Proposte Associazione di Studi Storici Giovanni Giolitti a Cavour-Associazione Studi Storici Giovanni Giolitti

Archivio 2019 - Proposte

                                        In questa sezione segnaliamo editoriali, articoli, note, recensioni e saggi brevi di interesse.
 
2020: SIAMO REALISTICI
 NON VA BENISSIMO, MA POTREBBE ANDARE PEGGIO
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 29 Dicembre 2019, pagg. 1 e 11.
 

Venditori di almanacchi fallaci
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/8/85/Theodora_mosaic_-_Basilica_San_Vitale_%28Ravenna%29.jpg/200px-Theodora_mosaic_-_Basilica_San_Vitale_%28Ravenna%29.jpgStrappare l'ultimo foglio dal blocchetto esaurito del calendario (quelli di una volta, di carta sottilissima, con il numero stampato in rosso fuoco come i bordi dei quaderni dalla copertina nera)  induce a riflettere sul tempo andato, che non vuol dire perduto, e su quello venturo, forato da cabalistici punti interrogativi. Molti esitano a guardare il primo gennaio 2020. Prevalgono previsioni pessimistiche, ma sono più umorali dei bilanci truccati di tante banche da tanti anni agonizzanti (come tutti sapevano) e di industrie condannate a morte dall’evanescenza (altrettanto nota) dei loro prodotti. L'unica certezza dinnanzi al cambio dei calendari è che, per i singoli come per le Istituzioni, “fugit irreparabile tempus”. Tutto passa.  Anche gli imperi apparentemente più tetragoni hanno piedi di argilla. Senza abbandonarsi all'amaro sarcasmo del “Dialogo di un Venditore di Almanacchi e di un Passeggere” del realistico Giacomo Leopardi, da lì conviene partire per una riflessione sull'anno, o meglio, sui decenni che ci attendono. Per farlo lasciamo tra parentesi che tanti oggi vivono di informazioni “ad horas” dalle quali dipendono fortune gigantesche. È il caso delle borse finanziarie, sospinte da stime su beni ancora da produrre, di risorse da estrarre, di “realtà” baluginanti su orizzonti che danno per scontato ciò che non lo è affatto: pace per taluni, devastazioni belliche per altri, catastrofi naturali per i più cinici, perché sempre dal Male nasce il Bene o, più prosaicamente, senza scomodare Zoroastro, il futuro è degli idraulici, degli elettricisti e di chi argina la rapina dei conti in banca per opera di abili intrusi nei sistemi di sicurezza, sempre più fallaci (aggettivo oggettivamente inquietante).
Dove ci conduce il Polo Magnetico?
Nel frattempo il Polo Nord magnetico, altra cosa dal Polo Nord geografico, sta migrando con rapidità sinora imprevista, senza che nessuno sappia prevederne le sicuramente grevi ripercussioni sulla vita del pianeta e quindi sugli uomini, ne siano essi edotti o meno (perché, recita l'“Ecclesiaste” “come lo stolto, così muore il saggio”).
Di sicuro le ricadute della migrazione del Polo Magnetico sono molto più incalzanti e incontrollabili rispetto alle variazioni dell'inquinamento ambientale e di quelle climatiche, “realtà” del tutto diverse e distinte, con buona pace della signorina Greta che, solcando gli Oceani in catamarano, le confonde, diffondendo suggestioni abbacinanti per i più, come fosse la quinta cavaliera dell'Apocalisse.
Per recuperare la necessaria serenità valgano alcune premesse all'“anno che viene”. Anzitutto va ricordato che esso vige per convenzione solo nella parte del pianeta che usa il calendario “europeo” (le Americhe ne sono un “derivato”) risalente alla Roma di Caio Giulio Cesare, con tutti gli adattamenti e le correzioni introdotte col progresso delle scienze, protette da papi come Gregorio XIII e migliorate grazie a illuministi e positivisti, sia deisti sia agnostici. Il trascorrere del tempo assilla chi teme di vedere nello specchio l'infittirsi delle proprie rughe anziché osservare le screpolature dello specchio stesso o contemplare monti, convalli e pianure, cieli ora stellati ora tempestosi e le onde del mare, che toglie e restituisce sabbia, perché così vive il Pianeta.
Quando andava meglio tutto era peggio
Contrariamente a quanto opinano pessimisti e catastrofisti odierni, gonfi di “news” ma talora ignoranti di storia, appena si confronti il presente con i secoli andati v'è motivo di conforto. Lasciando tra parentesi il millennio dalla consunzione dell'Impero romano all'Umanesimo, bastino alcuni eventi che paiono scandire il Tempo con ritmi secolari. Trent'anni dopo la morte di Dante Alighieri (1321) e mentre fioriva un prosatore insuperabile quale Giovanni Boccaccio l'Europa intorno al 1348 fu preda della Peste Nera. Ormai estinti i càtari (parte bruciati vivi, parte ammazzati in massa assieme ai cattolici secondo il benevolo suggerimento: “uccideteli tutti, Dio poi distinguerà i suoi”), la sua popolazione non aveva fatto nulla di particolarmente grave per meritarsi una sciagura di quella portata. Eppure ne rimase preda. Proprio mentre fioriva l'urbanesimo molte città persero un terzo e persino metà degli abitanti. Alcuni ne conclusero che si era meno e si stava più larghi, come da tempo nelle città deindustrializzate e in decrescita infelice. D'improvviso, anziché assicurare benessere e sicurezza, la cerchia murata divenne incubo di contaminazione. Ne rimane eco nel piemontese “contacc”, come ricorda “El Neuv Gribàud. Dissionari Piemontèis” (ed. Daniela Piazza).
Cent’anni dopo venne arso vivo Jan Hus per “eresia” (1415). Fallirono gli ultimi tentativi di conciliazione tra la Chiesa ortodossa d'Oriente e nel 1453 Maometto II conquistò Costantinopoli. In nome del suo dio clemente e misericordioso menò stragi spaventose, gettando le basi del Sultanato-Califfato di Istanbul, che ora si ripropone sull'altra sponda del Mare Nostrum, nell'imbarazzo di quanti ancora deplorano la sovranità dell'Italia sulla Quarta Sponda, durata da Giolitti a Italo Balbo, “uomini del Re”.
Nel 1520 la cristianità occidentale fu sconvolta dalla riforma promossa da Martin Lutero. Abbia o non abbia affisso le sue tesi  sulla porta della chiesa di Ognissanti a Wittenberg e quali ne siano genesi teologiche, dottrinali e catechistiche, la sua Riforma ebbe conseguenze catastrofiche sotto il profilo demografico, della distribuzione dei beni, di divisioni e odi abissali mai del tutto superati, come si percepisce in Stati artificiosi, quali il regno dei Belgi, l'Irlanda e la stessa Gran Bretagna, tuttora divisa tra presbiteriani, anglicani e cattolici (a parte, s'intende, la vasta presenza di islamici e di indifferenti). 
Nel 1620 la battaglia della Montagna Bianca segnò la sconfitta della Boemia (in prevalenza hussita, altra confessione cristiana) da parte degli imperiali poi capitanati dal Albrecht von Wallenstein (dedito a culti solari?) e per tre secoli scomparve dalla storia. Risorse solo dopo la prima guerra mondiale con il “fratello” Tomas Masaryk il cui figlio, Jan, nel 1948 venne “suicidato” dai sovietici quando s’impadronirono del suo Paese col plauso di Togliatti e dei comunisti nostrani.
Intorno al 1720 si registrò uno dei massimi scandali finanziari della storia: una maxi-operazione di vendita di titoli azionari senza basi produttive, antesignana della “grande recessione” del 2008. 
Nel 1820, quando da appena cinque anni la Restaurazione aveva messo ordine dopo il caos dell'età franco-napoleonica, iniziarono le insurrezioni liberali in tutta Europa. Iniziò un secolo di rivolgimenti culminato con la Rivoluzione russa, l'avvento dei bolscevichi a Mosca, la Terza Internazionale, la grande offensiva dell'“Armata a cavallo” verso la Polonia e la sequenza di insorgenze, inclusa l'occupazione delle fabbriche nel triangolo industriale italiano (settembre 1920) per inchiodare le forze armate a tutela dell'ordine interno e impedire che partecipassero alla difesa dell'Europa centro-occidentale contro l'avanzata sovietica: un giochino che non sfuggì all'occhio di lince e al naso aquilino di Giolitti.
In sintesi, proprio se si volge lo sguardo al passato, si scopre che in allora si stava molto peggio che oggi. Più miseria, più fame, più malattie, più guerre, più efferate atrocità, meno sicurezza individuale e dei singoli Stati. Al netto delle motivate critiche di cui furono e rimangono bersaglio, i trattati di pace del 1919-1920 (Versailles, Saint-Germain, Trianon, Sèvres, Neuilly) ebbero il merito di confermare i confini degli antichi Stati e di tracciarne altri, scongiurando o almeno rinviando i conflitti ripresi nel 1938 e fermati solo nel 1948 con l'equilibrio del terrore tra la Nato da una parte e il blocco di Varsavia dall'altra. Molti si domandarono: che cosa è mai la repressione dei dissidenti qui e là rispetto a una guerra con bombe nucleari? 
La Spagnola sa far così
Il 1919, giusto un secolo addietro, fu l'anno della pandemia che cambiò il mondo. In “1918. L'influenza spagnola” (ed. Marsilio, finalista al Premio Acqui Storia) Laura Spinney, collaboratrice di riviste quali “National Geographic” e “Nature”, ne ha ripercorso la “biografia”, ancor oggi per molti versi oscura. Di certo, mentre le guerre fecero stragi in teatri circoscritti e lungo un arco di anni relativamente ampio (almeno 50 milioni di morti nella “guerra dei trent'anni” dal 1914 al 1945) quella febbre maligna falciò da quaranta a cento milioni di vite in appena un paio d'anni. A suo modo la “spagnola” (che, malgrado il nome, invero ebbe il brodo di coltura in Asia) fu il primo frutto della “globalizzazione”. L'Evangelo e l'Islamismo battono il passo da millenni. I virus invece si diffondono in un attimo. Nei corpi come nelle reti informatiche. Tutto cambia e tutto rimane esposto alle infezioni, al “contacc”.
Contro la diffusa credenza, la Spagnola (maiuscola d'obbligo per la Grande Visitatrice di massa) non si propagò a causa di guerre in corso ma forse da virus usciti da schifezze varie come lo spiritello dalla Lampada di Aladino: immondizia, animali da cortile. Ancor oggi ci si interroga sulla “peste”, sempre incombente. Di sicuro la debilitazione dei corpi segnati dalle ristrettezze che colpivano le popolazioni di Cina, India e dell'Europa devastata da conflitti e rivoluzioni concorse a renderla più letale. Ma essa seminò strage anche in Paesi non direttamente coinvolti in guerre, come gli USA da New York all'Alaska, il Brasile, il Venezuela, il Sud Africa e la Spagna, ove, per esempio, nell’isolata Zamora, crocevia con l'infetto Portogallo, perse la vita il 3% degli abitanti (pare poco ma vorrebbe dire 30.000 morti “di influenza” in pochi mesi una città come Torino). Nessuno poteva però chiudere i porti (illusione ricorrente), imporre quarantene, fermare il rientro dei militari dai fronti di guerra.
Perciò gli epidemiologi concordano nel ritenere che un'altra pandemia influenzale fatalmente letale è del tutto probabile e inevitabile, anche se nessuno sa prevedere se farà dieci o cento milioni di morti. Molto dipende dalla condotta dei singoli, dei governi e della loro capacità di pensare alto e di guardare lontano, non solo nella progettazione di nuovi sempre più raffinati e costosissimi strumenti di difesa e di offesa, ma anche nella prevenzione delle pandemie: un “nemico” insidioso, impalpabile, che non si ferma con reti ad alta tensione né con il Vallo Adriano, le Mura Aureliane o, men che meno, con fiaccolate e giaculatorie.

Che fare?
Che cosa può fare un italiano alle soglie dell'anno che viene? Forse ognuno dovrebbe attendersi meno dai governi e dalle amministrazioni pubbliche, sempre più in affanno e con mezzi insufficienti a provvedere le urgenze di un corpo nazionale esausto, spremuto al limite della sopportazione da una moltitudine di tasse e balzelli, pedaggi ed esazioni che spesso sono mera odiosa estorsione (come le capricciose contravvenzioni per infrazioni risibili di cangianti norme di circolazione, o non circolazione, su una rete stradale del tutto inadeguata al volume di traffico). Di certo non è proprio il caso di attendere un condottiero, un capitano, un caporale. L'Italia ne ha già avuti in passato, con esiti devastanti. 
Nel “Corriere della Sera” Ernesto Galli della Loggia, politologo di chiara fama, deplora la “girandola del nulla” dei governi, il buropoliticismo, la dabbenaggine e il dilettantismo di tanta parte della “classe dirigente” e l'inconsistenza delle novità salvifiche via via affacciatesi in Italia dopo l'eclissi dei “partiti” sorti all'indomani del fascismo, spazzato via non dagli antifascisti ma dal Re, come del resto aveva già ammesso storico comunista Ernesto Ragionieri e ricorda ora Pier Luigi Vercesi in “La notte in cui Mussolini perse la testa” (ed. Neri Pozza). Secondo Galli della Loggia è  occorrerebbe, “un grande bagno di verità”, l'ammissione dei gravissimi errori commessi per decenni nei tre ambiti chiave: la sanità, la scuola, l'ordinamento regionale. Altri potrebbero aggiungere a buon diritto la spesso balzana amministrazione della giustizia e lo sfarinamento dei due pilastri dello Stato: la politica estera e le Forze Armate. Questi ultimi sono stati coscientemente corrosi, dal 1946 in poi, dalle maggioranze e dalle opposizioni, divise in tutto tranne che nella rassegnata constatazione che l'Italia aveva perso la guerra e che la “festa” poteva continuare solo sotto ombrello straniero.
Per risalire la china bisognerebbe riscoprire e diffondere il senso dello Stato. In Italia abbiamo una pletora di benemeriti, dediti alla salvaguardia di specie animali e vegetali in via d’estinzione. Pochi, invece, si dedicano al “bene comune”, che è garanzia di ogni altra forma di solidarietà. Il Terzo Settore vien dopo il secondo e soprattutto il primo: porro unum necessarium. Ma da dove dovrebbe iniziare il nuovo radicamento del “senso dello Stato”? È  un'impresa difficilissima, al confine dell'impossibile nella babele delle “lingue politiche” oggi imperversante.
La “Gazzetta Ufficiale” non è codice morale 
Vale d'esempio la “Gazzetta Ufficiale” del 14 dicembre 2019. In “appendice” vi è pubblicato lo statuto di un “partito” la cui qualifica di “socio ordinario” è dichiarata “incompatibile con l'iscrizione o l'adesione a qualsiasi altro Partito o Movimento Politico o lista civica non autorizzati, nonché l’adesione ad associazione segreta, occulta o massonica, o ad enti no profit ricompresi tra quelli preclusi...”.
Ogni associazione privata ha diritto di escludere chi non gli garba. L'Italia pullula di circoli fondati sulla preclusione. Ciascuno vi fa gli onesti fatti suoi. Però su tale base nessuna associazione ha diritto di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49 della Costituzione). Un “partito” di quel genere non può pretendere  contributi dello Stato, cioè di tutti i cittadini, e men che meno aspirare a pieni poteri quale onnipotente partito unico. Chi bandisce come appestati gli associati a Ordini non in conflitto con la carta costituzionale, quali sono le Comunità massoniche, non ha titolo per governare l'Italia. È un pericolo per le libertà di tutti i cittadini: oggi questi, domani quelli e via continuando. Non sappiamo (se e) quali “album” abbiano letto da ragazzi i fautori della massonofobia. Forse “Piccoli martiri”, forse i romanzacci di Léo Taxil, forse i Protocolli dei Savi Anziani di Sion (inventati dalla polizia segreta della Russia zarista e oggi lettura abituale nei Paesi islamici). Sappiamo che sono libri deliranti e ne conosciamo bene le conseguenze. Bisogna stare ben alla larga dai loro ammiratori di ieri e di oggi.
La pubblicazione di uno statuto partitico nella “Gazzetta Ufficiale” lascia il tempo che trova nella vita quotidiana dei cittadini che in larghissima maggioranza ne ignorano l'esistenza; va però detto a futura memoria (compito dello storico) che, malgrado i suoi crismi, quel “foglio” non legittima la liceità, la costituzionalità e men che meno la moralità di quanto vi si stampa. Pare un'affermazione grave. Ma va fatta. Nella “Gazzetta Ufficiale” del Regno vennero pubblicate le famigerate leggi razziali approvate dal Parlamento dell'epoca (1938). E allora? Erano forse “morali”? E sono accettabili eventuali aberrazioni odierne solo perché pubblicate col sigillo dello Stato?
A cospetto del declino dell'ordine costituito, il 2020 potrebbe essere un anno di riscoperta della razionalità, ma solo se ci si ferma a “pensare”, a “discernere” come insegna il gesuita papa Francesco. Dopo il mite paganesimo rispettoso della riservatezza personale, l'Italia è passata al culto dei santi, poi a quello del Lotto, agli oroscopi, ai maghi e ora inclina ad andare... in fumo con l'autorizzazione a coltivare cannabis per uso personale. E quella di grappa e di foglie di tabacco? A quando il loro sdoganamento? La parabola del ministro della pubblica istruzione Lorenzo Fioramonti che voleva sostituire i crocefissi coi mappamondi dà la misura dei rischi incombenti nel Paese di Tommaso d'Aquino.
Senza aspirare alla “Verità” auspicata da Galli della Loggia, per affrontare il difficile cammino dell'anno e dei decenni venturi l'Italia necessità di un lungo bagno di realismo. L'Italia non ha bisogno di eroi, santi, navigatori, profeti, imbonitori, eccetera, ma di persone serie, informate, di buon senso. Essa ha bisogno di “più luce”, come diceva il “fratello” Wolfgang Goethe, che visitò e apprezzò “il paese dei limoni” e il meglio dei suoi abitanti.
Aldo A. Mola

BORGHI ANTICHI D'ITALIA
 UN PRESEPE IN CERCA DI RAPPRESENTANZA POLITICA
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 22 Dicembre 2019, pagg. 1 e 11.
 

Comune di GorbioPiccoli borghi antichi.
“Dilaga l'elogio dei piccoli borghi...”. Un dodecasillabo. Misera cosa nel bicentenario dell' “Ermo colle” dell'inarrivabile Giacomo Leopardi. Non è un verso di Giovanni Pascoli (1855-1912), latinista, dantista e poeta, che dalle elementari alla vecchiezza ci ha inflitto i “crì crì” e l'“ora di Barga” e le tante “turbe” che gli venivano dai luttuosi ricordi di casa e dall'assillante sorella “Mariù”. Non è neppure un verso di Guido Gozzano (1883-1916: chi ne ricorda le “buone cose di pessimo gusto”?) e nemmanco del crepuscolare Sergio Corazzini (1886-1907). È un dodecasillabo pubblicitario. Invita a investirvi risparmi e senilità perché lì “la vita l'è bela”. Come anche nei “cuori antichi”delle “grandi città” (una volta i quartieri storici o “ vecchi”). Ma le città hanno ancora un cuore? O sono solo un guazzabuglio di “borghi” reciprocamente ostili, di fortilizi trincerati da accessi a ore e a pedaggi sempre più elevati? 
La modernità precipita riporta a un nuovo Medioevo. E bisogna contentarsene. Peggio sarebbe un passo ancor più all'indietro, nella Roma che Nerone (si narra) mise a fuoco per farla più bella. Per ora nessuno propone soluzioni così estreme. Anzi, appunto, statistiche della “vivibilità” alla mano, nella predilezione degli italiani trionfano i piccoli borghi: impenetrabili, senza parcheggi, sequenze di piazzette e di stradine umide, dai saliscendi impraticabili per gli anziani che non avevano previsto artrosi e fitte gottose. Fughe di  lugubri finestre mai raggiunte da un raggio di luce, da occludere con tende pesanti per ripararsi dall'indiscrezione dei dirimpettai e per non doverli osservare né sentirne le voci. Ma oggi non è solo l'Italia a crogiolarsi nel mito microborghigiano, nella nostalgia della contrada, nella ricorrente esaltazione onirica del “piccolo è bello”(asserzione del tutto opinabile secondo i Carmina Burana).
Elettori, eletti, istituzioni. La nascita di una grande dirigenza 
L'Italia è sintesi di innumerevoli “piccole patrie” anche per Giosue Carducci: una persona seria che insegnò “eloquenza italiana” all'Università di Bologna e nel 1879 di punto in bianco dichiarò di preferire gli studi di statistica alla poesia, perché l'Italia aveva - e ha - bisogno di “fatti” non di “versi” né di “versacci”. È l'Italia delle “cento città”, cioè dei quasi altrettanti capoluoghi di province, ciascuna comprendente circondari e distretti, una miriade di cittadine, comunelli e, appunto, di borghi sparsi.
Un tempo, diciamo quasi due secoli fa (che poi vuol dire appena sette od otto generazioni, uno spazio temporale modesto), città, comuni e borghi erano governati da “intendenti” nominati dal sovrano. Dal 1848 nel regno di Sardegna con lo Statuto Albertino e dal 1861 in quello d'Italia i cittadini elessero i loro amministratori comunali, provinciali e i componenti  della Camera dei deputati. Il Re rimase re. Nominò i membri del Senato, vitalizi: scudo della monarchia. La Camera dei deputati, invece, fu elettiva. Rappresentava i cittadini, non tutti i regnicoli ma quelli con diritto di voto, in forza di norme elaborate da tre geni superiori quali Cesare Balbo, Camillo Cavour e Luigi des Ambrois de Névache.
Qual era il senso della legge elettorale? Avvicinare gli elettori alle istituzioni. 
Era un esperimento. Eleggere significava conoscere il rappresentante, accettarlo, rifiutarlo. I candidati si combattevano. Con tutti i mezzi possibili, perché i bravi volevano primeggiare sui migliori e questi sugli insuperabili. Era una gara tra “pezzi da novanta”, che in pochi decenni formò una classe politica di livello eccezionale, un miracolo, studiato a fondo dai fondatori della “teoria delle élites” che ebbe tra i suoi campioni Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels. La classe dirigente della Terza Italia risultò uno straordinario impasto di aristocratici, grandi, medi e piccoli borghesi e di una folla di “umili genere nati” ascesi a posizioni eminenti. Per un secolo in Italia funzionò un ascensore sociali senza precedenti se non all'interno della Chiesa, che da secoli vedeva l'alternanza di principi e di plebei accomunati dalla Missione. Ma lì interveniva (allora come oggi) il Creator Spiritus. Le gare politiche, invece, erano dominate dall'intreccio di ambizioni personali e di senso della “cosa pubblica”: un garbuglio apparentemente indistricabile, che di fatto era la linfa vitale dello Stato nazionale, antico e giovane a un sol tempo.
Per comprendere la straordinaria vitalità della Nuova Italia non vi è nulla di più istruttivo che ripercorrere gli esiti delle elezioni. Nel 1897-1898, cinquantenario dello Statuto, vennero pubblicati i primi grandi repertori statistici. Di lì a poco il geniale Leone Caetani - islamista insigne (ancorché la sua famiglia avesse dato papi al Soglio di Pietro) e marito di una Colonna - impostò il primo dizionario biografico degli italiani.
Un seggio, un collegio: il sistema uninominale 
Il “segreto” dell'unificazione al calor bianco della nazione antica nello Stato nuovo era uno solo: la libera scelta dei rappresentanti alla Camera dei deputati. Dal 1866 i seggi in palio erano 508 e tali rimasero sino alle votazioni del 1913. Si susseguirono tre leggi elettorali e il corpo dei votanti passò da 600.000 a quasi 8 milioni, ma il rapporto fra territorio e Aula rimase il medesimo: ogni deputato era eletto in un collegio uninominale, a doppio turno se nella prima elezione nessuno raggiungeva il quorum previsto dalla legge. Semplicissimo. Funzionò benissimo. Rimane non esempio ma modello, da ripristinare. Gli aspiranti all'elezione non avevano bisogno di “presentatori”. Inizialmente la legge non prevedeva neppure candidature da parte degli eligendi. Fu il caso del popolarissimo teologo Vincenzo Gioberti, trionfatore in parecchi collegi senza essersi proposto in alcun modo. Per essere eletti a volte bastava una manciata di voti. Rimane celebre il caso di Giuseppe Garibaldi, eletto deputato alla prima legislatura della Camera subalpina il 1 ottobre 1848, in seconda votazione, nel collegio di Cicagna: 18 voti su 63 elettori. 
Elezioni vergognose, ma libere 
Naturalmente il sistema si prestava a contese e a brogli d'ogni genere, ampiamente attestati dalle cronache e dalla storiografia, perché anche all'epoca talvolta la prosa aveva la meglio sulla poesia. I seggi erano allestiti in luoghi controllati dai sindaci e dai notabili. Si votava negli orari comodi per i presidenti di seggio e i loro assistenti, con tutte le possibili manipolazioni. Le schede erano foglietti alla mercé degli scrutatori e le urne non erano invulnerabili. Spesso lo spoglio avveniva alla chetichella, con esclusione di rappresentanti dei candidati d'opposizione. La proclamazione del vincitore era improvvisata, soggetta a contestazione solo se lo sconfitto aveva l'animo di opporsi. Nel trattato su “Il diritto di voto: storia, dottrina, funzioni” pubblicato nel 1911, mentre Giolitti varava il suffragio universale maschile, Antonio Casertano, futuro presidente della Camera dei deputati, scrisse ruvidamente: “Nessuno che sia in buona fede può negare che le elezioni da noi procedano in maniera vergognosa, onde il più delle volte l'eletto diventa l'espressione della violenza o d'intrigo”.
Però le cose non migliorarono affatto quando i collegi uninominali furono sostituiti con soli 54 collegi e con il il riparto proporzionale dei seggi sulla base dei voti ottenutivi dai partiti. Lo ha ricordato Marco Follini nel convegno organizzato il 14 dicembre all'Accademia dei Concordi di Rovigo da Gianpaolo Romanato nel centenario della “maledetta proporzionale”: letto di procuste della dirigenza liberale e, in breve, della democrazia parlamentare, sostituita da una Camera eletta con un maggioritario debordante (due terzi dei seggi al partito che ottenesse almeno il 25% dei voti) e poi con la sostituzione della libera scelta con l'imposizione di un listone “prendere o lasciare”, confezionato dal Gran Consiglio del fascismo: uno strappo del regime statutario e un insulto alla libertà dei cittadini.
Il ruolo della Massoneria
A quel punto era venuto meno uno dei volani della democrazia liberale sorta in Italia con l'unità e sopravvissuta agli sconquassi della Grande Guerra: la massoneria. Poiché nella narrazione e nelle cronache odierne questa viene identificata con “logge deviate” ed è considerata sinonimo di intrallazzo, se non addirittura di malavita, è bene ricordare che essa diede alla storia della Nuova Italia quattro presidenti del Consiglio (Agostino Depretis, Francesco Crispi, Giuseppe Zanardelli e Sandrino Fortis), centinaia di ministri eccellenti, deputati, senatori e una miriade di docenti, professionisti artisti, letterati (bastino i nomi di Carducci, Pascoli e Quasimodo), prefetti, militari (inclusi primi aiutanti di campo del re), scienziati, magistrati e via continuando: tutti accomunati dal proposito di accelerare la modernizzazione di un Paese che era rimasto per secoli sotto dominio straniero ed era ancora condizionato da un clero impermeabile agli spiriti che avevano innovato la Chiesa in Belgio, Francia, Germania. L'Italia era un Paese “difficile”, con faglie enormi. Basti ricordare la scomunica dei “modernisti” da parte di un pontefice per molti versi innovativo, quale Pio X e i tormenti di Antonio Fogazzaro  (1842-1911: se ne rileggano “Piccolo mondo antico” e “Il santo”), di don Romolo Murri e di Ernesto Bonaiuti. 
La Libera Muratorìa (sinonimo di massoneria) italiana sconcerta lo storico poiché essa fu fautrice del suffragio universale, nonostante l'avvento del voto di massa mal si conciliasse con il ruolo di una élite. Eppure grandi maestri come Ettore Ferrari ed Ernesto Nathan scommisero sul futuro nel solco di Giuseppe Mazzini, in sintonia con il pragmatico Giolitti: provare e vedere, coniugando prudenza e sperimentazione.
Patrioti col grembiulino
La capacità dei massoni nostrani di guardare al futuro, anche a prezzo della vita, è documentata dal denso saggio su “La Loggia Garibaldi-Pisacane di Ponza-Hod” (ed. Pontecorboli), scritta da Carlo Ricotti, docente alla Luiss Guido Carli di Roma, morto lo scorso 16 maggio, e curata dal venerabile dell'Officina, Alfonso Sestito. È il racconto dell'impresa avviata da Domizio Torrigiani, gran maestro del Grande Oriente dal 1919, nel 1927 condannato al confino di Polizia (prima a Lipari, poi a Ponza), promotore della Loggia clandestina “Carlo Pisacane”, comprendente liberali, repubblicani, socialisti, comunisti… un ventaglio di patrioti, molti dei quali furono poi attivi nella lotta di liberazione (1943-1944), imprigionati, torturati nella prigione di via Tasso a Roma, assassinati alle Fosse Ardeatine: Placido Martini, Silvio Campanile, Carlo Zaccagnini. Giovanni Rampulla, Carlo Avolio, Giuseppe Celani, Fiorino Fiorini. Di quella loggia fece parte anche il generale Roberto Bencivenga, già tra i principali ufficiali di Luigi Cadorna, storico militare e comandante del Comitato di Liberazione Nazionale sino all'arrivo degli anglo-americani in Roma. Tra i suoi affiliati vi fu anche Domenico Rittà (1874-1944) di Monteu Roero, condannato al confino a Ponza quale esponente di un gruppo social-democratico che diffondeva ad Alba, Sinio, Canale un foglio modesto ma fastidioso per il regime di partito unico: l'“Altoparlante”. Erano uomini usi a capire che ogni torre è fatta di mattoni, uno sull'altro e la Piramide poggia sulla base.   
L'intreccio fra minoranze colte, dedite agli ideali di Patria e di affratellamento tra le nazioni, va ricordato mentre si discute di legge elettorale, senza dimenticare che le riforme devono servire al paese e non alle fazioni. Ma quanto faticano a capirlo i capi-partito? Eppure questa è la voce che sale dalle “piazze”: non solo da quelle “piene”, ma soprattutto da quelle “vuote”, dalla maggioranza di cittadini che non segue più le cronache dei “Palazzi” e riscopre riti antichi, come il presepe. Agogna a quiete e raccoglimento.
Perciò mai come quest'anno anche l'Italia ha ansia di un Natale tranquillo. Oltralpe infuria il caos, dall'Inghilterra, in piena Brexit e deflagrazione del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda, alla Francia, dalla Catalogna alla Germania dilaniata da opposti estremismi. È l'ora della politica grande e di lungo respiro. L'alternativa è l'implosione della democrazia parlamentare. Quod non est in votis..., dato il prezzo pagato dagli italiani per l'unificazione nazionale e per la riconquista delle libertà garantite dalla Costituzione nel solco dello Statuto Albertino.
Aldo A. Mola

DUE ANNI DOPO
 VITTORIO EMANUELE III E LA REGINA ELENA A VICOFORTE
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 15 Dicembre 2019, pagg. 1 e 11.
 

Vicoforte, l'arrivo della salma del Re Vittorio Emanuele IIIRequiescant in pace...
Finalmente insieme. Finalmente in Italia. Finalmente in pace. Era il 15-17 dicembre del 2017, due anni orsono. Tre governi fa. Presidente del Consiglio era Paolo Gentiloni, ora l'italiano più rappresentativo nella Commissione europea. Da quei giorni di due anni fa le salme di Vittorio Emanuele III e di Elena di Savoia sono congiunte ai lati dell'altare nella Cappella San Bernardo del Santuario-Basilica di Vicoforte, diocesi di Mondovì, provincia di Cuneo, cuore del “Vecchio Piemonte” a loro particolarmente caro. Era la terra incontaminata, quella delle rare intense “vacanze”, tra Racconigi e Pollenzo, Sant'Anna di Valdieri e la miriade di “piccoli borghi” che alla Regina ricordavano il suo originario Montenegro. 
Una luce nella notte: la Regina da Montpellier  a Vicoforte 
Per primo arrivò il sarcofago della Regina, quasi il Consorte le avesse dato la precedenza, con l'eleganza che le usava nella consuetudine di Casa, quando le recava mazzi di viole campestri da lui stesso raccolte, al di fuori del protocollo di Stato. Era ormai buio fitto quando il furgone funerario giunse da Montpellier il 15 dicembre 2017. La sua estumulazione era iniziata alle 7.30 nel cimitero Saint-Lazare alla presenza di Luca Fucini, componente della Consulta dei senatori del Regno, appositamente delegato, e del “maire” Philippe Saurel, che sul feretro racchiudente la cassa di zinco appose la coccarda francese e la targa “Reine Elena di Savoia, 1873-1952”. Venne chiesto un minuto di silenzio “à la mémoire de la Reine”. Fu l'omaggio della città alla Regina d'Italia che, vedova dal 1947, vi aveva trascorso gli ultimi tempi della lunga vita dedicata alla beneficenza, agli studi, alle arti a fianco del Consorte, Vittorio Emanuele (11 novembre 1869-28 dicembre 1947). All'epoca principe di Napoli, il futuro re d'Italia, ottenuto il placet da Umberto I come da “regie patenti”, nella lontana estate del 1896 l'aveva chiesta in sposa al padre, Nicola Petrovic-Niegos, principe e poi re del Montenegro, di osservanza ortodossa. Cresciuta a contatto con la corte dello zar di Russia, nel viaggio dalla terra nativa a Bari la principessa Elena aveva optato per la confessione cattolica apostolica romana, “sola religione dello Stato” in forza dello Statuto promulgato da Carlo Alberto di Sardegna il 4 marzo 1848. L'estumulazione fu ripresa dalle reti televisive “France 3” e da “Monpellier Actualité”, presenti cronisti informati dalla “mairie”, anche in vista di una conferenza stampa indetta dal sindaco, opportunamente fatta differire alle 18.
Quasi otto ore dopo la partenza, la salma fu accolta a Vicoforte dal conte Federico Radicati di Primeglio, nell'agosto precedente delegato dalla Famiglia Savoia “per tutti gli atti necessari a estumulazione, traslazione e ritumulazione” delle salme di Vittorio Emanuele III e della Regina “in Italia”: un funerale privato, per motivi comprensibili e condivisi tutelato dal massimo riserbo. Presenti il sindaco di Vicoforte, Valter Roattino, l'architetto Claudio Bertano (al quale si deve il disegno delle arche funerarie, approvato dalla Sovrintendenza competente), uno storico da anni dedito alla complessa impresa e un Consigliere che non era osservatore ma tramite di alta volontà, il Rettore del Santuario monsignor Meo Bessone impartì la benedizione.  L'impresa funebre di Flavio Tallone (che scoprì solo leggendo le lapidi delle arche quali “personaggi” stessero arrivando) provvide alla laboriosa estrazione del sarcofago dalla cassa appositamente predisposta, la sua deposizione nell'avello e la sovrapposizione dell'arca sovrastata dalla Stella d'Italia. “Libro sacro” alla mano, nel silenzio degli astanti il Rettore ricordò i motivi profondi dell'accoglienza dovuta alla regina, ornata dalla Rosa d'Oro della Cristianità conferitale da papa Pio XI. Altri, di seguito, disse che per essere lieti dell'evento non è necessario essere monarchici, basta sentirsi italiani, perché il ricongiungimento delle salme del Re e della Regina in patria alimenta la consapevolezza del passato e la concordia nazionale nella visione solenne e pacificante della Storia. “Quod erat in votis” da anni e fu possibile per congiunzione astrale. “Non nobis, Domine, sed Nomini tuo...” dicevano i Templari. 
La Principessa e il Presidente 
Informata dell'imminente arrivo della salma della Nonna da Montpellier a Vicoforte, la Principessa Maria Gabriella di Savoia comunicò all'Ansa (sede di Parigi): “A nome e per conto dei discendenti dei Sovrani che vissero cinquantun anni di matrimonio in unione con gli Italiani nella buona e nella cattiva sorte e mentre ricordo mia zia Mafalda, morta tragicamente nel campo di concentramento in Germania, ove era stata deportata dai nazisti, esprimo profonda gratitudine al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha propiziato la traslazione delle Salme dei Nonni in Italia, in prossimità del 70° della morte di Vittorio Emanuele III avvenuta in Alessandria d'Egitto il 28 dicembre 1947 e nel centenario della Grande Guerra, per la composizione della memoria nazionale”.
Del tutto inattesa, la “notizia” irruppe in Italia e aprì i telegiornali, a conferma che l' “evento” non era affatto “marginale”. Era storia. Ma, ... e il Re? Era ancora tumulato nel retro dell'altare della chiesa di Santa Caterina ad Alessandria d'Egitto o era già alla volta della patria? I “media” dettero per scontato che la traslazione della sua salma fosse ormai in corso. Così avveniva, in effetti, con una lotta contro il tempo perché a Montpellier era stato rotto il riserbo. La mattina del 17 dicembre sul sagrato del Santuario-Basilica di Vicoforte, dinnanzi all'immensa suggestiva Palazzata, si affollarono giornalisti e operatori di reti radio-televisive nazionali e locali. Molti vi arrivarono per la prima volta e ne rimasero affascinati. Non trapelò alcuna informazione precisa (il feretro sarebbe giunto, e a quale ora, a Genova? A Cameri? In realtà l'aereo atterrò a Levaldigi) sino a quando, verso le 12, in una luce vivida per il contrasto tra l'azzurro del cielo e la neve e il verde della cupola di rame della Basilica, giunse il furgone con il feretro di Vittorio Emanuele III, subito avvolto nella bandiera sabauda, recata da Maurizio Bettoja, membro della Consulta dei senatori del regno e cavaliere melitense, che, in vista di un futuro eventuale regio funerale, era casualmente a Vicoforte con i paramenti indispensabili per le esequie regali.
Seguito dal prefetto vicario di Cuneo, Maria Antonietta Bambagiotti e dal “consulente”, in pochi minuti il sarcofago fu recato nella Cappella San Bernardo, adagiato su manto aureo sormontato da corona posta su cuscino purpureo e vegliato da quattro Carabinieri, con assistenza del delegato della Famiglia, conte Radicati, a sua volta in arrivo da Alessandria d'Egitto (ove si era tempestivamente recato da Vicoforte), presenti due Consiglieri aulici.
Mentre le spoglie del re venivano calate nell'avello alla destra dell'altare della Cappella, un caporale della Fanfara della Brigata Alpina “Taurinense” suonò il “Silenzio”: onori militari dovuti al re d'Italia, capo delle forze di terra e di mare, cittadino italiano morto all'estero nella pienezza dei suoi diritti civili e politici il 28 dicembre 1947.
Un percorso di sette anni
La tumulazione delle salme dei Reali d'Italia fu il punto di arrivo di un lungo percorso. Il 19 marzo 2011, 150° della proclamazione del regno d'Italia, il Santuario-Basilica di Vicoforte venne individuato quale sede idonea ad accoglierle le spoglie dei sovrani nel corso di una seduta della Consulta nel Palazzo della Provincia di Roma, presente e annuente la Principessa Maria Gabriella di Savoia, sua componente. Il 22 aprile 2013, sentiti il consiglio di amministrazione del Santuario e il rettore, mons. Bessone, il vescovo di Mondovi, Luciano Pacomio, rispose alla proposta di accogliere le salme presentatagli il 10 gennaio precedente dalla Principessa e dal presidente della Consulta. Ricordato che a volere l'edificazione del Santuario quale mausoleo della Casa nel 1596 era stato Carlo Emanuele I, duca di Savoia dal 1580 al 1630, e che esso “è un insigne monumento nel panorama artistico del nostro paese e a livello internazionale, alle cui origini è doveroso iscrivere l'intervento fattivo e a più riprese manifestato della famiglia Savoia, il vescovo, teologo e prestigioso storico del catechismo, accolse l'“aspirazione a riunire le Salme dei Reali, mantenendo il profilo strettamente privato della traslazione, così come manifestato nella richiesta citata e in sintonia con le finalità spirituali della Basilica”. Suggellò l'assenso e avvalorò l'iniziativa alla luce del Salmo 39,13: “Siamo tuoi ospiti, pellegrinanti, come tutti i padri nostri”.
Nell'aprile 2017, anche a nome delle sorelle, Vittorio Emanuele di Savoia, principe di Napoli, e la principessa Maria Gabriella espressero al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il desiderio che le salme dei nonni fossero congiunte “in Italia”. Chi era stato sovrano di circa 8.000 comuni poteva trovar pace in qualunque lembo di un Paese che egli aveva perlustrato da un capo all'altro e conosceva a menadito, con memoria formidabile di ogni suo campanile. La stessa dedicata al “Corpus nummorum italicorum” e agli studi di storia e geografia, che lo accreditarono ripetutamente arbitro di complesse controversie internazionali.
I fati vollero che la disponibilità della Cappella coincidesse con la decisione del Presidente della Repubblica di propiziare la traslazione nei modi a suo tempo indicati dal vescovo Luciano Pacomio: un “gesto umanitario” e, al tempo stesso, un funerale “privato”, dalle procedure complesse e impegnative, sia perché le spoglie giacevano in due Paesi di due diversi continenti (Alessandria d'Egitto da tempo era teatro di assalti di fondamentalisti islamici a chiese di rito copto), sia per le impegnative norme preposte per la sepoltura di “resti di persone meritevoli di speciali onoranze” al di fuori dei cimiteri comunali e di cappelle private, sia perché nulla doveva turbare il funerale “dovuto” e al tempo stesso riservato. Quanti si adoperarono per il suo buon esito erano consapevoli che il re era (e rimane) al centro di valutazioni disparate, anche polemiche e persino di invettive.
Di lì l'assoluto riserbo mantenuto nei preparativi e nell'attuazione. Nulla di “occulto”, nessuna “cospirazione”, solamente il rispetto che si deve ai defunti. 
Lo Stellone d'Italia  al di là delle prevedibili “reazioni”
Come previsto, l'“evento” suscitò onde polemiche. Alcuni “istituti di storia” e taluni portavoce di comunità religiose ribadirono la “damnatio memoriae” del sovrano e deplorarono che le salme fossero state revocate dall'“esilio” al quale il re e la regina erano stati condannati. In verità, come già detto, Vittorio Emanuele III morì tre giorni prima che entrasse in vigore la Costituzione (1° gennaio 1948) e quindi da cittadino di pieno diritto, inclusi gli onori dovuti a tutti i militari, ovunque morti.
Più acri furono le animadversioni dichiarate da “monarchici” secondo i quali Vicoforte (“chiesetta di campagna” a detta di qualcuno che non l'aveva mai veduta neppure in cartolina) sarebbe una locazione “provvisoria”e le salme dovrebbero essere tumulate al Pantheon, quasi il Tempio di Menenio Agrippa non sia esso stesso tomba a suo tempo scelta per ospitare le spoglie di Vittorio Emanuele II (“Padre della patria”) e di Umberto I (assassinato a Monza nel 1900) in mancanza in Roma di un Mausoleo dei re, quale poi fu il Vittoriano, completato nel 1927 ed elevato ad Altare della Patria dopo la Grande Guerra con la deposizione del Milite Ignoto.
Più incomprensibili risultarono le riserve di chi, con concezione curiosa della devozione, dichiarò che non si sarebbe mai più recato a pregare a Vicoforte e di taluni che lamentarono di non essere stati preventivamente informati della traslazione, invero avvenuta in assenza di chi, come la Principessa, aveva dedicato anni alla sua realizzazione. I naviganti andarono nella direzione giusta guardando la Stella incisa sulle Arche dei sovrani. Come la Polare, a volte appena si intravvede. Ma è sempre là, per chi ha a cuore la continuità dell'“Italia”, la sua solennità e le sue tante traversie dalla recente costituzione: lo “Stato” giovane nel quale prese forma una “nazione” antica, l'“Itala gente da le molte vite”, come scrisse Giosue Carducci, che a Vicoforte andò con Umberto I allo scoprimento del monumento di Carlo Emanuele I. Lì si respira l'aria pulita che da ventiquattro mesi circonda la cappella di San Bernardo e assicura ai sovrani il silenzio, il raccoglimento, la serenità che deve circondare chi fu protagonista della Storia: un Uomo che fu ed è misura di tutte le cose, di quelle che sono per quello che sono e di quelle che non sono perché non sono. 
Aldo A. Mola

