anche senza pregiudizi né paraocchi. Casa Savoia, ne emerge con chiarezza, fu tutt’uno con ogni altra famiglia dell’“itala gente da le molte vite”. Il martirio di Mafalda ne è appunto il suggello.
   Vanno aggiunte poche altre osservazioni. Con la Grande Guerra crollarono gli imperi di Russia, Turchia, Austria-Ungheria e Germania. Il Regno d'Italia rimase l'unica monarchia costituzionale rilevante nell'Europa di terraferma. Vittorio Emanuele continuò la “grande politica” degli avi, con il conferimento del Collare dell'Ordine della Santissima Annunziata e alleanze dinastiche. A parte le nozze della primogenita Jolanda (“Anda”) con il conte Carlo Calvi di Bergolo, nel 1925 “Muti” andò in sposa al luterano Filippo d'Assia, Filippo, che operava per traghettare la Germania dal caos postbellico verso la stabilità. La terzogenita, Giovanna, sposò  l'ortodosso Boris III, zar dei Bulgari. La Santa Sede non gradì né l'uno né l'altro matrimonio. Ma il Re, che nel 1896 aveva sposato Elena di Montenegro, di famiglia ortodossa, pensava anzitutto all'Italia nel difficile quadro europeo (l'URSS non era uno stato amico...) e alla libertà di coscienza di tutti gli italiani. Nella sua difficile opera non venne affatto aiutato dai “politici” né da altri.
  Un re vissuto in solitudine (come Vittorio Emanuele III drammaticamente fu dal 1938 in poi) è paradigma per i capi dello Stato d'Italia, talvolta “sotto assedio” anche dopo l'avvento della Repubblica.
Aldo A. Mola  

DIDASCALIA: La principessa Mafalda di Savoia (Roma, 19 novembre 1902 – Buchenwald, 28 agosto 1944), sposata con il langravio Filippo d'Assia. 
  Oltre alle biografie citate nell'articolo va ricordata quella scrittane da Cristina Siccardi e Domenico Agasso. V. anche il volume “Villa Polissena” a cura di Mariù Safier.  




VITTORIO EMANUELE III 
E LA GUERRA DI LIBERAZIONE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 17 settembre 2023 pagg. 1 e 6.
Nicola
                                                          Bellomo da
                                                          Wikipedia
Didascalia
Dalla resa senza condizioni (Cassibile, 3/8 settembre 1943) a quella dei tedeschi in Italia (Caserta, con effetto dal 2 maggio 1945) l'Italia si trovò nella tenaglia di diverse guerre: gli anglo-americani da un parte, i tedeschi dall'altra, le aspirazioni dei francesi a valicare le Alpi occidentali e possedere Valle d'Aosta e parte del Piemonte, le rivendicazioni e  l'avanzata degli jugoslavi sul confine orientale e infine la contrapposizione tra il governo del re, riconosciuto dalle Nazioni Unite, quello della Repubblica sociale e il movimento di liberazione, dalle molteplici componenti, talora subordinate a direttive di Stati in guerra contro l'Italia. Fu il caso del Partito comunista italiano.

La riorganizzazione del Regio Esercito
  In quel groviglio direttamente e indirettamente il re e il suo governo dettero impulso alla lotta di liberazione del territorio nazionale dagli occupanti germanici e dai loro alleati interni.  Lo scontro armato tra reparti del regio esercito e tedeschi iniziò il 9 settembre a Roma, nelle Puglie e in molte città dell'Italia centro-settentrionale: un ventaglio di battaglie troppo a lungo dimenticate a vantaggio della narrazione secondo la quale i primi e gli unici a combattere contro i tedeschi e i fascisti repubblicani sarebbero stati i nuclei di partigiani. Ripercorrere i “fatti” non significa certo sminuire il valore morale e anche militare delle scelte compiute dall'antifascismo, dalle prime “bande”, dalla “resistenza” e dalla “guerra partigiana” prima e dopo il sino al suo riconoscimento  da parte del governo del re. 
   Il giorno stesso del trasferimento del re, del principe ereditario, di Badoglio, del comandante Supremo Vittorio Ambrosio e dei capi di stato maggiore delle tre armi la Capitale fu teatro di conflitto tra militari e tedeschi. Tra i più coraggiosi e determinati furono i Granatieri di Sardegna,  che, anche senza “ordini superiori” si batterono per l'Italia.   
     Sempre il 9 armato il generale Nicola Bellomo, da poco al comando della piazza di Bari, guidò di persona la lotta contro circa 300 guastatori germanici per il controllo del porto e prevalse con l'aiuto del LI battaglione Allievi ufficiali bersaglieri imponendo al nemico la capitolazione e la ritirata. Lo stesso giorno iniziò a Taranto lo sbarco della I divisione inglese aerotrasportata. L'11 settembre 1943 a Barletta, il comandante della piazza Francesco Grasso affrontò i germanici, che prevalsero, lo costrinsero alla resa, trucidarono civili e ne rimasero padroni sino al 24. Nel frattempo il generale Antonio Basso, comandante delle forze italiane in Sardegna, impose ai tedeschi l'evacuazione dall'isola, con scontri e caduti da entrambe le parti, in specie nei pressi di Oristano e alla base navale della Maddalena. Di concerto con i partigiani della Corsica e poi con truppe di “Francia libera” sbarcate nell'isola il generale Giovanni Magli affrontò i tedeschi in aspri combattimenti (29 settembre-4 ottobre), costringendoli alla resa o all'imbarco verso il continente.
   
  Pochi giorni dopo l'arrivo a Brindisi sia il re sia il principe ereditario Umberto di Piemonte passarono in rassegna corpi dell'esercito. Il 18 settembre Badoglio chiese di affiancare reparti italiani contro i tedeschi, ma cozzò contro il rifiuto anglo-americano. Il 28 settembre, vigilia della notifica a Malta dell'“armistizio lungo” da parte del generale Eisenhower, fu costituito il I Raggruppamento motorizzato di 5.000 uomini agli ordini del generale Vincenzo Dapino, a fine gennaio 1944 sostituito dal generale Umberto Utili. La riorganizzazione dell'esercito fu accelerata con la dichiarazione di guerra alla Germania (13 ottobre), il riconoscimento dell'Italia quale co-belligerante. Caduto prigioniero degli inglesi in Tunisia, su sollecitazione del re (che lo aveva avuto aiutante di campo) e richiesta di Badoglio agli Alleati, il maresciallo Giovanni Messe venne rilasciato e, capo di stato maggiore generale, affiancato dal generale Paolo Berardi quale capo di stato maggiore dell'esercito, guidò la riscossa. 