1967-1968
 LA LUNGA VIGILIA DEGLI “ANNI DI PIOMBO”
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 8 Dicembre 2019, pagg. 1 e 11.
 

http://www.arte.it/foto/600x450/c9/89235-Pieter_Bruegel_Il_Vecchio_La_parabola_dei_ciechi.jpgQuando lo Stato sembrò vacillare.
Vigilia della strage nella Banca dell'Agricoltura a Piazza Fontana nel cuore di Milano, 12 dicembre 1969. Come di rito, il cinquantenario è sommerso da rievocazioni, libri, “memorie”. In sintesi, mezzo secolo dopo il “fatto” abbiamo una verità processuale (approdo di vari e controversi procedimenti giudiziari), molte e contrastanti interpretazioni “politiche”, nessuna opinione condivisa né una certezza storiografica. Come deplora Gianni Oliva in “Anni di piombo e di tritolo. 1969-1980” (ed. Mondadori), giovani e meno giovani dai “media” vengono appassionati a Cleopatra, ai Borgia, ai Medici più che alla storia contemporanea, cioè alla comprensione del loro tempo. Angosciati dalla quotidianità (come avverte il preoccupante rapporto del Censis), gli italiani si rifugiano nel passato remoto o nella cura del corpo, ripiegati tra incertezza e frustrazioni, e coltivano il mito dell'“uomo forte al comando”, come non ne avessero già avuto uno con conseguenze catastrofiche. Immergersi in “mondi lontani” rinvia il fastidio di fare i conti con un passato imbarazzante, di ambiguità, compromessi, rassegnazione.
Ma la strage del 12 dicembre 1969 davvero fu l’inizio programmato della “strategia della tensione”? Ideata e pilotata da chi? La sequenza degli eventi è nei fatti, ma non era scritta in alcun libro del destino, né, meno ancora, è identificabile con un “progetto”. A distanza di mezzo secolo è giusto ripercorrerli e accostarli, fermo restando, però, che le congetture non sono prove, né, quindi Storia. Un lustro dopo quel tragico dicembre 1969 l'Italia imboccò una via accidentata. Rimane tuttavia da documentare il nesso non solo logico-cronologico ma anche fattuale tra il prima e il dopo. Dal 1974 seguirono il sequestro del magistrato Mario Sossi (da poco mancato ai vivi), poi lo stillicidio delle Brigate Rosse, via via sino al sequestro e all'assassinio di Aldo Moro (1978), e poi altri cinque anni di delitti eccellenti, da Mino Pecorelli, che in grembiulino e guanti bianchi scriveva troppo, a Carlo Alberto Dalla Chiesa, che aveva dedicato la vita a servire lo Stato. Un quindicennio. Una lunga guerra oggi dimenticata ma viva nella carne di chi la combatté, come Antonio Brunetti, che ne ha scritto in “I 31 uomini del Generale” (ed. Luni). 
La Storia non è profezia del passato: una narrazione che parte da una data e pretende di allineare i fatti risalendo all'indietro come se una Volontà unica planetaria abbia deciso e governato ogni passo di ogni paese. Questa è una visione mistica, con un piede nel Provvidenzialismo, un altro nel Complottismo, che poi sono due facce di una stessa medaglia, cioè la convinzione che il Mondo sia negli artigli di un Grande Vecchio, nei  tentacoli di una Piovra. È la fiaba dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, che tuttora fanno testo in Iran e in tanti paesi islamici, come nelle fantasie di borghi europei e pur anco  nostrani.
Il  Sessantasette e le sue radici
In Italia il “Sessantotto” iniziò nel 1967. Il Bel Paese è sempre stato all'avanguardia. Anche nell'oblio di sé. Schiacciata sul presente, ancor oggi ha il chiodo fisso del “fascismo”, un “oggetto” misterioso per i “fascisti” stessi e comunque morto e sepolto, e ignora la storia di ieri e dell'altro ieri. Ma che cosa fu il Sessantotto in Italia e che cosa furono gli anni seguenti? Nella narrazione usuale il Sessantotto è la fotografia di ragazze più spigliate di prima (come in Italia non lo fossero mai state sin dagli Etruschi o nella Firenze del Rinascimento) e di capigliature maschili disordinate, unte e un po' ributtanti. 
In Italia quel 1967 iniziò quasi in sordina con assalti e “okkupazioni” di siti inviolabili e quindi impreparati all'assalto. Tutto cominciò con l'Università di Trento, bacino di coltura del contagio. Vi si laureò anche un futuro gran maestro massonico. Intimiditi, tanti “colti” rimase afoni e poi si divisero. Aleggiava lo spettro di Giovanni Gentile...Persero di autorevolezza. Pochissimi intuirono quanto stava avvenendo. Non accadeva per endogenesi ma per  eterogenesi. Il bacillo arrivava da lontano. La “protesta” nostrana riecheggiava quella intrapresa negli Stati Uniti d'America da parte di giovani decisi a non farsi intruppare nella guerra che da anni Washington conduceva (senza dichiarazione) contro il Vietnam con metodi brutali e senza un obiettivo strategico condiviso. Dinnanzi alle immagini di quanto avveniva molti giovani, anzitutto studenti, si sottrassero alla “missione” imposta: uccidere anche a sangue freddo, bombardare senza domandarsi chi fossero le vittime. A cose fatte “Apocalypse now” ha narrato i molti volti dell'“orrore”. Dagli USA la rivolta contro la “stupidità militare” passò in Italia, un Paese che cinque anni prima aveva imboccato con modesti esiti la via del centro-sinistra con i governi Moro-Nenni. L'Europa era imbalsamata.
Se non si ricordano per fila e per segno “fatti” e protagonisti, “voci” e “miti” non si capisce quanto accadde. Nel 1965 Renato Panzieri pubblicò i “Quaderni Rossi”. Raymond Aron prese le distanze da Jean-Paul Sartre. Ceausescu s'impose alla guida della Romania, subito vezzeggiato dall'“Occidente”. Da Cuba “El Che” Guevara, non proprio un'“anima bella”, andò in Bolivia per incendiare l'America meridionale. Nel 1966 il Tribunale internazionale Russell (Stoccolma) condannò gli USA per i crimini in Vietnam. Nasser (Egitto), Tito (Jugoslavia) e Indira Gandhi lanciarono la carta dei “neutrali” (ognuno dei tre attuava politiche repressive nel proprio paese, ma veniva elogiato quale campione di pacifismo).
Nel marzo 1967 in Francia uno sciopero generale travolse il governo Pompidou, costretto alle dimissioni. Un mese dopo i militari assunsero il potere in Grecia. Con la guerra dei sei giorni Israele annientò le forze dei paesi confinanti. Il 21 ottobre sfilò a Washington un’imponente “marcia per la pace”.
Il 27 novembre a Torino decine di studenti occuparono Palazzo Campana, sede delle facoltà umanistiche, le più vulnerabili e, in prospettiva, meno rilevanti rispetto a Politecnico e ad Economia e Commercio. Fu la svolta, anche perché tra i “militanti” vi erano figli di “ottimati” della borghesia antifascista e democratica. Il paradosso è che (a differenza di quanto era accaduto nel 1917-1922) i nuovi rivoluzionari non volevano fare “come in Russia” ma “come negli USA”. Volevano “più Occidente”. Ma quale? Il verbo novello era diffuso da Régis Debray, dai “Cantos” di Ezra Pound e da Blow-up di Antonioni. Parola d'ordine: “trasgredire”. Acuto e lungimirante il giovane giornalista Walter Tobagi un anno dopo pubblicò la storia del movimento studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia (SugarCo). Si domandava se esso fosse espressione dei ceti medi proletarizzati o ala sinistra degli operai. 
Diffuso a macchia di leopardo, il “movimento” dapprima si propose quasi timidamente come “contestazione”, formula equivoca, dagli obiettivi minimali: assemblee autogestite, con intervento di “oratori” estranei al corpo docente, retrocesso ad anticaglia. Psicologicamente impreparati, di rado i “professori” reagirono e rivendicarono il loro ruolo.  Poiché non ottenne risposte alle loro fatue richieste, il movimento passò ai fatti. Le okkupazioni e la voglia di scontri con le forze dell'ordine. Dal pensiero (quale?) all'azione. L'importante era “stare in piazza”. Esserci. Protestare: “Crear dos, tres muchos Vietnam” come predicato da Guevara (passato per le armi l'8 ottobre 1967).
La crisi  della Repubblica nel “Diario” di Adolfo Sarti
Nel 1968 le agitazioni giovanili esplosero in Giappone, Germania, ancora Francia e quindi Italia. I loro capifila (come Dutschke) pareva dovessero guidare il mondo per decenni. Oggi sono dimenticati, come la generalità dei loro emuli nostrani. In Francia De Gaulle represse duramente la rivolta studentesca esplosa alla Sorbona e a Nanterre, dalla quale prese nettamente le distanze lo storico Ruggiero Romano, all'epoca direttore della Maison d'Italie e “proche compagnon” del Maestro della storiografia europea Fernand Braudel.
Benché fallito, il “movimento” si erse a “potere studentesco”, arido isolotto dell'arcipelago di “potere operaio” e di quanto poi ne nacque per vasi comunicanti. In un liceo di provincia un docente non si oppose affatto alla protesta degli studenti, ma ne chiese la  severa punizione: una lezione di educazione civica.  Dovevano capire che le norme sono norme e che se le si vuole abbattere occorre avere un progetto sostitutivo. Diversamente si genera solo il caos, a tutto vantaggio dell'anti-politica. Le piazze sono solo uno spazio: per condottieri, capipopolo, teatro dei pupi. Ma la dirigenza era all'altezza del compito storico?
Nel “Diario” ancora in massima parte inedito il quarantunenne Adolfo Sarti, democristiano e sottosegretario all'Interno dalla carriera folgorante sino al 1981, quando risultò affiliato alla P2, all'inizio del 1969 annotò: “Mi sento sempre più reazionario”. Il 9 novembre aggiunse: “C'è un morto a Milano, ma nella polizia, insieme a decine di feriti. Questo è il primo bilancio dello sciopero generale. Però ci sono cose anche più gravi. Un reparto della polizia (…) a Milano si è ammutinato, protestando contro le autorità che impongono di esporsi a pericoli gravi senza difendersi (oltre a negare retribuzioni più eque)”.  Due giorni dopo scrisse: “Taviani ritiene inevitabile la guerra civile. Personalmente ho provveduto a tutto...”, come si legge in “Adolfo Sarti e la crisi della Repubblica” di Paolo Acanfora (il Mulino).
Era ovvio che il peggio dovesse venire. Non per la tracotanza di studenti senza meta, ma per disorientamento della dirigenza. Ci vollero anni prima che lo Stato riaffermasse la propria identità di suprema salute dei cittadini. 
Il Sessantotto: ombra di un sogno fuggente...
Come tutti i sommovimenti planetari, anche il “Sessantotto” ebbe radici, versioni, durate e ripercussioni diverse da Paese a Paese. In breve sintesi, Giovanni XXIII indisse il Concilio ecumenico Vaticano II, tuttora da delibare nelle conseguenze ultime, come da opposte sponde ripetono Roberto De Mattei e i postconciliari, in attesa che papa Francesco tragga la sintesi. Alle spalle il Sessantotto aveva altri due desaparecidos di rango mondiale: Nikita Kruscev nell'URSS, defenestrato nel 1964, e John F. Kennedy, assassinato a Dallas in circostanze tuttora oscure. Negli USA la “rivolta” giovanile (mai “rivoluzione”) fu la risposta alla guerra del Vietnam e agli scandali politici in corso. Lo si vide di lì a poco con le forzate dimissioni di Richard Nixon. In Francia e Belgio il Sessantotto fu il contraccolpo della decolonizzazione (gli orrori delle guerre in  Algeria e nel Congo). 
L'Italia, rovinosamente sconfitta nella seconda guerra mondiale e lacerata sia dalla guerra civile sia dalla pluridecennale contrapposizione muro contro muro tra Democrazia Cristiana e Fronte popolare socialcomunista, viveva tra l'incudine del clericalismo tardo-ottocentesco, completo di riti più superstiziosi che religiosi (alcuni perdurano), e alla ancora mitica attesa dell'Armata Rossa (plaudita anche da una parte dei socialisti per quanto i carri armati sovietici fecero in Ungheria nel 1956). Ci vollero quasi dieci anni per passare dal centrismo corretto con dosi ematiche di liberali, repubblicani e socialdemocratici (De Gasperi-Pella) al Centro-sinistra organico (Moro-Nenni, dal 1963 al 1968), che perciò nacque con la palpebra abbassata dalla nascita. La parola d'ordine era: rinviare per svuotare. Come mostrò la mancata fusione tra PSI e PSDI, con la fuoriuscita del PSIUP proprio quando l'unità socialista avrebbe potuto voltar pagina nella storia d'Italia. Ci provò ancora Bettino Craxi, la cui memoria nel ventennale della morte stenta a farsi spazio. Né una via né una piazza. Forse una targa ricordo? O una “grazia” post mortem? È l'Italia di Scipione l'Africano, morto in esilio, e di Marco Tullio Cicerone che offrì il collo ai suoi assassini mormorando: “Moriar in patria saepe servata”.
Il Sessantotto fu lo scossone impresso a un sistema istituzionale e politico-partitico esausto, svigorito, incapace di rinnovamento culturale-religioso dal proprio interno, col freno a mano sempre tirato: Paolo VI, Aldo Moro, Enrico Berlinguer..., i governi Rumor e Andreotti. Sopravvisse a se stesso perché non aveva alcun vero progetto. Non c'era. Era un mito, la chiacchiera di chi aveva creduto di essere in trincea, ma in realtà passava dalla panchina al prato. La sua leggenda serviva per richiamare a coorte gli sbandati di una “borghesia” frastornata, inconsapevole di sé, avvolta in un benessere la cui faticata matrice sfuggiva ai più. Molti pensavano fosse merito proprio anziché dell'inquadramento dalla parte meno scomoda della grande storia.
Dieci anni dopo, nel 1978-1979 la spinta verso l'ammodernamento che, faute de mieux, passò sotto il nome di Sessantotto svanì tra attentati mortali, morti naturali e la richiesta di Ugo La Malfa di introdurre la pena di morte contro i terroristi politici e con l'avvento del “grande centro” (dal PLI al PSI): l'immobilismo e, in risposta all'inerzia pubblica, il rifugio nel “privato”, che oggi, dopo altri decenni di inconcludenza, si esprime con la allarmante diserzione dalle urne: un sessantottismo capovolto, reso più “adulto” (o più cinico) dalla  delusione nei confronti del sistema istituzionale, ancora indulgente verso movimenti, gruppi e/o il “poetare” in libertà: insetto preferito le cicale.   
Il Sessantotto espresse il sogno ingenuo che per migliorare il mondo, tutto e subito, basti scrollare l'albero. Nel tempo si constatò che le grandi promesse (ONU, “Europa”, la Cuba di Castro e Guevara, la Cina di Mao, gli USA...) erano un elenco di problemi, la cui soluzione avrebbe richiesto “più politica” e “più scienza”, ma libere da fatue attese di Miracoli e lontane dal ricatto del potere: una scommessa oggi perdente.
Nell'attesa della Cometa ...  
Infine, la matrice profonda del Sessantotto fu il superamento dell'“equilibro del Terrore”, l'esorcizzazione della guerra nucleare incombente. Ma ora che la proliferazione della “Bomba” è una realtà scontata (ed è causa di maggior incubo, perché ne è meno possibile il controllo) e la guerra è passata da quegli arsenali alla cibernetica, ci si rassegna a un super-potere mondiale in cambio di un po' di sicurezza per la mera “durata in vita”. Perciò in un Paese a noleggio, qual è l'Italia (che sta all'Europa odierna come il ducato di Parma e Piacenza stava all'Italia di metà Ottocento, politicamente e militarmente irrilevante), il Sessantotto è il trapassato remoto... Per dirla col Jaufrè Rudel di Giosue Carducci, “è l'ombra di un sogno fuggente”. Come tutti i sogni svaniti, non suscita più alcuna passione e neppure nostalgie. Semmai è un antidoto dinnanzi ai nuovi baluginanti sessantottismi di chi marcia salmodiando con lo sguardo incattivito contro la Scienza e il Progresso e invita ad andare a vento anziché a vapore. Tra le nuvole. In Cielo si annuncia il passaggio imminente di una Cometa in arrivo da  una costellazione remota. Per alcuni è annuncio di gioia; per chi sa quei Corpi vaganti sono sempre stati presagio di sventure. 
Ma che cosa di peggio può ancora riservarci la Storia?  
Aldo A. Mola

L'ANONIMO “UOMO DELLA A6”
 E LO STELLONE D'ITALIA
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 1 Dicembre 2019, pagg. 1 e 11.
 

Sic transit..., se va bene: sino a quando?
È passata una settimana. Tutto, o quasi, sembra tornato nella “norma”, cioè nella precarietà permanente delle nostre infrastrutture. La memoria, tuttavia, torna alle 14 di domenica scorsa, 24 novembre 2019.
Un Uomo spalanca e agita le braccia. Fermi tutti. Alle spalle ha il baratro che si è aperto sul tratto dell'“autostrada” Savona-Altare, la A6, poco oltre l'imbocco verso il Piemonte. Il ponte “Madonna del Monte”, quasi una giaculatoria, non c'è più. Una frana ne ha abbattuto il pilone centrale e spezzati altri quattro, tutti sommersi nel fango. Per via del giorno festivo, dell'ora prandiale e del tempaccio, il traffico è poco. Ma chi viaggia in quelle condizioni lo fa per filare più svelto, malgrado la pioggia battente. Meno del diluvio dei due giorni precedenti, ma ancora tanta. 
L'uomo ha frenato un attimo prima di precipitare nella voragine di trenta metri, dove sino a poco prima c'era il viadotto della Madonna. Appena sfiorato dalla Grande Visitatrice in un attimo ha deciso. Non ha badato a se stesso ma agli altri, a quanti correvano il rischio al quale era appena scampato. Lì, a braccia tese come l'Uomo di Leonardo da Vinci inciso nella moneta da un euro, è entrato nelle cronache. Da anonimo, però. Alcuni salvi grazie a lui hanno rilasciato scarne dichiarazioni, poche parole gravide di emozioni e di tensione. Al casello di Savona il bigliettaio, ancora ignaro, riscuoteva il pedaggio di chi da poco aveva lasciato alle spalle il baratro. Sul lato opposto la distribuzione di ticket d'accesso procedeva come nulla fosse. 
Spalle al vuoto, l'uomo della Ragione, incarna l'“altra Italia”, non quella di istituzioni ingrigite, assenti e afone, di maggioranze, opposizioni, movimenti, marciatori salmodianti, eccetera eccetera. È uno che si faceva i fatti suoi, non viaggiava certo per il piacere di sentir tamburellare la pioggia di fine novembre sulla capotte. Nel momento decisivo ha agito per il prossimo. Non si è domandato il colore o l'opinione politica delle persone al volante sotto l'acqua come lui e perché mai stessero facendo la sua stessa strada, ormai condannati a precipitare nel vuoto. Ha fatto la sua parte. Ha salvato vite. Senza nulla chiedere. Senza “apparire”. È il “campione” di un'Italia poco nota, ma è l'Italia vera. Quella che “fa”, giorno dopo giorno. “Tira la carretta”. Si è avvolto nel riserbo in un Paese di esibizionisti che si contendono il palcoscenico e si picchiano come nel teatrino dei pupi: un paladino contro l'altro, fra pretendenti a numinosi troni o a redditizie poltrone, in un’interminabile giostra che lascia indifferenti gli abitanti del Paese Italia, piccola provincia d'Europa, a sua volta un mezzo continente ormai marginale nel quadro planetario per la sua inconsistenza politica, militare, imprenditoriale e di capacità di costruire il futuro. Difficile stabilire se l'Italia vada davvero male o semplicemente non vada bene. Di sicuro condivide il proprio declino con gli altri Stati che hanno perso due guerre europee divenute mondiali e fuse in un'unica guerra dei trent'anni fra il 1914 e il 1945.
“Protezione fai da te” dei neopelagiani
Però, come nelle oasi del Vicino e Medio Oriente o, a est del grande caos dominante dalla Mesopotamia al Pakistan, nel Triangolo d'Oro del subcontinente indiano non tutto va davvero male come si dice. Anzi. Va peggio per molti versi, ma meglio per altri. Se li si distoglie dal ridurre la vita a una sorta di lotta belluina come in “Troni di spade”, se li si lascia fare, gli italiani sono ancora bravi; e sono persino buoni. Troppo spesso però si dipingono e, a strascico, vengono “narrati” all'estero come arraffoni, cinici, voltagabbana, truffatori. Decenni addietro l'ambasciatore e storico Sergio Romano spiegò perché parecchi italiani si disprezzino: tentano di giustificare il loro servilismo. Ma i servili non sono tutti. Sono la parte emergente, striata di lordure e maleodorante, dell'immenso iceberg di persone perbene che stanno sott'acqua, puliti, e vedono anche senza “occhialini” o “maschere”. Malgrado la leggenda, la generalità degli italiani è di “buoni samaritani”. Hanno un cuore grande così.    
Il punto è che l'altruismo non nasce né per legge, né per circolare. È innato negli uomini e, tra i tanti, lo sono pure gli italiani. I quali, anzi, ne hanno dato e ne danno prove continue. Anche se non lo hanno mai sentito nominare, la pensano come Emanuele  Kant: “La legge morale dentro di me, il cielo stellato sopra di me”. Come insegnò Pelagio, se non è obnubilato da pregiudizi e da fanatismi, ogni uomo sa distinguere il bene dal male. Sa che cosa fare nell'emergenza. Se non ce la fa da solo, chiede aiuto. E se può, aiuta. Non ha bisogno di essere raggiunto dalla “Grazia” per capire come deve agire. Tanto più nelle emergenze. La Morale è connaturata alla Razionalità. I codici arrivano dopo, cambiano con i regimi che, lo vediamo, sono come pilastri corrosi. Reggono per inerzia, ma poi crollano di schianto. Più durano, peggio fanno.  
L'Uomo della A6 in un Paese vagamente normale, quale in fondo è l'Italia, dovrebbe essere assunto a icona della “Protezione fai da te”, versione “autoreggente” e quindi un po' fantasiosa e ammiccante della “Protezione civile”. È su questa che oggi regge il Paese. L'Italia odierna non sta in piedi né sul governo né sull'opposizione, entrambi lontanissimi dalla vita quotidiana. Si fonda sulla “catena di unione” tra i cittadini che si soccorrono e confortano a vicenda. È l'Italia dei “buoni samaritani”, quella del San Matteo che cessa di fare l'esattore delle tasse e diventa l'Apostolo. Non è solo un “quadro” di Caravaggio. È un Vangelo. Il più sobrio dei quattro, come si conviene a un “contabile”.   
Chi si è trovato al volante la domenica del crollo del Madonna del Monte ha ancora una volta constatato la fragilità dei servizi pubblici e, al tempo stesso, la fratellanza tra i cittadini. All'intersezione tra A6 e A10 nei pressi di Savona, l'uscita obbligatoria per Savona era annunciata dal solito segnale di “incidente stradale”, che lasciava immaginare una coda ma non un abisso. Agenti dell'ordine, inzuppati dall'acqua implacabile, parchi di parole e probabilmente ancora poco aggiornati, indirizzavano verso Genova (autostrada intasata da code chilometriche per varie interruzioni) o a tentare la statale Savona-Altare. 
Lì si è testato quanto sia retorico e infondato l'elogio di regioni, province (ormai ridotte a fantasmi) e comuni, dei “poteri locali” risultati del tutto assenti. Eppure “qualcuno” si era premurato di transennare l'accesso alla statale, come le poche provinciali e vicinali. Ma poi si era dileguato. Dove? Perché? Va bene. Era domenica. Era l'ora di pranzo. Era in corso un'emergenza. Ma, appunto, l'efficienza dei servizi pubblici si valuta proprio nel bisogno. Invece in Savona si formò un serpentone di vetture vaganti a caso da un capo all'altro della città in cerca di una via di fuga verso l'agognato entroterra. Ogni rotonda crocchio di macchine, camper, moto possenti, qualche raro camion autorizzato al trasporto di merci deperibili. Domande, consultazione febbrile di mappe sui cellulari. Imprecazioni, sorrisi e pacche sulle spalle tra persone che non si erano mai conosciute ma vivevano lo stesso impiccio. E qualche “indigeno” di buona volontà pronto a suggerire sentieri forse ancora praticabili, ma senza garanzia di sorta.    
La rete autostradale liguro-piemontese è “poesia”: sospesa.
La confusione sperimentata la domenica del crollo per la circolazione su ruota in Liguria non è l'eccezione. È la norma per le autostrade del territorio ligure che di “autostrada”  hanno il nome e il costosissimo pedaggio, ma poco altro. Sono un apostrofo rosa (o verde, o azzurro o arcobaleno: ognuno scelga il colore preferito) tra due regioni contigue e lontane. Non ha corsie di emergenza, ha poche strette e brevi piazzole, dalle quali si esce a rischio d'esser travolti, e gallerie da incubo. Il martedì precedente, 18 novembre, un autotreno prese fuoco nella galleria tra Savona e Spotorno. Dopo ore di blocco, il traffico venne fatto tornare su Savona e dirottato sulla “Aurelia”, ordinariamente intasata di suo. Pattuglie della Stradale e qualche carabiniere indomito fronteggiarono l'emergenza, anche quel giorno sotto pioggia insistente. E la “polizia locale” o i loro “sostituti” sempre così solleciti a elevare contravvenzioni, soprattutto d'estate, per una sosta con la ruota appena fuori le strisce? Manco l'ombra, proprio quando era necessario che qualche “uomo in divisa” incanalasse il flusso dove i semafori risultavano del tutto inutili, anzi intralcianti, a fronte di migliaia di automobilisti e conducenti di autobus e di “tir” in coda per ore , con la mente fissa agli impegni indifferibili.
Evviva il potere centrale, se funziona
Non mancano i cittadini. Manca la presenza dei “servizi”, a cominciare, appunto, da quelli locali, quelli che dovrebbero essere più presenti e solleciti nelle emergenze. Lì si misura la vacuità dell'Italia odierna. I presidenti delle giunte regionali si ammantano nella gualdrappa fantasiosa e vanesia di “governatori”. Per senso di responsabilità e dignità i presidenti delle province meglio farebbero a “restituire le chiavi” di cariche alle quali corrisponde un “potere” del tutto evanescente. Chi rappresentano? Quali risorse hanno a fronte delle loro incombenze? Ha senso fare il cerotto a tempo indeterminato? Per coprire che cosa? Cui prodest? Certo hanno il potere di lamentarsi, di emanare appelli e persino di organizzare drappelli e presidi per sollecitare interventi dell'Esecutivo centrale e dello Stato. Ma anche i governi ormai sono precari. All'avvento il nuovo Esecutivo oscura o addirittura cancella il precedente, con furia proporzionata alle proprie corresponsabilità. È il caso di quello ora in carica, per metà (la metà più grossa, anzi) al potere nel governo precedente. Non è ancora chiaro se voglia farsi dimenticare o voglia fare qualche cosa. Di sicuro è l'ombra di sé. Pelle tirata, senza muscoli né ossa. Ma non è l'unico “fregoli” del paesaggio partitico-parlamentare, contagiato da “febbre maltese”, come un tempo si diceva di malattie strane.    
L'asse culturale dell'Italia odierna... 
Questa nostra Italia è giovane. Solo l'anno venturo verranno ricordati i 150 anni dell'annessione di Roma al regno. Quando completò secoli di riconquista cristiana e di lotta contro i “mori”, la Spagna si dette la capitale che non aveva: Madrid. All'epoca l'attuale Comunidad di Madrid era una spianata pressoché deserta. Nulla a che vedere rispetto alle città storiche e alle tante capitali dei regni precedenti: da Toledo a Granada. Ma Madrid divenne Madrid. E lo è: perno di un Paese madridcentrico. Lo stesso vale per Parigi (assurta definitivamente a capitale dopo le feroci guerre di religione e la Fronda contro il sovrano legittimo) e Berlino, che nel Cinquecento non era nulla, ma dalla Prussia fu imposta capitale dell'impero di Germania, eclissando quelle dei regni, granducati, ducati, principati preesistenti e le gloriose città anseatiche, come Amburgo.
L'Italia nacque dal patto di ferro tra il Vecchio Piemonte e la Toscana: due storie complementari, destinate a fare da volano della Nuova Italia. Sommarono la grande cultura letteraria e il senso dello Stato. Non che altre terre fossero incolte o prive di tradizioni alte, ma retrocessero in seconda fila proprio negli anni decisivi, seguiti all'età franco-napoleonica. Nel regno di Napoli  (reinventato come Due Sicilie dallo spergiuro e infame Ferdinando di Borbone) il meglio della classe colta era stato sterminato nel 1799 o costretto a riparare in esilio senza ritorno, come si legge lungo lo scalone di Palazzo Serra di Cassano in via Monte di Dio a Napoli, sede dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Dal suo portone uscì il ventenne Gaetano, verso piazza Martiri ove fu decapitato. Eleonora Pimentel de Fonseca vi venne afforcata. Dopo il moto costituzionale del 1820-1821, al netto del supplizio e del carcere inflitto a molti suoi esponenti, seguì la seconda ondata di esuli. E così, una terza volta, nel 1848-49. Bastino, tra i molti, i nomi di Pietro Colletta e di Francesco De Sanctis, già docente alla Nunziatella. Il meglio della cultura meridionale trovò riparo in Toscana o in Piemonte. Nel Lombardo-Veneto avrebbero subito la sorte dei patrioti, come Silvio Pellico, Pietro Maroncelli, Alessandro Andryane, Giorgio Pallavicino Trivulzio, Federico Confalonieri: condanna a morte, commutata in decenni di carcere durissimo e infine l'esilio persino fuori Europa. 
All'origine, nel 1861-1863, il regno d'Italia non escluse di organizzarsi in forma confederale o federale. Lo propose il coltissimo bolognese Marco Minghetti, capofila di una “regione” formata da staterelli (ducati di Parma e Piacenza, da secoli a noleggio, e di Modena e Reggio, asburgico) e dalle legazioni pontificie. Una regione plurima: Emilia-Romagna. Il Piemonte  invece è uno, come la Toscana, ove la Firenze medicea ha oscurato la Repubblica di Siena, gli Stati dei Presìdi e altro ancora.
La forma unitaria, che non significa né uniformante né coattiva, venne adottata perché era la più propizia all'unificazione vera, che non poteva ridursi all'adozione di simboli e di emblemi (la denominazione accettata dalla comunità internazionale, la bandiera, una marcia reale...) ma doveva tradursi nella realtà fattuale: ferrovie, strade, porti, opere di difesa, scuole, ospedali..., nella logica imposta dal territorio e dalla scarsa simpatia riservata dagli Stati ai conati del nuovo regno.
Lo hanno ricordato Nerio Nesi, presidente della Fondazione Camillo Cavour, e Cosimo Ceccuti, della Fondazione Giovanni Spadolini-Nuova Antologia con la convenzione collaborativa sottoscritta il 26 novembre nel Castello Cavour a Santena, a mezza strada fra Torino e il cuore del Vecchio Piemonte: le Langhe da una parte (ove il giovane Cavour fu sindaco di Grinzane) e dall'altra il Cuneese che all'Italia dette Giovanni Giolitti, Luigi Einaudi, Marcello Soleri... Nella sobria cerimonia i due presidenti hanno ricordato il rispettivo presidente onorario, Carlo Azeglio Ciampi, “europeo nato in Italia”, e i valori civici fondativi del Paese Italia, della società civile: il “senso dello Stato”, che non ha bisogno di essere risvegliato al suono della “generala” ma è inculcato di generazione in generazione attraverso la memoria domestica, la solidarietà civica, dalla quale scaturisce la “Protezione fai da te” che quotidianamente anima i cittadini e li fa sentire nazione senza bisogno di nazionalismi, italiani senza animosità verso gli altri popoli d'Europa e degli altri continenti, di un Mondo che è divenuto unitario anche grazie ai “poeti, santi, navigatori” nostrani, curiosamente evocati da chi voleva farsene scudo per la miope “autarchia”. All'opposto, l'Italia vera è umanesimo, rinascimento, illuminismo, pensieri e princìpi che affondano radici nella cultura classica, greco-latina, ancor oggi miglior antidoto contro il ritorno della barbarie, dell'isolamento e della vana ambizione di primazie. Paradossalmente il fondatore di una rivista che ebbe per titolo “Primato” quasi per contrappasso alla caduta del regime di cui era stato gerarca visse qualche tempo nella Legione Straniera francese.
La Stella d'Italia sulle Tombe dei Reali
È ancora Sergio Romano a indicare la rotta nelle acute pagine di “L'epidemia sovranista: origini, fondamenti, pericoli” (ed. Longanesi). Per andare oltre l'attuale “enorme pachiderma” dell'euro-burocrazia, “tanto più lento e inefficace quanto più cresce il numero dei passeggeri che porta sulle sue spalle”, occorre  un raggio di luce: “È ora che all'inverno del nostro sovranismo succeda il glorioso sole dell'Europa”. Lo Stellone d'Italia può concorrere al nuovo Illuminismo. È la stessa Stella incisa sulle arche delle Tombe di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena nel santuario di Vicoforte: ricalca quella posta sul capo di Cavour, di Garibaldi, di Vittorio Emanuele II e del papa nella ritrattistica patriottica dell'Ottocento. 
Ed è la Stella dell'uomo che una settimana fa sulla A6 ha messo in salvo tante vite senza retorica, né in cerca di compensi o di plausi. Un neopelagiano di passaggio.
Aldo A. Mola

LA CATENA DI COMANDO NELLA GRANDE GUERRA
 IL TRIANGOLO SCALENO RE, GOVERNO, COMANDANTE SUPREMO
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 24 Novembre 2019, pagg. 1 e 11.
 

Armando DiazLe fonti per una storia “a parti intere”
Chi nell'aprile-maggio 1915 decise l'intervento dell'Italia nella Grande Guerra e chi esercitò il comando effettivo della sua macchina militare? Il re, il governo, il ministro della guerra, il comandante supremo? A distanza di un secolo molti interrogativi rimangono in attesa di risposte esaustive, anche per il silenzio di protagonisti e istituzioni di primaria importanza. Molto si è discusso sulle “Memorie” di Vittorio Emanuele III (furono davvero scritte? come e perché sarebbero andate perdute?) e del suo ruolo. Come noto, ma ancora poco “valutato” in sede storiografica, dal 25 maggio 1915 al 6 luglio 1919 il Re  affidò la “gestione” di poteri “amministrativi”allo zio Tommaso di Savoia-Genova quale Luogotenente generale del regno e si trasferì in prossimità del fronte di guerra per seguirne da vicino l'andamento, con massima discrezione ma piena influenza. Ne ha scritto Andrea Ungari in “La guerra del Re. Monarchia, Sistema politico e Forze armate nella Grande Guerra” (ed. Luni) sulla scorta dei “ricordi” di alti ufficiali prossimi al sovrano, che però fanno rimpiangere la mancanza di quelli del re. Sarebbero altrettanto interessanti le “memorie” di Emanuele Filiberto, Duca d'Aosta, cugino primo del sovrano, comandante della III Armata, anche perché da alcuni (compresi “storici” riecheggianti insinuazioni di seconda mano) venne considerato un'alternativa al sovrano in caso di sua abdicazione: ipotesi tanto suggestiva quanto inconsistente, perché il principe ereditario, Umberto di Piemonte, era nella pienezza di diritti e doveri, nell'ambito dello Statuto e delle “leggi” regolanti la Casa”, di cui neppure suo padre poteva privarlo. Se disponiamo dei Documenti diplomatici italiani, selezione ragionata dell'immensa mole dei carteggi corsi tra il governo e la rete dei rappresentanti “del Re” con i governi stranieri, non abbiamo i verbali dei consigli dei ministri presieduti da Salandra, Boselli e Orlando (1914-1919). Il loro vero andamento non sempre veniva annotato proprio per non lasciare traccia dei contrasti, talora aspri, che li caratterizzavano. In effetti in molti casi essi  non riproducono quanto vi avveniva. Tra i casi più clamorosi vale d'esempio il verbale del Consiglio tenutosi il 28 settembre 1917 (un mese prima di “Caporetto”). Il comandante supremo Luigi Cadorna per due ore illustrò le urgenze dell'esercito e la necessità che il governo rintuzzasse il disfattismo ed evitasse che l'Italia fosse contagiata dalla rivoluzione bolscevica in corso in Russia, ma cozzò con il ministro dell'Interno, Vittorio Emanuele Orlando, secondo il quale la crisi dell'esercito aveva solo cause  militari. Quel Consiglio fu sintetizzato in poche insipide righe, nelle quali la partecipazione di Cadorna non viene neppure citata. 
Una Vittoria ancor poco “sentita”
L'intervento e la partecipazione dell'Italia alla Grande Guerra sono stati più volte narrati anche sulla scorta di copiosi inediti. Il “Centenario” è stato scandito da convegni, mostre, ristampe e da molte novità. Va constatato, nondimeno, che in Francia e Gran Bretagna esso è stato vissuto con orgoglio di gran lunga più partecipe rispetto a quanto è accaduto in Italia. Il distacco emotivo e, di riflesso, storiografico, nei confronti di “quella guerra” ha radici antiche e profonde. Perdurano le riserve nei confronti di tempi e modi dell'intervento a suo tempo avanzate da “neutralisti condizionati” (come Giolitti), socialisti (sino all'autunno 1917 arroccati sulla formula “né aderire, né sabotare”) e dei cattolici che in Italia, in linea con papa Benedetto XV, considerarono una terribile sciagura il “guerrone” presentito e temuto da Pio X, come ha scritto il suo miglior biografo, Gianpaolo Romanato. 
Un'altra e più complessa ragione ha a lungo frenato la condivisione postuma dell'ingresso in guerra e della conduzione del conflitto. Anche dopo la bella “Storia politica della Grande Guerra” di Piero Melograni, il confronto sull'“evento”, da tutti comunque considerato centrale per le ripercussioni di lungo periodo sul Paese, la valutazione ultima si arrestò sulla soglia dell'accertamento e della valutazione critica della decisione suprema e delle responsabilità conseguenti. In un libello del 1946, pubblicato per propugnare il passaggio dalla monarchia alla repubblica, Luigi Salvatorelli imputò a Vittorio Emanuele III tre “colpi di Stato”: il 24 maggio 1915, ovvero l'intervento nella Grande Guerra, il 28 ottobre 1922 (cioè l'incarico a Mussolini di formare il governo) e il 25 luglio 1943 (quando proprio il Re revocò il capo del governo). A sua volta Antonino Repaci addebitò al Re il cedimento  del maggio 1915 a chi minacciava “Guerra o rivoluzione”, alla “ piazza” popolata di interventisti in poca parte monarchici e prevalentemente repubblicani, social-rivoluzionari, come Mussolini, anarco-sindacalisti, venturieri. 
Il primo a sostenere che l'intervento in guerra, strappato il 20-21 maggio 1915 da Salandra a un Parlamento riluttante, sia stato un “colpo di Stato” fu Antonio Cefaly, vicepresidente del Senato e già gran maestro aggiunto del Grande Oriente d'Italia. Lo scrisse nella traccia di un discorso mai pronunciato ma inviato a Giolitti che, monarchico attento anche alle sfumature lessicali, preferì parlare di “colpo di Governo”, addebitandolo dunque non al sovrano ma a Salandra, non alla Corona ma all'Esecutivo, benché questo fosse appunto il “governo del Re” e nulla potesse senza la sua controfirma (come tardivamente comprese Luigi Facta la mattina del 28 ottobre 1922 quando dovette revocare la proclamazione dello stato d'assedio incautamente diramata alle prefetture senza l'approvazione del sovrano).
La disputa rimase ed è dunque rovente, sia per silenzi,sia per grida altisonanti.
Governo, militari e Re
Un fondamentale passo avanti nella documentazione e nella spiegazione dello sforzo compiuto dall'Italia per conseguire la vittoria finale sull'Austria-Ungheria e i suoi alleati è ora offerto dall'opera, decisamente innovativa, del generale Basilio Di Martino, direttore della Direzione armamenti aeronautici e aeronavigabilità e capo del Corpo del genio aeronautica, e del colonnello Filippo Cappellano, Capo dell'Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito (US-SME), già autori di molti e rigorosi volumi e saggi. Sin dal titolo, “La catena di comando nella Grande Guerra, Procedure e strumenti per il comando e controllo nell'esperienza del Regio Esercito, 1915-1918”, il volume pubblicato nella collana storica di Itinera Progetti (www.itineraprogetti.com) va al cuore della “guerra alla fronte italiana”. Scandito in quattro parti (Il Comando Supremo, I livelli operativo e tattico, I mezzi di comunicazione, Gli ufficiali di collegamento del Comando Supremo) e arricchito da due Appendici sull'impiego dei colombi e sul servizio intercettazione telefonica, questo “trattato” pone al centro dell'attenzione l'“informazione” quale perno della guerra. 
Implicitamente esso richiama la riflessione sul triangolo scaleno Corona, Governo (comprendente i ministri della Guerra e della Marina: l'Aeronautica, “proiezione” della Cavalleria, era compresa nell'Esercito) e comandante effettivo dell'esercito. La questione era antica quanto lo Statuto del 4 marzo 1848, come ricordato dal generale Oreste Bovio nella sua insostituibile “Storia dell'Esercito Italiano” pubblicata dall'US-SME, di cui fu a lungo valoroso capo. Nelle guerre del Regno di Sardegna (1848-1849 e 1859 contro l'impero d'Austria, 1860 contro lo Stato pontificio) e di quelle del regno d'Italia (1866 ancora contro Vienna e 1870 contro Pio IX) la gerarchia del comando non aveva affatto trovato soluzione se non nella prassi, con gravi ripercussioni sulla conduzione delle operazioni, in specie nel 1849 e nel 1866. Quelle guerre, però, erano sempre state di breve durata e si erano risolte in poche decisive battaglie: Custoza e Novara nel 1848-1849, San Martino nel 1859, Castelfidardo nel 1860, mentre l'“invasione” del Regno delle due Sicilie non fu neppure formalizzata con esplicita dichiarazione di guerra e sopraggiunse dopo i brillanti successi di Garibaldi a Calatafimi, Palermo, Milazzo (maggio-luglio 1860) e la sua vittoria sui borbonici nella battaglia del Volturno (1-2 ottobre).           
  L'opera del generale Di Martino e del colonnello Cappellano evidenzia che alla conflagrazione europea dell'estate 1914 il Regno d'Italia non era preparato per affrontare una guerra “grossa” e “lunga”, non solo perché aveva appena concluso il conflitto con l'impero turco per la sovranità sulla “Libia”, molto più impegnativo e oneroso del previsto e perché quindi i “magazzini fossero disorganizzati” (come poi lamentò Cadorna), ma anche perché l'equilibrio tra i poteri (Corona e Governo da un canto, “uffici” dipendenti, incluse le Forze Armate, dall'altro, e infine il Parlamento) era ancora in bilico e proprio nell'anno intercorso tra la Conflagrazione europea e l'intervento dell'Italia esso subì strappi destinati a riverberarsi sul lungo periodo. L'opera sulla “Catena di comando” ricorda che nel 1908, l'anno dell'annessione di Bosnia ed Erzegovina da parte di Vienna, dell'insorgere dei nazionalisti e della nomina del nuovo capo di stato maggiore dell'esercito, si registrò l'acme della tensione tra potere politico e “uffici” militari. Se ne ebbe un esempio nelle forzate dimissioni del valoroso generale Vittorio Asinari di Bernezzo, mutilato nella guerra del 1866, imposte dal presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, che gli rimproverava accenti irredentistici stridenti con la linea del governo, e accolte a malincuore da parte del Re, animato da antica e profonda avversione nei confronti di Vienna: sentimenti che risalivano all'insegnamento del nonno e del bisnonno, Carlo Alberto il Magnanimo. Se solo nel 1882, ovvero 21 anni dopo la proclamazione dell'Unità, era stata istituita la carica di Capo di Stato Maggiore dell'Esercito (conferita al garibaldino Enrico Cosenz, ex allievo della Nunziatella di Napoli), un altro ventennio dopo, con il Regio Decreto del 14 novembre 1901, il potere di nomina alle cariche apicali dello Stato, incluse quelle militari, fu conferito al governo, il cui presidente (se già non fosse stato chiaro nella prassi) ebbe formalmente la titolarità dell'unità dell'indirizzo politico dell’esecutivo. Tuttavia il profilo del capo di Stato maggiore rimase all'attenzione primaria del Re, comandante delle forze di terra e di mare, riluttante ad accettare chi avesse in animo di non subire interferenze nelle decisioni strategiche e di esercitare l'unicità del comando, come aveva lasciato intendere Luigi Cadorna, al quale pertanto nel 1908 venne preferito Alberto Pollio, di due anni più giovane e a sua volta ex allievo della Nunziatella. 
L'asimmetria dei poteri prospettò la dualità tra governo e Comando supremo che, bene si evince dalla robusta opera del gen. Di Martino e del col. Cappellano, contrassegnò il corso degli eventi soprattutto dall'avvento del secondo governo Salandra, con Sidney Sonnino agli Esteri (ottobre 1914). L'Esecutivo si mosse a passi felpati verso il passaggio dalla Triplice Alleanza (in vigore dal 1882) alla Triplice Intesa, senza informare di tempi e modi dell'intervento chi ne avrebbe retto le sorti. Il 16 marzo 1915 Salandra stesso si rese conto di essersi spinto troppo oltre senza l'esplicito assenso del Re e della Camera, senza la certezza della preparazione dell'esercito (“i militari”, scrisse il presidente del Consiglio con una punta di acredine verso Cadorna) e, infine, “senza aver avuto alcun affidamento, o cenno di affidamento, da parte della triplice Intesa”, tanto da concludere che occorreva dunque “a qualunque costo rallentare, non precipitare, il corso degli eventi”. Eppure si era a un mese dalla firma dell'accordo (non “patto”) del 26 aprile 1915 (che a giudizio di Giolitti impegnava il governo, non già lo Stato) e a due mesi dall'intervento contro “tutti i nemici” dell'Intesa anziché contro il solo impero austro-ungarico, come invece fece Roma, con delusione dei nuovi e motivatamente sospettosi alleati. Il capo di stato maggiore fu tenuto all'oscuro dei contenuti dell'arrangement, quasi fossero irrilevanti sotto il profilo militare, anziché del tutto vincolanti come invece erano. Va aggiunto del resto che a sua volta il governo italiano non fu affatto informato dei patti stretti tra le potenze dell'Intesa, neppure con riferimento alle aree di diretto interesse dell'Italia, a cominciare dall'impero turco-ottomano.   
La mobilitazione occulta (1914-1915) non fu adeguatamente sorretta con finanziamenti adeguati. Il capo di stato maggiore dovette pianificare una guerra i cui “confini” non conosceva e con un assetto strutturale e organico adatto a un conflitto “grosso” ma di breve durata, su un solo fronte, contro un unico nemico e con la benevola astensione del Parlamento da ingerenze nella sua conduzione. Dal canto suo, in pieno dissenso col comandante supremo il governo “inventò” una sfortunata “campagna” in Albania assumendosene direttamente la conduzione. 
La concezione “napoleonica” del comando, propria di Luigi Cadorna e più volte evidenziata dall'opera sulla “Catena di comando”, a ben vedere rispondeva alla visione dell'intervento fatta propria da Sonnino e Salandra, miranti a una vittoria in tempi rapidi  per spazzar via Giolitti (completo di “Patto Gentiloni”) e prima che gli interventisti (nazionalisti, socialisti rivoluzionari, futuristi, anarco-sindacalisti, gli stessi irredentisti, gli “interventisti democratici”...) da mere comparse (quali erano considerate anche da Salandra, che le sorvegliava con gli strumenti del ministero dell'Interno) acquisissero spazio e rilevanza politica. Di Martino e Cappellano molto opportunamente annotano che anche il deputato repubblicano (e massone) Eugenio Chiesa riconobbe la fondatezza della concezione “napoleonica” cadorniana, ma solo in caso di conflitto di breve durata. Anziché pochi mesi, come illusoriamente immaginato dal governo, esso ne durò 41, non però per imperizia del comandante supremo ma per la documentata e indiscutibile insufficienza delle risorse messegli a disposizione e per le poderose difese del nemico, che (a differenza di quanto viene ancor oggi ripetuto da libelli tardivamente anticadorniani, come quello di Breccia) non solo era pronto a rintuzzarlo da posizioni vantaggiose ma da tempo aveva messo a punto un piano di “guerra preventiva” contro l'Italia.
Come giustamente ammoniscono gli Autori, “la guerra è il regno dell'incertezza e dell'imprevisto”. Prevedibile fu il “différend” tra il governo e il Comando Supremo, che è l'asse portante del volume del gen. Di Martino e del col. Cappellano. Cadorna fece il possibile per adeguare l'assetto del Comando a una guerra fatalmente onerosa di vite e di risorse, ma non trovò comprensione e risposte da parte dell'esecutivo,  preoccupato soprattutto degli umori serpeggianti in Parlamento, in specie nella Camera per la prima volta eletta a suffragio universale maschile quasi universale (1913), e meno ancora da parte dei ministri della Guerra susseguitisi tra il 1915 e la dodicesima battaglia dell'Isonzo (generali non sempre di eccelse qualità belliche, come invece fu Alfredo Dallolio, stratega della produzione di armi e munizioni e della promozione dell'Aeronautica). Drammatiche furono le tensioni tra Comando e Governo nell'estate 1917, quando Cadorna non ebbe alcuna risposta alle reiterate sollecitazioni di interventi contro disfattisti e sovversivi inviate al presidente del Consiglio Paolo Boselli, mentre i portavoce dei soviet bolscevichi furono accolti a Torino, teatro dei tumulti di quell'agosto. 
La continuità Cadorna-Diaz
Dall'opera sulla “Catena di comando” si evince che il rapporto sostanziale tra Comando Supremo e governo non mutò affatto dopo l'avvento di Armando Diaz in successione a Cadorna (9 novembre 1917), la cui defenestrazione venne posta da Orlando al Re sin dal 28 ottobre quale condizione per succedere a Boselli, sfiduciato il 25 ottobre da una Camera ancora ignara di Caporetto. Orlando  non solo volle la costituzione di un pletorico “comitato ministeriale di guerra” ma si spinse ad asserire che Diaz ne ascoltava i suggerimenti persino “in materia puramente strategica”, di cui invero egli era affatto digiuno, come prova il telegramma con il quale, secondo la testimonianza del generale Gaetano Giardino, si spinse a intimare a Diaz di muovere a battaglia perché (parole sue) “preferisco una sconfitta all'inazione”, quasi l'Italia potesse permettersi un secondo disastro, che (anche nelle previsioni degli “alleati”) ne avrebbe determinato il collasso e probabilmente l'unità stessa.
Alla luce di queste considerazioni emerge a luce meridiana il valore dell'opera  gigantesca allestita e via via ammodernata dal Comando Supremo, come documentato dagli autori della meritoria opera sulla “Catena di comando nella Grande Guerra”: un “trattato” che fa riflettere su quanto avvenne vent'anni dopo, quando un “politico”, Benito Mussolini, pretese di ergersi a stratega con le conseguenze ben note, sino a quando lo stesso Gran Consiglio del fascismo il 25 luglio 1943 chiese al Re di esercitare tutti i poteri che gli erano riconosciuti dallo Statuto e questi, di propria iniziativa, revocò Mussolini da capo del governo e voltò pagina nella storia d'Italia. 
Aldo A. Mola

BUIO IN FONDO AL TUNNEL
 IL REGRESSO DELLA “QUESTIONE FEMMINILE” (1919-1925)
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 17 Novembre 2019, pagg. 1 e 11.
 

Enrichetta Giolitti1919: abolizione dell' “autorizzazione maritale”
Cent'anni fa, il 17 luglio 1919, con la legge n. 1176 il Parlamento abolì la “autorizzazione maritale” che sino a quel momento aveva subordinato al benestare dei mariti l'esercizio di attività economiche e di gestione del patrimonio da parte delle mogli. Se il matrimonio oltre che un sacramento era un contratto per le donne esso comportava una vera e propria sottomissione alla volontà degli sposi  e una retrocessione nell'esercizio dei loro diritti civili. Strideva il confronto delle loro condizioni con quelle delle nubili e delle vedove: un tema largamente sondato nell'Ottocento dalla copiosa letteratura “femminista”, i cui autori non erano solo maschi, nell'Italia di Salvatore Morelli e di tanti altri campioni dell'emancipazione femminile.
La stessa legge, narra Marco Severini nel documentato saggio “In favore delle italiane” (ed. Marsilio), proclamò il diritto delle mogli d’intraprendere un'attività commerciale anche senza (e magari persino contro) la volontà del marito, nonché di accedere, a parità dei maschi, a tutte le professioni e pubblici impieghi, tranne che agli “uffici” implicanti poteri giurisdizionali (cioè la magistratura in tutti i suoi ordini), alla difesa militare dello Stato e all'esercizio di “diritti o potestà politiche. “Parità” di accesso agli impieghi pubblici e privati non significava però uguaglianza di trattamento economico. Stipendi e salari maschili continuarono a essere molto superiori a quelli delle donne, pur a parità di mansioni. Diversa rimase anche la misura delle ore di lavoro in fabbrica o nei campi, negli uffici contabili o nell'amministrazione pubblica, in cui le donne da decenni lavoravano senza adeguate tutele formali. Una vasta saggistica denunciava la disparità di trattamento delle maestre rispetto agli insegnanti maschi e le umiliazioni alle quali in molti casi esse erano esposte, con veri e propri ricatti da parte di amministratori locali e specialmente da sindaci assai dispotici e invadenti, forti del fatto che l'assunzione  e il “compenso” dipendevano dalla loro personale decisione. 
Anche nel 1919, all'indomani della Grande Guerra che aveva veduto le donne in prima linea nella vita economica del Paese (anche nelle “industrie ausiliarie”, nei campi, come documentato dal generale Antonio Zerrillo in un saggio d’imminente pubblicazione), il legislatore con una mano concedeva, con l'altra limitava: un'avarizia che affondava radici in secoli di discriminazione motivata da argomenti e atteggiamenti “religiosi”, politici, costumali. Perdurava un vero e proprio orrore della parità perfetta tra generi.
Il femminismo in Italia tra Otto e Novecento
Eppure anche in Italia non mancava un robusto movimento per l'emancipazione femminile. Tra i suoi militanti primeggiò Ernesto Nathan, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia e sindaco di Roma, tuttora citato quale modello di lungimiranza, correttezza e concretezza. Di formazione era un “inglese”, discepolo di Giuseppe Mazzini, l'edizione nazionale dei cui scritti comparve proprio a inizio Novecento per volontà del presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, d'intesa con i ministri della Pubblica istruzione, il trapanese Nunzio Nasi e il palermitano Vittorio Emanuele Orlando.
Proprio mentre Nathan era sindaco della Città Eterna fra il 23 e il 30 aprile 1908 si svolse a Roma il primo Congresso delle donne italiane. Alla sua inaugurazione presenziò la Regina Elena di Savoia, a conferma che la monarchia non costituiva affatto un ostacolo all'emancipazione femminile. Anzi, l'ultimo quarto dell'Ottocento aveva visto pullulare riviste, convegni, circoli culturali che presero per insegna il nome della Regina Margherita, la sovrana che teneva nettamente separata la vita privata da quella “ufficiale” e ben distinta la politica interna da quella sociale. La prima assicurava l'ordine. La seconda doveva profittare della tranquillità pubblica per propiziare il progresso civile. La sintesi venne tratta da Giosue Carducci in “Eterno femminino regale”. 
Fra i temi trattati nel Congresso spiccò la “condizione morale e giuridica della donna”, con due obiettivi: l'abolizione della “autorizzazione maritale” all'esercizio di professioni da parte delle donne sposate e il riconoscimento del diritto di voto femminile, attivo e passivo.
Due anni prima aveva fatto scalpore la sentenza della Corte di appello di Ancona che il 26 luglio 1906 riconobbe il diritto di voto a dieci intrepide maestre (nove di Senigallia, una di Montemarciano), la cui vicenda è stata ricostruita da Lidia Pupilli in “Storia delle prime elettrici italiane” (ed. 2012). “Esempio di audace interpretazione e di un'audacissima ispirazione” la sentenza, pronunciata da Ludovico Mortara, poi ministro e senatore del Regno, venne lestamente annullata dalla Corte di Cassazione il 4 dicembre e dalla Corte di Appello di Roma l'8 maggio 1907. Malgrado la fervida campagna da decenni condotta da Anna Maria Mozzoni (informata ma “un poco arida” secondo Giuseppe Mazzini) e da altre “suffragette” italiane, prevaleva l'opinione che il voto femminile potesse cagionare “gravi perturbamenti e dolorosi nel seno stesso della famiglia”. Nel cinquantenario del regno (1911) un Congresso nazionale per il suffragio femminile, organizzato a Torino anche per impulso di Emilia Mariani, non ottenne alcun risultato pratico. Contrario al riconoscimento del diritto di voto alle donne, non per principio ma per opportunità, era il presidente del Consiglio, l'onnipotente Giolitti. Se sua figlia Enrichetta, mente politica raffinata e moglie del deputato radicale e massone Mario Chiaraviglio, ingegnere di grande talento, partecipava ai convegni di matrice femminista, lo Statista aveva un'altra priorità: conferire il diritto di voto ai maschi maggiorenni, anche se analfabeti, per ampliare la partecipazione dei cittadini alla vita delle istituzioni: una decisione lungimirante. Vi è infatti da domandarsi quanto l'esercizio del diritto di voto pesò sull'impegno messo dagli italiani nel corso della Grande Guerra, così esoso di sacrifici e di vite. 
La precedenza al suffragio universale maschile
In privato Giolitti era convinto che le donne avessero diritto di voto. Glielo ripeteva la moglie, Rosa Sobrero (“Gina”, “Ginotta”), dal 1904 Collaressa della Santissima Annunziata e quindi “cugina del Re”, dalle cui lettere traspare un certo fastidio per le convenzioni cortigiane. Ma al governo e nelle Aule parlamentari lo Statista dichiarava che il Paese non era affatto pronto per un passo di quel genere. Gli elettori erano ancora meno di tre milioni. Con l'estensione del diritto di voto a tutti i maschi, essi sarebbero cresciuti a sette milioni e mezzo. Le donne potenzialmente aspiranti al voto erano altri sei milioni. Chiamarle alle urne tutto d'un tratto, senza adeguata preparazione civica e in presenza dell'ancora vastissimo analfabetismo (soprattutto nelle regioni centro-meridionali, come del resto in vaste plaghe montane del Settentrione) sarebbe stato “un salto nel buio”. 
Chi controllava il voto femminile?
Nel 1848 il conte Clemente Solaro della Margarita, capofila dei clericali, aveva sfidato i liberali (Cesare Balbo, Massimo d'Azeglio, Camillo Cavour e i democratici Urbano Rattazzi, Lorenzo Brofferio, Lorenzo Valerio...) a concedere subito il diritto di voto universale. Era sicuro che i cattolici avrebbero ottenuto la stragrande maggioranza dei consensi. Aveva ragione. Lo sapeva anche il blocco dirigente che aveva premuto per la concessione dello Statuto e aveva stilato la legge elettorale, che attribuì il diritto di voto a una esigua minoranza e istituì i collegi elettorali uninominali a doppio turno: il filtro migliore per plasmare una classe politica di veri patrioti, in vigore dalla proclamazione del Regno d'Italia sino al 1882 e poi dal 1892 al 1919. 
Ma i liberali non erano i soli a tirare il freno. Nei giornali, nei meeting, nei salotti tanti “democratici”, garibaldini, protoradicali con venature socialisteggianti si proclamavano fautori dell'“emancipazione femminile” ma solo sul piano dottrinario, nelle conversazioni serali. L'indomani la vita riprendeva il suo corso. La “partita doppia” valeva anche per la maggior parte dei radicali e per i socialisti, che predicavano persino il “libero amore” (a senso unico) ma temevano che, se chiamata alle urne, la maggior parte delle donne avrebbe votato secondo i consigli dei parroci. Nel 1905 un ampio articolo della “Rivista massonica” affermò che concedere il voto alle donne equivaleva ad armare gli schiavi. Avrebbero spazzato via i padroni. Retorica a parte, la pensavano allo stesso modo persino molti repubblicani “storici”.
Anche i cattolici risultavano profondamente divisi. Erano sicuri di controllare il voto femminile nel breve periodo, ma poi? Diritto di voto significava “politicizzazione”, comportava anche libertà quotidiana di pensiero e di parola, non solo alle urne ma anche in casa, nel “foro domestico”, che è molto più importante di una croce una tantum su una “scheda”. Anche per loro la questione era prematura: meglio attendere. L'Italia, d'altronde, era ancora un mosaico di realtà molto diverse, da regione a regione, dall'una all'altra provincia, tra zone urbane ripartite a loro volta in centri e periferie, campagne, colline, valli appenniniche e alpine. C'erano molte Italie. Non esisteva una lingua comune. Questa arrivò solo con la radio e poi con la televisione, ma in tempi assai ravvicinati, appena mezzo secolo addietro ed è ancora un traguardo baluginante.  
La svolta venne con la Grande Guerra, quando le donne furono coinvolte in tutti i modi nel conflitto. Il 7 ottobre 1917 fu inaugurato a Roma il congresso dell’Associazione per la donna. Il radicale Ettore Sacchi vi ripeté che ormai le donne avevano superato gli uomini “nell'elevatezza del sentimento e nell'abnegazione del sacrificio”: madri, vedove, sorelle di caduti, crocerossine al fronte, infermiere negli ospedali territoriali (celebre quello allestito dalla Regina Elena al Quirinale), nelle cascine, nelle fabbriche, in Italia come in tutti i Paesi di un'Europa uscita di senno. Come negarne ancora la perfetta parità rispetto ai maschi?
Il 7 marzo 1919 iniziò alla Camera la discussione della proposta di legge che avrebbe ammesso le donne a esercitare tutte le professioni e a ricoprire i pubblici impieghi, tranne la magistratura, le forze armate e i poteri politici, dalle amministrazioni locali al Parlamento. Le sinistre non brillarono affatto per presenza, né in Aula né nei carteggi. Secondo alcuni estremisti (Amadeo Bordiga, Costantino Lazzari, Giacinto Menotti Serrati...) la parola d'ordine era astensione dalle urne e rivoluzione come in Russia o almeno scioperi generali espropriatori. L' “Avanti!”, quotidiano del Partito socialista non dedicò una riga al dibattito sulla legge, ignorata come “roba borghese”. Anche Anna Kuliscioff  espresse giudici sferzanti sulle femministe, a cominciare da Abigaille Zanetta e Rosa Zenoni, valorose esponenti del femminismo in Italia, perlustrato da Marco Severini con dovizia di particolari. 
Finalmente la legge fu approvata a Montecitorio e dal Senato il 15 luglio 1919. Sui quasi quattrocento patres al voto parteciparono appena in 75: i sì furono 58, i no 17. Ma ormai la legislatura era agli sgoccioli. La Camera dei deputati, eletta nell'ottobre 1913, era sopravvissuta a se stessa. Il 4 gennaio 1920 il decreto applicativo escluse le donne dagli uffici per i quali erano giuridicamente capaci ma non idonee “in relazione alle esigenze dei servizi”. 
L'abolizione dell'“autorizzazione maritale” fu dunque un timido e tardivo passo avanti, subito frenato da norme discriminatorie e retrograde. Come ricorda Severini dalla tribuna riservata al pubblico durante il dibattito sulla legge si affacciò anche la più prestigiosa femminista italiana, Anna Maria Mozzoni, ormai stanca, isolata e malata. Morì il 4 giugno 1920 senza aver coronato il sogno della sua vita: la conquista del diritto di voto femminile.
La Camera dette la precedenza al suffragio universale maschile e al riparto proporzionale dei seggi, che decretò la straripante vittoria di socialisti e cattolici del partito popolare su liberali e “radicali” e repubblicani, ridotti ai minimi termini. 
La beffa del diritto di voto per consigli comunali e provinciali aboliti....  
Le conquiste femminili procedevano a rilento. Solo il 28 agosto la “dottoressa” Elisa Comani, moglie dell'avvocato Francesco Orsi, prestò giuramento per l'iscrizione all'albo dei procuratori. Era la prima applicazione della capacità giuridica della donna. 
E il diritto di voto? Il 27-28 aprile 1919 si svolse a Milano il congresso per il suffragio femminile, col supporto dell'effimero settimanale “Voce nuova. Giornale delle donne  italiane”, diretto da Sofia Ravasi (1896-1977), futura moglie dell'editore Aldo Garzanti, e da Paolina Tarugi,  laureata in giurisprudenza a Pavia nel 1912.
La prima Camera postbellica (novembre 1919-maggio 1921) durò poco e fu inconcludente. Il governo Nitti fu travolto dall'“impresa di Fiume” (1919). Il V e ultimo ministero Giolitti affrontò crisi extraparlamentari di enorme peso (eliminazione del prezzo politico del pane, occupazione delle fabbriche, trattato di Rapallo con la Jugoslavia, rinnovo dei consigli comunali e provinciali con blocchi nazionali...). Non v'era spazio per il voto femminile, che però ormai s’imponeva. Se ne accennò agli albori della legislatura seguente, ma dopo le dimissioni di Giolitti, i governi Bonomi e Facta ebbero ben altre priorità. Durante il suo secondo ministero, Facta non convocò mai la Camera, che venne poi “radunata” da Mussolini a metà novembre del 1922. 
Solo nel 1923 fu dibattuta la proposta di riconoscere il diritti di voto amministrativo per alcune categorie di donne che ne avessero fatto richiesta e si prospettò la loro eleggibilità a consigliere comunale. La fine prematura della legislatura fece decadere la proposta. La legge n. 2125 del 22 novembre 1925 introdusse infine il diritto di voto femminile per le elezioni amministrative. Lo stesso giorno fu approvata la legge sull'appartenenza dei pubblici impiegati ad associazioni, nota come “legge contro la massoneria”. Era l'inizio del regime. Poco dopo il governo Mussolini-Federzoni abolì l'elettività dei consigli provinciali  e comunali (sostituiti con “prèsidi”e podestà). Perciò la graziosa concessione del diritto di voto alle donne rimase una farsa. 
La introdusse un Decreto legge luogotenenziale firmato da Umberto principe di Piemonte in vista delle elezioni comunali del marzo-aprile 1946, le prime con le donne finalmente elettrici ed eleggibili, come subito dopo avvenne per il referendum sulla forma dello Stato e la formazione dell'Assemblea Costituente. Era la svolta vera, ma il cammino verso la parità effettiva rimase ancora in salita. Motivo in più per ricordare, un secolo dopo, l'abolizione dell'“autorizzazione maritale” e la conquista della capacità giuridica femminile. Ad maiora...
Aldo A. Mola

ALDO MOLA E GIANNI OLICA MARTEDI' 19 AI MARTEDI' LETTERARI DI SANREMO 
Enrichetta Giolitti, moglie dell'ingegnere Mario Chiaraviglio, deputato del partito radicale  e massone, fu confidente “politica” del padre, Giovanni Giolitti, cinque volte presidente del Consiglio dei ministri fra il 1892 e il 1921. Proprio a lei lo Statista scrisse la famosa frase: “il sarto che deve fare il vestito per un gobbo per farlo bene deve tener conto della malformazione”. Così doveva fare il Governo per un Paese giunto tardi e non benissimo all'unità nazionale.
Alle h. 16 di martedì 19 ne parlano al Martedì letterario del Casinò di Sanremo Marzia Taruffi, Gianni Oliva e Aldo A. Mola, autore di “Giolitti. Il senso dello Stato” (ed. RusconiLibri). 

 

 
Un Due Novembre sconcertante.
 RIMOZIONE DI FRANCO: DAL SEPOLCRO O DALLA STORIA?
PARCE SEPULTO 

   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 3 Novembre 2019, pagg. 1 e 11.
 
L'unico “successo” del socialista Sánchez: la rimozione di Franco 
Francisco Franco y Bahamonde conterà meno dopo la deportazione della sua salma dal Valle de los Caídos, dopo quasi mezzo secolo di eterno riposo, e l'inumazione nella cappella del cimitero del Pardo a Mingorrubio, accanto alla moglie Carmen Polo? Varrebbe di più se fosse stato traslato nella cattedrale de la Almudena, nel cuore di Madrid, come chiesero i suoi famigliari? Ovunque siano le sue spoglie mortali, “Generalísimo de los Ejércitos” nazionalisti insorti il 18 luglio 1936 contro il governo repubblicano, “Caudillo de España” e “Jefe del Estado”, comunque Franco è entrato nella storia e rimane memorabile, come tutti i personaggi che hanno segnato un'epoca. Piaccia o meno, egli è stato tra i protagonisti della storia della Spagna dalla lunga guerra civile (1931-1939), nella seconda guerra mondiale (1939-1945: si conta non solo quando si fa la guerra, ma anche quando se ne sa star fuori) e dell'Europa nei decenni successivi, sino alle soglie dell'ingresso nell'“Europa dei diciotto”. Lo storico non giudica: documenta i fatti e lascia a ciascuno di valutare. Mentre imperversa la pretesa di pronunciare condanne “morali” del passato, lo storico cerca di capire perché e come siano accaduti i “fatti”. Tutti. Non parteggia. Contempla. Sunt lacrimae rerum... Altre seguiranno.
L'attuale presidente del Consiglio spagnolo, il socialista Pedro Sánchez, molto appagato dell'esteriorità, ha orchestrato l'esumazione delle spoglie di Franco per alimentare uno psicodramma nazionale alla vigilia delle imminenti elezioni del 10 novembre. A conti fatti, l'evento ha suscitato più curiosità che appassionamento. Confidando in manifestazioni che giustificassero chissà quali misure eccezionali, qualcuno si attendeva dimostrazioni di nostalgici e di antifranchisti, rigurgiti di arcaici conflitti. Invece, i cronisti, sempre pronti a planare come corvi sui “grandi scontri di piazza”, risultarono più numerosi dei presenti e in specie dei 22 nipoti e pronipoti dell'estinto, avvolto nella “sua” bandiera e confortato dalla messa funebre celebrata da padre Ramon Tejero, figlio del colonnello Antonio, autore del fantasioso “golpe” che ormai si perde nella notte dei secoli e rincalzò il trono di Juan Carlos I. La Spagna di Felipe VI è così democratica che da anni ha un governo tanto minoritario quanto inconcludente. 
L'espunzione di Franco dal Valle era una antica pretesa dei socialisti (Rubalcaba, poi Zapatero) e fatta propria da Sánchez perché il Caudillo non è un “caído”, non morì nella tragica guerra civile tra i due “bandos”, i repubblicani e i nazionalisti, i rossi e gli azzurri. Morì di morte naturale, persino “ritardata” per dare tempo all'assestamento della macchina statuale in un paese ormai “normale”. Non solo, secondo alcuni antifranchisti il suo nome suscita ancora nostalgia del regime dittatoriale, tanto da rendere sospetto l'afflusso dei visitatori al monumentale complesso funebre al cui centro sino al 24 ottobre 2019 la sua lapide tombale recava scritto semplicemente “Francisco Franco”, come si conviene a chi ha fatto la storia e lascia ai posteri l'ardua sentenza sulla sua opera.
Sánchez potrà ora dire di avercela fatta. Capo di un governo di minoranza, costretto a tornare a terze elezioni senza aver risolto nessuno dei problemi che assillano il Paese, dalla Catalogna alla “Spagna profonda” dal cui humus escono i consensi per “Vox”, il partito neo-nazionalista con profonde radici nel franchismo o più correttamente nella storia millenaria del Paese iberico, con residuo senso dell'opportunità Sánchez prova qualche imbarazzo a sventolare la traslazione del feretro del Caudillo come successo storico. È un “successo” solo nel significato spagnolo del termine: un accadimento, non un trionfo. Sarà giustizia? Sarà saggezza? Di sicuro, esso è divisivo. È un tardivo “regolamento dei conti” all'interno di un Paese che da decenni ha metabolizzato la guerra civile, ha faticosamente messo alle spalle persino i delitti perpetrati dagli “etarras” e oggi deve fare i conti con l'altra artificiosa piaga: il fanatismo indipendentistico di una metà degli abitanti della Catalogna in libera uscita dalla storia: un separatismo che non ha motivi etnici, religiosi, civili ma solo linguistici in un Paese, come la Spagna, che riconosce le più ampie garanzie al bilinguismo (catalano e gallego, a tacere ovviamente del basco) e alle “nuances” del catalano, come il valenciano (del quale nessuno sente vera necessità).       
Il ruolo attuale della Spagna per l'Europa nel mondo  
In pochi giorni dalla macabra sceneggiata, la deportazione della salma di Franco è uscita dalle prime pagine dei quotidiani. Los Reyes partono da Madrid alla volta di Cuba, un viaggio di Stato voluto dal governo, non senza imbarazzo per chi osservi che il regime castrista sta tornando rapidamente all'indietro, verso la repressione delle opposizioni e delle poche ventilate aperture all'Occidente, mentre l'intera America latina è sconvolta da insorgenze e conflitti, tensioni crescenti fra i discendenti dei nativi sopravvissuti alla tabula rasa perpetrata dai conquistatori, creoli e discendenti delle ondate migratorie dell'Otto-Novecento. Il “caso” del Messico è il più emblematico: civilissimo in circoscritte plaghe, del tutto succubo della produzione e spaccio di droghe in vaste zone, e sempre più indotto a forzare il limes con gli USA, i cui Stati meridionali sono più ispanofoni che anglofoni. In quella vastissima area la Spagna odierna, quella di Felipe VI e della dirigenza “di Stato”  che ha alle spalle la Spagna “una, grande y libre” della Transizione, svolge un ruolo di prim'ordine, di gran lunga superiore ai timidi passi del governo italiano che per ministro degli Esteri ha Luigi Di Maio. La Spagna è lì, oltre Atlantico, come anche nel mondo arabo, dal Marocco all'Arabia Saudita, e non da oggi. In una famosa conferenza pan-americana Juan Carlos di Borbone azzittì ruvidamente il petulante presidente venezuelano Chávez, predecessore del nefasto Maduro: “Cállate”, “Taci!”. Per queste ragioni gli italiani consapevoli della debolezza dal proprio governo e attenti al ruolo planetario ancora possibile per il protagonismo dell'Europa franco-germanica e anglo-iberica hanno motivo di guardare al di là delle cronache del monocolore socialista ancora per qualche giorno imperante a Madrid e di sentirsi rappresentati anche dagli eredi di Carlo V e di Filippo II di Asburgo, come poi di Filippo V di Borbone e dei suoi successori sino, appunto, a Filippo VI e alla Principessa delle Asturie, Leonor.      
Carriera e fortuna di un generale prudente
Ma chi fu Francisco Franco, le cui spoglie sono state al centro di una disputa ventennale? Non irruppe nel suo paese come un meteorite da chissà quale cielo. Duramente sconfitta nel 1898 con la rivolta di Cuba e delle Filippine, alimentata dagli Stati Uniti d'America che gliele sottrassero accampando di volerle liberare dal giogo coloniale al quale sostituirono il proprio, la Spagna precipitò in crisi d'identità. Ancora ottant'anni prima dominava un impero che andava dal Messico alla Terra del fuoco. Malgrado statisti di valore, come Sagasta e Cánovas del Castillo, era l'ombra di se stessa. Lo sintetizzò Ángel Ganivet, suicida nelle acque della Dwina, in “Ideario spagnolo”. Mentre Francia, Gran Bretagna e Germania espandevano i loro imperi coloniali e persino il neonato regno d'Italia annetteva Eritrea (1890), Somalia (1907) e Libia (1912), la Spagna era umiliata, “invertebrata”. Rimasta saggiamente estranea alla Grande Guerra, superò meglio di altri paesi l'estremismo anarchico di primo Novecento - culminato nella “settimana tragica” e nella fucilazione pedagogica del pedagogista Francisco Ferrer y Guardia, come ha documentato Fernando García Sanz in opere magistrali - e le procelle postbelliche. 
Nato a El Ferrol (Galizia) il 4 dicembre 1892, secondo dei cinque figli di Nicolás Franco, ufficiale di marina, e della piissima María del Pilar Bahamonde, dal padre (che più tardi, si trasferì solingo a Madrid e, senza divorziare, si unì ad Agustina Aldana) Francisco si sentì sempre posposto al primogenito Nicolás e al minore, Ramón, massone, repubblicano, rivoluzionario, aviatore provetto, caduto in circostanze tuttora arcane, mentre suo cugino primo, Ricardo de la Puente Bahamonde, nel 1936 venne fucilato tra gli ufficiali che rifiutarono di accodarsi a Francisco, “generale ribelle”.
Formato nella Scuola militare di Toledo, Franco si mise in luce nella guerra di conquista del Marocco e a soli 33 anni venne nominato generale: il più giovane in Europa. Pietro Badoglio lo divenne a 46 anni. Ugo Cavallero, a sua volta, raggiunse quel grado quando ne aveva 39. Ma il grado non basta a comandare gli eventi. Occorre la fortuna. Che spesso (contrariamente a quanto recita il motto famoso) non aiuta gli audaci bensì i prudenti.
Nel 1934 Franco impiegò sbrigative maniere per reprimere l'insorgenza operaia nelle Asturie. Tre anni prima Alfonso XIII aveva lasciato la Spagna, che subito registrò un'onda di anticlericalismo violento, con incendi di chiese e altri eccessi documentati da Mario Arturo Iannaccone in “Persecuzione. La repressione della Chiesa in Spagna fra seconda repubblica e guerra civile, 1931-1939” (ed. Lindau). Nominato dal governo di Madrid capo della Legione spagnola in Africa e comandante di tutte le forze armate (gennaio-maggio 1935), Franco fu inizialmente riluttante ad aderire al golpe progettato dal generale Emilio Mola y Vidal, laicista, niente affatto massone, capo dei “requetés”, noto per doti di stratega e meticolosità. “Jefe” dello Stato dell'alzamiento contro il governo di Madrid fu Jorge Sanjurjo, morto per la caduta dell'areo che lo riportava dal Portogallo, ove era esule dopo un fallito golpe. Dopo l'insurrezione, anche Mola morì in un incidente aereo. Gli altri due generali, Queipo de Llano e Miguel Cabanellas Ferrer, erano chiassosi ma politicamente irrilevanti.  
Capo della Giunta di difesa nazionale, Franco ebbe il sostegno delle Giunte dei “falangisti” capitanati da José Antonio Primo de Rivera (un movimento nazionalista con venature progressiste), dei “requetés” e di altre forze nettamente contrarie ai sovversivi, nonché (importanti ma non decisivi) di Mussolini e di Hitler. Egli inoltre contò soprattutto sull'appoggio fervido e pressoché unanime del clero cattolico, interno e internazionale. Fallito (forse intenzionalmente ) l'assalto a Madrid (preferì la più spettacolare e propagandistica “liberazione” di Toledo), Franco non ebbe fretta di vincere. Gli storici sono ancora perplessi: incapacità strategica militare o strategia politica? 
Col passare dei mesi e degli anni in Spagna all'interno dei due fronti in lotta presero corpo due opposti piani. A sinistra i comunisti, eterodiretti dall'URSS di Stalin, eliminarono via via i “dissidenti”: borghesi, democratici, semplici repubblicani, anarchici e massoni. A destra Franco fece altrettanto. Mentre (come tardivamente ha ammesso lo storico britannico Paul Preston) nel 1936 vi erano tre Spagne (rossi, reazionari e democratici), dal 1938 ne rimasero due sole: i rossi e i nazionalisti. Franco operò una metodica eliminazione fisica degli oppositori della Spagna che aveva in mente: cattolica, concentrata nel culto della propria identità. Scomparve quella europeista vaticinata da Miguel de Unamuno, da massoni, liberali, socialisti democratici. Sin dal 1938, molto prima che entrasse in Madrid (1 aprile 1939) e vi celebrasse la vittoria, Franco fu riconosciuto da Parigi e da Londra.  
Al potere annientò quanto rimaneva delle opposizioni con misure durissime. Con lo  pseudonimo “J. Boor” scrisse articoli fanaticamente antimassonici e nel 1940 pubblicò la legge per la repressione del comunismo e della massoneria, studiata da Juan José Morales Ruiz, autore del saggio esemplare “Palabras asesinas” (ed. Masonica.Es). Però rifiutò di entrare in guerra a fianco di Hitler (che invano lo “tentò” in un lungo inutile colloquio a Endaye) e di Mussolini (che incontrò a Bordighera) e, passo dopo passo, si spostò tacitamente a fianco della Gran Bretagna.  
Dieci anni dopo Franco aprì la svolta: dal falangismo ai tecnocrati dell'Opus Dei. La Spagna  lentamente si riprese. Sotto la cappa dell'ipocrisia normativa i costumi  dei suoi abitanti erano quelli di sempre, come scoprivano i turisti: “los toros” e “el baile toda la noche”. D'altra parte dal 1953 essa ebbe il placet del presidente degli USA, Eisenhower, e nel 1955 entrò nelle Nazioni Unite. Seguì un ventennio di progresso. Franco finse di non sapere che le basi militari americane avevano anche logge massoniche e che molti uomini del regime, come il suo conterraneo Fraga Iribarne, frequentavano all'estero ambienti “illuminati”.
Il “dopo Franco” fu opera sua
Alla morte, il 20 novembre 1975, la Spagna non aveva più nulla a che vedere con quella della guerra civile. Erano anche cacciate nel passato remoto le pretese dei “carlisti” e di altre frange. Sin dal 1969, dopo aver ipotizzato l'instaurazione di Ottone d'Asburgo-Lorena per superare il conflitto tra le fazioni borboniche, Franco proclamò re Juan Carlos di Borbone, anteponendolo al padre, Juan, conte di Barcellona. Il 19 giugno 1974, gravemente malato, da Reggente l'antico Caudillo gli conferì l'esercizio del potere, salvo riprenderlo appena ristabilito. Il “tirocinio” dette prova positiva. La Spagna era pronta al cambio, malgrado l'assassinio del presidente del governo, Luis Carrero Blanco, l'ETA e l'ostilità di chi ne avversava l'ingresso in “Europa”, spacciando per difesa della democrazia l'esclusione dei prodotti spagnoli ormai competitivi (e non solo agrumi, olio, formaggi, salumi...).
Per questi motivi la valutazione storica di Franco non si può ridurre alla sua azione di Caudillo durante e subito dopo la guerra civile e prescinde comunque dall'ubicazione delle sue spoglie. Vale altrettanto per Vittorio Emanuele III, re d'Italia per mezzo secolo. Anziché disputare sulla tomba che 70 anni dopo la morte gli è stata assicurata in uno degli 8.000 Comuni di cui fu sovrano, è meglio studiarne l'opera e capirne la grandezza, la buona e la cattiva sorte, tutt'una con quella d'Italia. Ma lo spirito di fazione e le conventicole spesso ancora prevalgono, perché, ricorda Giovanni Evangelista, “gli uomini preferiscono le tenebre alla luce”.
Parce sepultis: Franco e José Antonio Primo de Rivera
E ora? “Parce sepulto...”? Il brocardo non significa affatto “perdona chi è morto”. Questa versione, benché usuale, è errata e deviante rispetto a quanto volle dire Publio Virgilio Marone. È una traduzione, più partenopea che italiana, riecheggiante il cinico motto: “Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Scordiamoci il passato, non pensiamoci più”. Certo, quando la scrisse nell'Eneide il sommo poeta latino aveva alle spalle mezzo secolo di guerre civili, da Mario e Silla, a Cesare e Pompeo, a Ottaviano e Antonio, e quindi esortava alla pace interna affinché Roma potesse assolvere la sua missione: “rispettare” (parcere) gli assoggettati e annientare (debellare) gli irriducibili. Però con la formula “parce sepulto” non invitò affatto a “perdonare i morti” (non ne hanno più bisogno) né a… dimenticarli (vanno invece ricordati, anche se le loro ceneri sono disperse e magari gettate in mare).
“Parce sepulto” significa “rispetta chi è sepolto”. Esprime appieno il pensiero del Virgilio da Dante elevato a precursore del Cristianesimo, di una pietas che affonda radici nell'omaggio ai defunti. Tutti. Anche gli avversari caduti in battaglia in nome dell'onore alle armi. Rispettare il sepolto è quanto, a prescindere da ogni giudizio di merito, non ha fatto Pedro Sánchez. E questo rimarrà a ricordo della sua per ora modesta prova politica. Ma v'è di peggio. Ora vorrebbe spostare anche la salma di José Antonio Primo de Rivera, capo della Falange, perché, egli argomenta cavillosamente, non è un “caduto” nella guerra civile ma una “vittima” della guerra civile. Non morì in combattimento. E' vero. In effetti fu ammazzato brutalmente dai “rossi” il 20 novembre 1936 nella piccola cella ove era detenuto ad Alicante. In quel carcere non venne dunque consumato uno dei tanti delitti della guerra civile? E José Antonio non è dunque un caduto di quel tragico conflitto? Adesso che gli han tolto il “vicin suo grande” il pavimento de los Caidos è disarmonico? E così la sua salma va spostata per la quinta o sesta volta?  
La storia non è una schermaglia linguistica. Gronda sangue. Non va neppure sottoposta a commissioni parlamentari. Lasciamola agli studiosi e alla coscienza degli uomini liberi da pregiudizi. Una valutazione sintetica di Franco fu anticipata da papa Pio XII quando gli conferì l'Ordine supremo di Cristo (1953): un onore impegnativo sia per chi lo decretò, sia per chi ne beneficiò. Un “successo” dal quale non può prescindere il giudizio complessivo sul Caudillo e sulla sua epoca: in Spagna camminò nel solco del “rey prudente”, Filippo II, quello della “limpieza de sangre”. Se durò quarant'anni al potere vuol dire che non fece tutto da solo. Ovunque giaccia la sua salma, va studiato. Al di là delle “emozioni”, è Storia.  
Aldo Mola

COME IL PARTITO COMUNISTA SOTTOMISE
 SOCIALISTI E “TERZA POSIZIONE”
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 27 Ottobre 2019, pagg. 1 e 11.
 