Guerra di liberazione  
   A lungo è stato affermato che il re fu riluttante a dichiarare guerra contro la Germania. In una lettera “segreta” del 2 ottobre 1943 (classificata 1854/Op) fu invece il comandante supremo Ambrosio e esprimere pesanti riserva al ministro della real casa Pietro d'Acquarone. “I vantaggi degli Alleati per la nostra dichiarazione d'armistizio – egli scrisse- sono stati di per se stesso enormi. (…) Inoltre la nostra collaborazione in questo mese è stata della massima intensità (…) senza nessuna contropartita, salvo la promessa dii attenuare le condizioni di pace. La rottura delle relazioni col Giappone è da escludere. Se a noi è permesso, al massimo, di essere cobelligeranti, vuol dire che possiamo collaborare per cacciare i tedeschi dal nostro suolo, ma non abbiamo nessuna ragione di combattere i giapponesi. Per questo occorrerebbe una vera alleanza politica, che non è concessa”. Data l'estrema debolezza delle forze disponibili, la dichiarazione di guerra sarebbe stata “semplicemente platonica”. Gli anglo.americani avevano agito “senza alcun riguardo” e “generata una crisi gravissima in Italia e nei Balcani. Dobbiamo evitare che si ripeta questo passivo senza contropartita”. 
   Sin dall'incontro con Badoglio a Malta il generale Eisenhower aveva sollecitato il governo italiano a dichiarare guerra alla Germania, sia per accattivarsi l'opinione pubblica nel campo alleato, sia per tutelare i militari caduti prigionieri dei tedeschi, che, diversamente, li avrebbero trattati “da franchi tiratori e, come tali, sottoposti ad esecuzione sommaria”. Con molto realismo il “capo missione” Noel Mason Mac Farlane osservò che sarebbe stato “necessario servirsi di alcuni uomini che erano stati in passato associati con il fascismo dato che esso era durato vent'anni”. Chi non aveva avuto la tessera del PNF o non aveva tributato qualche omaggio al regime? La classe dirigente (non politica ma anche solo “ amministrativa”, di industrie, banche, aziende pubbliche e private) non si improvvisa dall'oggi al domani. Non si poteva fare nell'Italia i cui docenti universitari, tranne una dozzina, avevano giurato fedeltà al regime. Dal canto suo Badoglio dichiarò che il re intendeva “invitare i capi dei diversi partiti -cioè i partiti politici- così come si sono ora costituiti in Italia, con speciale riferimento a quelli che hanno la maggiore influenza sul popolo” e avrebbe dato al governo “un carattere liberale”. Come “militare” precisò che non si intendeva di partiti e di politici.  
   Dal settembre 1943 la ricostruzione del regio esercito fu la premessa per riaffermare l'autorità del governo nelle province di sua immediata competenza. Però il sovrano, il principe ereditario e le forze dell'ordine registravano quotidianamente la diffidenza e le soperchierie degli Alleati contro i militari italiani e la popolazione civile. Soldati inglesi, spesso “alquanto avvinazzati”, strappavano il tricolore da edifici pubblici, irrompevano in postriboli picchiando a sangue quanti vi si trovavano. Nel caffè “Roma” di Mola di Bari un inglese “alquanto brillo” sputò sul ritratto del re. Un altro infranse quello di Badoglio. Per “contenere” inglesi, autori di rapine e violenze d'ogni genere, gli alpini usarono le mani e i carabinieri le armi. Ma la prevaricazione era pressoché quotidiana. Il Comando dell'esercito ordinò pertanto che la sorveglianza sull'ordine fosse affidata a pattuglioni di otto uomini perché le pattuglie tradizionali venivano sopraffatte da militari “alleati”.
   Il 6 dicembre 1943 la regina Elena vide di persona automezzi inglesi investire intenzionalmente civili e sollecitò indennizzi (Archivio Cnetrale dello Stato,Presidenza del Consiglio dei Ministri, Governo del Sud, 1943-1944, Casa Reale).
   La lotta per la riaffermazione della sovranità nazionale era una schermaglia quotidiana. La riscossa passava anche attraverso gesti emblematici. L'11 novembre, per esempio, Badoglio ordinò ai prefetti di esporre il tricolore per festeggiare il genetliaco del re. Risalire la china impegnava sul fronte delle armi come nella vita civile. Allo scopo tra Alleati e Comando dei carabinieri si convenne la necessità di distinguere tra chi era stato fascista “per costrizione” (la tessera del partito era stata tutt'uno con quella “del pane”) e i fanatici del regime. Venne deliberata la formazione di “comitati” civici composti da un ufficiale dei carabinieri, un podestà, un magistrato, un sacerdote (“se di sicuri sentimenti”) e da alcuni cittadini “equi ed imparziali”. Il colonnello dei carabinieri Romano dalla Chiesa ricordò in un rapporto del 4 novembre che la resistenza ai militi dell'arma era “delitto grave”; al tempo stesso vietò l'uso di bombe a mano contro dimostranti. Gli alpini a loro volta svolsero importante ruolo di contenimento contro ogni forma di disordine.
   Dal Corpo Italiano di Liberazione nel luglio del 1944, dopo la liberazione di Roma e la nomina  di Umberto di Savoia a Luogotenente del Re, nacquero 6 Gruppi di Combattimento (Friuli, Cremona, Legnano, Folgore, Mantova e Piceno) per un insieme di circa 60.000 uomini. Però gli Alleati non consentirono che avessero nome di divisioni e costituissero un'Armata. Il 27 dicembre 1943 il governo dichiarò l'adesione alla Carta Atlantica del 14 agosto 1941 ma sull'Italia, malgrado la cobelligeranza, la resistenza anti-nazifascista e la guerra partigiana, continuavano a incombere le clausole della resa e le crescenti rivendicazioni di molti Stati, a cominciare da Francia, Jugoslavia e Grecia. Nel dicembre 1944, dopo lunga trattativa tra il governo e la delegazione del CLN Alta Italia, le formazioni partigiane  furono riconosciute come Corpo Volontari della Libertà agli ordini del generale Raffaele Cadorna. 
Il crepuscolo di Vittorio Emanuele III
Nel frattempo gli anglo-americani decisero la sorte di Vittorio Emanuele III, con il plauso dei partiti riconosciuti dalla Commissione alleata di controllo: democratico liberale, socialista, comunista, d'azione, democrazia cristiana, democrazia del lavoro, democratici dei lavoratori italiani, partito liberale. Il peggioramento del clima  antimonarchico venne segnalato dal ministro dell'Areonautica generale Renato Sandalli il 15 marzo 1944. Il PWB (Psychological Warfare Branch) aveva fatto cassare l'articolo “Agli ordini del loro Re” dal “Giornale dell'Aeronautica”. Il ministro avvertì che il sovrano, la monarchia in genere e il governo stesso non dovevano più essere menzionati pena la soppressione del periodico. La proibizione era motivata con la giustificazione che le “Autorità Alleate” non volevano influire sulla situazione interna italiana. Sandalli, però, aggiunse lapidariamente: “fatti del genere danneggiano la coesione morale delle FF.AA.”. Quegli stessi Alleati  non arginarono mai le rabbiose polemiche quotidiane contro il sovrano, la Casa di Savoia e dell'idea di monarchia da parte dei fautori della repubblica, nei giornali e nei “comizi”. Erano tempi nei quali ai militari, ai dirigenti, funzionari e pubblici impiegati veniva impartita l'amara direttiva: nei contrasti con gli Alleati gli italiani avevano torto anche quando avevano ragione.