 
Su 11 presidenti della Repubblica effettivi dal 1948 al 2015 (ci ricorda Tito Lucrezio Rizzo in “I Capi dello Stato”, ed. Gangemi) metà provennero dall'antico Regno di Sardegna (Einaudi, Segni, Saragat, Pertini, Cossiga e  Scalfaro), lo stesso humus  politico e culturale dei protagonisti storici del socialismo democratico e del comunismo in Italia: più De Amicis e Morgari  che “rivoluzionari” per arrivare a Togliatti, Saragat, Berlinguer e Alessandro Natta. Perciò, mentre torna in edicola “Il Riformista”,  merita ripercorrere alcune stagioni della dialettica comunisti/socialisti, con occhio speciale all'area liguro-piemontese.
1973: “compromesso storico” o “mitra”?
Estate 1973. L'11 settembre un colpo di stato militare guidato dal generale Augusto Pinochet  abbatte in Cile il governo “socialista” presieduto da Salvador Allende, che viene ucciso. In Italia Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano, propone il “compromesso” con la DC (e i suoi alleati minori). Dopo anni di muro contro muro nel 1973 la sinistra “storica” torna all'aprile 1944 quando, al suo rientro in Italia dall'URSS via Algeri, su precisa direttiva di Stalin Togliatti annunciò la “svolta partecipazionistica”: fronte comune contro la Germania di Hitler e i suoi alleati “interni”. La questione monarchica fu rinviata a fine guerra. Tanti monarchici, del resto, lottavano per la liberazione. Tra i loro esponenti di spicco (a cominciare da Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo) molti erano stati assassinati dai nazisti (come decine di militanti di “Bandiera Rossa”) alle Fosse Ardeatine il 24 marzo nella rappresaglia contro l'attentato in via Rasella, messo a segno da quadri del PCI. Per dare “un segnale”? A “imbrigliare” il Re, d'altronde, non furono né Togliatti né Stalin ma gli anglo-americani che imposero ruvidamente a Vittorio Emanuele III di passare tutti i poteri al figlio, Umberto principe di Piemonte, in veste di Luogotenente del Regno, carica non prevista dallo Statuto. Da lì iniziò la lunga marcia del PCI per la conquista del potere, un piede nella legalità e uno nella rivoluzione. Per conseguire la vittoria finale doveva screditare e sottomettere le altre forze non fasciste e le antifasciste, proclamare la superiorità morale di chi si era sempre battuto all'estero e all'interno contro Mussolini e i suoi complici: monarchici, cattolici, borghesi. All'epoca il PCI aveva un numero modesto di militanti. Ma gli altri partiti ne avevano ancora meno. Il Pci aveva una strategia. Gli altri no. I comunisti avevano alle spalle non solo una grande potenza, ma il Komintern, poi Kominform, l'Internazionale comunista. Gli altri brancolavano.  
Nello stesso anno del colpo di stato in Cile, in Italia molte voci si levano contro il “regime” identificato con il presidente della Repubblica Giovanni Leone (eletto a stretta maggioranza)  e il governo, un centro-sinistra perfetto formato da Democrazia Cristiana, socialisti, socialdemocratici e repubblicani con Mariano Rumor presidente, Aldo Moro agli Esteri,  Paolo Emilio Taviani all'Interno, Mario Tanassi alla Difesa, Ugo La Malfa al Tesoro, Emilio Colombo alle Finanze e Antonio Giolitti al Bilancio. 
Lo stesso 1973, “trentennale della Resistenza” viene ripubblicato il saggio “Guerra partigiana” di Dante Livio Bianco (1909-1953), antico commissario politico e poi comandante delle formazioni “Giustizia e Libertà” in Piemonte. Nell’introduzione Nuto Revelli, che aveva combattuto al suo fianco nella Brigata Rosselli (1944), scrive che nel maggio 1958 la vedova di Bianco, Pinella, era stata “in prima linea (a Cuneo) per gridare 'no' al fascismo: contro la polizia, contro l'Italia dei benpensanti, dei furbi, dei servi, dei mafiosi. Era questa la 'rivoluzione democratica' sognata da Livio. Ma non fuori tempo. E con i mitra, non con le pietre”. A chi si rivolgeva? Che cosa suggeriva? 
Berlinguer viene scavalcato a sinistra prima ancora che la sua proposta di “via italiana al socialismo” ottenga risposta. Iniziano anni difficili. Il sequestro del magistrato Mario Sossi (1974) apre una nuova pagina della storia d'Italia: la lotta settaria contro lo Stato, marchiato quale nemico, intrinsecamente e inguaribilmente “fascista”. Anni dopo anche persone di buona cultura si arroccheranno sull'ambigua formula: “Né con lo Stato, né con le Brigate Rossa”. Con chi allora?
Tra i capitoli della lunga serie di doppiezze e di una vicenda a strappi e a segmenti discontinui dell'Italia del dopoguerra uno è documentato da Giuseppe Pardini in “Prove tecniche di rivoluzione. L'attentato a Togliatti, luglio 1948” (ed. Luni), Premio Acqui Storia 2019 ex aequo con  “La guerra tedesca. Una nazione sotto le armi, 1939-1945” di Nicholas Stargardt (ed. Neri Pozza). Sulla scorta di ampia esplorazione archivistica (ma giustamente l'autore lamenta che tuttora rimangono ermeticamente vietate alla consultazione carte di primaria importanza), Pardini documenta che all'indomani dell'attentato al segretario del Pci (14 luglio, curiosamente festa della Bastiglia) una parte significativa dell'organizzazione paramilitare clandestina del partito fu sul punto di scatenare il caos, per prendere il potere armi alla mano. Di fatto essa poteva contare su poche forze, concentrate quasi esclusivamente nel “triangolo industriale”, con una punta più “preparata”e determinata a Genova. L'insorgenza durò un paio di giorni. Messi da parte i propositi rivoluzionari, il Pci tornò alla strategia del 1944: la “via democratica” all'interno del quadro costituzionale, appena varato con la Carta del 1° gennaio 1948 e con le elezioni del 18-19 aprile. Queste avevano, sì, segnato lo straripante successo della Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi, però avevano anche capovolto i rapporti di forza tra Partito comunista e Partito socialista, uniti nel Fronte popolare, sorretto anche da ex militanti del Partito d'azione. Il PCI aveva ormai l'egemonia sull'intera opposizione di sinistra. Nel giugno 1948 nell'elezione del primo presidente della Repubblica a Luigi Einaudi contrappose Vittorio Emanuele Orlando, monarchico, liberale e nel 1924 candidato nel Listone Nazione “fascista”. Quella (né pietre, né mitra) era la strada maestra in un mondo bipolare, segnato dalla cortina di ferro scesa a tempo indeterminato da Stettino a Trieste.   
L'Italia aveva già vissuto una lunga serie di “esagerazioni”. Fu il caso del raduno sedizioso partigiano a Santa Libera, al confine tra Cuneese e Astigiano, nell'agosto 1946: un episodio che mise a confronto alcuni utopisti e il realismo dello Stato. Anni dopo il prefatore della “Guerra partigiana”, Revelli, ricordò con una punta di sarcasmo che il prefetto di Cuneo consigliò a lui e a Ettore Rosa di richiamare all'ordine gli “scalmanati” per scongiurare l'intervento delle forze dell'ordine.
La lunga guerra dei comunisti per l'egemonia sulle “sinistre” 
La “scissione di Livorno” dalla quale il 21 gennaio 1921 nacque il Partito comunista d'Italia fu il primo atto di guerra della Terza Internazionale di Mosca contro i socialisti italiani, una babele di tendenze e di sigle. I comunisti contavano sulla nascente Unione delle repubbliche socialiste sovietiche e su un'armata pronta a scatenare la rivoluzione in tutta l'Europa (e non solo). I socialisti invece erano una scheggia della Seconda Internazionale, morta con la conflagrazione europea, quando i partiti socialisti dei diversi Stati (con l'eccezione degli italiani) si schierarono a fianco dei rispettivi governi. I sindacati (che dei partiti erano cinghia di trasmissione) avevano fatto altrettanto, a cominciare dalla Gran Bretagna, ove dichiararono che avrebbero combattuto fino alla vittoria finale la Germania, che a modo suo era la culla del socialismo, sia cosiddetto “scientifico”, sia rivoluzionario, sia riformistico. Rinuncia dopo rinuncia, dal novembre 1917 il gruppo parlamentare socialista italiano (altra cosa dal partito e dal sindacato, o più correttamente dai sindacati di ispirazione socialista) aderì alla “guerra patriottica”. Messa da parte la minaccia di Claudio Treves (“non più un inverno in trincea”), Filippo Turati dichiarò che anche per i socialisti la patria era sul Piave. Lo diceva da tempo Leonida Bissolati. Fu la presa di distanza dal bolscevismo che stava dilagando in Russia e poco dopo ascese al potere con Lenin. Che cosa ne sapessero, pensassero e volessero dire ai loro compagni i maggiorenti dei socialisti all'italiana è narrato da Riccardo Mandelli in “I fantastici 4 vs Lenin. Una missione della massoneria italiana nella Russia del 1917” (Odoya): documentato, forbito e suggestivo, ma accuratamente eluso dalla “critica” forse perché scomodo. Il saggio narra il grande viaggio di Giovanni Lerda, Arturo Labriola, Innocenzo Cappa e Orazio Raimondo (l'anno prossimo cade il centenario della sua morte: chissà se ne ricorderà Sanremo, che gli deve tutto, Casinò compreso?) andati in esplorazione nel caos della Rivoluzione russa. I quattro, asserisce Mandelli, erano massoni. Di sicuro lo sappiamo di Lerda e Raimondo. Labriola non figura nella matricola del Grande Oriente ma per breve tempo fu addirittura gran maestro del Grande oriente nell'esilio (1930-1932), salvo rientrare in Italia “previe intese” con Mussolini in persona, sempre comprensivo verso i vecchi compagni d'anteguerra, come il repubblicano e poi socialista Pietro Nenni, con il quale aveva condiviso la burrascosa battaglia contro l'“impresa di Libia”, quando entrambi furono arrestati. Manca la prova che Innocenzo Cappa sia stato massone. Un massone vero, Ferdinando Martini (biografato da Guglielmo Adilardi), annotò nel “Diario” che i delegati italiani esordirono il 4 giugno con un comizio agli operai di Pietrogrado. Parlarono ovviamente in italiano, lingua ignota al pubblico, che però applaudì freneticamente. In cambio i soviet mandarono in Italia una loro delegazione che il 13 agosto seguente incantò 40.000 militanti di sinistra raccolti alla Casa del Popolo di Torino, ove Giacinto Menotti Serrati tradusse a modo suo il Verbo “soviettista”, incitando alla rivoluzione, con quel che ne seguì. Moti di piazza, trentacinque morti il 28 agosto, un migliaio di arresti e la rottura tra riformisti e rivoluzionari, tra socialisti e comunisti d'Italia. Il libro memoriale di Andrea Viglongo, “Gramsci a Torino” (ristampato nelle Edizioni Viglongo di Torino), ricostruisce fedelmente il clima di quegli anni. Ancora unite alle elezioni del novembre 1919, le due anime divennero corpi separati col congresso di Livorno.  
La Terza internazionale dominata da Lenin nacque col congresso di Mosca del 2-6 marzo 1919, convocato come primo congresso dell'Internazionale comunista (IC). Assente a Mosca, il partito socialista italiano il 19 marzo dichiarò la sua adesione. Nel giugno 1920 Lenin pubblicò “L'estremismo, malattia infantile del comunismo”. I socialisti italiani erano vivaio di estremisti. Mosca non aveva fretta di annetterli. Aveva bisogno delle sue “quinte colonne rivoluzionarie” nei Paesi occidentali.  In agosto Lenin aggredì la Polonia. In settembre l'occupazione delle fabbriche fece intendere che i “rossi” in Italia volevano proprio “fare come in Russia”,ma dovettero fare i conti col settantottenne presidente del Consiglio Giovanni Giolitti. Ministro del Lavoro era Arturo Labriola (massone), che mediò tra “rivoluzionari” e industriali tramite “confratelli” come Gino Olivetti.
Alle elezioni del novembre 1919 i socialisti ottennero 156 seggi. In quelle del 16 maggio 1921 ne ebbero 124; i comunisti ne conquistarono 15. La lotta tra socialisti e comunisti si svolse al di fuori della Camera. Nell'ottobre 1922, mentre Mussolini era alle porte, i socialisti consumarono l'ennesima scissione con la nascita del partito guidato da Filippo Turati con Giacomo Matteotti segretario (ne ha scritto Enrico Tiozzo). Per Mosca il “caso Italia” era secondario rispetto alla diffusione in Asia, nelle Americhe e in Gran Bretagna, teatro del lungo e duro sciopero dei minatori, appoggiato dall'URSS. Contro gli appena 24 seggi dei socialisti di Turati e Matteotti, alle elezioni del 6 aprile 1924 i comunisti ne spuntarono 19: destinati a un ruolo di “testimonianza” alla Camera e di passaggio alla clandestinità, con l'avvento di un governo della borghesia emendato da frange idealistiche, come spiegato da Antonio Gramsci alla Camera nel discorso di opposizione alla legge sulle associazioni (maggio 1925), nel quale profetizzò che la legge “contro la massoneria” (da lui niente affatto difesa) preludeva allo scioglimento coatto dei partiti di opposizione.  
Da quell'anno i comunisti italiani, in linea con l'IC, minarono a screditare gli antifascisti come servi sciocchi del capitalismo. I socialisti furono liquidati come socialfascisti. La concentrazione antifascista fondata in Francia da socialisti, repubblicani, democratici e lega dei diritti dell'uomo, con forte componente massonica, fu combattuta come nemico, colluso con la borghesia. Stessa sorte toccò a “Giustizia e Libertà”, il “movimento” fondato a Parigi da Carlo Rosselli dopo l'evasione dal confino a Lipari con Emilio Lussu e con il massone Francesco Fausto Nitti, nipote di Francesco Saverio, già presidente del Consiglio, da tempo migrato in Francia. In realtà, malgrado la Grande Depressione del 1929, la borghesia non solo resse, ma in molti Paesi optò per governi ideologicamente reazionari e persino razzisti ma con “politiche sociali” capaci di captare il consenso di masse popolari. Fu il caso del nazionalsocialismo in Germania. 
Fronti popolari e unità d'azione socialcomunista
Dinnanzi all'avvento di Hitler, nella previsione che una nuova guerra fosse solo questione di tempo e che la Russia dovesse mirare anzitutto alla propria salvezza, Stalin sterzò dal “comunismo in un solo Paese” e dalla lotta contro i “socialfascisti” ai fronti popolari, coinvolgenti socialisti, democratici e borghesi riformatori. Ilcambio di strategia passò agevolmente perché da tempo l'IC aveva imposto l'obbedienza più rigida ai partiti che ne facevano parte. Fu il caso di quello d'Italia, che espulse suoi dirigenti di spicco, come Angelo Tasca, bollati quali revisionisti. Banco di prova e al tempo stesso terreno di crisi dei Fronti popolari fu la guerra di Spagna. L'IC mirò ad assumere l'egemonia delle forze repubblicane contro i nazionalisti di Sanjurjo, Mola, Franco e Queipo de Llano, sia con le brigate internazionali (nel cui ambito i commissari politici avevano la meglio sui militari, secondo le regole rivoluzionarie che risalivano alla stagione giacobina della rivoluzione francese, 1792-1794), sia con l'ingerenza nel governo di Madrid. In quella guerra furono scritte alcune tra le pagine più cupe dello stalinismo, che in Spagna ebbe quali “agenti” Palmiro Togliatti, Luigi Longo e Vittorio Vidali. Gli anarchici catalani furono sterminati. Repubblicani di orientamento liberale, democratico, riformista e socialriformista vennero metodicamente screditati ed esautorati. Carlo Rosselli, già alla testa di una “colonna” di volontari a sostegno della repubblica (tra i quali Aldo Garosci, che ne scrisse in un saggio poco apprezzato a sinistra), rientrò in Francia, ove fu assassinato con il fratello Nello il 9 giugno 1937 da una organizzazione, la “Cagoule”, che si segnalò per delitti esclusivamente ai danni di antifascisti non filosovietici. Tra quanti compresero il corso degli eventi fu Randolfo Pacciardi. Già al comando del Battaglione “Garibaldi”, previa seconda iniziazione alla massoneria, dalla Spagna passò negli Stati Uniti d'America. Era la dimostrazione che si poteva essere antifascisti senza essere succubi né di Stalin, né dei partiti satelliti di Mosca né dei fronti popolari. La libertà aveva altre e più ampie e solide basi. Ne era testimone  Alberto Tarchiani, futuro ambasciatore d'Italia a Washington.
Nel 1938 i partiti antifascisti italiani in esilio erano ridotti a dimensioni poco più che simboliche. Con la morte di Rosselli “Giustizia e Libertà” cessò di esistere. Sarebbe rinata come componente del Partito d'Azione sorto in Italia nel 1942 per iniziativa di Ugo La Malfa e pochi altri di orientamento repubblicano-liberale, in cerca di sostegno dall'estero. 
A loro volta i repubblicani (Cipriano Facchinetti a Parigi, Giuseppe Chiostergi a Ginevra...) erano esigue pattuglie, divise nell'interpretazione e attualizzazione del pensiero di Mazzini.
Alla vigilia della catastrofe il socialista Pietro Nenni siglò il “patto di unità d'azione” con i comunisti. In Italia il socialismo umanitario continuava ad avere ampio seguito nel Paese, come si vide alle elezioni della Costituente il 2-3 giugno 1946 quando ottennero 115 seggi contro i 104 dei comunisti. Ma, si disse, non avevano fatto abbastanza la guerra partigiana (le brigate “Matteotti” furono in numero nettamente inferiore alle “Garibaldi” del Pci). Il disastro venne con le elezioni del 18 aprile 1948, quando il Psi confluì nel Fronte popolare e ottenne appena 52 seggi contro i 131 del Pci. Il quale alle spalle aveva l'URSS, mentre i socialisti e i fautori della “terza posizione” il nulla. Nenni si meritò il “Premio Stalin per la Pace”. Impiegò quasi dieci anni a imboccare la strada del centro-sinistra. A salvare il futuro del riformismo in Italia nel 1947 fu Giuseppe Saragat, fondatore del Partito socialista italiano dei lavoratori, che ottenne 33 seggi: pochi, ma sufficienti per liberare i socialdemocratici dall'ipoteca del comunismo sovietico. Oggi quasi nessuno si proclama stalinista. Non esiste alcun partito “cattolico”. Molti invece si dichiarano liberalsocialisti, con tutte le possibili varianti. Il diciannovismo è il passato remoto. Il 1922 ancor di più. L'egemonia del comunismo è un poster sbiadito e nessuno (o quasi?) pensa di usare pietre o mitra per affrontare le urgenze del Paese, il secondo per il debito pubblico più alto in Europa, il più bisognoso di cultura, senza la quale la politica è solo abuso di potere. 
Aldo A. Mola 

ACQUI STORIA 2019
 RISORGIMENTO E CULTURA ALTA DELLA NUOVA ITALIA
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 13 Ottobre 2019, pagg. 1 e 11.
 

Alla ricerca dell'eternità 
L'Italia è romanità, dal latino di Virgilio al “volgare” di Dante, dall'Umanesimo al Rinascimento di Lorenzo il Magnifico. Ha svolto, serba e propone una missione universale. L'Apostolo Pietro e San Paolo non rimasero in Palestina. Anche il Cristianesimo andava annunciato da Roma. Solo da lì sarebbe divenuto la Buona Novella per tutte le Genti.  Anche a quel modo Roma, “caput mundi”, divenne la Città Eterna, di re, consoli, dittatori, cesari, pontefici... sintesi della Storia. Come narrarla? Attraverso i simboli, al di sopra di tempeste, guerre intestine e sconfitte, perché Roma fu sempre un’Idea, un Faro, al pari della Colonna di Foca svettante al di sopra della polvere che nei secoli seppellì mercati, templi, archi di trionfo e l'Aula senatoria... Le Idee sopravvivono a tutte le temperie. 
Fu ed è la sorte del Risorgimento italiano e della “Nuova Antologia”, due volti di una medesima realtà, fondamenta e futuro dell'Italia odierna. 
Dall' “Antologia” (1821)... 
Fu Maggiorino Ferraris (Acqui, 1856-Roma, 1929) a salvare e rilanciare nel 1897 la “Nuova Antologia”, la rivista più prestigiosa della Terza Italia. Dal 1821 al 1833 Gino Capponi e Gian Pietro Viesseux avevano dato vita in Firenze alla “Antologia”, rivista di lettere e arti, per ricollegare la loro età all'Umanesimo, fucina di pensiero politico attento alla sacralità del potere nel senso più alto: libertà di pensiero, diritti civili, uguaglianza dinnanzi alle leggi. Da secoli aristocratici e borghesi di cospicua fortuna gareggiavano nell'esercizio della filantropia. Ma dopo le guerre franco-napoleoniche la beneficenza non bastava più. Occorreva valersi dei pubblici poteri quali acceleratori dell'incivilimento. Già nei decenni d'oro dell'Illuminismo lo “Stato” (i “sovrani”, se bene consigliati e sensibili ai suggerimenti dei colti) aveva propiziato il progresso. Grazie all'incremento del “sapere”, malgrado la Restaurazione retriva del 1815, si poteva fare di più, di meglio e più rapidamente. Cinque anni dopo l'eclissi dell'“Antologia”, nel 1838 iniziò il decennio dei Congressi degli Scienziati Italiani promossi da Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino (esiste tuttora, sua benemerita erede, la Società Italiana per il Progresso delle Scienze), volano dell'unificazione politica. Senza ricorrere a pugnali e insorgenze atte solo a provocare in risposta carcere e patiboli, la Cultura puntò a ragionare in italo-europeo.
...Alla “Nuova Antologia” (1866).
Nel 1866, un anno dopo l'effettivo trasferimento della capitale del regno d'Italia da Torino a Firenze, venne fondata in Firenze la “Nuova Antologia”, che sin dalla testata si riallacciò agli albori del Risorgimento. La memoria degli antenati conforta nella prova più difficile, che non è il morire, ma il vivere. A fondarla e a dirigerla fu Francesco Protonotari, docente di economia all'Università di Pisa, città nativa di Angiolo (o Angelo) Sraffa (1865-1937), massone a 28 anni (iniziato ventottenne il 9 novembre 1893 ebbe il diploma 9.938), fondatore del diritto commerciale moderno, rettore dell'Università Bocconi di Milano, antifascista. Suo figlio Piero fu amico di Raffaele Mattioli e di Antonio Gramsci, i cui “Quaderni del carcere” portò in salvò in Gran Bretagna. 
Il trasferimento della capitale del regno d'Italia da Firenze a Roma (andrà ricordato degnamente nell'ormai imminente ma sinora silente 150°, il 20 settembre 2020) fece segnare il passo alla rivista, perché la capitale politica richiamò a sé e assorbì tanta parte delle energie vitali di un Paese ancora lontanissimo dall'unificazione effettiva (non lo è neppure oggi, anzi si sta disgregando, non solo per regionalismi, campanilismi, ma anche per conflitti tra ceti e generazioni).
L'acquese Maggiorino Ferraris: il Vecchio Piemonte che pensava europeo
A rialzarne le insegne fu appunto Maggiorino Ferraris, che la acquistò nel luglio 1897 e la diresse per trent'anni, quando, nel 1926, passò la mano al presidente del Senato, Tommaso Tittoni, più volte ministro degli Esteri e ambasciatore a Parigi. Ferraris fu e rimane un campione della dirigenza liberale subalpina nell'età da Cavour a Giolitti. Figlio di un fornaio, a vent'anni si laureò in giurisprudenza a Torino. Collaboratore della “Gazzetta del Popolo” e del “Diritto”, appena trentenne fu eletto deputato nel collegio circoscrizionale di Alessandria, già “feudo” della sinistra democratica di Urbano Rattazzi, a sua volta ripetutamente ministro e presidente del Consiglio. Ferraris fu puntualmente confermato sino al 1909, arroccato nel collegio uninominale della sua Città della Bollente. Con l'introduzione del diritto di voto maschile quasi universale il 26 ottobre 1913 fu sconfitto da Luigi Murialdi. Però l'Italia non poteva fare a meno delle sue qualità: competenza e dedizione alla Patria. Perciò su proposta di Giolitti (in politica ci si stima anche se se non ci si ama) il 4 novembre venne subito “risarcito” con il conferimento del laticlavio senatoriale. 
Come tanti notabili della Terza Italia, Ferraris aveva lo zoccolo duro elettorale nelle sue terre d'origine ma combatteva a Roma, nella trincea più difficile, fatta di trabocchetti, piccoli e grandi scandali, meschinità, ondeggiamenti dei deputati dall'uno all'altro versante della Camera in caccia di successi personali assai più che per gli interessi generali permanenti del Paese. Celebre rimase il caso di Gabriele d'Annunzio che a fine Ottocento teatralmente passò dalla destra alla sinistra esclamando: “Vado verso la vita”: un gesto retorico.
La missione culturale della “Nuova Antologia”
In quel bailamme Ferraris tenne dritta la barra della produzione culturale italiana. La “Nuova Antologia” da lui diretta non fu spiaggia di venturieri, dei cosiddetti troppo celebrati “intellettuali”, ma palestra degli studiosi ispirati dall'idea alta dell'Italia, come già era stata la rivista dei Protonotari (a Francesco seguì suo fratello Giuseppe, dal 1888 al 1897). Nelle annate precedenti aveva contato su Alessandro Manzoni, Nicolò Tommaseo, Terenzio Mamiani. Ferraris ebbe Giosue Carducci, Giovanni Verga, Giovanni Pascoli, Grazia Deledda, Luigi Pirandello, Antonio Fogazzaro, Guido Gozzano...: il grande flusso di lettere, scienze e arti, come indicava il sottotitolo della rivista. Era l'Italia che entrava a vele spiegate nell'agone internazionale. Regista della “Nuova Antologia” per la parte letteraria  fu il canavesano Giovanni Cena, poeta, romanziere, apostolo dell'istruzione popolare, in specie nell'Agro romano attardato di secoli rispetto al cuore pulsante della Capitale che, con Ernesto Nathan sindaco e Giovanni Giolitti presidente del Consiglio, stava festeggiando cinquant'anni di unità nazionale e quaranta dalla fine del potere temporale dei papi.
Ferraris mise del suo non solo con i quattrini ma anche saggi, articoli (non meno di 170) e una miriade di note sparse, siglate con pseudonimi bizzarri: Argentarius, Artifex, Bibliofilo, Italicus, Mercator, Nautilus, Politicus, Victor e, soprattutto, Spectator. Egli era, in effetti l'“Osservatore Italiano”, quasi in controcanto con quello “Romano”. Vedeva l'Italia dal cuore della Capitale ma con l'occhio di chi arrivava dalle colline della Valle Bormida e alla Città Eterna giungeva grazie alla strada ferrata fermamente voluta dal suo conterraneo Giuseppe Saracco, deputato, ministro, senatore, presidente del Senato e del Consiglio nei giorni tragici dell'assassinio di Umberto I. I Binari non servivano solo a far scorrere i vagoni: erano un messaggio, l'insegnamento della “dirittura”. Ferraris lo sapeva bene sin da giovane, quando si era specializzato in studi di economia e finanza viaggiando, a proprie spese, a Londra e Berlino per capire la centralità dei trasporti ferroviari nello sviluppo del Paese, suo cavallo di battaglia per la rapida ascesa politico-parlamentare che lo vide a soli 37 anni ministro di Poste e telegrafi nel governo presieduto da Francesco Crispi (15 dicembre 1893).
Oltre il declino, l'Italia
Paradossalmente “Nuova Antologia” declinò proprio durante la Grande Guerra, quando più v'era bisogno di una parola alta, capace di guardare oltre i massacri e le rovine per scongiurare il “tramonto dell'Occidente” intuito da Spengler prima ancora che iniziasse. Furono rare le voci dissonanti dagli urli ormai dominanti le piazze e loro tramite la “politica”. Solenne fu quella di Romain Rolland (1866-1944) autore  di “Au-dessus de la mélée” (1914) e della” Dichiarazione di indipendenza dello spirito” (1919), sottoscritta da Einstein, Russell, Croce e Gorkij. I costi della  carta e della manodopera tarparono le ali della gloriosa rivista, costretta a ridurre i fascicoli, sino alla sospensione.
La ripresa coincise con il ritorno di Ferraris al governo nel Ministero Orlando, sia pure per pochi giorni, quale ministro per approvvigionamenti e consumi alimentari. Nella “sua” rivista egli propugnò il ruolo che lo Stato doveva assumere alla guida della ricostruzione economica postbellica, attirandosi severe e non sempre condivisibili critiche del liberista Luigi Einaudi. Ministro per la Ricostruzione delle terre liberate con Luigi Facta (1922) si batté strenuamente per il pareggio del bilancio e la difesa della moneta, punto di convergenza tra Giolitti e il ministro Alberto De Stefani. 
A settant'anni lo Statista acquese decise che un ciclo ormai era chiuso e cedette “Nuova Antologia” al presidente del Senato, Tommaso Tittoni, che gli riservò a vita una stanzetta nella redazione. Lì Ferraris continuò a ricevere gli amici “con lo scaldino di terracotta tra le mani, vestito di velluto marrone come un cacciatore, il berrettino di lana sulle ventitré”. Era l'immagine vivente del Piemonte che credeva nella Città Eterna, come aveva scritto il vercellese Giovanni Faldella (1846-1928), giornalista, deputato, senatore, in “ Un viaggio a Roma senza vedere il papa” (1880). Era la “Roma borghese”, fedele alla monarchia.
Come la maggior parte dei notabili della sua età (anche a questo riguardo Giolitti fu esemplare), Ferraris non ebbe eredi politici” nella sua terra. Come quella del conterraneo Giuseppe Saracco (Bistagno, Acqui, 1821-1907), la sua memoria rimase consegnata allo sviluppo urbano di Acqui negli anni fulgidi delle Terme frequentate da aristocratici, ministri, letterati celebri, come negli stessi anni era Sanremo. Diretta da Luigi Federzoni tra il 1932 e il 1943, dopo molte traversie nel dopoguerra “Nuova Antologia” alzò la prora e riprese la rotta con Mario Ferrara (1945-1956) e Giovanni Spadolini, che la restituì allo splendore delle origini e la diresse sino alla morte, un quarto di secolo fa.
Sia per meritorio ricordo del “Senatore” per antonomasia, sia di Maggiorino Ferraris, il Premio Acqui Storia 2019 ha tributato una speciale Targa a Cosimo Ceccuti, direttore della Rivista, presidente della Fondazione “Giovanni Spadolini-Nuova Antologia”, storico, da quarant'anni cattedratico, da mezzo secolo autore di saggi innovativi, a cominciare dal “Concilio Ecumenico Vaticano I nella stampa italiana,  sull'editore Le Monnier, Ugo Ojetti e su Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti.
Romano Ugolini: il Risorgimento “atanòr” della coscienza nazionale
L'Acqui Storia 2019 ha premiato opere di stringente attualità, come, fra altre, “Quando c'era l'Urss. 70 anni di storia culturale sovietica” di Gian Piero Piretto (ed. Raffaello Cortina) e “Prove tecniche di rivoluzione. L'attentato a Togliatti, luglio 1948” di Giuseppe Pardini e ha conferito riconoscimenti speciali a Jared Diamond, Premio Pulitzer con “Armi, acciaio e malattie”, a Stefano Zecchi (già vincitore dell'Acqui Storia nel 2011 con “Quando ci batteva forte il cuore”) e all'inviato speciale del TG1 Amedeo Ricucci, sempre “in diretta” per vedere, documentare e proporre i drammatici eventi dell'età presente e autore di “Cronache dal fronte” (Castelvecchi). Ha infine conferito il Premio alla Carriera a due storici insigni, di orientamento molto differente ma accomunati da identica passione per la concezione civile della propria “missione”. Il primo (in ordine alfabetico) è David Sassoon, docente emerito di storia europea comparata alla Queen Mary University di Londra, noto al pubblico italiano per “Cento anni di socialismo” e il recente “Sintomi morbosi. Nella nostra storia di ieri i segnali della crisi di oggi” (Garzanti) e “Quo vadis, Europa?”, mentre è imminente la traduzione del suo poderoso “The Anxious Triumph”. 
Il secondo, Romano Ugolini, torinese di nascita capitolino di vita, assistente universitario dal 1969 e cattedratico dal 1980 a Palermo e a Perugia, in veste di segretario generale e presidente dell'Istituto per la storia del Risorgimento italiano (ISRI) ha moltiplicato e rafforzato i comitati dell'Istituto in Europa e in Paesi remoti, dalle Americhe al Giappone. Nel solco dei suoi Maestri (Alberto Maria Ghisalberti ed Emilia Morelli), da presidente della Commissione per l'edizione nazionale degli scritti di Giuseppe Garibaldi, nell’organizzazione di congressi di studi e con la promozione di saggi in anni sempre più difficili, Ugolini ha strenuamente difeso la memoria del Risorgimento quale fondamento dell'Italia attuale, europea sin dalla sua genesi (tra illuminismo e liberalismo costituzionale) come attestato dai suoi eroi eponimi: Vittorio Emanuele II, Camillo Cavour, Giuseppe Mazzini, Garibaldi e lo stuolo di patrioti che tra esilio e cospirazioni, in Parlamento e nei governi gettarono le fondamenta della Terza Italia. Con equilibrio di storico al di sopra dei preconcetti, Ugolini ha anche esplorato a fondo i governi degli ultimi papi-re, Gregorio XVI e Pio IX, riconoscendo a ciascuno il suo: come ha recentemente documentato Francesco  Margiotta Broglio annettendo Roma l'Italia salvò il “papato” dal fallimento economico al quale era ormai condannato (un secolo e mezzo dopo la “finanza” rimane il tallone d'Achille della Santa Sede).
Villa Ottolenghi: il Giardino più bello d'Europa
Tra i Testimoni del Tempo l'Acqui Storia 2019 ha tributato speciale omaggio a Liliana Segre, nominata senatrice a vita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: una scelta emblematica per la città che tra le sue maggiori attrattive vanta la prestigiosissima Villa edificata dai conti Arturo Ottolenghi e Herta von Wedekin zu Horst che si valsero di architetti di fama mondiale, Marcello Piacentini e Pietro Porcinai, ai quali si deve un gioiello, il cui giardino (36.000 metri quadrati) nel 1911 fu riconosciuto il più bello d'Europa.
L'Italia nata dal Risorgimento fu liberale nel senso più elevato e piano, come ha ricordato il conduttore della premiazione e componente di una delle giurie del Premio, Roberto Giacobbo. L'articolo 24 dello Statuto del regno di Sardegna promulgato da Carlo Alberto di Savoia e poi “passato” all'Italia fu chiarissimo: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono uguali dinanzi alle leggi”, qualunque fosse la loro confessione religiosa, come poi ribadito dalla Costituzione della Repubblica, altrettanto esplicita e, anzi, rafforzativa e persino un po' ridondante: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Nel rispetto degli ideali che ne ispirarono la genesi e al tempo stesso innovato, come nel passaggio da Carlo Sburlati all'assessore alla cultura Alessandra Terzolo, da tre anni suo responsabile esecutivo, malgrado i suoi 52 anni di vita il Premio Acqui Storia insegna che in Italia la libertà è antica. La cultura è la sua spina dorsale. Costa fatica, ma è ripagata dalla Memoria.
Aldo A. Mola

COME RISALIRE LA CHINA?  
 GIOLITTI CONTRO LA DISFATTA DELL'ITALIA (1919)
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 13 Ottobre 2019, pagg. 1 e 11.
 