Pochi giorni prima del convegno ciellenistico di Bari (26-28 gennaio 1944), che sotto il profilo istituzionale era un sodalizio privato, Vittorio Emanuele III consegnò il suo programma al capo della Missione alleata Noel Mason-Mac Farlane. Vi riprese molti spunti del verbale della conferenza di Malta tra Eisenhower e Badoglio. Il governo in carica sarebbe rimasto in esercizio sino alla liberazione di Roma; a quel punto sarebbe stato formato un ministero con rappresentanti di partiti ed entro quattro mesi sarebbe stata eletta la Camera dei deputati. Il Parlamento avrebbe discusso ed eventualmente riformato le istituzioni “anche totalmente”. Non escludeva, quindi, il cambio istituzionale. Il paese sarebbe stato consultato (referendum confermativo, dunque) e la Corona avrebbe seguito la volontà della nazione. Era l’unica via compatibile con lo Statuto. Il re, però, non fece i conti col fatto che gli anglo-americani non avevano alcuna fretta di arrivare a Roma. A Ravello, per esempio, i loro ufficiali gozzovigliavano giorno e notte, come annotava scandalizzato il generale Puntoni. Non solo. Militari inglesi a Caserta “demolivano nicchie cadaveri et asportavano teschi poggiandoli banchi scuola et collocandone uno sulla testa statua” (Rapporto del comandante dei carabinieri Giuseppe Pièche, 28 maggio 1944, in ACS).
La Luogotenenza del regno
All’inizio dell’aprile 1944 De Nicola escogitò la proposta atta a mettere d’accordo CLN, governo e Alleati: il passaggio dei poteri da Vittorio Emanuele III al principe di Piemonte quale luogotenente. Essa fu diramata ai giornali prima che il re ne fosse informato. Fu messo dinnanzi ai “fatti compiuti”. Dopo travagli vari il sovrano accettò di trasmettere le prerogative della Corona, ma in Roma, quando fosse stata liberata. A Puntoni re Vittorio tracciò un bilancio di quanto fosse “difficile e pesante il mestiere del re”: il “brut fardèl” consegnato da Vittorio Emanuele II a Umberto I. “Solo mio nonno ne è uscito bene” egli confidò. “Carlo Alberto dovette abdicare, mio padre fu assassinato. Non avevo nessuna intenzione di succedere a mio padre e l’avevo quasi convinto ad accogliere il mio progetto di rinunciare alla Corona. Ma fu ucciso e io, in quell’ora tragica, non potei rifiutarmi di salire sul trono. Se l’avessi fatto avrebbero detto che ero un vile.”  
  Pochi giorni dopo Badoglio varò il nuovo governo, con la partecipazione dei partiti del CLN (22 aprile - 18 giugno 1944). A cospetto di Vittorio Emanuele III i ministri giurarono “sul proprio onore”. Poteva il re imporre loro di usare la formula statutaria? Fra di essi vi erano Togliatti, Sforza, Giulio Rodinò di Miglione, Adolfo Omodeo (che da ministro della Pubblica istruzione epurò una quantità di galantuomini), Alberto Tarchiani, Fausto Gullo...: tutti repubblicani accesi e talvolta chiassosi. Il 5 giugno si consumò l’ennesimo sgarbo nei confronti di Vittorio Emanuele III da parte del “suo” governo. Con pretesti risibili (compresa la transitabilità delle strade), gli venne negato di raggiungere Roma per celebrarvi il trasferimento di “tutte le prerogative Regie, nessuna eccettuata” al principe ereditario in veste di suo luogotenente. Che era quindi “del re”, non “del regno”. I primi a non rispettare la promessa “tregua istituzionale” furono anzitutto i ministri, che, a differenza del sovrano e del luogotenente, avevano il sostegno degli Alleati.

Il linciaggio di Donato Carretta: una pagina orrenda dell'Italia liberata
Quale fosse il clima dominante nell'Italia liberata fu chiaro il 18 settembre 1944 nell'aula della Corte di Assise di Roma. Riunito in alta corte di giustizia il tribunale doveva giudicare l'ex questore Pietro Caruso e il suo segretario Roberto Occhetto, accusati di aver consegnato ottanta prigionieri politici ai nazisti per la rappresaglia in risposta all'attentato di via Rasella. Il processo richiamò l'attenzione internazionale. Il colonnello Pollock e il tenente Atkinson capitanavano la polizia militare, presente in aula anche a tutela di quanti filmavano l'evento, destinato all'opinione pubblica internazionale a prova del cammino democratico dell'Italia liberata. La folla irruppe nell'aula chiedendo di avere in pasto i due imputati “per farli a pezzi”. Per sua sventura, spinto dalla canea, vi finì anche Donato Carretta, vicedirettore del carcere di Regina Coeli, noto per mitezza, comprensione e speciale attenzione proprio nei riguardi dei politici detenuti. Individuato, fu percosso. Fatto uscire dall'aula, venne picchiato. Rifugiato in un'automobile grazie a carabinieri e a vigili urbani, ne venne estratto. Fu gettato sui binari del tram in attesa che la prima vettura in arrivo lo schiacciasse. Il conducente arrestò il mezzo. Rischiò di essere aggredito. La scampò esibendo la tessera del partito comunista. La folla riprese il corpo sanguinante di Carretta, lo martoriò e lo gettò a Tevere dalla spalletta di Ponte Umberto. Riavutosi, lo sventurato tentò di nuotare verso l'altra riva ma fu raggiunto e finito a colpi di remo da tre energumeni. Riportato in strada, il cadavere venne trascinato dal Lungotevere Sant'Angelo a Regina Coeli, contro il cui portone fu scaraventato e poi appeso a testa in giù all'inferriata di destra, sotto gli occhi dei suoi familiari.