Giovanni GiolittiI Neet: la putrefazione dell'unità nazionale
La notizia è che non fa notizia. La “disfatta” si consuma quotidianamente sotto gli occhi di ciascuno, ma se ne parla poco; e meno ancora se ne ragiona. Un quarto dei cittadini tra i 15 e i 29 anni non studia, non lavora e non cerca alcun impiego. Campa. Nella panna montata dell'uso improprio della lingua italiana, quando (di rado) se ne scrive, se ne parla come di “ragazzi”, mentre si tratta di uomini e di donne, persone spesso precocemente “mature”, capaci di tutto tranne che di assumere la “banale” responsabilità di esistere. Il silenzio su questa catastrofe, rotto di quando in quando da inchieste e da saggi dolenti, come il denso libro di Alessandro Rosina, docente all'Università Cattolica di Milano (“NEET. Giovani che non studiano e non lavorano, ed. Vita e Pensiero), ha una motivazione imbarazzante. All'attuale stadio di decomposizione della società non si è arrivati d'un botto, ma scendendo la china un anno dopo l'altro, governo dopo governo, tutti: inizialmente lenta, poi più accentuata, infine precipitosa, come accade alle frane da tempo annunciate, auscultate, vezzeggiate (quanta bolsa retorica sull'arretramento dei ghiacciai, quasi fosse un accadimento eccezionale, mentre esso si è ripetuto nei millenni, esattamente come la loro avanzata). Il punto è che l'“occidentale” contemporaneo, armato di scienza e tecnologia, di capacità previsionale e dei conseguenti rimedi, sa, se lo vuole, come fronteggiare inquinamento e mutamenti climatici, ma non affronta in termini coraggiosi la missione antica e nuova: congegnare istruzione e educazione, trasmettere il testimone dall'una all'altra generazione, “da pare 'n fieul”, come dicono gli alpini, riecheggiando la saggezza millenaria delle genti che ne hanno viste di tutti i colori, senza lasciarsi scoraggiare né isolarsi nell’autocontemplazione ombelicale. 
Ora siamo al dunque: o una svolta vera o la disfatta diverrà irrimediabile e la “generazione perduta” dei Neet contaminerà l'altra parte della società. Al confronto con questa sfida, la chiassosa disputa su rifugiati politici e migranti economici (realtà del tutto diverse e facilmente discernibili) si rivela per quello che è: retorica e distrazione di massa. Lo dicono i numeri. I Neet in Italia sono ormai quasi 2.200.000: una faglia tellurica che apre un vuoto nel corpo del Paese, anche perché nel Mezzogiorno i giovani che non studiano, non lavorano e non cercano impiego schizzano dalla media nazionale del 23,4% (quasi un quarto del totale) al 35-36% in Calabria e Campania e al 38,6% in Sicilia. Tutta colpa di Cavour? Di Garibaldi? Dell'unificazione nazionale? A soffocare un confronto serio su questa angosciante priorità hanno concorso decenni di chiacchiere neoborboniche, di fatue nostalgie dei governi pre-unitari, tutti (tranne il Regno sabaudo) succubi diretti o indiretti di potenze straniere.
“Porro unum necessarium” è la restaurazione della Pubblica istruzione, minata alla radice mezzo secolo addietro, alla metà degli Anni Settanta, dai famigerati Decreti delegati che introdussero i consigli di istituto e di classe, misero in riga i docenti, passarono la mano a genitori e studenti e, a responsabilità immutate (anche per edifici non a norma e servizi servizi mai forniti da amministrazioni locali che spendono in sagre e pagliacciate quanto negano alle scuole), imbalsamarono presidi e collegi docenti e svuotarono la funzione pedagogica della Scuola. Gonfie le gote del vacuo titolo di “dirigenti”, gli eredi dei  presidi d'antan oggi comandano navi senza conoscerne il pescaggio, la rotta, gli ufficiali, i marinai...Vagano in acque tempestose e concorrono a spingere il Paese contro gli scogli di un fallimento epocale.
In sintesi i Neet danno oggi lo spettacolo di un'Italia che ha perduto una lunga e dolorosissima guerra e non sa come risalire la china, recuperare la vera pace interna: l'unione tra i cittadini e fra le diverse generazioni. Il silenzio dei Neet (e sui Neet) è persino  più grave dei gutturali incitamenti alla secessione in voga decenni addietro. È diserzione quotidiana nei confronti della coesistenza civile: l'opposto di quel plebiscito che giorno dopo giorno cementò lo Stato. Ed è appena ovvio che il gregge divenga preda di tutti i lupi che combattono le istituzioni, valendosi dell'organizzazione capillare della criminalità che dispensa “a pioggia” un obolo ai nullafacenti, più della carità dei tempi andati e di certe farraginose leggi dei nostri tempi.
Risorgere?
Perciò non è vano vedere come un secolo fa venne affrontato il dopoguerra. Vale la pena ricordare le parole di Giovanni Giolitti, massimo statista dell'Italia unita.     
“Per il risorgimento economico dell'Italia, per metterla in condizione di sostenere la concorrenza dei popoli più progrediti, una riforma soprattutto si impone: la completa trasformazione dell'istruzione pubblica, che è quella fra tutte le nostre istituzioni che procede con maggior disordine e con minor efficacia, mentre non vi è pubblico servizio il cui disordine abbia effetti così deleteri dal punto di vista del valore di un popolo, poiché un popolo tanto vale quanto sa”. 
Lo disse a Dronero lo Statista ormai quasi ottantenne il 12 ottobre 1919, esattamente un secolo addietro, per indicare la via della riscossa dell'Italia dalle rovine materiali e finanziarie della partecipazione alla Grande Guerra. I “social” dell'epoca erano i giornali e il “passaparola” tra le persone pensose, consapevoli di avere sulle spalle le sorti del Paese in un'Europa in fiamme ma con gli occhi bendati dai nefasti Trattati di pace che attizzarono nuovi conflitti. Quattro volte presidente del Consiglio dei ministri fra il 1892 e il 1914, “cugino del Re” dal 20 settembre 1904, considerato all'estero il politico italiano più avveduto e affidabile, Giolitti parlò dinnanzi a 650 commensali e a una folla di inviati speciali di quotidiani e agenzie di stampa. In linea con la severità imposta dai tempi, il menù fu sobrio: minestrina in brodo, arrosto con contorno, formaggio, dolce e un litro di vino da pasto a persona e uno di barbaresco ogni quattro. Altri 847 notabili non trovarono posto al banchetto, si dispersero nelle trattorie della zona, firmarono l'apposito registro delle adesioni o lasciarono il biglietto da visita (come trecento parlamentari il famoso 10 maggio 1915 alla portineria di via Cavour a Roma) e accorsero ad ascoltarlo, “orgogliosi di essere rappresentati da una serena e forte tempra di carattere subalpino”. Lo Statista parlò per un'ora e mezzo filata. Aveva tra le mani cartoncini con appunti scheletrici manoscritti con grafia già un po' tremolante, a volte sottolineati con due o tre barre, sui quali di quando in quando gettava gli occhi grifagni. Come di consueto parlò in piedi, svettante sugli astanti. 
Giolitti aveva chiarissimo il caotico paesaggio postbellico europeo: dalla rivoluzione bolscevica in Russia (a differenza del visionario presidente americano Wilson, non se ne attendeva nulla di buono), ai trattati di pace che stavano seminando mine di futuri conflitti, la profonda delusione dei reduci da anni di guerra. “Alla grandezza della vittoria – affermò-  non corrisposero certamente le condizioni fatte all'Italia nelle trattative diplomatiche e particolarmente ingiusto mi parve il rifiuto di riconoscere alla città di Fiume il diritto di ricongiungersi alla madre patria”.  Sennonché la città quarnerina era stata “dimenticata” dai compensi ai quali l'Italia aveva diritto per ripagare il suo intervento asimmetrico a fianco dell'Intesa anglo-franco-russa, così come il 26 aprile 1915 concordato a Londra da Salandra e Sonnino, che esplicitamente riconobbero spettasse invece alla Croazia (all'epoca manco esistente come Stato). Lo Statista ricordò perché fosse stato contrario all'intervento nel conflitto: “Non credo sia lecito portare il paese alla guerra per sentimentalismo verso altri popoli; per sentimento ognuno può gettare la propria vita, non quella del proprio paese”, tanto più che nella primavera del 1915 era ormai chiaro che la guerra sarebbe stata lunga e sempre più “grossa”, del tutto sproporzionata alle risorse dell'Italia. Poiché “quando la casa brucia ogni sforzo deve tendere a spegnere l'incendio; a rendere la casa più comoda si penserà dopo”. Al momento occorrevano  riforme radicali. In primo luogo bisognava  trasferire dalla Corona al Parlamento il potere di dichiarare la guerra, per scongiurare futuri colpi di mano del governo all'insaputa delle Camere e dei cittadini. Urgeva risanare il bilancio dello Stato, anche tassando tutti i titoli di azioni e obbligazioni. Mentre nella maggior parte erano anonimi, “al portatore”, questi dovevano essere mutati in nominativi: un provvedimento che avrebbe fatto emergere i profitti di guerra e l'immensa ricchezza mobiliare di enti ecclesiastici, ed era quindi inviso alla Santa Sede. 
Il debito pubblico era schizzato dai 13 miliardi anteguerra, comprendenti i debiti dei governi preunitari, a 94 miliardi, sui quali lo Stato pagava interessi salatissimi. Non era più tempo di “sermoneggiare” ma di agire, da un canto tagliando tutte le spese superflue, gli sperperi, le mance elettorali; dall'altro trasferendo le imposte dai consumi alla ricchezza accumulata nei modi da accertare. Occorreva “ridurre la eccessiva circolazione di moneta cartacea” che faceva crollare il potere d'acquisto di stipendi e salari, aumentando il malcontento popolare, l'instabilità dell'ordine pubblico e le tensioni sociali artificiosamente esasperate da chi mirava alla guerra civile per instaurare un regime comunque reazionario. 
Con la visione lungimirante di consigliere e presidente di un consiglio provinciale all'avanguardia nell'opera di rimboschimento e tutela delle acque e dell'ambiente (che non sono “scoperte” dei giorni nostri ma furono sempre in cima agli obiettivi della dirigenza liberale, formata da ingegneri, agronomi, medici, oltre che di avvocati dalla cultura multiforme: si pensi a Claudio Calandra, ideatore degli speciali “tubi” per la bonifica delle vastissime aree paludose tra Fossano e Carmagnola), Giolitti esortò a ricorrere all'energia idraulica per sostituire il carbone, avviato all'esaurimento e comunque inquinante. In quegli stessi anni fiancheggiava la moltiplicazione delle centrali idroelettriche in Piemonte, tra le quali svettò quella ideata da Luigi Burgo e da Giolitti stesso inaugurata nel settembre 1922.
Ma – concluse lo Statista il 12 ottobre 1919 - la riforma fondamentale per la riscossa dell'Italia era quella della Scuola. “Da noi, osservò, l'istruzione elementare è insufficiente; ciò che si impara in tre anni (quanti all'epoca erano obbligatori) non basta più alle limitate esigenze e, dopo abbandonata la scuola, si dimentica quasi interamente. Molto peggio procede l'istruzione media, quella forse che esercita la maggiore influenza sull'indirizzo generale del Paese. La scuola classica è ancora la parte principale dell'insegnamento medio; ma è una scuola in piena decadenza; gli allievi, ad esempio, studiano il latino otto anni e, dopo così lungo studio, tranne rarissime eccezioni, non sono neppure in grado di leggere e capire gli autori classici. La scuola tecnica non ha di tecnico che il nome, ed è in massima parte il duplicato della classica, sostituendo al latino e al greco alcune lingue moderne, insegnate in modo così imperfetto che gli allievi, tranne rare eccezioni, non imparano né a parlarle né a scriverle”. 
Però non erano impossibili rimedi efficaci. In primo luogo “la parte principale dell'insegnamento di Stato dovrebbe in tutti i gradi essere l'istruzione veramente pratica, sapientemente specializzata, alla testa della quale l'alta istruzione tecnico-scientifica, industriale ed agricola, con larghi mezzi di studio e di esperimenti, così che vi si interessi e contribuisca l'alta industria, e organizzata in modo da attrarre all'insegnamento le migliori intelligenze del paese, e da costringere gli insegnanti a tenersi perfettamente al corrente della scienza.” In secondo luogo, poiché “l'alta scienza tecnica, e in specie la fisica, la chimica, l'elettrotecnica, la meccanica progrediscono rapidamente (e, aggiungiamo, lo aveva incentivato proprio la Guerra), il professore che non si tiene al corrente di ogni nuovo passo della scienza diventa un ostacolo al progresso del Paese e deve essere messo a riposo. A tal fine non esiterei a stabilire che queste cattedre si rimettano ogni dieci anni a concorso. Solo così l'Italia può mettersi in condizione di sopportare e vincere la concorrenza dei popoli più progrediti”.
“Governo e Parlamento, infine, dovranno dire sempre al Paese la rude verità, abbandonando la vuota retorica la quale, ponendo sotto falsa luce fatti e apprezzamenti, costituisce una delle forme più insidiose di menzogne. Occorre ricordare che i governi sono fatti per servire i popoli, non per dominarli, per condurli dove non desiderano di andare. Occorre soprattutto ricordare che sempre che la sola fonte sicura di ricchezza, di prosperità e anche di vera gloria per un popolo è il lavoro”. Detto trent'anni prima che i costituenti scrivessero che l'“Italia è una repubblica fondata sul lavoro”. Lo era il regno d'Italia, che, per di più poggiava su un’Istituzione di garanzia e di continuità, la monarchia, proprio perché la Corona era volano di certezze, come in Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Danimarca, nei Paesi scandinavi...: cosa ben diversa, anzi opposta, all'elezione diretta di un presidente di Repubblica, fatalmente preda di pulsioni umorali che, sic stantibus rebus, spingerebbero alla scelta di un qualunque Barabba...: celebre “plebiscito”. 
Secondo Giolitti occorrevano dunque anni di coraggioso impegno legislativo. L'introduzione del riparto dei seggi della Camera dei deputati in proporzione ai voti ottenuti e l'abolizione dei collegi nominali determinarono non solo il successo di due partiti antirisorgimentali (i socialisti e i cattolici del partito popolare italiano) ma anche la moltiplicazione dei gruppi parlamentari, l'instabilità dei governi, la crisi del sistema, con quanto ne seguì. La riforma della scuola, modellata da Benedetto Croce, ministro dell'Istruzione nel V governo Giolitti (1920-1921), poi riformulata da Giovanni Gentile (all'Istruzione dal 1922 al 1924), rimase lontana dagli orizzonti indicati dallo Statista cent'anni fa.
Come lontani dalla realtà sono stati i lamenti estivi sulle condizioni della scuola, nelle prime settimane di ritorno in aula scanditi da incitamenti al lassismo, alla sostituzione dello studio in classe con libero passeggio a difesa dell'ambiente, a dispute sul diritto degli scolari di portarsi da casa la refezione come nei secoli andati e in assenza di un vero “progetto Scuola”. Nulla di strano, quindi, se la voragine dei Neet si amplierà sino a determinare il cataclisma : è semplicemente la certificazione della mancanza di vera politica fornita di senso dello Stato.
“Quos Deus vult perdere, dementat prius”.
Aldo A. Mola

RE VITTORIO EMANUELE III (1900-1946)
 MEZZO SECOLO DI STORIA D'ITALIA
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 6 Ottobre 2019, pagg. 1 e 11.
 

Vicoforte, Tomba di Vittorio Emanuele IIILo scarno “Diario della Casa Militare del Re”, ricostruito per il 1922-1924 su agende del Primo aiutante di campo e carte dell'Ispettorato di Pubblica Sicurezza del Quirinale, e l'“Itinerario generale” dal 1° giugno 1896 al 24 ottobre 1946, manoscritto ad Alessandria d'Egitto da Vittorio Emanuele III, dicono l'essenziale delle “opere e giorni” del sovrano che per mezzo secolo resse le sorti dell'Italia. Tra i pochi fatti di rilievo del settembre-ottobre 1922 spiccano le sue visite agli studi del pittore Giuseppe Augusto Levis (a Racconigi) e dello scultore Leonardo Bistolfi (a Torino), il viaggio in Belgio (10-14 ottobre) e il rientro in treno da San Rossore (Pisa) a Roma, la sera del 27 ottobre, ove il presidente del Consiglio Luigi Facta gli presentò le dimissioni del governo. Dalle 10.30 dell'indomani il Re ricevette al Quirinale i presidenti delle Camere (Tittoni e De Nicola), Cocco Ortu, Orlando, Federzoni, Salandra, De Nava e De Vecchi. Non vi sono appunti per i tre giorni seguenti, nei quali, fallita l'ipotesi di un governo Salandra e assenti da Roma Giolitti e Meda, rappresentanti delle maggiori forze costituzionali, sentiti in via breve direttamente e indirettamente i portavoce del Paese, il 29 il Re anticipò l'incarico a Benito Mussolini, che giunse a Roma la mattina del 30, presentò la lista dei ministri e il 31 si insediò a capo di un governo di unione costituzionale comprendente fascisti, nazionalisti, popolari, democratici sociali, giolittiani, Gentile all'Istruzione, il generale Diaz alla Guerra e l'ammiraglio Thaon di Revel alla Marina. Lo stesso 31, dopo giorni di attesa sotto la pioggerella autunnale con poche munizioni da fuoco e da bocca, gli “squadristi” sfilarono per Roma preceduti dalla banda musicale capitolina e ne partirono con treni sveltamente allestiti. L'indomani Roma era tranquilla, come d'uso. Il 4 il Re si recò all'Altare della Patria e il 5 partì per San Rossore. L'Italia aveva un governo, approvato il 17 novembre alla Camera con 306 voti contro 116 e il 27 al Senato, ove ebbe 19 voti contrari su 398 membri. All'opposto di quanto a lungo ripetuto quella coalizione non fu affatto “subito regime”. La Camera era quella eletta nel maggio 1921 con la regìa di Giolitti. Il Senato contava appena due iscritti al Partito fascista.  
Re costituzionale per l'Unità e la Libertà
Il Re, trentunenne, aveva i poteri ereditati con la Corona dal padre, Umberto I, assassinato cinquantaseienne a Monza il 29 luglio 1900. Dopo il regicidio i più si attendevano una sterzata autoritaria. Invece Vittorio Emanuele III l'11 agosto giurò fedeltà allo Statuto e dichiarò di consacrarsi alla “monarchia liberale”: pace interna e concordia “di tutti gli uomini di buon volere” per consolidare Unità e Libertà. Il 14 novembre 1901 un regio decreto determinò gli “oggetti da sottoporsi al consiglio dei ministri”, incluse le proposte di trattati e le questioni internazionali in generale. Precisò che il presidente del Consiglio (all'epoca era Zanardelli, affiancato da Giolitti all'Interno) rappresentava il governo e manteneva “l'unità di indirizzo politico e amministrativo di tutti i ministeri”, i cui titolari dovevano previamente sottoporgli le loro proposte. Quello degli Esteri doveva conferire con lui “su tutte le note e comunicazioni” che impegnassero il governo nei suoi rapporti con gli altri Stati. Il presidente era dunque l'interlocutore apicale tra il Re e i “suoi ministri”. 
Nella cosiddetta “età giolittiana” si susseguirono undici diversi ministeri: Saracco, Zanardelli, Giolitti (3 governi), Fortis (2), Sonnino (2), Luzzatti e, all'indomani del 4° governo Giolitti, Salandra, che dopo l'attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 e la conflagrazione europea, intraprese la via del cambio di alleanze (dalla Triplice con gli Imperi Centrali all'Intesa anglo-franco-russa) anche per annientare il predecessore. Non solo ago della bilancia ma motore immobile della vita istituzionale, governativa e, di concerto, parlamentare, rimase il sovrano. Lo si vide nella guerra di Libia (1911-1912) e nella crisi del maggio 1915 quando Salandra si dimise il 13 perché non contava sulla fiducia della Camera e il 17, riprese le redini e chiese i pieni poteri, accordatigli a scatola chiusa dalle Camere il 20-21 seguenti, due giorni prima della dichiarazione di guerra all'Impero austro-ungarico. Secondo lo storico Luigi Salvatorelli la decisione dell'intervento fu il primo dei tre “colpi di Stato” di Vittorio Emanuele III: nel maggio 1915, nell'ottobre 1922, quando incaricò Mussolini, e il 25 luglio 1943 quando lo destituì. Nei due primi casi, in realtà, il Re affidò la ratifica della decisione alle Camere. E nel terzo? Riportò l'Italia alla sua genesi. 
Dall'intervento nella Grande Guerra al regime 
Trasferita “in sua assenza” la gestione dei regi poteri allo zio Tomaso di Savoia-Carignano, quale Luogotenente generale (come già avvenuto nel 1848, quando Carlo Alberto, ebbe luogotenente il principe Eugenio), poiché volle seguire di persona la guerra di concerto con il Comandante Supremo Luigi Cadorna, il Re non intaccò alcuna prerogativa del Parlamento. Il 25 settembre 1919 a cospetto dell'irruzione di Gabriele d'Annunzio in Fiume e mentre la Camera, screditata, era ormai alla vigilia dello scioglimento, in via eccezionale il Re convocò un “Consiglio della Corona”: i presidenti delle Camere, del governo, i suoi predecessori, gli esponenti dei partiti, Diaz e Thaon di Revel. Confermò la sua visione di Re costituzionale. Il socialista Turati non si presentò. 
In un'Europa inquieta (affermazione del comunismo sovietico in Russia e del nazionalsocialismo in Germania e a fronte dell'impotenza della Società delle Nazioni, cui rimasero estranei gli USA) l'Italia passò da democrazia parlamentare a regime di partito unico. Il cambio non avvenne in un giorno e non fu un colpo di mano di Mussolini e del Partito nazionale fascista, nel quale nel febbraio 1923 confluirono i nazionalisti di Corradini, Federzoni e Rocco. La premessa fu la legge elettorale presentata dal sottosegretario alla Presidenza, Giacomo Acerbo, e approvata dall’apposita Commissione parlamentare (diciotto membri) presieduta da Giolitti, con il sostegno di liberali, democratici e popolari. Fortemente maggioritaria, essa assegnò due terzi dei seggi al partito che avesse raggiunto il 25% dei voti. Il “listone nazionale” (comprendente Salandra, Orlando e De Nicola, cattolici, democratici ed ex socialisti) ottenne il 65% dei voti. Dopo il  “delitto Matteotti” (10 giugno 1924) le opposizioni disertarono la Camera, con l'eccezione di giolittiani e comunisti. 
Fu quel Parlamento ad approvare via via le “leggi fascistissime” che anno dopo anno erosero le libertà politiche senza però intaccare lo Statuto sotto il profilo strettamente formale. Anche la drastica repressione della stampa, delle associazioni, dei partiti e dei sindacati liberi non cancellò la Carta Albertina, posto che questa prevedeva le libertà civili e politiche ma ne demandava la disciplina alle Camere. Per esempio l'art. 28 recitava: “La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi”. In regime statutario a fare le leggi non era il Re ma il Parlamento. Se approvate, il Re le controfirmava, come oggi fa il Presidente della Repubblica (salvo “messaggi”).
In “La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista“ (il Mulino, 2018) lo storico dell'amministrazione Guido Melis ha documentato l'oggettiva continuità tra l'età liberale e la seguente. A parte alcune estromissioni mirate (per esempio di alcuni massoni, perché politicamente orientati), i “quadri” delle cariche statuali e locali dopo il 1922-1925 rimasero pressoché identici. 
Proposta dal ministro Rocco, una nuova legge elettorale (17 maggio 1928) conferì al Gran Consiglio del Fascismo (che ancora non aveva veste istituzionale: la ebbe solo il 9 dicembre) la designazione di 400 deputati, da approvare o respingere in blocco. Partiti e politici liberali, socialisti, cattolici, demo-radicali furono completamente spazzati via. Solo alcuni loro esponenti avevano o avrebbero trovato riparo in Senato. Contrariamente all'opinione corrente, il Gran Consiglio non esercitò alcun potere sulla Corona, avendo unicamente titolo a esprimere un “parere” (non vincolante) su leggi (mai emanate) concernenti la successione, le attribuzioni e le prerogative del Re. La monarchia rimase intatta, anche nel potere esclusivo di dichiarare la guerra e approvare i trattati (art. 5 dello Statuto),  che invano Giolitti aveva tentato di modificare a favore del Parlamento.  
L'11 febbraio 1929 il Concordato Stato-Chiesa costituì un altro corposo successo del regime, rafforzato negli anni seguenti con l'imposizione del giuramento di fedeltà al duce per tutti i pubblici impiegati. Il rilancio della stabilità monetaria (“quota 90”), della produzione cerealicola e di quella industriale, orchestrata dall'Istituto per la Ricostruzione Industriale, presieduto dal già socialista e massone Alberto Beneduce, suscitò ampio consenso a favore di Mussolini, forte di “pieni poteri”. 
La solitudine del Sovrano...
Nel 1936 la lunga e costosa guerra contro l'Etiopia, sorretta da abili operazioni di propaganda (l'offerta di “oro alla Patria”, la lotta contro le  inefficaci “inique sanzioni” deliberate dalla Società delle Nazioni) e l'intervento in Spagna a sostegno dei nazionalisti guidati da Francisco Franco contro la caotica Repubblica rafforzarono il potere personale del Duce e la liquidazione delle residue opposizioni all'interno e all'estero.
Nel complesso e articolato consolidamento del proprio “mito”, ormai alternativo alla Corona, Mussolini si valse di formidabili strumenti per soggiogare l'opinione nazionale: lo sport, la cinematografia, la radio di stato e i maggiori quotidiani, allineati alle sue direttive anche tramite il Ministero per la Stampa e la Propaganda (1935), poi Cultura popolare; nonché la Milizia, il partito stesso, il Dopolavoro e le denigrazioni, i sussurri, in specie contro il principe ereditario.  
Il Re rimase via via isolato. Non potendo certo valersi di antifascisti in esilio, ferocemente avversi alla Corona (fu il caso di Carlo Sforza, ancorché Collare della SS. Annunziata), cercò invano chi, dall'interno del regime, fosse disposto a contrapporsi al “duce del fascismo” e/o a temperarne le pulsioni e l'attrazione che Mussolini subiva da parte della Germania di Hitler, che, più incalzante dopo la visita in Italia (maggio 1938), lo sollecitava a sbarazzarsi della monarchia. Perciò, malgrado la personale avversione e i ripetuti tentativi di rinvio, il Re si trovò anche nell'impossibilità di rifiutare la firma delle leggi razziali dell'autunno 1938, approvate dalla Camera con 360 voti su 400 (tra i pochi “assenti ingiustificati” vi fu Italo Balbo) e da 150 senatori tra i 160 presenti e i 400 e più in carica. Se, in alternativa, avesse abdicato, avrebbe scaricato il peso della decisione sul figlio Umberto, a sua volta al bivio: firmare o abdicare, a favore del principe di Napoli, di appena un anno e quindi da affidare alla Reggenza del “prossimo parente” (art. 12 dello Statuto; nel caso era il duca Amedeo d'Aosta). S'aggiunga che Mussolini era trionfalmente reduce dalla Conferenza di Monaco dalla quale era uscito quale salvatore della pace europea con plauso di Gran Bretagna e Francia.
Il “consenso” al regime non venne meno neppure nel 1939, quando l'Italia non entrò in guerra a fianco della Germania (forte del patto di non aggressione con l'Unione Sovietica di Stalin), né quando, all'opposto, il 10 giugno 1940 intraprese la “guerra parallela” che di errore in errore si risolse nella quasi immediata perdita dell'Africa Orientale, nello sparpagliamento delle armate su teatri bellici remoti (inclusa la Russia) e nell’incapacità di difendere il territorio nazionale, anche per le gravi perdite subite dalla Marina e la modestia bellica dell'Aeronautica. 
Riprese in pugno le sopite ma mai rinunciate prerogative della Corona, il 25 luglio 1943 nel corso di un breve colloquio a quattr'occhi il Re revocò Mussolini, lo fece “fermare” (non “arrestare” come suol dirsi) e lo sostituì con il Maresciallo Pietro Badoglio, al quale il “duce” scrisse di essere pronto a collaborare. Mentre il governo riuscì a ottenere l'armistizio (3 settembre), seguito dal trasferimento del governo stesso e dei Reali da Roma a Brindisi (9-11), il “prelievo” di Mussolini al Gran Sasso d'Italia da parte dei tedeschi pose le premesse dello Stato repubblicano d'Italia (poi RSI). 
...in pace a Vicoforte, in attesa della Storia
Il governo del Re ottenne il riconoscimento da parte degli Alleati, inclusa l'URSS. Nella primavera del 1944 gli anglo-americani imposero al Re di trasferire tutti i poteri della Corona al figlio, Umberto principe di Piemonte (5 giugno), che il 25 giugno sottopose ai cittadini la scelta della forma dello Stato. Vittorio Emanuele III abdicò il 6 maggio 1946 e partì alla volta dell'Egitto, unico Stato del Mediterraneo all'epoca non belligerante con l'Italia (il Trattato di pace venne fatto sottoscrivere il 10 febbraio 1947). Lì morì il 28 dicembre 1947, cittadino temporaneamente “all'estero”, tre giorni prima che entrasse in vigore la Costituzione che lo avrebbe privato di ogni diritto e condannato all'esilio, come toccò ai suoi discendenti maschi (il repubblicano Giuseppe Chiostergi, massone, propose di estendere l'esilio anche alle femmine). 
La vera “storia” di Vittorio Emanuele III rimane da scrivere. È la biografia degli italiani dall'Unità nazionale al ritorno della democrazia parlamentare, radicata nella monarchia rappresentativa, come emerge dal confronto tra lo Statuto Albertino e la Carta ora vigente.
Il 17 dicembre 2017, alla vigilia del 70° della sua morte, la sua salma è stata trasferita da Alessandria d'Egitto nel Santuario di Vicoforte (Cuneo), ove due giorni prima era giunta quella della Regina Elena dal cimitero di Montpellier, con il placet del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. 
“Requiescant in pace” nel Mausoleo voluto da Carlo Emanuele I, come dal 2011 auspicato dalla Principessa Maria Gabriella di Savoia con il benestare del Vescovo Luciano Pacomio, inarrivabile storico del Catechismo cattolico.
Aldo A. Mola

LA CARTA DEL CARNARO  (1920)
 CENT'ANNI FA. IL POTERE TRA “FANTASIA” E “RAGIONE”
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 29 Settembre 2019, pagg. 1 e 11.
 

Il Vento  soffia dove vuole 
“Il Vento soffia dove vuole. Ne senti la voce ma non sai da dove viene e dove va” (Giovanni Evangelista, 3,8). Oggi bimbi e anziani sfilano illusi di “far nuove tutte le cose” entro undici anni, come pretese il Mostro dell'Apocalisse. Ma l'Apocalisse può arrivare prima: la guerra, la vera e ultima Grande Guerra, con le bombe atomiche. Bello è sognare il mondo verginale: “Alza la prora e salpa verso il mondo...”. Oggi si salpa terra terra con internet. Con un ditino. Basta un nulla, il più stupido degli “errori umani” ed è la catastrofe. Non è questione di emissione di gas. E' sufficiente un “ordine”, un contrordine male interpretato. Salta il salvavita. E' la fine.
Perciò mentre milioni di estremisti saltellano (di qua il Bene, di là il Male), forse è tempo attendere silenti e solitari che il vento passi. Meno Nobel per la pace, meno succubi di fondamentalismi, più artigiani della Ragione, più uomini di Scienza e Progresso. E più cognizione della storia del Pianeta, meno presunzione che i cambiamenti del clima siano opera degli ominidi. Ci vuol altro! E altro ci fu.  
Sognare o fare?    
12 settembre 1920. Dopo lunga gestazione Gabriele d'Annunzio proclama la Reggenza del Carnaro. Nell'anniversario della “marcia di Ronchi” Fiume diviene una città-stato. Non è riconosciuta da nessuno. Ma il Reggente è pago di sé. Come i suoi seguaci. Molto meno gli abitanti che stanno per affrontare il secondo inverno di ristrettezze. Mesi prima era fallito il sogno di fare di Fiume la capitale di una fatua “Lega dei popoli oppressi” contro la “Lega delle Nazioni” decretata dal Congresso di pace di Versailles il 28 giugno 1919. “Fiume” (cioè un “governo” con ministro per gli “affari esteriori”) si rivolse a tutte le possibili minoranze del globo terracqueo. Cercò di capitanare quanti lamentavano che gli fossero stati negati i sogni dell'infanzia, eccetera eccetera. Pensò di coinvolgere persino i cinesi della California. Sognare è un diritto. Tenere i piedi per terra è un dovere per chi ha responsabilità di governo. Risultato pratico della Lega fiumana? Zero. 
L'Europa era nel caos. La guerra (una follia decisa da una crestomazia di sconsiderati capi di Stato, militari e diplomatici imbolsiti) era costata più o meno quindici milioni di morti senza una motivazione plausibile. Tuttora la sua “spiegazione” rimane senza risposta, se non la stupidità di chi governa. La guerra aveva spalancato le porte alla rivoluzione e aveva messo alle corde il progresso civile realizzato tra il 1870 e il 1914: la Belle Epoque, invisa ai clericali attratti dalle tonde gambe delle Folies Bergères e ai socialmassimalisti che volevano andarle a vedere senza pagare il biglietto.
Mentre Bulgaria, Romania, Ungheria e Germania erano nel caos, la Gran Bretagna era squassata da scioperi mai visti prima e la Francia era dilaniata tra nazionalisti e socialisti, a chi mai poteva importare di Fiume? Ve ne erano tante in Europa. Nell'estate del 1920 l'Armata della Russia di Lenin invase la Polonia. Anche in Italia scattò la “rivoluzione” all'italiana: l'occupazione delle fabbriche. Gli estremisti ritennero che impadronirsi del macchinario e della produzione comportasse il dominio dello Stato. Forse non avevano mai letto “Il Capitale” di Karl Marx. Arrivavano da Sorel e magari da Giovanni Gentile: la “volontà...”, l' “Atto puro”, che ha afflitto generazioni di liceali ma non è mai stato spiegato in termini di passaggio dalla fabula alla cruda realtà. L' “atto puro” abbassa il costo del pane si domandava Giuseppe Peano, capofila dei logici-matematici e persino massone?
Mentre  Arturo Labriola, ex anarco-sindacalista e ministro del Lavoro nel governo Giolitti trattava in sotterranea combutta con industriali e sindacati per chiudere pattiziamente la “vertenza” il 12 settembre 1920, anniversario della “marcia di Ronchi” ferma da 365 giorni, il Vate emanò dunque la Carta del Carnaro.
Il Poeta e l'anarco-sindacalista
L'interesse della Carta venne riproposto oltre mezzo secolo fa da Renzo De Felice. 
Spesso fantasiosamente è stato asserito che essa abbia una ispirazione massonica. Anche a rettifica di qualche antichissima personale concessione al mito, l'asserzione merita una puntualizzazione. In primo luogo, malgrado le variegate leggende, Gabriele d'Annunzio non venne mai iniziato in alcuna loggia italiana. Da qualche parte e in qualche modo ne sarebbe rimasta traccia. La storia si scrive sui documenti, non su fantasie/o insinuazioni e/o supposizioni. Niente documenti, niente storia. Massone, orgoglioso di esserlo, fu Giosue Carducci, seguito da Giovanni Pascoli, che però, dopo la fugace iniziazione nella “Rizzoli” di Bologna il 23 settembre 1882, non frequentò alcuna loggia. Nei Poemi del Risorgimento riecheggiò suggestioni liberomuratòrie e persino carbonare, ma non fece alcun esplicito cenno a un suo vissuto tra le colonne. D'altra parte viveva sotto l'occhiuto controllo della bigottissima sorella Maria (Mariù), che amava i “fratelli” come il fumo negli occhi e alla morte di Giovanni “pulì i cassetti” dalle carte scomode.  Morti a breve distanza i due Grandi, d'Annunzio ne afferrò l' “eredità” di Vate. Viveva in Francia, ma  andava bene così. Non era difficile oscurare i “lamenti” di Sergio Corazzini o di Guido Gozzano. L'Italia  alzava la prora e andava in Libia...   
Certo anche Gabriele (“Ariel” tra i “martinisti ”?) ebbe relazioni politico-culturali con massoni e massonerie, come ogni altro personaggio rilevante tra Otto e Novecento, perché all'epoca le Comunità liberomuratòrie euro-americane non solo erano onnipresenti nella vita pubblica (politica, sociale, economica, artistica, assistenziale, come poi fecero Rotary e Lions Club) ma lo mostravano pubblicamente, sulla scia secolare di filantropi e di benefattori. Però i “contatti” e le ripetute “collusioni” accertate nel tempo tra d'Annunzio e i Labari di loggia (maggio 1915 in vista del Discorso del 5 maggio a Quarto dei Mille,  nel settembre 1919 per l'organizzazione della “marcia di Ronchi” e persino dopo l'ottobre 1922, quando i Legionari dannunziani si contrapposero agli squadristi mussoliniani) non comportavano affatto identificazione. Si va, si vede, si resta come si è. 
La pretesa genesi massonica della Carta viene asserita perché il suo primo estensore, Alceste De Ambris, anarco-sindacalista e dal gennaio 1920 segretario  degli Affari Civili (una sorta di ministro dell'Interno) del comando dell'Esercito liberatore in Fiume, un giorno entrò in loggia. Ma il suo ingresso “tra le colonne” avvenne a Parigi il 23 febbraio 1925, precisamente nella loggia “Italia” n. 450, della Gran Loggia di Francia, con sede in rue Puteaux. Secondo Enrico Serventi Longhi (“Alceste De Ambris. L'utopia concreta di un rivoluzionario sindacalista”, FrancoAngeli ed.) l'iniziazione dell'ex fiumano e di alcuni suoi compagni servì a Luigi Campolonghi, esponente in Francia della Lega internazionale dei diritti dell'uomo, per spostare l'equilibrio della loggia su una posizione antifascista più militante rispetto alla linea del suo maestro venerabile, Ubaldo Triaca (antico iniziato della “Ausonia” di Torino). Di sicuro De Ambris rimase poco nell' atelier parigino, proprio perché, a differenza del Grande Oriente (rue Cadet), la Gran Loggia di rue Puteaux non gradiva pronunciamenti politicamente troppo impegnativi. Non intendeva essere coinvolta in vertenze non condivise dal governo nazionale. Perciò De Ambris preferì migrare in una loggia di Tolosa, più pugnace rispetto alla consorella. Tre anni dopo a Parigi venne costituita la loggia “Giovanni Amendola”, formata da repubblicani (Giuseppe Leti, Eugenio Chiesa, ex ministro e di lì a poco gran maestro del Grande Oriente d'Italia dell'esilio, Cipriano Facchinetti, ministro della difesa nel governo di Alcide De Gasperi, Luigi Campolonghi) e due socialisti (Arturo Labriola, già ministro del Lavoro nel V governo Giolitti, dal 1920 al 1921, e successore di Chiesa al vertice del GOI dell'esilio, e Alberto Giannini, poi autore delle esilaranti “Le memorie di un fesso. Parla Gennarino fuoruscito con l'amaro in bocca”, pubblicato nel 1934 e ristampato in anastatica dall'editore Forni). Ma quelle miserie partitico-politiche che cosa hanno a che fare con la massoneria? Nulla. Quali che siano state le vicissitudini liberomuratòrie di De Ambris oltralpe è storiograficamente improponibile sostenere che la Carta del Carnaro sia stata insufflata da una iniziazione di cinque anni successiva alla sua appassionata ventura a fianco del Vate. E' sempre arrischiato sostenere che le azioni di un qualunque politico, militare, artista, scienziato siano spiegabili quale diretta estrinsecazione di principi massonici appresi nella Camera di Riflessione e all'ingresso in loggia, anche perché in molti casi questo non ebbe alcun seguito: una caramella senza retrogusto. L'elenco di capi di Stato, primi ministri eccetera massoni per un sol giorno potrebbe essere lunghissimo. Per il “caso Spagna” ne ha scritto José Antonio Ferrer Benimeli S.J.. Per la Francia Yves-Hivert Messeca. In Italia il tema è ancora “tabù” e se ne sussurra con molta approssimazione. Ancor meno proponibile è una sorta di massonizzazione “retroattiva”, a meno che a carico dei massoni si voglia adottare il “battesimo di desiderio”, in forza del quale si è tali anche senza essere mai stati iniziati o che se si entra in loggia alla vigilia della morte (come fece Voltaire) vuol dire che lo si era sin dal grembo materno. Predestinati al culto del Grande Architetto dell'Universo. In tale visione (storiograficamente inconsistente) basterebbe proclamarsi fautori della fratellanza tra i popoli, dell'uguaglianza dinnanzi alle leggi e della libertà per essere “grembiulini” ad honorem. Va aggiunto (per quanto sia scomodo ricordarlo) che tra i massonofagi più spietati si contarono anche parecchi massoni delusi. Bastino i casi di Augustin Barruel e, per l'Italia, di Francesco Gaeta, molto apprezzato da Benedetto Croce, che non risparmiò mai sanguinose stilettate contro il pacifismo umanitaristico dei massoni, “cultura ottima per commercianti e insegnanti elementari”. Tra il massonissimo Léon Bourgeois, premio Nobel per la pace e primo presidente della Società delle Nazioni dal suo insediamento a Ginevra, e un De Ambirs, le distanze sono incolmabili. Fratelli? Agli antipodi.
La Carta del Carnaro e le Internazionali: a ciascuno il suo 
Va aggiunto che alcuni tra gli articoli più rimarchevoli e potenzialmente sospetti di massonismo acuto della Carta del Carnaro non si debbono affatto a De Ambris ma proprio a d'Annunzio. Fu il Vate a scrivere ex novo l'articolo XIV  (“La vita è bella...; il lavoro, anche il più umile, anche il più oscuro, se sia bene eseguito, tende alla bellezza ed orna il mondo”), il LXIII  (insegnamento del canto corale e dell'ornato) e il memorabile LXIV: “Alle chiare pareti delle scuole aerate non convengono emblemi di religione né figure di parte politica. Le scuole  pubbliche accolgono i seguaci di tutte le confessioni religiose. I credenti di tutte le fedi, e quelli che possono vivere senza altare e senza dio. Perfettamente rispettata è la libertà di coscienza. E ciascuno può fare la sua preghiera tacita....”. Era l'estate del 1920. 
Lì d'Annunzio andò “oltre” il mondo a lui contemporaneo, fatto di fondamentalismi e di estremismi, un po' come l'attuale. Fu il Profeta della libertà assoluta. L'Italia ancora  arranca. Anzi sprofonda nelle sabbie mobili del neo-clericalismo, tra ambientalismo pseudo-evangelico e fondamentalismo costumale arcaico, basato sulla retrocessione della donna ad animale domestico. 
Il paradosso di Fiume sta nel fatto che voleva essere fulcro di una Internazionale. Ma ve ne erano almeno altre tre: la “rossa”, cioè la cosiddetta Terza internazionale varata a Mosca da Lenin completa di un “catechismo” di venti punti programmatici (cui si aggiunse l'incompatibilità tra i partiti comunisti e le logge); l' “azzurra”, formata dalla  catena d'unione tra la Società delle Nazioni e le comunità massoniche; e la chiesa cattolica apostolica romana, forte di una struttura universale e piramidale che non trova confronto con quella anglicana, né con i caleidoscopi delle chiese evangeliche e riformate né infine con i patriarcati autocefalici delle chiese ortodosse, dai legami gerarchici e disciplinari assai labili. Si potrebbe aggiungere l'internazionale del capitale finanziario, dominatore sull'industria, se non si corresse il rischio si sconfinare nel labirinto visionario di monomaniaci quali Malinsky e De Poncins autori di “La guerra occulta: armi e fasi dell'attacco ebraico-massonico alla tradizione europea”.
Il Legionario forte e bello, ma un po' superato
Però anche Fiume ebbe i suoi limiti. Oggi si cerca di coglierne la modernità, il “futuribile”. Ma ebbe i suoi lati oscuri e molti infantilismi. Basti d'esempio la visione superomistica venata di paleo-maschilismo acuto, avallata dal proemio dannunziano all' “Ordinamento  dell'esercito fiumano”. Il “legionario” non poteva dirsi “compiuto” se  non risultava esperto “nel correre, nello spiccar salti, nello scagliar pietre, nel levare pesi, nel fare ai pugni, nel lottare, nel remare, nel nuotare, nel cavalcare qualunque cavalcatura, nel montare su qualunque albero o trave, nel superare muri e cancelli, nell'inerpicarsi fino a una finestra, a una gronda, a un tetto, a un fumaiolo; nel gettarsi giù da un'altezza più disperata; nello spalancare una porta con un colpo di spalla, nell'imitare le voci degli uomini e delle bestie, nell'intraprendere con le mani e coi piedi la più ripida delle rocce, nel salire e nel calarsi per una fune, nel passare attraverso le fiamme salvo, nell'assottigliarsi per passare attraverso  spiragli e fenditure, nel raggomitolarsi per restar dentro al più stretto nascondiglio in agguato, nel fischiare forte e nel variare il fischio per segnali, nell'imitare le voci degli uomini e delle bestie, nel cantare, nel sonare, nel ballare”. Un “guerriero” che andava bene per fare scampagnate ma un tantinello  superato dal progresso della tecnologia bellica e dal corso della storia. Alle spalle, come detto, l'Europa aveva la Grande Guerra; dinnanzi a sé la fase più cruda dei totalitarismi e la seconda guerra mondiale: la guerra dei materiali, la scienza, la pianificazione del dominio tecnologico. L' “atomica”.  Il “ceffone” non bastava più. L' “ardito” aveva ben altri tavoli sui quali mostrare i suoi requisiti, se ne aveva. I muscoli passano, il cervello rimane. Valeva per il 1920, vale oggi.
Nell'ultimo articolo della Carta del Carnaro per una città dal clima severo qual è Fiume d'Annunzio sognò l' “edificazione di una Rotonda capace di almeno diecimila uditori, fornita di gradinate comode per il popolo e d'una vasta fossa per l'orchestra e per il coro. Le grandi celebrazioni corali e orchestrali sono totalmente gratuite come dai Padri delle Chiesa è detto delle grazie di Dio”. Rimane da fare. Chissà? E' un'idea per il 2020, quando Fiume sarà Capitale europea della Cultura.
Nel drammatico secolo scorso a Fiume il Vento è andato e venuto. Sul golfo riecheggia il verbo di Giovanni Evangelista: “Io sono una voce che grida nel deserto...”. Si sente il bisogno profondo di solitudine, di meditazione, di risanare le ferite. Lo scrisse il “fratello” Salvatore Quasimodo, rievocato da Enrico Tiozzo  in “Il Premio Nobel per la letteratura” (ed.Aracne): “Ognuno sta solo/ sul cuore della terra/ trafitto da un raggio di sole/ed è subito sera”. Cent'anni dopo, la Carta del Carnaro va riletta al crepuscolo, a voce bassa. Solo così si intravvede meglio l'avvento della Luce.
Aldo A. Mola 

NO GERMANIA, NO IMPERO
 DUE MILLENNI DI GUERRE, AMICIZIA, PASSIONI E  RIVALSE. L'AFFINITÀ ITALO-GERMANICA
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 22 Settembre 2019, pagg. 1 e 11.
 