  Carlo Sforza, sedicente conte, dichiarò di capire perfettamente che “scene di quel genere” potessero aver luogo. Però il linciaggio di Donato Carretta non fu una “scena” ma un crimine. Nessuno si premurò di identificarne e perseguire i colpevoli. Era una “prova generale” della “giustizia plebea” poi evocata e minacciata da Togliatti in consiglio dei ministri all'indomani del referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946 se quella dei codici non avesse risposto alle attese delle “masse”, cioè dei partiti rivoluzionari. Con abile spregiudicatezza Togliatti ventilò la minaccia di aprire i conti della storia a carico di quanti avevano a suo tempo favorito l'avvento del governo Mussolini e concorso ad avviare verso i regime. Che cosa dire degli eredi del partito popolare italiano che ne aveva fatto parte con ministri e sottosegretari, incluso Giovanni Gronchi. E dei “liberali”? De Gasperi capì...
 L'unica via per scansare la gogna era associarsi alla lotta senza quartiere contro la monarchia e i suoi sostenitori e oscurare la verità, come fece Luigi Salvatorelli nel libello “Casa Savoia nella storia d'Italia” in cui affermò che Vittorio Emanuele II era “responsabile moralmente, politicamente e legalmente di tutti i misfatti del fascismo”, contrapposto al “popolo”, innocente e operoso. Di lì la sua damnatio memoriae perpetua.                                                                                                                                        
   Un panorama dei combattimenti degli italiani contro i tedeschi dal 9 settembre in coerenza con la direttiva del governo Badoglio v. Pier Carlo Sommo-Alberto Turinetti di Priero (a cura di), “1943-1945. Dai Gruppi di Combattimento al nuovo Esercito Italiano”, “quaderno”  della Mostra  di uguale titolo, Torino, Anarti, 1922. Lo stato d'animo di un ufficiale della Divisione Granateri di Sardegna che combatté 40 ore consecutive alle per “obbedire alle sacre leggi della Patria” e impedire l'irruzione dei germanici nel cuore della Capitale (dall'estrema periferia a Porta San Paolo e al Colosseo) v. l'esemplare “memoria” di Luigi Franceschini, “Cinquanta anni dopo”, www.granatierdisardegna.it 

DIDASCALIA: Il generale Nicola Bellomo (Bari,2 febbraio 1881-Nisida,11 settembre 1945), decorato della Grande Guerra nel settembre 1945  cacciò i tedeschi dal porto di Bari. Arrestato dagli inglesi il 28 gennaio 1944 per presunto crimine di guerra ai danni di loro prigionieri, fu condannato a morte da un tribunale speciale britannico e fucilato.Lo Stato d'Italia gli conferì la Medaglia d'Argento al Valor Militare.
MAFALDA DI SAVOIA ASSIA
UNA TRAGEDIA ITALIANA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 24 settembre 2023 pagg. 1 e 6.
Povera foglia frale...
Mafalda
                                                          di Savoia a
                                                          Racconigi con
                                                          la Famiglia
                                                          Reale   Il 28 agosto 1944 la principessa Mafalda di Savoia (“Muti”, in famiglia), consorte di Filippo langravio d'Assia, morì dopo una tardiva operazione al braccio sinistro, ustionato sino all'osso,  per fermare la cancrena generata dagli spezzoni di bombe che l'avevano ferita. L'intervento ebbe luogo in un ambulatorio improvvisato nel campo di concentramento tedesco di Buchenwald. Il 24 precedente migliaia di fortezze volanti partite da basi remote bombardarono a tappeto le Officine Gustloff e i dintorni. Il premier inglese Churchill, in visita a Napoli, voleva dare una lezione alla Germania, già piegata dalla sconfitta inflittale dai sovietici a Kursk. Nessuno degli incursori immaginava che al bordo del campo vivesse la figlia del Re d'Italia Vittorio Emanuele III, catturata a Roma il 22 settembre 1943 per ordine di Hitler e lì detenuta dall' 8 ottobre.
  “Povera foglia frale...” la Principessa lasciò la vita terrena.
  Ricordare la tragedia di Mafalda di Savoia-Assia significa compiere un passo avanti verso la conciliazione della memoria storica. Più serenità, più responsabilità. Ne scrisse il saggista imperiese Renato Barneschi in “Frau von Weber” (1982), autore di una accurata biografia della Regina Elena, “Rosa d'Oro della Carità”.
Casa Savoia per l'indipendenza e l'unità d'Italia
   Il 18 marzo 1983 morì a Ginevra Umberto II, iniquamente condannato all’esilio perpetuo dalla Repubblica italiana, che gli interdisse il suolo patrio, da lui invocato almeno per chiudevi la vita terrena. Scelse di essere deposto nell’Abbazia di Altacomba, antico sepolcreto della Casa. A quel modo mandò il suo ultimo messaggio agli italiani: dovevano e debbono farsi carico della propria storia, tutta. Nel feretro volle con sé il sigillo regio. Il suo duplice mònito non fu raccolto. Nel tempo sono stati pubblicati tanti diari di suoi stretti collaboratori, compreso quello di Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, egregiamente curato da Francesco Perfetti (ed. Mondadori), Ma La storia dell'ultimo Re rimane da scrivere.
  Tanti suoi sedicenti ammiratori hanno trascorso quarant'anni a frammentarsi in movimenti e gruppuscoli sempre più irrilevanti. Eppure basta rievocare la tragica fine di Mafalda di Savoia-Assia per chiudere finalmente la polemica retrospettiva contro la Casa che sin da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, sul trono dal 1831, legò le sue sorti alla lotta per indipendenza, unità e libertà degli italiani. Nella fortuna e nelle sfortune. Ne fu esempio lo stesso Carlo Alberto, che il 23 marzo 1849, la sera della battaglia di Novara, abdicò e partì per il Portogallo, ove morì di consunzione il 28 luglio, appena cinquantunenne. Al protomedico Alessandro Riberi, mandatogli dal figlio, Vittorio Emanuele II, bisbigliò quasi scusandosi: “Le voglio bene, ma muoio”. Suo  nipote, Umberto I, fu assassinato a Monza il 29 luglio 1900, poco dopo aver insediato il governo liberale guidato dall'ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato. Poi fu la volta di Vittorio Emanuele III, che abdicò, partì per l'Egitto il 9 maggio 1946 e vi morì il 28 dicembre 1947, e, appunto, di suo figlio, Umberto II, che lasciò la Patria per il Portogallo il 13 giugno 1946 senza ritorno, inseguito da una pessima dichiarazione polemica di Alcide De Gasperi, capo provvisorio dello Stato, presidente del consiglio dei ministri e ministro degli Esteri: un caso unico nella storia d'Italia.
Una principessa nella tempesta
    Vicende dimenticate, deformate da letture faziose, con cesure, censure e ampie zone d’ombra.
Fra le molte rimane ingiustificabile il lungo oblio riservato a Mafalda. La sua vicenda basta da sola a dire quanto una livorosa polemistica non vuol sentire: nel dramma della seconda guerra mondiale Casa Savoia fu tutt’uno con le famiglie italiane anche nella sofferenza e nel lutto.