Massimo D'Azeglio, la battaglia di LegnanoQuando il braidese Giovanni Piumati insegnava italiano a Guglielmo II 
Tra Otto e Novecento le relazioni amichevoli tra il Regno d'Italia e l'Impero di Germania raggiunsero l'apice: scambi economici e soprattutto fitto dialogo culturale, con riflessi anche sulle Forze Armate, particolarmente quando Capo di stato maggiore dell'esercito fu Alberto Pollio (Caserta, 1852-Torino, 1914). Filosofi, letterati e artisti italiani erano di casa nelle Università germaniche e a loro volta i sommi studiosi tedeschi si facevano un punto d'onore di dialogare con Giosue Carducci, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, traduttore di Kant. Anche i piemontesi fecero la loro parte. Fra i molti, Giovanni Piumati (Bra, 1850-Viù, 1915), docente di letteratura italiana a Colonia e a Bonn, tenne lezioni di italiano al futuro imperatore Guglielmo II, che, grato e ammirato, lo volle precettore dei figli. Iniziato massone nella prestigiosa loggia “Rienzi” di Roma, Piumati curò l'edizione del Codice Atlantico di Leonardo da Vinci su mandato dei Lincei e introdusse nella loggia “Cavour” di Torino il concittadino Beniamino Manzone, pioniere della storia del Risorgimento. L'Italia di allora non confondeva Berlino con Vienna: l'irredentismo era una partita aperta esclusivamente con Vienna. Alla Germania, invece, l'Italia doveva Venezia e, indirettamente, Roma, ove Raffaele Cadorna aveva fatto irruzione il 20 settembre 1870, dopo la sconfitta di Napoleone III a Sédan e la proclamazione della Terza Repubblica a Parigi. 
Ma in passato l'immagine della “Germania” non era stato così lineare nella cultura “patriottica” italiana.  
Da Cesare  al Kaiser 
“Sta Federico imperatore in Como...”. È l'incipit della “Canzone di Legnano” scritta dall'insuperabile Giosue Carducci nel 1876 e limata sino al 1879. Il “maestro e Vate della Terza Italia” omise che erano i comaschi prima e più che Barbarossa a volere la distruzione di Milano. Già  nel 1872 aveva fatto ammenda anticipata dei suoi successivi e un po' scolastici entusiasmi per il “Carroccio”. In “Su i campi di Marengo” aveva inneggiato alla vittoria sulla “lega lombarda” dell'“imperator romano/ Del divo Giulio erede, e successor di Traiano”. Sentiti “gli squilli/ de le trombe teutoniche fra il Tanaro ed il Po/ in cospetto a l'aquila gli animi ed i vessilli/ d'Italia s'inchinarono e Cesare passò”. Era l'Imperatore. Originariamente duca di Svevia, pacificatore della lunga diatriba tra guelfi e ghibellini, Federico I Staufen, Barbarossa, era il Kaiser, la reincarnazione dell'Imperatore romano. Con la pace di Costanza (1183) egli infine pattuì il modus vivendi tra Sacro romano impero e Comuni. Deposta la veronica di mazziniano e sempre ammiratore di Garibaldi (“Italia e Vittorio Emanuele”), storico e politico ancor più che poeta, Carducci insegnò che il legame tra Italia e Germania non nasce da capricci. È nella storia. È il fulcro dell'Europa. Ma non è l'“asse Roma-Berlino”, errata formula in uso ottant'anni addietro. Nell' epoca evocata da Carducci , l'attuale capitale della Germania era un villaggio insignificante. L'Imperatore, invece, era insegna sacra della grande storia d'Europa, sintesi tra quanto rimaneva della Romanità e la cristianità d'Occidente.  
L'equivoca formula Roma-Berlino. Gli Ottoni e la Renovatio Imperii Romanorum
Roma è l'Italia, Berlino è solo una (e recente) delle tante città importanti dell'arcipelago tedesco, capitale della marca di Brandeburgo dal 1451 (quando in Italia svettavano Milano, Venezia, Firenze, Napoli, Palermo...) e del regno di Prussia dal 1701, che anticipò di un decennio quello dei Savoia re di Sicilia e poi di Sardegna. La Germania non è la borussica Berlino: è il desiderio millenario dei tedeschi di essere anch'essi Romani. A tutto vantaggio dell'Italia. 
Furono Giulio Cesare e Augusto a “cercare” la Germania. Lo sterminio delle legioni comandate da Varo nella selva di Teutoburgo lasciò il segno. Ci riprovò Domiziano nei decenni seguenti, sino a occupare i Campi Decumati, che pochi ricordano. Lì l'Impero romano si fermò e si trincerò, come fece col vallo Adriano fra Britannia e Caledonia e altre difese verso un “nord” che andava arginato con muraglie complete di torri armate. Bastavano truppe scelte anziché costosissime legioni stanziali. Il pericolo per l'Impero romano non arrivava dalla futura Inghilterra né dalla Germania ma da est: Goti, Quadi, Marcomanni e via continuando sino ai Vandali. Il visigoto Alarico, che non aveva nulla a che fare con i teutoni della Germania propriamente detta, penetrò in Italia come un coltello nel burro. Sconfitto da Stilicone a Pollenzo (oggi Cherasco, sul Tanaro, nel Cuneese) e a Verona, nel 410 saccheggiò Roma. Un colpo al cuore non solo dei pagani ma anche dei cristiani. Poi fu la volta di Attila, “re” degli unni, fermato da Enzo con le armi e da papa Leone Magno con lo Spirito. Neppure lui era “tedesco”. Come lo era solo per vago ceppo etnico il goto Genserico, che dall'“Africa” assalì Roma e la devastò una seconda volta nel 455. Infine vennero gli Eruli di Odoacre, che depose Romolo Augustolo. I tedeschi hanno costituito la continuità della Germania. Gli altri popoli erratici nominalmente germanici, ignari di agricoltura, artigianato e di costruzione di  città, sono stati sommersi dalle sabbie del tempo. Quanti tunisini si considerano discendenti di Genserico?  Quanti spagnoli si sentono visigoti o vandali?   
Il ventre molle è là, sulle Alpi Orientali, non sulla linea dalle Marittime al Brennero e all'Isonzo. Da quel fronte dilagarono gli Ostrogoti di Teodorico, i Longobardi di Alboino... Da lì passarono anche Avari (ne scrisse Paolo Diacono in pagine che ancor oggi fanno rabbrividire), Magiari, Slavi e via continuando, mentre il Mezzogiorno era preda di “saraceni”, la Sicilia dominio arabo e gli abitanti della Sardegna lasciavano le indifendibili coste per arroccarsi tra i sassi, nuragici nei millenni.
Dopo il saccheggio di Montecassino e di Ostia, Roma si chiuse nelle Mura Leonine, un cerchio modestissimo rispetto alle maestose Aureliane: dà la misura di come si fosse ridotta la Caput Mundi. I Bizantini avevano fermato gli Ostrogoti con la guerra logorante capitanata da Narsete e Belisario: un rullo compressore sulla popolazione che ne fece le spese. L'Italia meridionale venne ridotta a macerie desolanti. Ma Bisanzio aveva altre priorità: difendere il suo settentrione dalle popolazioni “barbariche”, spingendole verso ovest. Più ne andavano alla volta di Italia, Gallia, penisola iberica, meno ne insidiavano il confine settentrionale. Inoltre la missione di Costantinopoli era ormai fermare l'avanzata degli arabi, dell'islam, che in mezzo secolo aveva soggiogato l'intera Africa settentrionale e la Spagna meridionale, aveva fatto irruzione in “Francia” (fu fermata a Poitiers) e dove arrivava faceva il deserto. Massacri come ancora oggi ne avvengono in molti paesi lacerati da diverse “osservanze” islamiche e  come in Europa accadde nei secoli passati. 
Neppure Carlo Magno poté eliminarne la minaccia mortale. Annientò spietatamente Avari e Sassoni e si spinse a Roma per la sua incoronazione: Sacro romano imperatore. Senza Roma non c'era Corona imperiale. Ma il suo impero andò in frantumi e nell'Italia centro-meridionale il caos rimase più o meno qual era. Un secolo e mezzo dopo (centocinquant'anni voglion dire almeno cinque generazioni dell'epoca) furono Ottone I di Sassonia e i suoi immediati successori (figlio e nipote) a ridare splendore all'Impero, comunemente detto “Germanico”. Nel frattempo gli Ungari erano arrivati in Lombardia, i Saraceni avevano incendiato Torino, le coste erano di chi ci arrivava. Berengario del Friuli, Ugo di Provenza, Berengario d'Ivrea avevano alzato le insegne di “re d'Italia”. Ma fu appunto Ottone I a farsi incoronare Sacro Romano Imperatore e ad affrontare il vero pegno: la liberazione del Mezzogiorno d'Italia dagli islamici, quali ne fossero i referenti “politici”, d'Oltremare e d'entro terra, collusi. Il progetto aveva un'unica soluzione: il patto di ferro con Bisanzio, il fronte comune della cristianità. Nel 966 Ottone I fece incoronare suo figlio “collega nell'impero” (come avveniva nei migliori tempi della Romanità) e gli ottenne in sposa la bizantina Teofano (972). Era il sogno di un nuovo corso per lo spazio euro-mediterraneo: l'unità contro gli assedianti. Ottone II si espose in prima persona. Nella battaglia navale di Capo Cotrone (Rossano, in Calabria) venne sconfitto (982). Si salvò a nuoto. Morì tre anni dopo mentre preparava una nuova offensiva per liberare il Mezzogiorno dagli islamici e un'altra per respingere gli Slavi sul confine orientale. Il figlio, Ottone III (980-1002), su impulso del suo maestro, Gerberto di Aurillac (poi papa Silvestro II), annunciò la Renovatio Imperii Romanorom, incardinata sul primato della Città Eterna. Con tutto il rispetto che si deve loro, tra i vari pretendenti “locali”, precedenti e successivi, alla corona d'Italia (è il caso del meritorio Arduino d'Ivrea, una tantum episcopicida), l'unico a pensare e a parlare in termini autenticamente universali, “romani”, fu proprio il sassone-bizantino Ottone III di Sassonia.
Gli Staufen: impero italo-germanico “fronte Sud”. 
Ci volle un altro secolo e mezzo prima che le insegne dell'Impero tornassero a guidare l'”idea” di Roma. Dopo le logoranti dispute sull’investitura dei vescovi-conti (chiusa con il concordato di Worms nel 1122 a vantaggio di “Piero” (come nell'Ottocento scrivevano Antonio Fusinato e Carducci), oggettivamente alternativo a Cesare). Avvenne con Federico I di Svevia (1152-1190). L'imperatore in Italia ha goduto di pessima fama, per la sua lunga lotta contro i comuni, sette secoli dopo assunta quale alba del Risorgimento e della lotta per l'indipendenza nazionale. La “propaganda” capovolse la storia. Vi concorsero Massimo d'Azeglio, quando ancora si dedicava alla pittura e alla narrativa, e l'abate di Montecassino, Luigi Tosti, primo “storico” della Lega Lombarda. La realtà è del tutto diversa. All'epoca di Federico Barbarossa da mezzo secolo erano iniziate le crociate, la conquista della Terra Santa, poco gradita a Bisanzio. “Oltremare” l'Europa occidentale mostrò tutti i suoi limiti. I re di Francia, Inghilterra e altri insigni “capitani” (Corrado di Monferrato) mirarono al proprio interesse. Gli “stati” sorti dalle crociate ebbero piedi di argilla. Anche gli Ordini religioso-cavallereschi, dai Gerosolimitani ai Templari stessi, non ebbero un vero progetto unitario. Gli unici a “pensare in grande” rimasero Federico I e suo nipote, Federico II di Svevia, sepolto nella cattedrale di Palermo: sintesi della forza militare dei Normanni, della Germania e della Romanità. L'Impero era anzitutto l'Italia. E fu in Italia che si consumarono le battaglie decisive: la sconfitta di Re Enzo, catturato e imprigionato a vita, di Manfredi, morto in battaglia, e di Corradino di Svevia, decapitato su ordine del francese Carlo d'Angiò. Il nuovo re di Napoli era forse un difensore dell'idea di Italia? Federico II Staufen, che indossando la dalmatica ascoltava messa sfogliando il Corano, e i suoi discendenti erano forse “tedeschi” o uomini “universali”? Va aggiunto che, coperti sul fianco dall'attivismo mediterraneo di Federico II, i cristiani di Spagna poterono accelerare la riconquista.
Dante Alighieri per Arrigo VII di Lussemburgo
L'idea di Sacro Romano Impero sopravvisse alla catastrofe della Casa di Svevia. Ne scrisse Dante Alighieri, che sperò nella “missione” dello sfortunato Arrigo VII di Lussemburgo. Nel 2021 quale “Dante” verrà narrato? Come osservò Carducci quando rifiutò la “cattedra dantesca” propostagli da Francesco Crispi e da Adriano Lemmi, gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Alighieri pensava in “medievale”: Impero e Papato. Duecento anni dopo, al termine delle catastrofiche guerre franco-ispaniche per l'egemonia sull'Europa, l'Italia finì sotto dominio germanico per interposta Spagna, da Carlo V d'Asburgo e suoi successori, sino a Filippo V di Borbone. Preda della riforma scatenata da Martin Lutero, degli evangelici seguaci di Calvino e di altri turbamenti psico-sociali con paramenti religiosi dottrinari (anabattisti, ecc.), la Germania uscì di scena. La Guerra dei Trent'anni la polverizzò. In Italia nessuno se ne occupò più. Imperatore lontano (e irrilevante), briglie sciolte. A riportare i germanofoni in Italia furono le Guerre di Successione del Settecento. Torino fu salvata da Eugenio di Savoia, che non giunse da solo contro le truppe francesi ma con corpi di élite dell'Impero. Nel 1714 Lombardia e regno di Napoli passarono a Vienna. Dopo vari cambi di dinastie, all'epoca usuali, i Borbone ebbero il Mezzogiorno e Parma-Piacenza. Vienna dominò Milano, il Granducato di Toscana e Modena. Venezia ormai sprofondava nell'ozio. Mentre Parigi proteggeva i “lumi”anticlericali e libertini lo Stato pontificio aveva nei cattolici Asburgo l'unico vero baluardo. Maria Teresa d'Asburgo ancora oggi è venerata quale sovrana più illuminata di Voltaire. Suo marito, il pacatissimo Francesco Stefano di Lorena, pur massone, altrettanto.
La Rivoluzione del 1789 e la successiva età franco-napoleonica sconvolsero i punti cardinali. In  riposta agli equilibri imposti dal Congresso di Vienna (1815) e dalla Santa Alleanza i “patrioti” italiani furono naturaliter antiasburgici, da Federico Confalonieri, iniziato massone dal fratello del re d'Inghilterra, a Silvio Pellico. Nacque confusione tra Vienna e la Germania, a sua volta divisa tra “grande” e “piccola”. Presto dimenticato il capolavoro di Madame de Stael, De l'Allemagne, la letteratura risorgimentale fu compattamente antitedesca, per l'arbitraria identificazione tra lingua, nazione e potere politico (e “sangue” o “razza”, come al tempo di diceva). Nel famoso  “Sant'Ambrogio” Giuseppe Giusti inneggiò ai croati, “Povera gente! Lontana da' suoi,/ in un paese che qui le vuol male”. Non prevedeva affatto che l'Impero d'Austria (non più Sacro e Romano) era l'unico freno contro gli appetiti atavici di popoli che, appena l'avessero potuto, avrebbero fatto di più e di peggio a danni degli altri, a cominciare dagli slavi, del nord e del sud.
Superfluo ricordare che l'Italia deve Venezia alla vittoria della Prussia sull'Austria nel 1866, quando purtroppo essa dovette registrare un insuccesso a Custoza e una sconfitta a Lissa. Dopo la vittoria su Napoleone III a Sedan e la proclamazione dell'Impero di Germania nel Salone degli Specchi del Castello di Versailles (gennaio 1871), grati per la neutralità dell'anno precedente i Kaiser visitarono ripetutamente i Re d'Italia a Roma. Anche senza il colpo di mano francese su Tunisi (1881) la linea era chiara. L'aveva anticipata Francesco Crispi in visita a Bismarck nel 1877, mentre maturava l'intesa dei Tre Imperatori (Berlino, Vienna, San Pietroburgo) contro l'anarchia e la repubblicanizzazione” dell'Europa, di impronta francese.
La seconda metà dell'Ottocento fu la stagione d'oro dell'amicizia italo-germanica. Da Oltralpe in Italia giunsero filosofia e scienze, tecnica e filologia... Mommsen e Gregorovius rinnovarono alla radice gli studi di romanistica e medievistica. Carducci imparava il tedesco dal veneziano Emilio Teza. I politici italiani di spicco capirono bene che la Germania era la garanzia contro ogni rivalsa offensiva di Vienna ai danni dell'Italia; e Roma si concesse il lusso di tener le distanze da Parigi, di liberarsi dalla francofilia d'età risorgimentale. Giolitti proseguì nel solco di Crispi. Non si lasciò mai intenerire da Vienna. Ammirò invece la Germania di Bernhard von Bulow, ove il socialismo riformistico prosperava all'ombra dell'industrializzazione e della modernizzazione della vita quotidiana: un modello per l'Italia, ancora così diversificata al suo interno. 
I voltafaccia del Novecento e le loro ripercussioni sul presente 
La catastrofe venne con la firma dell'arrangement di Londra del 26 aprile 1915, che impegnò Roma a entrare in guerra entro trenta giorni contro tutti i nemici dell'Intesa. Il governo Salandra-Sonnino aveva qualche fondato argomento per combattere la duplice monarchia asburgica. Non ne aveva alcuno di veramente credibile per dichiarare guerra alla Germania: nessun contenzioso territoriale, economico, né gare nei domini coloniali. Le motivazioni addotte dal governo Boselli nell'agosto 1916, redatte in tre diverse versioni, furono e rimangono sconcertanti per la loro fatuità. 
Iniziò così quella nuova “guerra dei trent'anni” che dal 1938 vide Roma sempre più appiattita sulla strategia politico-militare del Terzo Reich germanico di Hitler, rafforzato dall'annessione dell'Austria. Ostile contro la perfida Albione dei cinque pasti al giorno e contro la Francia demo-pluto-massonica e socialista l'Italia di Mussolini finì per allearsi con il “nemico storico” del secolo precedente. Tornò a confondere la parte con il tutto, il nazismo con la Germania millenaria, che era anche civiltà romana, umanesimo, universalità: le coreografie naziste di Norimberga accecarono tanti italiani, che si proposero di imitarle. 
Ottant'anni dopo sentimenti e risentimenti continuano a oscurare il giudizio della storiografia. Eppure non dovrebbe essere difficile capire che l'Italia ha tutto da guadagnare dall'amicizia (sia pure asimmetrica) con la Germania, proprio per sottrarsi all'invadente influenza francese sulla sua economia e per contenere la tracotante ostilità degli Stati sorti dalla disgregazione dell'impero asburgico e della Jugoslavia. Può bilanciarne l'ambizione a dominare l'Adriatico da Trieste alla Grecia solo passando per Berlino, su un piano di confronto franco, che lasci alle spalle la ruggine del recente passato, l'eco di quanti (Luigi Federzoni e un famoso spretato, capofila del razzismo in Italia) un secolo addietro deploravano l'assalto tedesco all'Italia per alimentare l'odio contro il “brutale imperialismo teutonico”.
Meno ancora che nei secoli andati, il possibile “progetto Italia” del Terzo Millennio non può reggere su fantasie propagandistiche e promesse illusorie. Deve avere fondamenta nella cultura, nella capacità produttiva, nella stabilità se non riduzione del debito pubblico. Diversamente è solo retorica.
Aldo A. Mola

LEGIONARI FIUMANI
 PER I “LUMI” E LA FRATELLANZA DEI POPOLI
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 15 Settembre 2019, pagg. 1 e 11.
 

Gabriele D'Annunzio - FiumeLegionari in cerca di un lavoro qualunque
“Compagni legionari, Vengo a Voi con queste mie poche righe per farvi sapere che sono ancora legionario fedele come nel Natale 1920. Io dopo che sono venuto da Fiume non o più un giorno tranquillo senza lavoro prego Voi che siete in torino di cercarmi un lavoro da qualunque sia lavoro in fabrica da cameriere. Voi che siete legionari fedeli fatemi una risposta su questo. Un saluto fedele da un legionario che a dato la vita per la causa fiumana”. Così scriveva da Ceva Giovanni Vaniglia  il 21 febbraio 1922 alla “Federazione Legionari Fiumani di Torino (via Urbano Ratazzi, n° 11)”, affidando il messaggio senza troppi pudori a una cartolina postale. 
Il 13 luglio, ricevute per posta la tessera associativa e la medaglia di Ronchi, il cuneese Celeste Giovanni Rosso, parimenti legionario, a sua volta scrisse a Giacomo Treves, presidente della sezione torinese della Federazione: “E mi a fatto molto piacere nel sapere che lei se ne interessava di me per trovarmi una occupazione la quale mi fa molto piacere. Sei mesi fa avevo fatto domanda alle ferovie dello Stato come guardia di Vigilanza ma non oh mai avuto risposta. E adesso qui a Cuneo non si trova niente del lavoro. Percio spero nella sua gentile persona che mi trovera una occupazione”. Rosso, sergente a Fiume nella Compagnia “D'Annunzio”, in una precedente lettera aveva narrato che, “ragazzo del '99”, aveva combattuto nella “Guerra contro l'Austria” ed era stato ferito il 16 giugno 1918, all'inizio della Battaglia del Solstizio. Tenne a precisare a Treves: “Oh una medaglia D'argento”. Di  professione manovale, perduti il padre e la madre e senza lavoro, gli inviò quattro lire per la tessera sociale e “per la piccola medaglia di Ronchi”. Si affidava a Treves, corpo e anima degli italo-fiumani d'Italia, promotore dell' “impresa”. Le sue “Carte” sono una ricca miniera. 
Quale  progetto? Il silenzio del Re. 
 Quando Vaniglia e Rosso, stretti dalla fame, scrivevano a Treves, eran trascorsi un paio d'anni dal “Natale di sangue” del 1920. L'Italia era molto diversa: ormai a un passo dalla crisi del sistema. A parte una eletta schiera di personalità di spicco (ufficiali, artisti, letterati, sindacalisti, venturieri...) col gennaio 1921 la generalità dei legionari era tornata nei ranghi di una quotidianità per i più dolente. Tra l'autunno del 1919 e l'estate seguente a Fiume si erano ammassati da 7 a 10.000 militari e volontari, molti per scelta motivata, altri al traino dell'entusiasmo dei superiori. È superfluo ricordare le tappe del percorso accidentato dell'“impresa”. Mentre Riccardo Zanella puntava su una città-stato autonoma sulla traccia dell'antico “corpus separatum” e dei privilegi riconosciuti a Fiume dall'Impero asburgico, alcuni dal 30 ottobre 1918 ne chiesero l'annessione all'Italia. Ruolo eminente vi ebbero il sindaco Antonio Vio, affiliato alla loggia massonica “Sirius”, attiva dal 1901, e, di seguito, la loggia “Guglielmo Oberdan”, fondata a Trieste dal torinese Giacomo Treves (1882-1947). Il 12 settembre Gabriele d'Annunzio d'intesa proprio con lui guidò a Fiume reparti militari che, qualunque giudizio si voglia esprimere sulle loro motivazioni ideali, a quel modo vennero meno alla consegna e sotto il profilo dei codici risultarono “sediziosi”, tanto a giudizio di Giovanni Giolitti quanto di Luigi Cadorna, due personalità apparentemente lontanissime ma unite nel senso dello Stato. Di sicuro Vittorio Emanuele III (di cui nessuno si è occupato nel Centenario) fu puntualmente aggiornato sugli eventi da parte dei suoi servizi informativi. Il Re non interferì sul loro corso: paralleli alla condotta del governo, avrebbero potuto propiziare una diversa inclinazione delle Cancellerie estere mentre rimaneva aperta la stipula dei trattati di pace con l'Ungheria, la Bulgaria e la Turchia (Trianon, molto importante proprio con riferimento a Fiume; Neuilly e Sèvres). Dieci giorni dopo la “marcia di Ronchi” il Sovrano convocò il Consiglio della Corona che il 25 si tradusse in un nulla di fatto. Dopo il primo afflusso di reparti in assetto di guerra, si susseguirono altri arrivi alla spicciolata. A fine ottobre il gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Domizio Torrigiani, recatosi appositamente a Trieste, negò nettamente ogni sostegno alla ventilata marcia di legionari fiumani su Roma. Fiume rimase un laboratorio, ove a fianco di d'Annunzio si alternarono militari (come Giovanni Host-Venturi), politici (Giovanni Giuriati) e utopisti corrivi a volere il mondo a loro immagine e somiglianza come il Mostro dell'Apocalisse. Dapprima venne inventata la Lega dei popoli oppressi (brutta copia di quella ipotizzata nell'aprile 1918 a Roma), poi fu promulgata la Carta del Carnaro, scritta dall'anarco-sindacalista Alceste De Ambris e volta in bello stile dal Vate, che assunse la Reggenza di Fiume, una città ove circolavano valute d'ogni genere, abbondavano generi di lusso ma scarseggiavano viveri.
Wilson: se cediamo Fiume chiederanno New York
Quando accettò/assunse il comando dell'impresa, D'Annunzio non aveva alcun progetto politico definito. Si donò a Fiume e (fedele al motto “io ho quel che ho donato”) ne prese il comando. Fu il  gesto sublime di un artista impolitico uso a sfidare la sorte, come tante volte aveva fatto nel corso della vita e specialmente nella Grande Guerra, con ammirevole coraggio. Ma, come nel 1915 aveva osservato Giolitti, per sentimento ognuno può gettare la propria vita, non quella di un Paese. In realtà i promotori dell'impresa contavano sull'annessione immediata in risposta al colpo di mano. Però il governo di Roma non era assolutamente in grado di proclamarla. L'Italia doveva fare i conti con l'Europa di allora e soprattutto con gli Stati Uniti d'America, il cui presidente, Woodrow Wilson, era nettamente contrario a quelle che riteneva richieste pretestuose. Osservò gelidamente che se all'Italia fosse stata concessa Fiume perché abitata “anche” da italofoni allo stesso titolo Roma avrebbe chiesto New York. Dopo una serie di “testa-coda” ricostruiti scrupolosamente da  Giovanni Stelli in “Storia di Fiume dall'origine ai giorni nostri” (Ed. Biblioteca dell'Immagine), d'Annunzio, Comandante prima, Reggente poi, al termine di una battaglia che costò quasi cinquanta morti e duecento feriti tra militari italiani e legionari il 18 gennaio lasciò Fiume senza particolare enfasi, preceduto da 47 casse su due camion, come ricorda Giordano Bruno Guerri in “Disobbedisco” (Mondadori). Il 28 gennaio approdò a Gardone, sceltogli da Tom Antongini. Lo trasformò nel Vittoriale degli Italiani,  fondendo il proprio estro col genio dell'architetto Gian Carlo Maroni.  
La rete del Fratello Giacomo Treves
E i legionari? I meno fortunati furono proprio i giovani “di leva”, delle classi 1900-1901, che a Fiume erano andati sicuri che la “città di vita” avrebbe mutato l'Italia, l'Europa intera e le loro condizioni individuali, ma poi ci vissero male, disgustati da episodi di criminalità e dal palese contrasto tra lo sfarzo di alcuni e le ristrettezze dei più. Tornarono ai luoghi d'origine, dispersi nel vortice di un'Italia alle prese con tensioni sociali, disoccupazione, scioperi, scontri anche sanguinosi fra opposte fazioni. A Fiume non si avvertì la drammaticità dell'occupazione delle fabbriche nell'Italia nord-occidentale, scattata nel settembre 1920, in coincidenza con l'avanzata dell'Armata sovietica verso la Polonia, nella prospettiva della rivoluzione generale, dall'Europa orientale alla penisola iberica. Chiusa la grande avventura, i “fiumani di complemento” non dimenticarono i mesi della grande illusione, tra riti patriottici, privazioni, delusioni. “Muti e silenziosi” (come furono ritratti da un legionario novarese il 15 luglio 1922 al presidente della loro sezione piemontesi) essi non furono dimenticati da quanti, come Giacomo Treves, assunta all'origine la responsabilità dell'impresa, non ne rinnegarono mai il valore ideale.
Gli “italo-fiumani” non si trincerarono nel reducismo, in racconti inter pocula dell'esperienza vissuta. Continuarono a sentirsi quali erano stati e si ritenevano: “Sempre pronti”. Se ne possono individuare tre diverse stagioni. In primo luogo la Federazione Nazionale Legionari Fiumani, ramificata in tutta Italia con lo scopo di annodare i legami tra quanti avevano donato parte della loro vita a un ghiribizzo senza capo né coda. Proprio Treves assunse il compito di tirare le fila di una rete che doveva annodare quanti fossero ancora disposti a camminare sull'esile filo della lotta per la liberazione e la fratellanza tra le nazioni in cerca di Stato (vi era anche il suo “focolare ebraico” in Palestina) e dei principi irrinunciabili di libertà, uguaglianza e fratellanza. 
Nel dicembre 1921, un anno dopo la tragica fine della Reggenza, Treves raccolse un manipolo di sodali che dichiararono di appartenere alla “Squadra d'Annunzio” e giurarono perciò di adempiere il loro dovere “e mantenere segreto” su quanto avessero appreso. Era un tipico giuramento massonico.
Treves aveva varie frecce al suo arco: anzitutto i dannunziani veri, quelli della prima ora, sempre fedeli al Comandante, un progetto politico/culturale (la Unione spirituale dannunziana) e la massoneria. Le scoccò anno dopo anno. Non raggiunse l'obiettivo, ma conservò intatta la sua “missione”: tenere fermamente separata l'“impresa” da chi mirò ad appropriarsene, a cominciare dai fascisti. Va ricordato a quanti ancor oggi confondono l'impresa di Fiume col fascismo, come si è veduto con le proteste della Croazia contro lo scoprimento di un d'Annunzio seduto, libro in mano, in una piazza di Trieste nel centenario della marcia di Ronchi.  
Anche Enrico Togliatti, fratello del “Migliore”, tra i fiumani Piemontesi
La vicenda fiumana è tanto più complessa e va studiata documenti alla mano.
Sin dalla primavera 1910 gli italo-fiumani ebbero in Piemonte uno dei loro punti di forza. Lo prova il numero unico “Per la notte di Ronchi e per l'alba del Carnaro. Alalà” pubblicato il 12 settembre 1920 dal Comitato Pro Fiume e Dalmazia, fondato il 14 aprile e divenuto referente ufficiale della Reggenza il 9 settembre. Presieduto dal generale Angelo Chiarle, il Comitato comprendeva la contessa Sofia di Bricherasio, Nino Daniele, addetto alla propaganda, e un folto numero di militari, aristocratici, liberi professionisti tra i quali Amalia d'Incisa, Alessandra Medici del Vascello, Margherita di Mirafiore, la baronessa Daviso di Charvensod, Gabriellino d'Annunzio, Giuseppe Vidari, il conte Barbavara di Gravellona, Gustavo Talmone... Tra le “adesioni alla causa” pubblicò i messaggi di Ildegarde Occella, Mario Gioda (segretario del Fascio), Eleonora Contin Ferria, presidente delle Madri dei Combattenti, Daniele Bertacchi, nazionalista e futuro deputato fascista, Luigi Sturani. Alla sottoscrizione “per la causa” aderirono con tributi di varia entità centinaia di dannunziani tra i quali Vittorio Cian, Attilio Begey, Mario Bersano, Barbara Allason, Enrico Togliatti, fratello minore del più noto Palmiro, Elia Rossi Passavanti, che a Fiume scoprì Margherita Incisa di Camerana e, sorprendentemente, la loggia Propaganda Massonica di Torino, omonima ma non identica a quella di Roma e tuttavia titolata a parlare per l'Ordine.
Tramite suoi emissari, il Grande Oriente ebbe ruolo precipuo nella promozione del mito di Fiume e nella sua salvaguardia da abusi impropri. Vi dedicò anni Giacomo Treves, iniziato alla “Ausonia” di Torino il 17 giugno 1913. Anzitutto egli concorse a dar vita alla Federazione Nazionale Legionari fiumani. Tra le sue carte si rinviene l'elenco completo dei componenti. Il decollo avvenne tra mille difficoltà, a cominciare dalla provvista di “divise” e di “segni distintivi” a prezzi di favore. Nel passaggio da uno all'altro “segretario”, lo Spirito dell'Uroburo e le Vaghe Stelle dell'Orsa fecero i conti con la “consegna” di timbri, matite, gomme, cianfrusaglie, debitamente rendicontate. 
Poi tornò a splendere il sole, con la costituzione dell’Unione spirituale dannunziana, costituita su proposta di Eugenio Coselschi per fondere la Federazione dei Legionari e quella degli Arditi, ormai agonizzanti. Suo segretario fu il capitano Umberto Calosci. Contò subito su sezioni regionali. In Piemonte ebbe quelle di Torino (segretario Giacomo Treves), Novara (Aronne Manera), Alessandria (Aleardo Borghi, che però manco ritirò le tessere da distribuire ai soci) e Saluzzo per la provincia di Cuneo (Raffaele Malatesta). In Liguria ebbe segreterie a Genova (la cui sezione però si dichiarò autonoma) e a Porto Maurizio.
Le distanze dei Legionari dal fascismo...
Da quasi un secolo dura l'interrogativo sulla connessione logico-cronologica tra impresa di Fiume e avvento del governo Mussolini, tra i rituali sperimentati dal Vate e i discorsi del duce alle “folle oceaniche”. D'Annunzio fu il Giovanni Battista del regime? I suoi seguaci si accodarono al fascismo? Sia la Federazione Nazionale dei Legionari sia l’Unione Spirituale dannunziana documentano una realtà del tutto diversa. In primo luogo la generalità dei legionari rimase fedele a due capisaldi: l'Italia prima e al di sopra dei partiti, la libertà nella fratellanza, dei singoli e dei popoli. Enzo Mecheri, segretario nazionale della FNLG, il 10 maggio 1922 intimò a quello della sezione torinese, Pallieri: “I Legionari iscritti agli altri partiti devono prima dimettersi dai medesimi se vogliono far parte della Federazione”. Identica era la posizione di Treves, presidente della sezione torinese della Legione Gabriele d'Annunzio, che scriveva su carta del Comandante (“Ardisco e non ordisco”). Da Alessandria il diciannovenne Gino Morini, già capofila di una squadra composta esclusivamente di ex combattenti, con undici istruttorie alle spalle per ferimenti, lesioni, ecc., desideroso di gettarsi anima e corpo nell'idea del Comandante, a sua volta osservava a Pallieri che “l'idea fascista, da movimento di nazione qual era, va sempre più degenerando, e contraendo tutti gli inevitabili compromessi che sono propri di ogni partito”. Poiché era “sempre stato più per D'Annunzio che per Mussolini” era deciso a costituire  nella sua città una sezione o gruppo per diffondere l'Associazione Legionari”. Si poteva “amare l'Italia senza bisogno di essere un partito”.
Il Bollettino dell’Unione Spirituale Dannuziana  è un inno alla libertà, eco vibrante della “missione ideale affidata dal Comandante ai Legionari di Fiume”. Non vi mancano frecciate ironiche contro il servilismo opportunistico di chi a Napoli cambiò l'intitolazione di una scuola elementare (dal pedagogista libertario Francisco Ferrer y Guardia al maestro Benito Mussolini) e contro Roberto Farinacci (massone pentito) che incitava gli squadristi ad aggredire i dannunziani. In effetti per i Legionari era prossima la “soluzione finale”. Dapprima i fascisti liquidarono a bastonate i “dissidenti”, come Cesare Forni, Alfredo Misuri, Massimo Rocca..., poi criminalizzarono i massoni, infine si scagliarono contro i dannunziani, colpevoli di essere stati i precursori della battaglia per la più grande Italia, “Diis Sacra” come il Comandante scrisse nell'esergo di “Per l'Italia degli Italiani” (1923) suggellato dalla tragica meditazione “Cantano i morti con la terra in bocca e le carene valicano i monti” (27 settembre 1922), quanto di più avverso al “regime” sia stato scritto prima e dopo la farsesca “marcia su Roma” del 31 ottobre seguente.  
Ormai a corto di “munizioni” l'Unione Spirituale all'inizio del 1925 diramò la sua prima circolare dell'anno. A parte l'indignazione per l'arresto di Calosci, deplorò le “violenze fasciste” contro l'Associazione Nazionale Combattenti e ordinò a tutti i Legionari di iscriversi all'ANC. Ricordò di aver concorso al sorgere e al formarsi dell'Associazione “Italia Libera” (fucina di antifascisti irriducibili) e ammonì che Nazione e Stato “non sono qualcosa che capricciosamente si improvvisa ma una continuità storica insopprimibile”. Diffidò dall'aderire alla “Milizia Adriatica” inventata dall'anguillesco Eugenio Coselschi (dieci anni prima radiato dalla loggia “Michelangelo” di Firenze per assenteismo e morosità) e additò l'obiettivo supremo: “Nessuna causa fu più bella, più santa dell'attuale! Bisogna riconquistare la libertà”. 
...e per l' “Italia Libera” del Grande Taciturno
Tutti dovevano ispirarsi al Grande Taciturno, “prigioniero del duce”.
Tra gli italo-fiumani quelli del Piemonte non mostrarono mai dubbi nell'anteporre d'Annunzio a Mussolini e, in maniera altrettanto radicale, la monarchia al partito fascista, le cui origini e componenti repubblicane conoscevano bene. Ne fu specchio Giacomo Treves, orgoglioso della nomina a cavaliere e commendatore dell'Ordine della Corona d'Italia (22 aprile 1920 e 15 gennaio 1924) e ufficiale (classe 4^) dell'Ordine della Corona del Montenegro, conferitogli dalla Reggente Milena il 19 maggio 1922, per i “servizi speciali resi al popolo montenegrino”. Mentre archiviava i “saluti affettuosi” che gli telegrafava il Comandante, anche lui si preparava alla traversata del deserto, ma non immaginava la sterzata del 1938: le leggi razziali che avrebbero suscitato lo sdegno del Vate se la Grande Visitatrice non gliele avesse risparmiate, liberandone definitivamente lo Spirito dall'“involucro” il 1° marzo di quell'anno cruciale.
Aldo A. Mola  

 
I LIBERALI IN ITALIA?
 PER I “LUMI” E LA FRATELLANZA DEI POPOLI
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 8 Settembre 2019, pagg. 1 e 11.
 