   Un anno prima della tragica morte, il 28 agosto 1943, Mafalda era partita da Roma per raggiungere la sorella, Giovanna, consorte dello zar dei bulgari, Boris III, che rientrato da un tempestoso incontro con Hitler, ammalò d’improvviso, probabilmente avvelenato perché non approvava le misure contro gli ebrei e intendeva separare il proprio paese dall'alleanza con i tedeschi. Il principe Filippo d'Assia, sposato da Mafalda di Savoia nel Castello di Racconigi il 23 settembre 1925, dopo l’attentato del 20 luglio 1944 al Fuehrer era in stato d’arresto.
    Per la principessa Mafalda il viaggio di rientro in Italia fu un'odissea. Alla stazione ferroviaria di Sinaia, in Romania, venne informata della svolta in atto in Italia (proclamazione dell'armistizio, trasferimento della Casa Reale e del governo da Roma in Puglia) e invitata a rimanere. Forte del suo coraggio e convinta dell'immunità di moglie del principe d'Assia proseguì per raggiungere i figli, a Roma. L'aereo predisposto per il suo trasferimento da Budapest a Bari atterrò a Pescara. Da lì Mafalda raggiunse fortunosamente la Città Eterna. Proprio il suo rango di Prinzessin agli occhi dei nazisti, ferocemente antimonarchici, era invece un'aggravante, come ricorda Frédéric Le Moal nella biografia di Vittorio Emanuele III (trad. Gorizia, LEG). Mentre il figlio maggiore, Maurizio, già in Germania, era a portata di mano di Hitler, la regina Elena lasciando Roma ne aveva affidato i minori Enrico, Otto ed Elisabetta al sostituto segretario di Stato della Santa Sede, Giambattista Montini, che però li allontanò perché sopraggiungevano nipoti suoi. Anche i principini d’Assia finirono a loro volta in Germania.
   Nella Città Eterna caduta sotto il controllo di Kappler, Mafalda finì in un tunnel senza uscite. Si fidò dei germanici sino a recarsi alla loro ambasciata ove (le era stato assicurato) sarebbe stata chiamata al telefono dal consorte Filippo. Lì, invece, fu arrestata (22 settembre 1943) e tradotta in Germania. Nel campo di Buchenwald, che aveva per insegna “A ciascuno il suo”, inizialmente fu assegnata alla stanza 9 della baracca 15. 
Quando il Re seppe.
Come centinaia di migliaia di connazionali ignari della sorte dei loro cari (dispersi, prigionieri,...), i sovrani, il principe ereditario Umberto e tutti i suoi famigliari e amici rimasero in attesa di notizie. Era prigioniera in mani studiatamente crudeli. Della sua atroce fine il 14 aprile 1945 dettero notizia i  giornali, anche con commenti inopportuni, prima che Vittorio Emanuele III ne fosse informato. Scrissero crudamente che Mafalda di Savoia-Assia era morta per le ferite riportate nel bombardamento del lager in cui era rinchiusa. L’aiutante di campo di Umberto di Piemonte, Luogotenente del Regno, ne informò subito il generale Paolo Puntoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, affinché i sovrani “non leggessero la tremenda notizia sui giornali”. Puntoni ne riferì immediatamente al Re. Nel Diario (ed. Palazzi, poi il Mulino) annotò che il sovrano “come sempre (...) non lasci(ò) trapelare alcun turbamento” e continuò la conversazione in corso con Brunoro De Buzzaccarini. Un quarto d’ora dopo, Vittorio Emanuele III s’appartò per riferirne alla Regina. Ma quell’informazione era davvero esatta? Seguirono settimane di angoscia, sino a quando il 2 maggio, proprio il giorno della fine della guerra in Italia per la resa dei tedeschi agli anglo-americani, tramite i canali informativi della Santa Sede, giunse la conferma. Quando ne ebbe certezza, il Re assunse “quell’atteggiamento che, per chi non lo conosce a fondo, può sembrare cinico; e io so – scrisse Puntoni – che egli soffre terribilmente...”.
  Liberati, come il padre, al crollo del nazismo, Maurizio ed Enrico d’Assia furono poi ripetutamente a Villa Jela, ad Alessandria d’Egitto, ove Vittorio Emanuele III prese dimora dopo la partenza dall’Italia per l’estero (9 maggio 1946). Lo ricordò l'ultimo aiutante di campo del Re, Tito Torella di Romagnano nel suo limpido memoriale “Villa Jela” (ed. Garzanti).
   Della morte della principessa (vittima della deportazione, del bombardamento anglo-americano, del probabilmente voluto ritardo nella cura delle gravissime ferite) non si doveva parlare tra fine della guerra e il referendum istituzionale poi fissato per il 2-3 giugno1946. La morte di Mafalda in campo di concentramento provava che Casa Savoia aveva duramente pagato la sua opposizione al dominio nazista. Dal settembre 1943 la Corona aveva trasformato il conflitto in lotta di liberazione. Ancora una volta, come Carlo Alberto aveva promesso a Massimo d'Azeglio, essa aveva posto a servizio della Patria la persona del sovrano, i suoi figli e i suoi beni. Eppure doveva rimanere misconosciuta la figura di Mafalda, delicata e forte a un tempo, dedita alla beneficenza al pari della madre, Elena. Per quotidiani ed emittenti radiofoniche  incitanti all’odio e al disprezzo di tanti “antifascisti” (che nei confronti della monarchia usarono gli stessi argomenti dei più fanatici “repubblichini” di Salò) la morte di Mafalda in un campo di concentramento nazista sparigliava le carte. Lo stesso valeva per la sorte della figlia minore dei sovrani, Maria, di cui ha scritto la principessa Maria Gabriella di Savoia in La vita a Corte in Casa Savoia. Né se ne poté scrivere dopo il referendum, frutto di migliaia di brogli largamente documentati in documenti mai confutati.
   Il silenzio su Mafalda coprì due altri aspetti della verità. Anzitutto la pietas di padre Herman Joseph Tyl. Questi ne riconobbe la salma, con sollecitudine la sottrasse al forno crematorio, cui era destinata, e la fece avviare a Weimar ove fu sepolta come “donna sconosciuta”. Nel lager del resto la Principessa era stata registrata sotto il nome di “frau von Weber”. Sette marinai di Gaeta internati a Weimar però ne individuarono la sepoltura e la segnarono. Fu la conferma della fraternità nel dolore, propria degli italiani. Ma anche questo doveva passare sotto silenzio, come ha ricordato Mariù Safier nella oggi introvabile biografia di Mafalda, scritta con penna lieve e ricchezza documentaria (Mafalda di Savoia Assia dal bosco dell'ombra, poi arricchita in Mafalda di Savoia Assia. Un ostaggio nelle mani di Hitler, ed. Bastogi).
 Ricomporre la Memoria
  Quasi ottant'anni dopo il cambio istituzionale del giugno 1946 la straziante sorte di Mafalda di Savoia-Assia s'impone quale parte integrante Mariu
                                                          Safier Mafalda
                                                          di Savoiadella storia dell’Italia del Novecento. I sovrani, il principe ereditario, tutta Casa Savoia portarono il lutto al braccio, come milioni di connazionali. Erano gli stessi che all’inizio del secolo avevano scommesso su un progresso civile, morale e sociale ininterrotto, senza traumi bellici. Poi però l'Italia dovette fare i conti con la Grande Guerra e nel ventennio seguente fronteggiare la grande depressione economica con l’IRI, le bonifiche, il rilancio industriale e manifatturiero, sempre nella certezza che il lavoro premia più delle avventure belliche. La concordia deve prevalere sull'odio, sull'invidia di classe, sulle falsità spacciate per storiografia, come deplora Angelo Squarti Perla nel saggio Le menzogne di chi scrive la storia, di imminente pubblicazione per la BastogiLibri.
   Quell’Italia commise vari errori, e anche gravi. Ma in una monarchia statutaria responsabile degli errori non è solo il Re (né, meno ancora, un sovrano costituzionale e “isolato” quale fu Vittorio Emanuele III) sibbene l’intera dirigenza, a cominciare dalla Camera dei deputati, dal 1919 eletta a suffragio universale maschile e quindi de cittadini che dal 1924 in poi votarono compattamente a favore del Partito nazionale fascista, anche quando divenne “partito unico”. Nessuno si oppose all'intervento in uerra del 10 giugno 1940. Osò dirlo con franchezza il principe Aimone di Savoia, duca d'Aosta. Privato della carica militare, fu a sua volta costretto all’esilio. Lo scrisse suo figlio, Amedeo di Savoia, in Cifra Reale. 
   Il ricordo della figlia del Re morta nel campo di sterminio ove s’ergeva la Goethe Eiche, la Quercia di Goethe, costituisce dunque un invito perpetuo a riflettere sulla storia d'Italia del Novecento con passione, perché si tratta di pagine dolenti, ma finalmente anche senza pregiudizi né paraocchi. Casa Savoia, ne emerge con chiarezza, fu tutt’uno con ogni altra famiglia dell’“itala gente da le molte vite”. Il martirio di Mafalda ne è appunto il suggello.
   Vanno aggiunte poche altre osservazioni. Con la Grande Guerra crollarono gli imperi di Russia, Turchia, Austria-Ungheria e Germania. Il Regno d'Italia rimase l'unica monarchia costituzionale rilevante nell'Europa di terraferma. Vittorio Emanuele continuò la “grande politica” degli avi, con il conferimento del Collare dell'Ordine della Santissima Annunziata e alleanze dinastiche. A parte le nozze della primogenita Jolanda (“Anda”) con il conte Carlo Calvi di Bergolo, nel 1925 “Muti” andò in sposa al luterano Filippo d'Assia, Filippo, che operava per traghettare la Germania dal caos postbellico verso la stabilità. La terzogenita, Giovanna, sposò  l'ortodosso Boris III, zar dei Bulgari. La Santa Sede non gradì né l'uno né l'altro matrimonio. Ma il Re, che nel 1896 aveva sposato Elena di Montenegro, di famiglia ortodossa, pensava anzitutto all'Italia nel difficile quadro europeo (l'URSS non era uno stato amico...) e alla libertà di coscienza di tutti gli italiani. Nella sua difficile opera non venne affatto aiutato dai “politici” né da altri.
  Un re vissuto in solitudine (come Vittorio Emanuele III drammaticamente fu dal 1938 in poi) è paradigma per i capi dello Stato d'Italia, talvolta “sotto assedio” anche dopo l'avvento della Repubblica.
Aldo A. Mola  

DIDASCALIA: La principessa Mafalda di Savoia (Roma, 19 novembre 1902 – Buchenwald, 28 agosto 1944), sposata con il langravio Filippo d'Assia. 
  Oltre alle biografie citate nell'articolo va ricordata quella scrittane da Cristina Siccardi e Domenico Agasso. V. anche il volume “Villa Polissena” a cura di Mariù Safier.  




VITTORIO EMANUELE III 
E LA GUERRA DI LIBERAZIONE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 17 settembre 2023 pagg. 1 e 6.
Nicola
                                                          Bellomo da
                                                          Wikipedia
Didascalia
Dalla resa senza condizioni (Cassibile, 3/8 settembre 1943) a quella dei tedeschi in Italia (Caserta, con effetto dal 2 maggio 1945) l'Italia si trovò nella tenaglia di diverse guerre: gli anglo-americani da un parte, i tedeschi dall'altra, le aspirazioni dei francesi a valicare le Alpi occidentali e possedere Valle d'Aosta e parte del Piemonte, le rivendicazioni e  l'avanzata degli jugoslavi sul confine orientale e infine la contrapposizione tra il governo del re, riconosciuto dalle Nazioni Unite, quello della Repubblica sociale e il movimento di liberazione, dalle molteplici componenti, talora subordinate a direttive di Stati in guerra contro l'Italia. Fu il caso del Partito comunista italiano.

La riorganizzazione del Regio Esercito
  In quel groviglio direttamente e indirettamente il re e il suo governo dettero impulso alla lotta di liberazione del territorio nazionale dagli occupanti germanici e dai loro alleati interni.  Lo scontro armato tra reparti del regio esercito e tedeschi iniziò il 9 settembre a Roma, nelle Puglie e in molte città dell'Italia centro-settentrionale: un ventaglio di battaglie troppo a lungo dimenticate a vantaggio della narrazione secondo la quale i primi e gli unici a combattere contro i tedeschi e i fascisti repubblicani sarebbero stati i nuclei di partigiani. Ripercorrere i “fatti” non significa certo sminuire il valore morale e anche militare delle scelte compiute dall'antifascismo, dalle prime “bande”, dalla “resistenza” e dalla “guerra partigiana” prima e dopo il sino al suo riconoscimento  da parte del governo del re. 
   Il giorno stesso del trasferimento del re, del principe ereditario, di Badoglio, del comandante Supremo Vittorio Ambrosio e dei capi di stato maggiore delle tre armi la Capitale fu teatro di conflitto tra militari e tedeschi. Tra i più coraggiosi e determinati furono i Granatieri di Sardegna,  che, anche senza “ordini superiori” si batterono per l'Italia.   