L'antica contrapposizione dei liberali ai reazionari  
La nascita del nuovo governo di coalizione tra M5S (che si dichiara né di destra né di sinistra), Partito democratico (conglomerato di cattolici, socialisti e altro) e Liberi e Uguali ripropone l'attualità di domande da troppo tempo in attesa di risposta. Chi sono i “liberali”? Silvio Berlusconi, presidente di “Forza Italia”, rivendica con orgoglio che i partiti da lui promossi e guidati in un quarto di secolo furono e sono intrinsecamente non “di destra” ma “centristi”, propriamente liberali ed europeisti. È innegabile. “Liberale”, originariamente aggettivo, è termine di tale pregnanza che da due secoli è anche sostantivo, soggetto di storia (“chi sostiene e professa principi di libertà”, scrive il dizionario). Lo divenne due secoli fa in Spagna, quando i liberali si contrapposero ai reazionari. I primi volevano vincolare la monarchia alla costituzione, precisamente a quella approvata dalle Cortes autoconvocate a Cadice nel 1812: una “Carta” ispirata da profondo ottimismo cosmico. Affermava, per esempio, che i cittadini devono essere buoni. Il potere del Re derivava dalla volizione della nazione: un principio a ben vedere ribadito dalla costituzione del 1978, garante della Spagna odierna. I reazionari, invece, miravano all'affermazione della priorità metastorica del sovrano rispetto a quello dei cittadini. Il monarca tale è per grazia di Dio. Le leggi promanano da lui. 
I liberali spagnoli (e di lì a poco quelli portoghesi, che affrontarono problemi analoghi, anche per il “regolamento dei conti” fra madrepatria e impero coloniale) divennero punto di riferimento di quelli italiani, più di quanto all'epoca lo fossero gli inglesi e i francesi, sia per i legami secolari tra Madrid e gran parte degli Stati d'Italia, sia perché il regime franco-napoleonico non aveva lasciato un ricordo esaltante fra i liberali italiani, sino alla svolta dell'“impero liberale” varato da Napoleone al rientro dall'Elba, quando ebbe il consenso anche di Benjamin Constant e di Simonde de Sismondi.
La libertà: un principio morale senza frontiere
Lasciando per ora alle spalle quel passato remoto, alla domanda chi siano oggi i liberali e come si collochino nell'arco politico dell'Italia odierna si può rispondere che essi derivano la loro identità dal sostantivo: la libertà. Il liberismo, cioè una specifica dottrina economica, è un aspetto non esaustivo del liberalismo, come a suo tempo Benedetto Croce scrisse in controcanto a Luigi Einaudi. Per quanto apparentemente superfluo, va precisato che la libertà non è né di destra né di sinistra. È un ideale, un postulato, un principio morale. Essa è motore e al tempo stesso frutto di millenni di lotte dall'antichità ai giorni nostri. È privilegio di un numero tuttora molto ristretto di donne e di uomini di una parte molto circoscritta del Pianeta. 
In Italia, aggiungiamo, da metà Settecento la libertà è stata costruita decenni dopo decenni da minoranze che non  agirono per vantaggi propri ma perché credevano nel progresso generale dell'umanità, senza frontiere. Non sono parole al vento. In Italia da metà Ottocento a metà Novecento, esponenti insigni del liberalismo di portata europea sono stati, fra altri, Silvio Pellico, Cesare Balbo, Massimo d'Azeglio, Camillo Cavour, Giovanni Giolitti, Luigi Einaudi... Tutti pensatori e statisti che hanno mirato alla liberazione di moltitudini di persone che manco sapevano di avere la corda al collo perché vi erano abituate da secoli.  
Quei liberali, veri e grandi, fecero leva sul sovrano, sul Parlamento e sull'opinione degli elettori per compiere e far compiere più celeri passi avanti sulla via dell'incivilimento. Fecero leva sullo Stato perché in sé le leggi non sono affatto nemiche delle libertà. Così era al tempo della monarchia rappresentativa, così è oggi ai sensi della Costituzione vigente. Lo Stato non è avversario delle libertà. Ne è garante.
Se per “sinistra” si intende liberazione dal dispotismo di “pieni poteri” e da “precetti” contro natura, allora si può convenire che il liberalismo trovò espressione nel democristiano Alcide De Gasperi: un “centro” che guarda anche “a sinistra”, verso orizzonti che la maggior parte dei cittadini non sempre intravede perché troppo assillata dalla quotidianità. Non nutre speranze per sé e diffida dei giovani. 
La catastrofe della Scuola e della Ricerca sono i due segnali del declino di un Paese che se non ritrova lo spirito liberale che ispirò l'unità nazionale si chiude in se stesso mentre il mondo cambia alla velocità accelerata dalla telematica. 
Internet è come la libertà: non è né di destra né di sinistra. C'è. Tutto dipende da chi e da come lo utilizza. Se lo usano liberali anziché tiranni è ottimo, sennò no. È come il Proclama di Moncalieri del 20 novembre 1849, con il quale Vittorio Emanuele II chiese agli elettori di votare una Camera di buon senso. Esattamente come ha fatto Giuseppe Conte quando ha invitato i cittadini a sostenere un governo che si propone di dare concretezza a un “nuovo umanesimo”, sorretto da un ministero all'Innovazione con l'obiettivo di dar corpo alla “cittadinanza digitale”, traguardo ancora lontano in un paese tecnologicamente arretrato qual è il nostro.
I principi generali del liberalismo universale
La risposta alla domanda sull'identità e sulla collocazione dei liberali d'Italia va dunque cercata nella storia. Il liberalismo non è un partito. Non è un catechismo. Non ha un “manifesto”. È uno “stato d'animo”, così etereo che se ne può scrivere solo premettendo che non se ne vuole proporre alcuna definizione. Semmai è doveroso precisare che cosa non fu, per evitare che venga confuso con altro, con le sue negazioni. Per esempio, esso promuove la liberazione dei popoli oppressi, l'avvento delle Nazioni senza Stato, ma non ha nulla a che vedere con il nazionalismo, che si è sempre tradotto in negazione della libertà e della fratellanza tra i popoli.  
In premessa va chiarito inoltre che non esiste il “liberalismo italiano”. Sarebbe una contraddizione, perché la libertà è universale. Esiste invece il liberalismo “in” o “di” Italia: scintilla della visione cosmica espressa da Ludwig van Beethoven nel coro della Nona Sinfonia, giustamente adottato quale inno dell'Unione Europea. Dovrebbero ricordarsene Oltre Manica e nei tanti lembi d'Europa (dalla Catalogna all'Ungheria, che fu e per noi rimane la patria di Lajos Kossuth) ora infetti da pulsioni separatistiche, isolazionistiche, pseudo sovranistiche... 
Nella seconda metà del Settecento, cioè in tempi più ravvicinati di quanto paia se ci si misura con la storia universale, in Italia il liberalismo attecchì in cerchie ristrette di persone colte, che si fecero carico di estendere la propria visione del mondo a chi aveva il potere di decidere (sovrani e principi “illuminati”) a beneficio di quanti, per condizioni storiche, non erano in grado di scegliere. Esso fece parte di un movimento filosofico, politico e costumale di portata intercontinentale. Il 4 luglio 1776 i delegati di tredici Stati Uniti d'America dichiararono i motivi della loro secessione dal dominio inglese, con parole semplici e chiare, che meritano di essere ricordate: gli uomini “sono creati” uguali, dotati di diritti inalienabili, quali la vita, la libertà, la ricerca della felicità. I cittadini hanno diritto di mutare la forma dei governi se questi conculcano i loro diritti. I delegati si appellarono al Supremo Giudice dell'Universo. Su quella scia tredici anni dopo, il 17 agosto 1789, l'Assemblea nazionale francese approvò la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino: gli uomini “nascono” liberi e rimangono liberi ed uguali nei diritti; il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo; tali diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione. La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri; l'esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo può essere limitato solo dalla legge. Tutto ciò che non è vietato dalla legge non può esser impedito e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina. Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la loro manifestazione non turbi l'ordine pubblico stabilito dalle legge. La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell'uomo. Ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere dell'abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge. Poiché la proprietà è un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, salvo quando la necessità pubblica lo esiga in maniera evidente e previa giusta indennità....
Quei principi avevano alle spalle secoli di fanatiche guerre di religione, conflitti tra Stati governati da autocrati interessati ad ampliare i loro domini più che a migliorare le condizioni dei loro sudditi. I migliori tra i sovrani dell'età moderna vennero assassinati. Fu il caso di due re di Francia, Enrico III, ispiratore del “partito dei politici”, che tentò invano di arginare il sanguinoso conflitto tra cattolici e ugonotti, ed Enrico IV, che pragmaticamente si convertì da ugonotto a cattolico per pacificare la Francia e sognò che ogni suo abitante avesse in tavola un pollo quotidiano. A suo modo precorse il pensiero del presidente americano Franklin D. Roosevelt (per inciso, un massone) secondo il quale la libertà di parola e di religione  dev'essere accompagnata dalla libertà dal bisogno e dalla paura della guerra. Per gli “occidentali” odierni quei principi sembrano ovvi, scontati. In realtà furono e sono conquiste, da rincalzare ogni giorno. Il preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite (San Francisco, giugno 1945) e la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (Parigi, 10 dicembre 1948) hanno ribadito i cardini del liberalismo. Gli italiani avevano e hanno bisogno di rileggere quelle “Carte”. Esse sono rispecchiate dalla Costituzione vigente, che, senza retorica, è tra le più liberali del pianeta.
L'attualità di Cavour, Giolitti ed Einaudi 
Sorge allora la domanda: il liberalismo è “di destra”? Al riguardo esistono una narrazione e una confusione in netto contrasto con la verità dei fatti, perché dal 1943 il liberalismo in Italia è stato identificato con movimenti e partiti contrapposti a due suoi avversari (o nemici) formidabili. Esso venne combattuto e negato dal clericalismo arcaico, che entrava nella vita quotidiana dei cittadini e pretendeva usare la legge per soggiogare non solo i corpi ma anche gli spiriti, e dal totalitarismo comunista, eterodiretto dall'Unione Sovietica, che mirò a imporre il suo modello ideologico e sociale ovunque fosse giunta l'Armata Rossa, agognata anche da parecchi italiani. L'inclusione nella Costituzione dei Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929 suggellò la temporanea convergenza di quei due “blocchi”. Poiché i partiti liberali (o “laici”) persero seguito elettorale e per contingenti motivi di schieramento nelle aule parlamentari si arroccarono sulla destra, risultò comodo classificare il liberalismo come ideologia o ideario “di destra”. A volta la contiguità fisica creò una confusione ulteriore e peggiore: quasi i liberali fossero una variante degli eredi ideologici del fascismo nelle sue due varianti, quella pre e post 1943. 
Per meglio comprendere la direzione di marcia dei liberali “in” o “di” Italia basta rievocarne alcune figure rappresentative e le loro imprese fondamentali. Asceso al governo quando il regno di Sardegna, riconosciuta l'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi, abolì ogni discriminazione per valdesi e israeliti, Camillo Cavour si batté a sostegno delle “leggi Siccardi” che cancellarono i privilegi medievali del clero, come ricorda la stele elevata a perpetua memoria in piazza Savoia a Torino. A quel tempo il generale Alfonso La Marmora andava di persona ad arrestare l'arcivescovo di Torino, Fransoni, e lo conduceva nel forte di Fenestrelle, donde poi fu mandato in esilio. Concordata la convergenza di centro-sinistro (sic) con l'alessandrino Urbano Rattazzi, Cavour affrontò un decennio di marosi. Quando, dopo l'armistizio di Villafranca (luglio 1859) gli subentrò al governo, Rattazzi varò leggi destinate a durare settant'anni: sulla scuola (firmata dal cattolico moderato milanese Gabrio Casati), su Comuni e Province, sul riordino dell'amministrazione locale. Impossibile classificare quei liberali come “destra” se per tale si intenda chi si oppone al progresso popolare. Non lo furono i ministri che risanarono il bilancio sino ad assicurare il pareggio di esercizio nel 1876: Giovanni Lanza, Marco Minghetti e Quintino Sella, tenace nel volere l'ingresso in Roma dell'esercito italiano agli ordini di Raffaele Cadorna (20 settembre 1870), costato il rinnovo della scomunica per il re, i ministri, i parlamentari, il Risorgimento stesso. 
Nel discorso politicamente più importante dopo il 1876 (Busca, 29 ottobre 1899), su suggerimento di Urbano Rattazzi jr il liberale Giovanni Giolitti spiegò: “I nostri reazionari d'oggi non appartengono alla scuola politica del conte di Cavour. Una politica reazionaria dovrebbe contare principalmente sulla forza armata”, cioè sull'impiego dell'esercito contro i cittadini. “Per ottenere la libertà – egli aggiunse -  i nostri padri sacrificarono vita e averi; saremmo noi figli così degeneri da sopportare in pace che ci venga tolta? L'Italia deve essere governata con la libertà e con la legalità”, per soddisfare ai desideri della grande maggioranza del paese, attenuare il malcontento e far quadrato attorno alla monarchia rappresentativa, pilastro portante dello Stato.  
Non furono certo “di destra” le grandi riforme politiche, sociali ed economiche del primo quindicennio del Novecento e l'introduzione del diritto di voto maschile quasi universale. Esse promossero l'avvicinamento tra cittadini e istituzioni e il progresso del Mezzogiorno. Giolitti fu meridionalista non a parole ma con la forza delle leggi e la collaborazione di ministri e consiglieri come i siciliani San Giuliano agli Esteri e Finocchiaro Aprile alla Giustizia, il calabrese Antonio Cefaly, i Senise. Nel suo quinto e ultimo governo chiamò alla Pubblica istruzione il napoletano Benedetto Croce.
Sarebbe miope classificare “di destra” il liberalismo di Luigi Einaudi, che da giovanissimo scrisse nella “Critica sociale” di Filippo Turati e Claudio Treves e persino nella “Revue Socialiste” fondata da Benoit Malon e puntò sul liberismo proprio quale volano per sciogliere l'economia dai lacci della burocrazia. Ministro del Bilancio restaurò per quanto possibile la finanza pubblica, restituì fiducia nell'Italia all'estero e nell'opinione dei cittadini, quelli che quotidianamente votano andando al lavoro e affidano i risparmi al sistema creditizio (a cominciare da quello postale, ideato da Sella). La Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi, con Einaudi ministro, vicepresidente del Consiglio, presidente della Repubblica, fece propri alcuni capisaldi dell'età liberale. Impossibile classificarla “di destra”. Né lo fu il governo presieduto da Giuseppe Pella, antico allievo del “Sommeiller” di Torino.
Ecco dunque, in sintesi, che occorre ripensare in termini storiograficamente corretti e politicamente avvertiti l'identità tra libertà e progresso. Poco contano le sigle di chi è al governo. Ciò che davvero preme è il suo progetto. È la direzione di marcia: libertà nella legalità, europeismo, valorizzazione della Comunità internazionale in vista della pace, bene supremo per l'incivilimento dei popoli. In prospettiva storica Cavour, Giolitti, Einaudi e la moltitudine di ministri, parlamentari e uomini di Stato che ne assecondarono l'opera si mossero nel solco del liberalismo quale faro dell'Europa che stava trovando continuità logico-cronologica nell'assetto del Nuovo Mondo, dagli USA alla pleiade di Stati sorgenti dal collasso degli imperi coloniali iberici, un processo tuttora in corso. 
Altrettanto vale per il ruolo dello Stato che si incarna nell'istituzione suprema: la monarchia costituzionale ieri, la presidenza della Repubblica oggi. Chi scorra i requisiti attribuiti all'una e all'altra dallo Statuto albertino e dalla Costituzione vigente vi coglie consonanze profonde, come ha ricordato il convegno a tal riguardo organizzato a Palazzo Carignano in Torino lo scorso 12 giugno dal Gruppo Croce Bianca. Anche a tale riguardo occorre fare chiarezza sia nella corretta ricostruzione della storia, sia nella terminologia: la monarchia non è “di destra”, è garanzia di equilibrio.
Si ha motivo di guardare con serenità al futuro del Paese? Il liberalismo è scritto nella Costituzione ed è penetrato profondamente nella vita quotidiana, più di quanto solitamente si ammetta. È come l'aria. Se ne sente subito bisogno quando viene a mancare. E allora si ricorre ai rimedi. Di sicuro esso ha anche una sua dimensione e manifestazione storica e presente: un vastissimo “centro”, che non si conta solo in termini di voti, di seggi (a Roma o al Parlamento europeo) ma sulla base del civismo diffuso e della capacità di immaginare e concorrere a costruire il futuro: quella “innovazione” che il governo promette di voler promuovere e assecondare ed è necessità storica dell'Italia, un Paese nato dalla lotta per l'indipendenza, l'unità e la libertà. 
Aldo A. Mola

SETTEMBRE 1919 
 IL CONSIGLIO DELLA CORONA E L'ITALIA SULL'ORLO DELL'ABISSO
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 1 Settembre 2019, pagg. 1 e 11.
 
Italia del dopoguerra: solida nella realtà, debole nell'immagine
Cent'anni fa l'Italia visse traumi di gran lunga più gravi degli attuali. Li affrontò e superò. Nulla era ancora perduto. Il 10 settembre 1919 venne firmato a Saint-Germain il trattato di pace fra Roma e l'Austria, relitto dell'impero asburgico. L'Italia ottenne gran parte di quanto le era stato promesso con l'accordo di adesione all'Intesa (26 aprile 1915): il confine al Brennero, Trieste, l'Istria e molto altro. Vista dagli Stati Uniti d'America, Londra e Parigi, la sua era una posizione fortissima, mentre l'Europa centro-orientale era nel caos, tra rivoluzione in Russia, disgregazione della Germania, sconquasso socio-politico in Ungheria, disfacimento dell'impero turco e una Jugoslavia in grande affanno. Il recentissimo accorpamento di serbi, croati e sloveni in uno Stato unico, palesemente artificioso, impensieriva chi ne conosceva le secolari divisioni etniche e religiose, le efferate lotte tra dinastie rivali e la fragilità della monarchia, sorretta dalla Francia, che però, come ha scritto François Fejto, puntava alla “repubblicanizzazione dell'Europa” e utilizzava la Jugoslavia in funzione anti-italiana.
In quello scenario l'Italia aveva urgenza di passare rapidamente dall'economia di guerra a quella di pace per riprendere il cammino dell'unificazione effettiva del Paese dopo cinque anni di militarizzazione forzata e di enorme indebitamento, sia con l'estero sia con i “prestiti nazionali” (al 5%) a sostegno della vittoria: un affare lucroso per gli investitori, pessimo per le finanze dello Stato, come in un eccellente saggio ha scritto il gen. c.a. della Guardia di Finanza, Luciano Luciani. Il trattato di pace non riconobbe all'Italia il possesso di Fiume. All'estero (e non solo) molti erano convinti che non ne avesse bisogno effettivo. Ma sin dal 30 ottobre 1918, tre giorni prima dell'armistizio, la sua annessione a Roma fu chiesta dal presidente del Consiglio nazionale fiumano, Antonio Grossich, e dal sindaco Antonio Vio. Membro della loggia massonica “Sirius”, poco dopo Vio venne ricevuto a Roma dalla loggia “Rienzi” e ottenne l'appoggio esplicito del Grande Oriente d'Italia, ribadito dal gran maestro Ernesto Nathan il 25 aprile 1919 in un rovente “appello agli italiani” contro il presidente degli USA, Woodrow Wilson, contrario all'assegnazione della città liburnica all'Italia. Secondo Wilson nelle aree mistilingue il confine doveva essere deciso dalla popolazione residente tramite plebiscito: criterio enunciato dalla massoneria francese sin dal congresso del 28-30 giugno 1917, presenti i delegati del Grande Oriente d'Italia, Ettore Ferrari, Ernesto Nathan e Giuseppe Meoni, ma disastroso per Roma perché gli italofoni erano in minoranza. 
Dalla “Marcia di Ronchi”....
La notte del 12 settembre Gabriele d'Annunzio guidò un corteo di 27 camion da Ronchi a Fiume: arditi, granatieri, volontari. Preparata di lunga mano, l'impresa ebbe molti e discordi padri: nazionalisti massonofagi da un canto (Giovanni Host Venturi, Giovanni Giuriati), massoni dall'altro. Come era accaduto con l'“interventismo” nel 1914-1915, si aggiunsero sindacalisti (Alceste De Ambris), affaristi e una moltitudine di apprendisti della rivoluzione, molti di persona, altri prudentemente da lontano. Tra questi vi fu Benito Mussolini, che dalle colonne di “Il popolo d'Italia” promosse una sottoscrizione pro-Fiume, i cui proventi, però, solo in parte vennero dirottati alla “città martire”.
A sostegno dell'impresa dannunziana scesero le logge del Piemonte e della Liguria. Alcuni loro affiliati (come il quarantenne ebreo torinese Giacomo Treves, membro della Madre loggia “Ausonia”) sin dal dicembre 1918 avevano fondato la “Guglielmo Oberdan” a Trieste per preparare il terreno. La situazione rischiò di precipitare. Il presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, e la maggior parte dei politici e di militari di grado supremo, come Luigi Cadorna, rimasero sconcertati dalla mancata resistenza del generale Vittorio Emanuele Pittaluga all'irruzione di d'Annunzio, che indossava la divisa di tenente colonnello dei Lancieri di Novara. Anziché “fermarlo” lo “scortò” in città e consentì l'afflusso del suo vociante seguito. Traballò uno dei cardini dello Stato d'Italia: la disciplina delle Forze Armate. Anche Giolitti deplorò la “sedizione”. Quanto avveniva dinnanzi agli occhi del mondo era inammissibile perché nel corso della Grande Guerra ogni minima infrazione del codice militare era stata punita con pene severissime, inclusa la fucilazione.
...al Consiglio della Corona (25 settembre) 
Di giorno in giorno la crisi si aggravò, anche perché numerosi militari, sia in congedo temporaneo sia in servizio, continuarono ad affluire a Fiume malgrado l'interdizione ordinata ma blandamente attuata da Pietro Badoglio e contro la direttiva di Nitti di imbrigliare “il delittuoso movimento che tende a sovvertire ogni nostra opera”.
Il 22 settembre Vittorio Emanuele III, sempre rispettoso del Parlamento, assunse un'iniziativa unica nella storia d'Italia. Convocò al Quirinale un “Consiglio della Corona” per le 10 del 25 seguente: il tempo strettamente necessario per informarne i componenti e consentirne l'arrivo a Roma con i mezzi dell'epoca, mentre molti servizi pubblici erano in disordine per disfunzioni e scioperi. Il Consiglio della Corona non era previsto dallo Statuto. Però il Re ritenne necessario andare oltre il governo in carica e consultare ufficialmente le personalità più rappresentative delle Istituzioni. Non volle ripetere quanto era accaduto nella settimana del “radioso maggio” 1915 quando il governo presieduto da Antonio Salandra il 13 si dimise perché dichiaratamente privo di consenso parlamentare, salvo ripresentarsi tre giorni dopo per chiedere e ottenere i pieni poteri. La Camera era la stessa di allora: succuba, screditata e comunque alla vigilia dell'ormai tardivo scioglimento e rinnovo sulla base della legge elettorale pubblicata il 15 agosto, la “maledetta proporzionale”. Mentre la casa andava a fuoco, non si potevano attendere i comodi di politicanti e mestatori. Vittorio Emanuele III chiamò a Consiglio i presidenti delle Camere, gli ex presidenti del governo, i rappresentanti dei partiti politici in Parlamento ed i vertici dell'Esercito e della Marina “per conferire su la situazione”.
Tra i pochi resoconti della seduta (dalle 10 alle 12 e dalle 16 alla conclusione ) spicca quello di Luigi Federzoni, che non vi ritornò nel Diario inedito scritto nel 1943-1944, da poco pubblicato (Ed. Pontecorboli). Bisognava pronunciarsi sulla sorte di Fiume. Il Re aprì la seduta e la diresse “con volto sereno”. Nitti propose annessione e elezione della Camera per averne poi il parere. Paolo Boselli (1838-1932), ex presidente del Consiglio, il modenese conte Adeodato Bonasi (1838-1920) e Giuseppe Marcora (1841-1927), presidenti dei due rami del Parlamento, propugnarono l'annessione. Giolitti, che per arrivare in tempo usò un vagone notturno da Torino a Roma, eluse la questione fiumana, deplorò la disgregazione dello Stato e sollecitò le elezioni. Gli si opposero i due ex presidenti Luigi Luzzatti e Antonio Salandra, secondo i quali non bisognava consultare i cittadini mentre il paese era travagliato da passioni e discordie. In realtà più passavano i giorni, peggio andava. Il caos  (scioperomania, conflitti armati tra fazioni anche eterodirette dall'estero, guerra civile a bassa intensità) durò altri tre anni, sino all'insediamento del governo di unione costituzionale presieduto da Mussolini dal 31 ottobre 1922. In quel momento, nel settembre 1919, era ancora possibile tornare all'ordine senza traumi. I due ebbero il sostegno di Vittorio Emanuele Orlando, che diceva l'opposto di Giolitti per partito preso. Lo stesso fecero Salvatore Barzilai e Leonida Bissolati alla ripresa pomeridiana. Fu infine la volta dei ministri militari, il sassarese Giovanni Sechi, il gallaratese Alberico Albricci. L'ammiraglio Paolo Thaon di Revel (membro del Supremo Consiglio della Gran Loggia d'Italia) invitò a risalire alla radice del “deplorato episodio”. Per ultimo Armando Diaz sferrò un duro attacco contro l'antimilitarismo serpeggiante nel Paese per opera delle sinistre e di clericali ancora fermi al rifiuto del Risorgimento, spacciato come complotto massonico. L'antimilitarismo, osservò il futuro duca della Vittoria, si traduceva in vero e proprio anti-patriottismo. Quanto era avvenuto a Ronchi e a Fiume era conseguenza dello sgretolamento morale dell'Esercito: un processo che andava subito fermato se si voleva salvare l'Italia puntando sulla solidità delle Forze Armate.
Il 26 settembre il Quirinale sintetizzò che “nessuno degli intervenuti all'alto consesso propugnò la tesi dell'annessione di Fiume; nessuno mosse critiche all'azione del Governo; nessuno accennò alla opportunità di una crisi ministeriale”. Secondo Federzoni, il comunicato non rispose esattamente all'andamento della discussione, ma ne colse l'essenza: in effetti nessuno aveva detto in modo chiaro come affrontare l'emergenza e le sue devastanti conseguenze. Il Consiglio lasciò che a sbrogliare la matassa fossero il Re, il governo, i militari al comando del “cordone sanitario” che separava Fiume dall'Italia e una serie di poteri più meno occulti e influenti, incluse Comunità massoniche italiane e straniere. Molti fra i politici presenti dettero prova patente di fuga dalla responsabilità. Fu il caso di Filippo Turati, il più autorevole rappresentante del partito socialista italiano. Invitato, non si presentò. Si schermì dietro un paravento nominalistico: il Consiglio  della Corona non era previsto dallo Statuto; bisognava andare subito al voto ed evitare che “le elezioni non si facciano contro di noi”. Pensava al partito e ai seggi. Fu l'ennesimo suicidio del socialismo riformista, sempre con un piede nei “ludi cartacei” (come i riti elettorali furono bollati dal socialmassimalista e poi fascista Mussolini) e uno nella “rivoluzione”, ma mai disposto a farsi carico del governo, come da quasi vent'anni gli chiedeva Giolitti.
A quel punto la parola passò ad altri soggetti. Nitti si preoccupò di vincere le elezioni. Privo di un partito di riferimento andò allo sbaraglio. Fiume rimase un “teatro”, qual era nel senso più alto: ognuno vi scrisse e recitò una parte. D'Annunzio vi celebrava quotidianamente i riti cari a Legionari che in qualche modo andavano intrattenuti in attesa che Roma si pronunciasse. Sennonché la sorte della città non dipendeva solo dal governo italiano né dai venturieri che vi si affacciavano ritenendo che fosse un laboratorio politico universale, mentre era una cangiante sacra rappresentazione fondata su parole alate, come poi si vide con l'insediamento della Reggenza e la promulgazione della Carta del Carnaro. Poeta ma non privo del “buonsenso di provinciale abruzzese” (parole di Federzoni) ai massoni d'Annunzio chiese lana per i soldati, armi, denari e di propiziare la corrispondenza tra i legionari e le lontane famiglie (a volte un po' scombinate).   
La “Sirius” e la “Italia Nuova” dall'egemonia alla persecuzione  
Un ruolo di spicco nella vicenda fiumana svolsero logge del Grande Oriente d'Italia (GOI) e della Gran Loggia d'Italia (GLI), le due Comunità liberomuratòrie all'epoca preminenti: il GOI con la “Alpi Giulie” e la “Gugliemo Oberdan” di Trieste e la “Sirius” di Fiume (GOI), la GLI con la  “XXX ottobre” di Fiume, la  “XX Settembre” e la “Trieste Redenta”, che affiliò anche il colonnello Cesare Pettorelli Lalatta. Il ruolo della “Oberdan” è stato più volte ricordato sulla base delle Carte del suo maggiorente, Giacomo Treves. Meno note (anche per la rarefazione dei documenti) è quello delle officine della Gran Loggia.
Nel centenario della Marcia di Ronchi meritano un ricordo la “Sirius”, l'unica loggia “nativa” di Fiume, e la sua gemmazione, “Italia Nuova”. Come già detto il suo venerabile, Vio, sin al 30 ottobre 1918 chiese l'annessione di Fiume all'Italia. Con procedura non propriamente fraterna allontanò dalle colonne i fratelli ungheresi e di altre lingue e incontrò ripetutamente i confratelli di Trieste in vista della “marcia di Ronchi”. Nei quindici mesi “dannunziani” fece da interfaccia fra il Comandante e la cittadinanza, tra le urgenze della popolazione e il governo di Roma, sollecitato tramite la rete delle logge. Un mese dopo il Consiglio della Corona, il gran maestro del GOI, Domizio Torrigiani, andò a Trieste per vedere, capire e decidere. Alcuni seguaci del Vate stavano progettando una “marcia su Roma”. Ne sarebbe nata l'insorgenza dei socialisti e l'intervento delle Forze Armate per rimettere ordine nel Paese. La democrazia parlamentare sarebbe finita in soffitta. Il gran maestro dissociò nettamente il GOI da ogni azzardo. Toccò a Vio reggere le briglie di molti aggrovigliati intrichi di una città lanciata a folle velocità fuori binari. Dopo il trattato italo-jugoslavo di Rapallo-Santa Margherita voluto da Giolitti per la quinta volta al governo (maggio 1919-giugno 1921) e l'espulsione di d'Annunzio da Fiume, anche per i massoni fiumani iniziò una lunga traversata del deserto. Erano i depositari di fedeltà all'Italia e il passo rituale. Ne accennò una volta Giolitti, riferendosi a certe processioni indiane: due passi avanti e uno all'indietro. Il vero progresso richiede e lungimiranza e pazienza. 
Chiusa tragicamente la lunga contraddittoria stagione dannunziana, alcuni “fratelli” della “Sirius” dettero vita a una nuova loggia dal titolo programmatico: “Italia Nuova”, animata dall'ingegnere Guido Lado, venerabile, Ariosto Mini, Salvatore Bellasich e altri molti, in collegamento con le tante officine della Venezia Giulia (“Santa Gorizia”, “Nazario Sauro” di  Capodistria, “La Concordia” di Abbazia e la “Nazario Sauro” di Pola). Un “rapporto” del settembre 1922 dice però che ormai le logge erano nel mirino. La “Sirius” era considerata “la più infida e pericolosa. Pronta di unirsi anche al diavolo” per conservare la sua autorità. Poi anche Fiume arrivò al bivio senza alternative: fascismo o massoneria. La “Italia Nuova” pose allo studio uno statuto per la città, sull'esempio di San Marino, ma dovette prendere atto che era un modello improponibile perché era lo Stato italiano a mantenervi una guarnigione di carabinieri e a saldare i debiti della Repubblica del Titano con un contributo annuo di sei milioni. Un caso unico e irripetibile. 
All'inizio del 1924, presenti di persona o tramite messaggi numerose officine (“La Vedetta” di Udine, la “Italia Nuova” di Torino con il fratello Forte), la loggia liburnica festeggiò l'annessione di Fiume all'Italia, “pietra miliare del Risorgimento italiano”, consacrata dal sacrificio di cinquecentomila giovani caduti nella Grande Guerra: pegno perpetuo. In giugno però le due logge avvolsero i labari, distrussero carte e attesero la tempesta. Alcuni si procurarono una sorta di “liberatoria” a futura memoria. Era imminente la legge 26 novembre 1925, n. 2029 sull'appartenenza dei pubblici impiegati alle associazioni, che impose ai dipendenti (militari inclusi) di dichiarare di quali sodalizi fossero membri. Allora si comprese meglio che un Ordine segreto non deve avere registri, né contabilità, né sedi, né alcuna forma esteriore. Esso è. Opera nel riserbo. 
Il Ministero dell'Interno incalzò il prefetto a comunicare i nomi dei massoni notori e a esercitare la massima sorveglianza: ordini ribaditi il 20 novembre 1925 perché gli constava che l'Associazione dei commercianti era completamente controllata dal Grande Oriente. Il 6 ottobre 1930 il comandante della 61^ legione “Carnaro” della Milizia volontaria di sicurezza nazionale, Leo Franca, informò prefetto, questore, comando generale dei Carabinieri, ecc. ecc. che sei persone (seguivano i nomi) erano stati visti uscire dal ristorante riservato del Caffè “Budai”, con tanto di signore al braccio: “Probabilmente doveva trattarsi di qualche cenacolo massonico. I suddetti, con alti amici, molto noti, sogliono riunirsi in lieti simposi, frequentemente...” .
Chissà che cosa ne avrebbero detto i Legionari di d'Annunzio? Non era per quel tipo di regime poliziesco che la notte del 12 settembre 1919 erano partiti da Ronchi per assicurare alla Patria la “Perla d'Italia”. Anni dopo, grazie alla connivenza dell'Ungheria dell'ammiraglio Horthy, che nel 1920 aveva sciolto la Gran Loggia simbolica d'Ungheria e ne aveva sequestrato le carte, “chi di dovere” riuscì ad avere nelle grinfie gli elenchi degli affiliati alla “Sirius” sin dalla sua remotissima fondazione. La caccia al massone riprese alacremente. L'astro più fulgido della Costellazione del Cane Maggiore, sacro a Iside, per molto tempo cessò di irradiare sull'“aiola che ci fa tanto feroci”. (*)
Aldo A. Mola
 (*) Dal 5 al 7 settembre si svolge a Gardone (BS) il Convegno internazionale di studi “Fiume, 1919-2019. Un centenario europeo tra identità. Memorie e prospettive di ricerca”, ideato e  organizzato da Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani. Informazioni in: fiume@vittoriale.it 

PROPORZIONALE O MAGGIORITARIO?
 IN CERCA DELLA NUOVA LEGGE ELETTORALE
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 25 Agosto 2019, pagg. 1 e 11.
 
PROPORZIONALE O MAGGIORITARIO? IN CERCA DELLA NUOVA LEGGE ELETTORALE di Aldo A. MolaLa funzione storica dei collegi uninominali (1848-1919)
Tira daccapo vento di “proporzionale”? “L'assassino torna sempre sul luogo del delitto”, verrebbe da ripetere. L'assegnazione dei seggi alla Camera in proporzione ai voti ottenuti dai partiti fu introdotta in Italia giusto un s ecolo fa, con la legge 15 agosto 1919, n. 1401. Dal 1848 al 1861 il Regno di Sardegna e dal 1865 al 1913 quello d'Italia avevano utilizzato i collegi uninominali, con ballottaggio tra i due candidati più votati al primo turno. Con alcune modifiche transitorie ma non sostanziali tra il 1882 e il 1890, quel modello propiziò il passaggio dalla monarchia rappresentativa a quella parlamentare, già vaticinato da Camillo Cavour e poi pienamente attuato da Giovanni Giolitti. Nei collegi uninominali gli elettori sceglievano il candidato più capace di rispondere ai bisogni locali. Poiché il diritto di voto era riservato a cittadini consapevoli e i deputati non rappresentavano i loro elettori ma la Nazione, si era così instaurato un equilibrio virtuoso tra tutela del collegio elettorale e visioni di ampio respiro. D'altronde i parlamentari erano generalmente persone di solida cultura, patrizi, professionisti, funzionari dello Stato forniti di mezzi che li rendevano liberi da condizionamenti. In mezzo secolo i collegi uninominali plasmarono una dirigenza politica qualitativamente non inferiore a quella di Stati di più lunga esperienza parlamentare, che poi, ridotti all'osso, erano la Gran Bretagna, la Francia e alcuni di minori dimensioni, quali il Belgio e i Paesi Bassi. La Spagna dei “cacicchi” era altra cosa.
Nel 1912 il diritto di voto fu conferito a tutti i maschi maggiorenni alfabeti, a quanti avessero prestato servizio militare e ai trentenni anche se analfabeti e militesenti. Il presidente del Consiglio Giolitti spiegò che l'esercizio del voto non poteva più dipendere dal maneggio delle 24 lettere dell'alfabeto. Però a far da argine a imprevedibili scossoni rimasero i collegi uninominali. Lì ogni elettore conosceva ciascun candidato. Poteva essere illuso o raggirato una o due volte, ma non all'infinito, e non era ben disposto verso candidati catapultati da chissà dove, soprattutto se privi della dote basilare del “fare politica” ovvero la capacità di “ascoltare” l’elettorato.
L'introduzione del suffragio universale maschile fu provvidenziale. Sarebbe stato impossibile mettere in divisa cinque milioni e mezzo di cittadini durante la Grande Guerra se in cambio non avessero avuto almeno il diritto di voto. L'Italia sarebbe precipitata in una crisi di sistema come la Russia di Nicola II. Sulla fine del conflitto, dopo decenni di proposte avanzate da pattuglie di esperti di leggi elettorali, il Fascio di difesa parlamentare e i nazionalisti alzarono la bandiera della proporzionale per garantirsi il ritorno alla Camera. A loro bastava essere minoranza (tendenzialmente “rumorosa”), nel solco delle Estreme, sia di sinistra sia di clericali oltranzisti. Anche pochi scranni consentivano di “testimoniare”, di gridare il “no” alla maggioranza moderata, concreta, fattiva che in pochi decenni aveva portato l'Italia da arretratezza e sottosviluppo a Paese moderno. Certo molto altro occorreva. Lo aveva detto Giolitti inaugurando un ospedaletto per l'infanzia. Ci volevano due generazioni ben educate e bene allevate per portare gli italiani ai livelli di Stati dalla storia unitaria plurisecolare. 
In breve la “proporzionale” divenne il cavallo di battaglia dei socialisti e del Partito popolare italiano fondato il 19 gennaio 1919 da don Luigi Sturzo. Per non essere tacciati di avversione alla democrazia anche i liberali si accodarono: alcuni per assicurarsi almeno un buon numero di seggi, altri per sottovalutazione delle possibili ripercussioni. Il pur navigato Giolitti il 12 luglio confidò alla moglie, Rosa Sobrero (Gina), il suo disinteresse per la riforma della legge elettorale: “Credo sia cosa di nessuna portata. Io credo che di fronte ai grandi guai del paese questi pannicelli caldi lasciano il tempo che trovano”. A suo giudizio urgeva ripristinare la finanza pubblica, frenare la svalutazione del potere d'acquisto della lira, che trascinava con sé aumenti di salari e stipendi e, conseguentemente, il dissesto del bilancio dello Stato e degli enti locali, ripristinare la quiete pubblica preda della scioperomania e riaffermare la dignità dell'Italia dinnanzi alle Grandi Potenze. Tutto vero, ma per un attimo anche all'anziano statista sfuggì che qualunque Esecutivo deve basarsi su una maggioranza solida e durevole. La proporzionale, invece, era fatta apposta per generare instabilità.
La proporzionale: partiti grossi ma non grandi
Gli elettori crebbero di due milioni e mezzo, distribuiti in 54 collegi in gran parte coincidenti con le province dell'epoca. Alcune regioni fecero collegio a sé. Alla Liguria, che contava due sole province (Genova e Porto Maurizio), furono assegnati 17 seggi. Il Piemonte contò 4 collegi, uno per ogni provincia (Torino, Alessandria, Cuneo e Novara). Indeciso a tutto, il presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, procrastinò la data delle votazioni sino al 16 novembre: troppo tardi per le aree montane ove erano più radicati i moderati di tradizione liberale e cattolica. Nel frattempo a Parigi venne sottoscritta la pace tra l'Italia e l'Austria, detta di Saint-Germain dalla sede ove fu ratificata. Essa negò all'Italia Fiume. Il 12 settembre Gabriele d'Annunzio vi irruppe mettendo a segno un'“impresa” organizzata di lunga mano da massoni e militari. Il governo ne risultò vulnerato e screditato. A fine ottobre venne progettata una “marcia su Roma” che doveva partire da Fiume e Trieste. Venne bloccata dalla dissociazione del gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Domizio Torrigiani, timoroso che una guerra civile sfociasse in dittatura militare e sospensione a tempo indeterminato della democrazia parlamentare.
Il Paese andò alle urne in grave affanno? Dalle cronache giornalistiche pareva fosse sull'orlo dell'abisso. In realtà votò il 56,6% degli aventi diritto: una tra le partecipazioni più basse dall'unità, inferiore a quella del 1909 e persino del 1913, quando fu sperimentato per la prima volta il suffragio quasi universale maschile. Nel 1919 nell'Italia settentrionale votò il 64% degli aventi diritto, nell'Italia meridionale appena il 50% e in quella insulare il 46%. Gli elettori vivevano in modo molto diversificato gli assilli del Paese, dei parlamentari, dei partiti. 
La proporzionale ebbe un esito catastrofico. Su 508 deputati ben 327 furono di nuova nomina. Con il 32,3% dei suffragi i socialisti ottennero 156 seggi; i popolari, con il 20,5%, ne ebbero 106. Sommati i due partiti di massa avevano la maggioranza, ma erano gli uni contro gli altri armati: si andava dal “libero amore” alle gonne sin sotto i piedi. I “centristi” si attestarono al 36,9% ma, essendo frastagliati, si divisero tra liberali (41 seggi) e liberal-democratici (146 seggi). I radicali furono appena 12 e i socialriformisti 6. I repubblicani precipitarono a 4: il loro peggior risultato di sempre, proprio mentre tanti chiedevano di rovesciare la monarchia. 
I socialisti ottennero il 42,5% dei consensi al Nord, il 56% al Centro e appena il 6,7% nel Mezzogiorno (con una punta migliore in Puglia). I popolari contarono 20 seggi in Lombardia, 17 nel Veneto, 11 nel Piemonte di don Bosco e dei “santi sociali”, appena 4 in Liguria e nel Lazio, 1 in Umbria e in Sardegna, nessuno in Basilicata. Ne ottennero 6 nella Sicilia di don Sturzo contro i 30 dei democratici liberali convergenti con la Democrazia sociale del teosofo Giovanni Antonio Colonna duca di Cesarò. Il Paese, insomma, era molto più frammentato di quanto indicassero i risultati complessivi. D'altronde aveva vissuto la guerra in modi e misure del tutto differenti.
Per la prima volta i votanti si trovarono dinnanzi una scheda su cui comparivano i soli contrassegni dei partiti in lizza: un favore per gli analfabeti e un freno a manipolazioni e brogli. I partiti si premurarono di distribuire volantini con i nomi dei candidati da votare e, soprattutto, con il simbolo ben nitido, solitamente semplice e diretto. Per esempio una spiga di grano con la stella d'Italia. Per allentare la drammatizzazione della contesa Camillo Peano, uno tra i più fidi collaboratori di Giolitti, fece introdurre nella legge la possibilità che l'elettore aggiungesse ai nomi presenti nella lista preferita anche quello di un candidato di una lista diversa. Il “panachage” (screziatura) era da tempo in uso Oltralpe (per esempio in Belgio) per propiziare sin dalle urne la formazione di una coalizione di governo. Esso fu l'ultima eredità del collegio uninominale, giacché consentiva all'elettore di esercitare un “voto di stima”. L'opportunità non ebbe però una vasta eco nella pratica. Funzionò proprio là dove Giolitti meno se l'aspettava, cioè nella “sua” provincia di Cuneo. Lì, debitamente istruiti, parecchi liberali aggiunsero la preferenza per il cattolico Giovanni Battista Bertone; i popolari, tuttavia, non fecero altrettanto. Ne conseguì che gli sturziani conquistarono quattro seggi (come i socialisti) contro i tre dei liberali (Giolitti, Soleri e Peano) e che l'ex presidente del Consiglio ebbe meno preferenze di Bertone: un’umiliazione non da poco per lo statista.
Mentre doveva curare le immense ferite della Grande Guerra l'Italia si trovò con due partiti grossi ma non grandi e molti partitini che anteposero i propri interessi di fazione a quelli del Paese. 
Il Re, l'Internazionale, i patres e la polverizzazione dei costituzionali
La seduta inaugurale della Camera annunciò la tempesta. Mentre Vittorio Emanuele III si accingeva a pronunciare il discorso della Corona i socialisti intonarono l'Internazionale e uscirono dall'aula. Il Re ricordò che “il Parlamento, presidio di ogni libertà, difesa e garanzia di tutte le istituzioni democratiche, deve essere oggi più che mai circondato dalla fiducia del Paese” per “determinare all'interno un intenso programma di produzione e di lavoro, e un senso più profondo di cooperazione sociale, e determinare all'estero un'azione sempre più democratica di cooperazione fra i popoli”. Oggi che cosa potrebbe dire di più e di meglio un Presidente della Repubblica?
Sulla base del nuovo regolamento si formarono undici gruppi parlamentari, nominalmente di almeno 20 membri, in realtà anche solo di 10. Malgrado il vistoso successo di due partiti di massa, che si schierarono all'opposizione, la Camera risultò un caleidoscopio di partitini. L'esatto contrario di quanto occorreva al Paese per risalire la china. Il “sistema” resse perché Montecitorio aveva per contrappeso il Senato, di nomina regia, vitalizio e non suddiviso in gruppi, anche se non vi mancavano tendenze, correnti e “umori”, talora assai difformi. D'intesa con il Sovrano (che aveva l'ultima parola in fatto di nomine, mentre all'Assemblea ne competeva la convalida), nel 1919 la Camera Alta venne ampliata con il conferimento, a piccole dosi, del laticlavio a generali, imprenditori e politici di primo piano: Badoglio, Pecori Giraldi, Cagni di Bu Meliana, Albricci, Dante Ferraris, Carlo Sforza. Il 6 ottobre 1919, un mese prima delle elezioni, in continuità con una lunga consuetudine, si registrò l'“infornata” di 59 nuovi patres della miglior tradizione liberale nel senso più lato del termine: Mario Abbiate, Ernesto Artom, Leonardo Bianchi, Ettore Bocconi, Dario Cassuto, Giovanni Ciraolo, Luigi Credaro, Marco di Saluzzo, Achille Loria, Carlo Petitti di Roreto, Nino Tamassia... ebrei, cattolici e radicali, tutti uniti nel culto dell'Italia e nel lungo servizio quali deputati, militari, industriali, agrari e banchieri. Il 7 ottobre fu la volta di Carlo Schanzer, poi ministro degli Esteri, figlio di un illustre massone.
La proporzionale non determinò subito il collasso della democrazia liberale perché, dinnanzi all’inconcludenza di Nitti, il Re affidò il governo al settantottenne Giolitti. Nelle elezioni amministrative dell'autunno 1920 lo statista incoraggiò tutto dove possibile la formazione di “blocchi” comprendenti liberali, cattolici moderati, democratici (ex radicali e socialriformisti), combattenti, “agrari” e qualche sporadico militante nel movimento fascista (all’epoca non ancora “partito”: lo divenne un anno dopo, con il congresso di Roma del novembre 1921). 
Vinta la battaglia per rimettere ordine nei conti dello Stato e abolire il rovinoso “prezzo politico” del pane, Giolitti coronò tre altri successi fondamentali: innanzitutto fronteggiò l'occupazione delle fabbriche da parte degli estremisti rossi, che si erano mossi mentre l'Armata sovietica invadeva la Polonia e puntava a innescare una rivoluzione generale nell'Europa centro-occidentale; inoltre trattò con la Jugoslavia la demarcazione del confine orientale, disinnescando la sempre esplosiva questione di Fiume; infine terminò con la “Reggenza” e lo sperimentalismo politico inaugurato con la Carta del Carnaro.
Perseverare diabolicum...
L'anno seguente Giolitti ottenne lo scioglimento della Camera e la sua rielezione, a legge elettorale immutata: un errore strategico, come gli era stato vaticinato da Antonio Frassati e da altri lungimiranti. Lo statista aveva però validi motivi. Occorreva, per un verso, consentire di votare ai cittadini delle terre annesse in forza della pace di Saint-Germain ma senza plebiscito confermativo (a differenza di quanto era avvenuto con le precedenti annessioni tra il 1848 e il 1870) e, per l’altro verso, verificare se con la trasposizione dalle elezioni locali a quelle generali i blocchi nazionali avrebbero dato vita a una solida maggioranza. Avvenne il contrario. I socialisti persero una trentina di seggi, ma nella nuova Camera entrarono i comunisti che ne ebbero 15. Per non farsi scavalcare a sinistra i socialisti su arroccarono su posizioni anti-sistema. Fu il suicidio delle sinistre, come intuì Anna Kuliscioff. I popolari aumentarono a 107 seggi ma a loro volta vissero di “veti” (anzitutto contro Giolitti) e si resero invisi persino alla Santa Sede. I “liberali” si sfarinarono in diverse sigle. Nacquero quattordici gruppi parlamentari, tra i quali quello fascista con appena 35 deputati su 535. La “maledetta proporzionale” (definizione data da Giolitti e ripresa da Dario Fertilio in un acuto saggio su “I chi, come e perché della democrazia maggioritaria”, Bibliotheca Albatros) dette il suo frutto avvelenato: l'ingovernabilità. Questo accadeva in un Paese che, al culmine di una lotta senza quartiere tra opposte fazioni armate, il giorno delle elezioni lamentò quaranta morti e settanta feriti gravi.
Alla vigilia del voto Giolitti lasciò Roma per accorrere a Cavour, ove giaceva la salma della moglie. Stava finendo un mondo, sotto i colpi ripetuti di una legge elettorale dalle conseguenze tossiche.
È davvero il caso, cent'anni dopo, di riproporre proprio quel modello? Sarebbe un omaggio alla legge del pendolo, che ha visto l'Italia passare dal maggioritario spinto (una straripante maggioranza a chi ottenga almeno il 25 % dei consensi, come la “legge Acerbo” del 1923, o il 40% come oggi) alla proporzionale pura. Il correttivo potrebbe essere forse la via di mezzo, rappresentata dalla legge approvata il 29 marzo 1953, ferocemente combattuta come “legge truffa” dalle sinistre e dal movimento sociale nelle Aule e nel Paese. In realtà essa, condivisa da liberali, socialdemocratici e repubblicani di allora, assegnava 380 seggi su 630 alla coalizione che avesse ottenuto il 50%+1 dei voti validi. Se non fosse fallita alle urne per lieve scarto e  non fosse stata subito abrogata, quella legge avrebbe probabilmente assicurato alla Prima Repubblica la stabilità di governo che le mancò e le avrebbe evitato di finire succuba della partitocrazia in tutte le sue metamorfosi e manifestazioni.
Aldo A. Mola

HIC ET NUNC
 PAESE LEGALE,  REALE, IMMAGINARIO
   
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 18 Agosto 2019, pagg. 1 e 11.
 