     Sempre il 9 armato il generale Nicola Bellomo, da poco al comando della piazza di Bari, guidò di persona la lotta contro circa 300 guastatori germanici per il controllo del porto e prevalse con l'aiuto del LI battaglione Allievi ufficiali bersaglieri imponendo al nemico la capitolazione e la ritirata. Lo stesso giorno iniziò a Taranto lo sbarco della I divisione inglese aerotrasportata. L'11 settembre 1943 a Barletta, il comandante della piazza Francesco Grasso affrontò i germanici, che prevalsero, lo costrinsero alla resa, trucidarono civili e ne rimasero padroni sino al 24. Nel frattempo il generale Antonio Basso, comandante delle forze italiane in Sardegna, impose ai tedeschi l'evacuazione dall'isola, con scontri e caduti da entrambe le parti, in specie nei pressi di Oristano e alla base navale della Maddalena. Di concerto con i partigiani della Corsica e poi con truppe di “Francia libera” sbarcate nell'isola il generale Giovanni Magli affrontò i tedeschi in aspri combattimenti (29 settembre-4 ottobre), costringendoli alla resa o all'imbarco verso il continente.
   
  Pochi giorni dopo l'arrivo a Brindisi sia il re sia il principe ereditario Umberto di Piemonte passarono in rassegna corpi dell'esercito. Il 18 settembre Badoglio chiese di affiancare reparti italiani contro i tedeschi, ma cozzò contro il rifiuto anglo-americano. Il 28 settembre, vigilia della notifica a Malta dell'“armistizio lungo” da parte del generale Eisenhower, fu costituito il I Raggruppamento motorizzato di 5.000 uomini agli ordini del generale Vincenzo Dapino, a fine gennaio 1944 sostituito dal generale Umberto Utili. La riorganizzazione dell'esercito fu accelerata con la dichiarazione di guerra alla Germania (13 ottobre), il riconoscimento dell'Italia quale co-belligerante. Caduto prigioniero degli inglesi in Tunisia, su sollecitazione del re (che lo aveva avuto aiutante di campo) e richiesta di Badoglio agli Alleati, il maresciallo Giovanni Messe venne rilasciato e, capo di stato maggiore generale, affiancato dal generale Paolo Berardi quale capo di stato maggiore dell'esercito, guidò la riscossa. 

Guerra di liberazione  
   A lungo è stato affermato che il re fu riluttante a dichiarare guerra contro la Germania. In una lettera “segreta” del 2 ottobre 1943 (classificata 1854/Op) fu invece il comandante supremo Ambrosio e esprimere pesanti riserva al ministro della real casa Pietro d'Acquarone. “I vantaggi degli Alleati per la nostra dichiarazione d'armistizio – egli scrisse- sono stati di per se stesso enormi. (…) Inoltre la nostra collaborazione in questo mese è stata della massima intensità (…) senza nessuna contropartita, salvo la promessa dii attenuare le condizioni di pace. La rottura delle relazioni col Giappone è da escludere. Se a noi è permesso, al massimo, di essere cobelligeranti, vuol dire che possiamo collaborare per cacciare i tedeschi dal nostro suolo, ma non abbiamo nessuna ragione di combattere i giapponesi. Per questo occorrerebbe una vera alleanza politica, che non è concessa”. Data l'estrema debolezza delle forze disponibili, la dichiarazione di guerra sarebbe stata “semplicemente platonica”. Gli anglo.americani avevano agito “senza alcun riguardo” e “generata una crisi gravissima in Italia e nei Balcani. Dobbiamo evitare che si ripeta questo passivo senza contropartita”. 
   Sin dall'incontro con Badoglio a Malta il generale Eisenhower aveva sollecitato il governo italiano a dichiarare guerra alla Germania, sia per accattivarsi l'opinione pubblica nel campo alleato, sia per tutelare i militari caduti prigionieri dei tedeschi, che, diversamente, li avrebbero trattati “da franchi tiratori e, come tali, sottoposti ad esecuzione sommaria”. Con molto realismo il “capo missione” Noel Mason Mac Farlane osservò che sarebbe stato “necessario servirsi di alcuni uomini che erano stati in passato associati con il fascismo dato che esso era durato vent'anni”. Chi non aveva avuto la tessera del PNF o non aveva tributato qualche omaggio al regime? La classe dirigente (non politica ma anche solo “ amministrativa”, di industrie, banche, aziende pubbliche e private) non si improvvisa dall'oggi al domani. Non si poteva fare nell'Italia i cui docenti universitari, tranne una dozzina, avevano giurato fedeltà al regime. Dal canto suo Badoglio dichiarò che il re intendeva “invitare i capi dei diversi partiti -cioè i partiti politici- così come si sono ora costituiti in Italia, con speciale riferimento a quelli che hanno la maggiore influenza sul popolo” e avrebbe dato al governo “un carattere liberale”. Come “militare” precisò che non si intendeva di partiti e di politici.  
   Dal settembre 1943 la ricostruzione del regio esercito fu la premessa per riaffermare l'autorità del governo nelle province di sua immediata competenza. Però il sovrano, il principe ereditario e le forze dell'ordine registravano quotidianamente la diffidenza e le soperchierie degli Alleati contro i militari italiani e la popolazione civile. Soldati inglesi, spesso “alquanto avvinazzati”, strappavano il tricolore da edifici pubblici, irrompevano in postriboli picchiando a sangue quanti vi si trovavano. Nel caffè “Roma” di Mola di Bari un inglese “alquanto brillo” sputò sul ritratto del re. Un altro infranse quello di Badoglio. Per “contenere” inglesi, autori di rapine e violenze d'ogni genere, gli alpini usarono le mani e i carabinieri le armi. Ma la prevaricazione era pressoché quotidiana. Il Comando dell'esercito ordinò pertanto che la sorveglianza sull'ordine fosse affidata a pattuglioni di otto uomini perché le pattuglie tradizionali venivano sopraffatte da militari “alleati”.
   Il 6 dicembre 1943 la regina Elena vide di persona automezzi inglesi investire intenzionalmente civili e sollecitò indennizzi (Archivio Cnetrale dello Stato,Presidenza del Consiglio dei Ministri, Governo del Sud, 1943-1944, Casa Reale).
   La lotta per la riaffermazione della sovranità nazionale era una schermaglia quotidiana. La riscossa passava anche attraverso gesti emblematici. L'11 novembre, per esempio, Badoglio ordinò ai prefetti di esporre il tricolore per festeggiare il genetliaco del re. Risalire la china impegnava sul fronte delle armi come nella vita civile. Allo scopo tra Alleati e Comando dei carabinieri si convenne la necessità di distinguere tra chi era stato fascista “per costrizione” (la tessera del partito era stata tutt'uno con quella “del pane”) e i fanatici del regime. Venne deliberata la formazione di “comitati” civici composti da un ufficiale dei carabinieri, un podestà, un magistrato, un sacerdote (“se di sicuri sentimenti”) e da alcuni cittadini “equi ed imparziali”. Il colonnello dei carabinieri Romano dalla Chiesa ricordò in un rapporto del 4 novembre che la resistenza ai militi dell'arma era “delitto grave”; al tempo stesso vietò l'uso di bombe a mano contro dimostranti. Gli alpini a loro volta svolsero importante ruolo di contenimento contro ogni forma di disordine.
   Dal Corpo Italiano di Liberazione nel luglio del 1944, dopo la liberazione di Roma e la nomina  di Umberto di Savoia a Luogotenente del Re, nacquero 6 Gruppi di Combattimento (Friuli, Cremona, Legnano, Folgore, Mantova e Piceno) per un insieme di circa 60.000 uomini. Però gli Alleati non consentirono che avessero nome di divisioni e costituissero un'Armata. Il 27 dicembre 1943 il governo dichiarò l'adesione alla Carta Atlantica del 14 agosto 1941 ma sull'Italia, malgrado la cobelligeranza, la resistenza anti-nazifascista e la guerra partigiana, continuavano a incombere le clausole della resa e le crescenti rivendicazioni di molti Stati, a cominciare da Francia, Jugoslavia e Grecia. Nel dicembre 1944, dopo lunga trattativa tra il governo e la delegazione del CLN Alta Italia, le formazioni partigiane  furono riconosciute come Corpo Volontari della Libertà agli ordini del generale Raffaele Cadorna. 
Il crepuscolo di Vittorio Emanuele III
Nel frattempo gli anglo-americani decisero la sorte di Vittorio Emanuele III, con il plauso dei partiti riconosciuti dalla Commissione alleata di controllo: democratico liberale, socialista, comunista, d'azione, democrazia cristiana, democrazia del lavoro, democratici dei lavoratori italiani, partito liberale. Il peggioramento del clima  antimonarchico venne segnalato dal ministro dell'Areonautica generale Renato Sandalli il 15 marzo 1944. Il PWB (Psychological Warfare Branch) aveva fatto cassare l'articolo “Agli ordini del loro Re” dal “Giornale dell'Aeronautica”. Il ministro avvertì che il sovrano, la monarchia in genere e il governo stesso non dovevano più essere menzionati pena la soppressione del periodico. La proibizione era motivata con la giustificazione che le “Autorità Alleate” non volevano influire sulla situazione interna italiana. Sandalli, però, aggiunse lapidariamente: “fatti del genere danneggiano la coesione morale delle FF.AA.”. Quegli stessi Alleati  non arginarono mai le rabbiose polemiche quotidiane contro il sovrano, la Casa di Savoia e dell'idea di monarchia da parte dei fautori della repubblica, nei giornali e nei “comizi”. Erano tempi nei quali ai militari, ai dirigenti, funzionari e pubblici impiegati veniva impartita l'amara direttiva: nei contrasti con gli Alleati gli italiani avevano torto anche quando avevano ragione.
Pochi giorni prima del convegno ciellenistico di Bari (26-28 gennaio 1944), che sotto il profilo istituzionale era un sodalizio privato, Vittorio Emanuele III consegnò il suo programma al capo della Missione alleata Noel Mason-Mac Farlane. Vi riprese molti spunti del verbale della conferenza di Malta tra Eisenhower e Badoglio. Il governo in carica sarebbe rimasto in esercizio sino alla liberazione di Roma; a quel punto sarebbe stato formato un ministero con rappresentanti di partiti ed entro quattro mesi sarebbe stata eletta la Camera dei deputati. Il Parlamento avrebbe discusso ed eventualmente riformato le istituzioni “anche totalmente”. Non escludeva, quindi, il cambio istituzionale. Il paese sarebbe stato consultato (referendum confermativo, dunque) e la Corona avrebbe seguito la volontà della nazione. Era l’unica via compatibile con lo Statuto. Il re, però, non fece i conti col fatto che gli anglo-americani non avevano alcuna fretta di arrivare a Roma. A Ravello, per esempio, i loro ufficiali gozzovigliavano giorno e notte, come annotava scandalizzato il generale Puntoni. Non solo. Militari inglesi a Caserta “demolivano nicchie cadaveri et asportavano teschi poggiandoli banchi scuola et collocandone uno sulla testa statua” (Rapporto del comandante dei carabinieri Giuseppe Pièche, 28 maggio 1944, in ACS).
La Luogotenenza del regno
All’inizio dell’aprile 1944 De Nicola escogitò la proposta atta a mettere d’accordo CLN, governo e Alleati: il passaggio dei poteri da Vittorio Emanuele III al principe di Piemonte quale luogotenente. Essa fu diramata ai giornali prima che il re ne fosse informato. Fu messo dinnanzi ai “fatti compiuti”. Dopo travagli vari il sovrano accettò di trasmettere le prerogative della Corona, ma in Roma, quando fosse stata liberata. A Puntoni re Vittorio tracciò un bilancio di quanto fosse “difficile e pesante il mestiere del re”: il “brut fardèl” consegnato da Vittorio Emanuele II a Umberto I. “Solo mio nonno ne è uscito bene” egli confidò. “Carlo Alberto dovette abdicare, mio padre fu assassinato. Non avevo nessuna intenzione di succedere a mio padre e l’avevo quasi convinto ad accogliere il mio progetto di rinunciare alla Corona. Ma fu ucciso e io, in quell’ora tragica, non potei rifiutarmi di salire sul trono. Se l’avessi fatto avrebbero detto che ero un vile.”  
  Pochi giorni dopo Badoglio varò il nuovo governo, con la partecipazione dei partiti del CLN (22 aprile - 18 giugno 1944). A cospetto di Vittorio Emanuele III i ministri giurarono “sul proprio onore”. Poteva il re imporre loro di usare la formula statutaria? Fra di essi vi erano Togliatti, Sforza, Giulio Rodinò di Miglione, Adolfo Omodeo (che da ministro della Pubblica istruzione epurò una quantità di galantuomini), Alberto Tarchiani, Fausto Gullo...: tutti repubblicani accesi e talvolta chiassosi. Il 5 giugno si consumò l’ennesimo sgarbo nei confronti di Vittorio Emanuele III da parte del “suo” governo. Con pretesti risibili (compresa la transitabilità delle strade), gli venne negato di raggiungere Roma per celebrarvi il trasferimento di “tutte le prerogative Regie, nessuna eccettuata” al principe ereditario in veste di suo luogotenente. Che era quindi “del re”, non “del regno”. I primi a non rispettare la promessa “tregua istituzionale” furono anzitutto i ministri, che, a differenza del sovrano e del luogotenente, avevano il sostegno degli Alleati.

Il linciaggio di