L'Italia perse la Guerra dei Trent'Anni (1914-.1945)
“Hic et nunc”. Qui e ora. La crisi di governo è surreale come una novella di Pirandello. Pulsioni represse o troppo urlate talvolta suscitano gesti estremi. Ne rimane esempio l'auto-evirazione del teologo Origene di Alessandria (185-254 d. Cr.). Oppure precipitano nel ridicolo, come insegna “La Giara” di Luigi Pirandello: duello tra il facoltoso don Lolò Zirafa e il conciabrocche Zi' Dima Licasi, finito nello scorno del “proprietario” e lo spasso degli abbacchiatori di olive. Il balzo dalla razionalità all'assurdo nasce dal travisamento della  realtà, dalla contrapposizione tra i “fatti” e la loro “narrazione”. È quanto da troppo tempo accade in Italia, un Paese uscito sconfitto e umiliato nella Guerra dei Trent'anni del secolo scorso (1914-1945).
Le tre Italie e il mito del “sorpasso”
Letteratura a parte, esistono tre Italie: quella legale, la reale e l'immaginaria, frutto di  manipolazioni deformanti. In tempi procellosi, quali i presenti, l'unica vera rimane quella legale, fondata sulla Costituzione e sulle norme che direttamente ne discendono o che, pur essendo antecedenti, non vennero abrogate. Vi è poi l'Italia reale, che si esprime attraverso le consultazioni elettorali e il plebiscito quotidiano di fiducia nelle istituzioni, certificato dal fatto che, sotto il profilo dell'ordine pubblico e della coesistenza tra cittadini, tuttora il Paese è tra i più quieti d'Europa. Non ha nessuna Catalogna (e non ne sente alcun bisogno). Tra culto dei santi e salutismo pagano non ha conflitti di religione, né linguistici, né razziali. È un'Italia che tira a campare. Alle elezioni politiche del febbraio 2013, che registrarono l'alba del Movimento 5 Stelle, votò il 75% degli aventi diritto. In quelle del marzo 2018 i votanti scesero, ma di poco: 73%. I Grillini schizzarono al settimo cielo. La Lega avanzò, ma senza esagerare. Il resto è noto. Alle elezioni degli eurodeputati, il 26 maggio 2019, in molte circoscrizioni la Lega svettò, il M5S fletté, come anche il PD e Forza Italia. Ma in quell'occasione alle urne andò appena il 54,5% degli aventi diritto. L'esito non rappresentò il paese reale. Votò il 58% nel Nord-Ovest, il 67,30% nel Nord-Est, il 53% al Centro, il 52% al Sud e appena il 37% nelle isole. Il partito più votato fu quello radicato nell'Italia settentrionale. Avanzò anche altrove. Ma la sua vittoria straripante è nella narrazione molto più che nei fatti. Lo stesso vale per le repliche alle elezioni di consigli regionali, caratterizzate da modesta affluenza alle urne e con esiti complessivi che non motivano affatto l'urgenza di nuove elezioni politiche. Al contrario, il Paese ha bisogno di raccoglimento, di una pausa di riflessione, di tornare dall'esasperazione dei toni al confronto razionale, basato sulla consapevolezza dei propri “confini” (che sono anche i suoi “limiti”).    
Poiché qualche cosa la Storia insegna, va ricordato che il 17 giugno 1984, nelle elezioni degli europarlamentari, si registrò l'agognato “sorpasso” della Democrazia cristiana da parte del Partito comunista italiano: 33,3% contro 33% (27 deputati contro 26). Un cataclisma? Quel successo nacque dall'emozione per la morte improvvisa di Enrico Berlinguer. Alle amministrative dell'anno seguente la DC ottenne il 36%; il Pci si fermò al 30,2%. Il collasso venne sette anni dopo, per l'intreccio “tangentopoli/mani pulite”: tutta un'altra storia, dopo il crollo dell'URSS, la caduta del muro di Berlino e tanto altro che non va dimenticato quando si scrive non di fantasie ma di Storia.
Un pastrocchio di mezza estate e le sue conseguenze...
Innescato da Matteo Salvini in totale solitudine (a quanto dicono suoi stessi autorevoli fiduciari, a cominciare dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti) il pastrocchio poteva/dovrebbe essere risolto illico et immediate nell'unico modo concludente: le dimissioni del ministro dell'Interno e dell'intera delegazione della Lega al governo, via maestra per determinare la caduta dell'a lui improvvisamente inviso presidente del Consiglio. Un “sacrificio” alla Origene, completo di scatoloni di carte dei ministri dimissionari e del loro immenso seguito, da asportare con serafica leggerezza in nome della coerenza. In assenza, per ora, dei passi che è legittimo attendersi da chi pretende le dimissioni altrui senza dare le proprie, questa crisi ferragostana ha sinora avuto molti contraccolpi verosimilmente non previsti da chi l'ha voluta senza per ora fornirne spiegazioni convincenti.
In primo luogo essa ha fatto emergere in primissimo piano Giuseppe Conte. Spacciato per mesi come “uomo senza qualità”, il presidente del Consiglio di ministri è balzato al centro della scena sia per la posizione istituzionale, sia perché sta sfoggiando il retroterra culturale e professionale di un ceto, gli “avvocati”, che nella storia d'Italia ha veduto innumerevoli uomini di legge ergersi a politici di rango senza bisogno di defatiganti tirocini partitici o di lungo esercizio di cariche elettive. Gli uomini del foro sono come i sacerdoti. Se questi conoscono le tentazioni del mondo soprattutto dalle confessioni dei loro fedeli, gli avvocati le apprendono attraverso i loro clienti: un osservatorio privilegiato. Di lì il dominio della logica e il linguaggio tagliente che hanno subito improntato le tempestive repliche di Conte a chi ne chiese le dimissioni tacciando il governo di accidiosa inconcludenza, quasi non ne avesse fatto parte sin dalla stipula del famigerato “contratto per il cambiamento” (completo, va ricordato, di pretese anticostituzionali, quali il divieto ai membri di questo o quell'Ordine  di far parte del governo nazionale). 
Salvini è riuscito inoltre a compiere il prodigio sino a pochi giorni prima inimmaginabile: spingere l'alleato di governo e tutti i partiti di opposizione a coalizzarsi nel bocciarne la perentoria richiesta di immediata calendarizzazione delle comunicazioni del presidente del Consiglio, della eventuale “sfiducia”, del subitaneo scioglimento delle Camere e dell'indizione di nuove elezioni. Per la nota regola in forza della quale quando si è improvvisamente assaliti si accetta volentieri l'aiuto di un nemico temporaneamente meno pericoloso, i Cinque Stelle sono stati costretti a sommarsi agli oppositori del colpo di mano: che non significa né allearsi, né fondersi, né, meno ancora, dar vita a una coalizione di ampiezza e di durata imprevedibile. Il futuro è tutto da scrivere.
Per uscire dall'angolo nel quale si è cacciato da sé, Salvini ha tentato due carte che ne hanno ulteriormente accentuato l'isolamento, sia sul piano istituzionale, sia nei rapporti con il principale alleato storico, cioè Forza Italia, un “partito”essenzialmente “centrista” o, se si preferisce per chiarezza, con il suo presidente, Silvio Berlusconi. Al riguardo va ricordato che l'attuale “partito” Fratelli d'Italia è il punto di arrivo delle reiterate convulsioni di una estrema destra, che non ha mai chiarito sino in fondo la propria genesi né il proprio iter. Per motivi che non è possibile ripercorrere analiticamente in questa sede, la “Destra” a lungo fece da contenitore di persone e di storie non solo diverse ma reciprocamente contrastanti, quali i monarchici e gli eredi del mussolinismo, cosa ben diversa dal regime fascista nato tra il 1923 e il 1929 dalla fusione fra la destra liberale (alimentata dai nazionalisti) e il partito fascista, ideologicamente caleidoscopico e cangiante (reazionario, sinistrorso, mangiapreti e corrivo a firmare il Concordato con la Santa Sede, élitario e corporativo: tutto e il contrario di tutto). Ne scrive Marco Mensi in “Destra d'Italia. Una breve storia da Cavour a Mussolini” (Ed. Erga).   
Forza Italia: una storia liberale
Al presidente Berlusconi il “Capitano” Salvini ha prospettato di formare un “cartello”, benevolmente disposto a ospitare un certo numero di candidati sotto il suo spadone. Non ci voleva molto a capire che questi avrebbero fatto la fine di quanti, senza essere iscritti al PNF, nell'aprile del 1924 si candidarono nella Lista nazionale allestita da Mussolini. Finirono intruppati e fagocitati, ghettizzati e scaricati alla prima occasione, cioè quando nel 1929 si passò dalla Camera elettiva a quella preconfezionata dal Gran Consiglio del Fascismo, deputato a stilare l'elenco dei 400 candidati, da approvare in blocco. Di formazione intrinsecamente liberale, il presidente Berlusconi non ha certo scordato la lezione del 1924. Dei 374 deputati espressi dal listone gli iscritti al PNF erano solo 227. Molti degli eletti erano e rimasero contrari a indossare la camicia nera: bastino i nomi di Enrico De Nicola e di Vittorio Emanuele Orlando. Ma in capo a un paio d'anni ai più non rimase alternativa: piegarsi o essere emarginati. Lo aveva intuito l'ottantaduenne Giovanni Giolitti, che nel 1924 presentò in tre circoscrizioni elettorali la lista liberale affinché (disse il 16 marzo 1924 nel suo ultimo discorso elettorale) non scomparisse “perfino il nome  del partito di Cavour, di d'Azeglio, di Rattazzi, di Lanza, di Sella e di centinaia di altri patrioti”. Non bisognava rinnegare “le più pure nostre glorie a beneficio dei due partiti (socialcomunisti  e clericali capitanati da don Sturzo) che avevano reso impossibile la normale funzione del Parlamento”. Forza Italia ha una lunga storia di partito centrista ed è corposamente presente nel gruppo dei Popolari al Parlamento Europeo, ove ha avuto un peso determinante nell'elezione della Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, in vista di partite di valenza intercontinentale. Sic stantibus rebus, se declinano la Germania e la Francia, l'Italia va a rotoli, prima durante e dopo l'ormai incombente crisi finanziaria mondiale che rischia di travolgere non solo l'Esecutivo ma la vita quotidiana e il valore dei beni mobili e immobili degli italiani. Non per caso tornano a schioccare le ali dell' uccello del malaugurio: la “Patrimoniale...”. 
A scanso di equivoci, il 1922-1929 (e specie il 1924) non è qui evocato per appiccicare fatue e anacronistiche etichette a personaggi politici odierni ma per evidenziare l'errore lessicale di chi ha incautamente agitato la richiesta di “pieni poteri” tramite una investitura plebiscitaria, estranea alla storia parlamentare d'Italia dal 1848 a oggi, con la sola e niente affatto rimpianta parentesi degli anni 1929-1943.
Il mito del “costo della politica”
Percepito di essere alle corde per l'intempestiva pretesa di sfiduciare Conte, Salvini ha rilanciato proponendo di approvare in quarta lettura la riduzione dei componenti della Camera e del Senato, quale premessa per dimissioni del governo e indizione immediata di nuove elezioni generali. La potatura del numero dei parlamentari è un vecchio e stantio leitmotiv dell'antipolitica. Ha accomunato nei decenni partiti e movimenti del tutto diversi. La Sinistra (mai dimenticare!) originariamente era per l'abolizione del Senato, considerato fortilizio dei reazionari anche quando nel 1948 passò dalla nomina regia e vitalizia all'elettività. Proprio per il centinaio di “senatori di diritto”, in massima parte non democristiani, aggiunti a quelli appena eletti, De Gasperi fu costretto a varare il governo di coalizione centrista che scongiurò la clericalizzazione dell'Italia. Così come è (del tutto diverso dal papocchio proposto dalla “riforma” Renzi-Boschi) il Senato ha reso e può rendere grandi servigi alla democrazia parlamentare: soprattutto se continuerà ad avere un corpo elettorale diverso (cioè più anziano) rispetto a quello della Camera dei deputati e uno stile austero, diverso da quello esibito lo scorso 12 agosto. Il monocameralismo è sempre stato (e rimane) cavallo di battaglia dei giacobini e dei leninisti, perché spiana la strada all'eliminazione dei residui oppositori (anche fisica, all'occorrenza: espulsione dall'Aula, dichiarazione di decadenza, ecc.). E' predicato dalla chiacchiera sul “costo della politica” condivisa da tutti i neo-qualunquisti. Essa sposta l'attenzione dal vero nodo della democrazia parlamentare: non il numero dei rappresentanti ma la loro preparazione culturale e, specificamente, i prerequisiti per l'esercizio della rappresentanza politica, la più alta delle responsabilità, delle “arti”, delle “professioni”, come (secondo il suo discepolo Platone) insegnava il filosofo ateniese Socrate, sino a quando, esasperati del richiamo alla serietà e inclini al malgoverno, i suoi concittadini lo fecero condannare a morte dall'Areopago.
Il Paese Italia è perfettamente in grado di accollarsi il costo del Parlamento. Ha ben altri sperperi da eliminare! Non è invece in condizione di sopportare l'inerzia del governo nazionale, di Regioni spendaccione e di amministrazioni comunali che hanno condotto al fallimento gli enti affidati alle loro cure.   
Forme e sostanza degli Stati...
Dinnanzi all’incombente crisi dell'esecutivo attuale non è per nulla retorico riflettere sul “porro unum necessarium” di qualunque altro dovesse subentrargli. Lo Stato è chiuso nella tenaglia dell'enorme e crescente indebitamento pubblico, della stagnazione del prodotto interno lordo e del declino della sua creatività, anche e soprattutto per lo sfascio della scuola e della ricerca scientifica che ancora ricorre allo sfruttamento delle capacità e della dedizione. Anche altri Paesi dell'Unione Europea vivono difficoltà, ma hanno fondamentali economici (sistema produttivo e fiscalità) di gran lunga più efficienti e un assetto dei poteri istituzionali così stabile da assorbire i contraccolpi della labilità del regime rappresentativo. Vale per gli Stati monarchici (da Gran Bretagna, Spagna, Benelux, Paesi scandinavi...) come per la repubblica presidenziale francese e per quella federale germanica. 
La cornice e il capolavoro 
Qualunque capolavoro politico voglia compiere un futuro governo va ricordato che da secoli per il Paese Italia è la cornice a decidere il quadro e non viceversa. Falliti i propositi di dar corpo a monumenti imperituri, Leonardo da Vinci dedicò gli ultimi anni a rivisitare “la Gioconda”. Quello era l'unico “spazio” rimasto a disposizione del suo genio, in un castello lontano dalla sua terra d'origine. All'altro gigante dell'epoca, Michelangelo Buonarroti, papa Giulio II affidò la decorazione della Sistina. Egli affrontò la sfida e la superò, ma non poté ampliare di un metro le dimensioni della Cappella. Così è e sarà per qualunque Esecutivo. Come nel mensile “Storia in Rete” ha ricordato lo storico Nico Perrone, specialista dei legami italo-americani, l'Italia è vincolata in aeternum alla Nato per quanto riguarda il suo assetto difensivo (e quindi militare, dell'industria strategica e pertanto nell'informatica...). I “giri di valzer” che si era permessa con la Francia a inizio Novecento vennero guardati con indulgenza dal Cancelliere germanico von Bulow perché Vittorio Emanuele III era sovrano di uno Stato con ampi margini di indipendenza e di possibili iniziative (lo si vide con la dichiarazione di guerra all'impero turco per la sovranità su Tripolitania e Cirenaica, intrapresa senza l'avallo preventivo né degli alleati né degli avversari/concorrenti). Ora non può fare altrettanto. Lo stesso vale per i suoi rapporti con l'Unione Europea, che non è una combriccola di burocrati antipatici ma una somma di vincoli ineludibili se non a prezzo di sanzioni durissime.
Vagheggiare l'uscita dall'euro e l'invenzione di forme neppur tanto occulte di aumento del debito pubblico (per esempio con i risibili mini-bot) vuol solo dire perdere ulteriormente di credibilità internazionale, scoraggiare qualunque investimento dall'estero, far fuggire i pochi capitali ancora disponibili e seminare panico e sfiducia in quanti si sentono intrappolati dalle loro proprietà immobiliari, vessate dalla tassazione esorbitante, unicamente destinata a fronteggiare la spesa corrente, senza alcun beneficio per la famosa “crescita”.
Sarà un bene o sarà un male la somma dei vincoli che oggi fa da cornice al Paese Italia e recide i garretti di qualunque velleità sovranistica? Sarà giustizia o misericordia, per dirla con padre Cristoforo? Agli occhi della Storia essa risulterà un beneficio, come le regole elementari di comportamento insegnate a bambini poco inclini alla disciplina. Capiranno nel tempo che la vita è fatta di diritti come anche di doveri, di gioco e di serietà. 
L'Italia immaginaria deve lasciare spazio a quella reale e alla legale: la Costituzione e tutte le convenzioni internazionali sottoscritte dal 1948 a ieri. Se l'Italia contò e ancora conta, è proprio grazie alla riduzione della sovranità nazionale cui, sconfitta nella Guerra dei Trent'anni, essa acconsentì nell’art. 11 della Carta fondamentale. Pretendere di ignorarla e di “fare da sé” è solo ingenua velleità di dimenticare la propria storia, la realtà fattuale. Poca cosa per un principato ricco e operoso, pessima per un Paese dall'economia stagnante in un mondo in recessione. 
I prossimi giorni saranno decisivi e peseranno per molti e molti anni, come ha ripetutamente ricordato Silvio Berlusconi e fa intendere il Presidente Sergio Mattarella. 
Aldo A. Mola 

EBREI  TRA ALPI E COSTA AZZURRA
 UNA “NAZIONE” PRIMA E OLTRE GLI “STATI”
  
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 11 Agosto 2019, pagg. 1 e 11.
 
CASSIN MARCO (1859-1926), ebreo,deputato, rotariano.13  aprile 1850: quando Cavour fece fischiare una palla...
“Oh, gran bontà de' cavalieri antiqui” scrisse il poeta. Anziché moltiplicare insulti e polemiche, vi sono altri modi per chiudere una disputa nata in Parlamento. Lo documentano gli Atti della Camera dei deputati del regno di Sardegna, l'unica elettiva in Italia dopo il fallimento del Quarantotto, a dimostrazione che la monarchia rappresentativa varata da Carlo Alberto e dal suo giovanissimo successore, Vittorio Emanuele II, era il solo regime capace di guidare l'impervio cammino dell'Italia verso indipendenza nazionale, unità e libertà. Emblematica rimane la “resa dei conti” tra due deputati della Camera “subalpina” nella primavera del 1850. Camillo Cavour, ancor prima della nomina a ministro di Agricoltura e Commercio in successione allo sfortunato Pietro Derossi di Santarosa, era schierato per la liberalizzazione degli scambi. In aprile si aprì il dibattito sul trattato di navigazione e commercio con la Francia. Il conte lo propugnò a spada tratta. Lo ricorda Simona Tombaccini in “La Nazione Ebrea di Nizza, 1814-1860” (Ed. Centro Studi Piemontesi, candidato al Premio Acqui Storia), uno di quei libri che chiedono una vita di ricerche d'archivio ma poi durano nei secoli. Gli si oppose Henri Avigdor, di cospicua famiglia israelita, deputato di Gavi e strenuo difensore degli interessi della sua nativa Nizza Marittima. Dall'Aula di Palazzo Carignano la polemica, tutta svolta in perfetto francese (Cavour lo parlava meglio che l'italiano), rimbalzò nei giornali. Il duello tra il cavouriano “Il Risorgimento” e “La Voix de l'Italie”, periodico  fondato da Giulio Avigdor, fratello di Enrico, salì al diapason. Secondo il costume del tempo ai due non rimase che posare la penna e passare ai fatti: un duello alla pistola. Lasciati per pochi minuti gli scranni deputatizi, il pomeriggio del 13 aprile si trovarono sulle sponde della Dora, non lontano da un cimitero. Per sorteggio, Avigdor sparò per primo. Ebbe a portata di tiro la vita del trentenne Camillo e, con essa, le sorti del regno e dell'Italia ventura. Mancò il bersaglio. Lo stesso fece Cavour. I rispettivi padrini si affrettarono a giudicare chiuso il duello, “considerato il contegno franco e generoso dei due avversari”. Il nizzardo tese amichevolmente la mano al conte confidandogli di aver sentito “siffler la balle” all'orecchio. “Non ho mirato per mancarvi” rispose Cavour, gelido e ambiguo come un oracolo. Poiché il duello era proibito, il procuratore generale di Torino li incriminò, ma la Camera respinse l'autorizzazione a procedere. Il codice dell'onore prevaleva su quelli ordinari. La loro riconciliazione avvenne in Aula e, come Cavour confidò divertito, il trattato passò grazie alla “conversion d'Avigdor”. Ne accenna il siciliano Rosario Romeo in una nota dell'immensa insuperata biografia dello Statista, affidatagli dalla Associazione Piemontesi a Roma, mentore Renzo Gandolfo, “ 'l profesor”. D'altronde la sorte di Nizza era segnata. Dall'annessione della Liguria nel 1814, anziché alla città di Caterina Segurana Torino guardava a Genova (ai danni di Savona, da sempre in contrasto con la Superba) e a La Spezia quale porto militare, più possibile lontano da Tolone. 
Nel decennio seguente tante famiglie nizzarde si trovarono dinnanzi alla scelta tra Parigi e Torino, la Francia (e il suo già immenso impero coloniale, dall'Algeria alla Cocincina) e un'Italia ancor tutta da costruire. Con la cessione alla Francia della Savoia e della Contea di Nizza (1860) venne l'ora delle decisioni ultime. Francofoni da molte generazioni, scrive Tombaccini, i giudeo-nizzardi “nutrivano sentimenti filofrancesi e da lunga data”. I più chiesero la “naturalizzazione” francese. Altri scelsero la cittadinanza italiana. Il “dilemma dell'annessione attraversava le famiglie e le spaccava, dato che un genitore, memore dell'esperienza napoleonica, preferiva la Francia, mentre il figlio, sensibile agli ideali del Risorgimento, inalberava il vessillo dell'Italia unificata che si profilava all'orizzonte”.
Al di là degli Stati, sotto la Stella di Davide
Per gli ebrei v'era però una terza opzione, silente: rimanere se stessi, “nazione”, come sempre nei secoli. Fu il caso di molte famiglie della Costa Azzurra. Quando ancora non c'erano telefoni né internet avevano una fitta rete di comunicazioni da uno all'altro dei Paesi nei quali singoli loro componenti si erano trovati a vivere, spesso sospinti dalle bufere delle persecuzioni, da Spagna e Portogallo alla Francia e all' “Italia”. Tra la Rivoluzione e l'Impero (1789-1815) avevano vissuto una lunga parentesi di libertà, rimasta pressoché intatta in Francia dopo la Restaurazione, a differenza di quanto accadde nel regno di Sardegna col ritorno di Vittorio Emanuele I. 
Dopo decenni tra conati di rivolta e rassegnata sottomissione, lo Statuto di Carlo Alberto e i Regi decreti del suo Luogotenente Eugenio di Carignano riconobbero agli israeliti uguaglianza di diritti civili e politici. Gli Avigdor se ne avvalsero subito. Henri-Enrico il 2 febbraio 1850 si candidò alla Camera dei deputati nel collegio di Gavi, già rappresentato dai marchesi Damaso Pareto, Orso Serra e Tommaso Spinola.  Soccombente al primo turno per un paio di voti contro Pietro Bianchi, due giorni dopo egli trionfò in ballottaggio con 130 preferenze contro le 19 del rivale.  Suo fratello  Giulio a sua volta fu eletto in ballottaggio nel 2° collegio di Nizza Marittima l'11 dicembre 1853 e venne confermato il 22 gennaio 1854. Morì il 23 dicembre dell'anno seguente. Gli subentrò Carlo Laurenti-Robaudi, come Augusto Riboty e altri patrioti pugnace difensore dell'italianità di Nizza.   
Di là, di qua delle Alpi: il rabbino cuneese Lelio della Torre
Con minuziosi alberi genealogici (quasi diamanti incastonati in una ricca collana di capitoli) Tombaccini documenta i flussi secolari dei membri di una stessa famiglia dall'uno all'altro versante delle Alpi del Mare. E' una regione che ancora attende la vera svolta dell'Unione Europea: tornare da sommatoria di Stati e staterelli all'ecumene antica, vaticinata da Caracalla (non il più costumato fra gli imperatori romani) quando, nel 212 d.Cr., conferì la cittadinanza a tutti gli uomini liberi. Ne emerge l'arricchimento culturale che ne trasse il Piemonte nell'Otto-Novecento. Fu il caso del Piemonte meridionale, ove, per esempio, Cuneo contò due ebrei di peso europeo: Lelio della Torre e Marco Cassin. 
Della Torre nacque nel capoluogo della “Granda” l’11 gennaio 1805 e morì a Padova il  9 luglio 1876. Orfano di padre a soli due anni, crebbe nella casa dell’avo materno, Michele Vita Treves, rabbino maggiore di Casale Monferrato. Studiò ebraico, latino e greco. Parlò italiano, francese, tedesco... Così definì la sua schiatta: “Italiani per nazione e per patria, israeliti per religione, e come italiani e come israeliti dobbiamo tendere ogni sforzo all’unità: dobbiamo stringerci fortemente intorno allo stendardo della patria comune, intorno allo stendardo della religione, fonte della libertà, di eguaglianza, d’indipendenza. che ausiliaria anch’essa vuol essere della patria e da noi a suo pro’ adoprata”. Della Torre respinse l’attribuzione dell’unificazione italiana a un “complotto  giudaico”, preludio di quello “giudaico-massonico”, classico cavallo di battaglia dell’antisemitismo reazionario. Perciò la sua figura e la sua opera  furono riproposte quale  vessillo liberale nel Piemonte d’inizio Novecento. 
Marco Cassin, politico, patriota, rotariano... 
Altro esponente insigne della comunità ebraica subalpina fu Marco Cassin (Cuneo, 29 agosto 1859  - Padova l’8 aprile 1926). Come i Cavaglion, i Lattes, Treves, Valobra, Valeri (una Debora sposò Aronne Ovazza di Torino), anche i Cassin furono una famiglia transfrontaliera. Nel Cuneese  si affermarono come proprietari di manifatture seriche e di una banca. Un membro della famiglia, Aronne, componente della giunta comunale di Caraglio, nel 1885  caldeggiò l’ingresso di Giovanni Giolitti nel consiglio provinciale di Cuneo. Era morto Agostino Moschetti, avvocato, già  sindaco di Cuneo, deputato alla Camera e consigliere  provinciale per il mandamento di Caraglio. Eletto col sostegno di Cassin, Giolitti rappresentò il mandamento  sino al 1920 quando morì Luigi Moschetti, che non resse alla perdita del figlio, caduto al fronte all’inizio  della Grande Guerra.  Nel 1920 Giolitti ne ereditò il mandamento di Prazzo e San Damiano, terra dei suoi antenati paterni. Vi rinunciò nel dicembre 1925, in risposta al servile complotto di catto-fascisti, con contorno di liberali tristemente dimentichi di sé, tutti proni dinnanzi al duce del fascismo.
Primo esponente politico-amministrativo della famiglia Cassin nel consiglio comunale della città di Cuneo fu Emanuel, titolare dell’omonima banca, in carica  dal 1873 al 1882, quando morì. Sette anni dopo fu eletto Marco. Non confermato nel 1893, riconquistò il seggio nel 1905, mentre  affioravano tensioni fra clericali e liberaldemocratici. Marco Cassin divenne punto di riferimento di  una linea politica destinata a fare da spartiacque nell’amministrazione civica cuneese: i clericali da una parte, duramente ostili nei confronti di Giolitti, proprio quell’anno eletto presidente del consiglio provinciale; i liberali progressisti dall’altra.  Anche in Piemonte molti esponenti della democrazia cristiana ispirati da don Davide Albertario e da Cesare Algranati, ebreo convertito in Rocca d'Adria (1892 e seguenti), polemizzavano a freddo contro israeliti e massoni.  Alle elezioni comunali  del 5 marzo 1908 prevalse un blocco moderato, confermato nelle elezioni del 12 settembre 1910. Cassin rimase soccombente.
La lotta fra clericali e liberali crebbe di tono con la fondazione della loggia “Vita Nuova”, il cui  stratega fu l’avvocato Angelo Segre.  La lotta per la conquista dell’amministrazione cuneese balzò al centro dell'attenzione nazionale. Nel 1909 Tancredi Galimberti, che nel corso degli anni aveva percorso tutto l’arco ideologico e politico (da garibaldino e radicale a giolittiano e infine filoclericale), venne confermato deputato. I liberali in Cuneo e altre zone della provincia erano però prevalentemente progressisti, convinti di poter fare a meno di alleati scomodi: sia i socialisti, sia i clericali. Il loro vero Nume era Giolitti. Benché non fosse al governo (presidenti del Consiglio furono, in rapida successione, Sidney Sonnino e Luigi Luzzatti) lo Statista lo controllava, anche tramite il deputato di Alba, Teobaldo Calissano, sottosegretario all’Interno. Per sciogliere il nodo, il  Comune di Cuneo fu commissariato. Cassin organizzò la riscossa dei liberali. Finanziò la nascita di un terzo quotidiano, il “Corriere Subalpino” (poi “Il Subalpino”), contrapposto alla “Sentinella delle Alpi” di Galimberti e al cattolico “Lo Stendardo”. Le elezioni del 1912  decretarono la vittoria dei progressisti guidati da Cassin, fiancheggiato dai “fratelli” Eugenio Cavaglione, Giovanni Quaranta, Angelo Segre e dal trentenne avvocato  Marcello Soleri, eletto sindaco. Questi  chiamò Cassin in giunta. Ancora una volta un pugno di uomini determinati e coesi garantirono la libertà delle moltitudini. Quello è il ruolo delle élites. 
Il 15 maggio 1913 Soleri si dimise per rendersi eleggibile alla Camera dei deputati. 
Il 26 ottobre 1913, mentre Soleri fu eletto deputato per il collegio di Cuneo, Cassin strappò il seggio di Borgo San Dalmazzo ad Alessandro Rovasenda di Rovasenda in carica dal 1897. Fu un duello memorabile. Vi puntarono i riflettori i giornali nazionali. A chi lo tacciò d’essere ebreo e massone  e che pertanto non meritava di rappresentare i borgarini a Roma  Cassin rispose di non sentirsi in colpa  solo perché apparteneva alla stirpe di Abramo. A ogni modo non poteva farci nulla. Smentì d’essere affiliato alla massoneria italiana. Non aveva motivo di nasconderlo. Massoni erano stati cinque presidenti del Consiglio. Nessun imbarazzo, dunque; semmai all'epoca era un passe-partout. Negò di esserlo non per opportunismo ma perché non lo era.  
Il 12 luglio 1914, in veste di pro-sindaco, Cassin annunciò la vittoria dei liberali nelle elezioni comunali di Cuneo. Sindaco fu eletto Luigi Fresia. In quello stesso turno amministrativo Cassin  fu eletto consigliere provinciale per il mandamento di Vinadio, già rappresentato da Rovasenda.  Sconfitto da Soleri a Cuneo nelle politiche del 1913, Galimberti fu battuto anche alle provinciali: una  disfatta che ne eccitò lo spirito di vendetta, spinto all'estremo quando perfidamente chiese soldi agli industriali torinesi per annientare per sempre Giolitti nella sua provincia originaria. Cassin  non tornò nel consiglio comunale di Cuneo  perché ormai aveva altre e più  alte incombenze. Presidente della Camera di Commercio di Cuneo, all’intervento dell’Italia nella grande guerra a fianco dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia) egli gettò sul piatto della bilancia una ricompensa concreta e immediata: la rettifica della balzana linea di frontiera italo-francese risalente ai frettolosi accordi di Plombières fra Cavour e Napoleone III e peggiorata nel  1860. Però il miope governo Salandra-Sonnino non raccolse il suggerimento, per non creare allarme nel governo francese di cui, senza molte ragioni e con più danni che vantaggi, col patto di Londra del 26 aprile 1915 l’Italia divenne alleata contro gl’Imperi Centrali. Nel 1916 Cassin perse il figlio Luigi, caduto ventitreenne durante esercitazioni alla base dell’aviazione militare a Cameri (Novara). Presidente delle Camere di Commercio italiane dal 1916, candidato con Giolitti nelle elezioni politiche del 1919, l’anno seguente, lasciate tutte le cariche locali, ascese a  vicepresidente della Camera di commercio internazionale. Giolitti lo propose senatore. Durante la sua presidenza fu avviata la costruzione della sontuosa sede della Camera di Commercio di Cuneo. Autore di numerosi studi scientifici, economici, statistici, egli pronunciò  il discorso ufficiale per la posa della prima pietra della Stazione Nuova di Cuneo presenti il Re, Vittorio Emanuele III, il presidente del Consiglio dei ministri, Giolitti, il direttore generale delle Ferrovie Riccardo Bianchi e altre personalità.
L'Internazionale Azzurra, bastione delle libertà 
Quando nel dicembre 1925 si dimise da presidente e da consigliere provinciale, Giolitti non gli chiese di fare altrettanto, così come non pretese che Camillo Peano lasciasse la presidenza della Corte dei Conti, alla quale era asceso una settimana prima che Mussolini si insediasse al governo. Chi lo poteva doveva rimanere al suo posto per protrarre il magistero liberale e prepararne la riscossa. Se ne intravvedono i segni premonitori nella relazione di Cassin  sull’attività camerale, che fu anche il suo testamento politico. A far scendere un'ombra sulla sua figura concorse  il concordato cui la sua Banca fu costretta per evitare un mortificante fallimento. A quasi un secolo dalla morte, Marco Cassin merita l'intitolazione di un luogo o edificio pubblico, non meno dei sindaci e deputati ai quali spianò la via del meritato successo. E' l'emblema di un mondo che esisteva prima e rimarrà vivo dopo il tramonto degli “Stati nazionali”, qui e là necessari secondo le “circumstanzie”, ma spesso forieri di guai nel corso millenario della storia.
Con l'industriale e poi senatore del Regno Luigi Burgo, con Soleri, lo scrittore Nino Berrini (massone) e altri insigni esponenti del Vecchio Piemonte (Giuseppe Boglione, Umberto di Montezemolo, Gastone Guerrieri di Mirafiori, Giambattista Imberti, Enrico Marone...), nel 1925 Cassin dette vita al Rotary Club di Cuneo: antenna della nuova Internazionale Azzurra. La sua storia fu pubblicata nell'80° del Sodalizio, all'epoca presieduto da Gianmaria Dalmasso, e riproposta dieci anni dopo con premessa di Alois Dalmasso di Garzegna. Socio d'onore il Rotary di Cuneo dal 1927 ebbe Umberto di Savoia, principe di Piemonte; e dal 2006 vanta sua figlia, la Principessa Maria Gabriella: tanti “nodi” della lunga “catena” che ha condotto alle libertà, ai diritti dell'uomo, alla fratellanza tra i popoli, arricchita dalla “nazione ebraica” cresciuta tra Alpi e Costa Azzurra. Il 15 novembre 1938 anche il Club di Cuneo sospese le sedute a tempo indeterminato prima che Mussolini sciogliesse di autorità i Rotary d'Italia, malgrado ne fosse presidente onorario il Re stesso. D'altronde tre giorni dopo furono emanate le leggi razziali, volute dal duce d'intesa con l'ala antimonarchica del fascismo per isolare Vittorio Emanuele III e subordinare il Paese alla Germania di Adolf Hitler. Fu il suicidio di sovranisti sprovveduti e cortomiranti. Purtroppo, però, esso comportò la rovina d'Italia.  
Aldo A. Mola

(*) L’autore è grato a Mathieu Vernant (Parigi), che ha liberalmente messo a disposizione una fotografia inedite del nonno, Marco Cassin .  
 
 
 
 

LA PARABOLA DEL GENERALE LUIGI CAPELLO
 DA COMANDANTE DELLA II ARMATA A TRENT’ANNI DI CARCERE
  
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 4 Agosto 2019, pagg. 1 e 11.
 
Luigi Capello durante la detenzione nel giardino della clinica di Formia.I “casi” della Storia
La storia d'Italia è zeppa di casi che meriterebbero di esser narrati da scrittori dalla penna forbita anziché da aridi cronisti. Tra i molti vi è la sorte dell'attuale Verbania. A Pallanza e ad Intra, ora fusi nel ridente comune del Lago Maggiore, nacquero Luigi Cadorna, Comandante Supremo dell'Esercito italiano nella Grande Guerra, e il suo più valente generale, Luigi Capello, comandante della II Armata. Non bastasse, Capello presiedette il congresso di Roma che nel novembre 1921 segnò il passaggio del fascismo da movimento a partito nazionale e quattro anni dopo venne condannato a trent'anni di reclusione per attentato alla vita del duce. 
Di Cadorna molto si è scritto nel centenario della prima guerra mondiale, scandito anche dalla ristampa delle sue opere fondamentali, La guerra alla fronte italiana (ed. Bastogi) e Caporetto. Risponde Cadorna, curato da suo nipote, Carlo (ed. BCSmedia). Capello, invece, rimane in un cono d'ombra. Motivo in più per ricordarlo anche per memoria del 10 agosto 1916, quando comandò il vittorioso ingresso degli italiani in Gorizia.
Capello: la carriera militare di un borghese
Luigi Carlo Attilio Capello (Intra, Novara, 14 aprile 1859 - Roma, 25 giugno 1941), familiarmente chiamato Attilio, nacque mentre il padre, Enrico, originario di Fossano nel Cuneese, combatteva nella seconda guerra d’indipendenza. Avviato sedicenne alla Scuola Militare di Modena, vi ottenne risultati brillanti. Studiò l’arte militare di fine Settecento e la napoleonica campagna d’Egitto del 1798. Volontario dal 21 novembre 1876 (“con firma permanente”) salì di grado in grado sino a entrare nel Corpo di Stato Maggiore. Nel 1887 fu destinato al comando della Divisione militare di Firenze, poi a quelle di Ancona e di Napoli (1890), ove il padre era capo dell’ufficio del telegrafo. 
Nel 1893 fu trasferito a Cuneo: posizione periferica, si disse, perché non erano stati apprezzati articoli nei quali aveva propugnato il passaggio dell’esercito da un assetto difensivo a quello offensivo, proprio mentre cresceva la tensione tra Italia e Francia. Nell'agosto di quell'anno ad Aigues-Mortes decine di emigrati vennero massacrati a colpi di vanga perché si contentavano di una mercede inferiore a quella chiesta dai terrazzieri francesi. In realtà l’assegnazione al capoluogo della provincia del presidente del Consiglio Giovanni Giolitti non fu affatto una “punizione”, sia perché la “Granda” era, appunto, “terra di frontiera”, sia perché Capello vi era circondato da amicizie e da parenti. Il 26 luglio 1893 vi sposò Lydia Bongioanni, un cui fratello, Riccardo, massone, sarebbe divenuto presidente della locale Cassa di Risparmio. Cinque giorni dopo la conquista di Derna (3 marzo 1912), durante l’impresa di Libia, Capello rievocò alla truppa la propria iniziazione alla vita militare: “È un antico Alpino del Battaglione Val Maira che vi parla, soldati; un Alpino di trent’anni fa, che, quando vi vede, non può non ricordare i tempi della sua giovinezza e l’Alpe nativa. E come tale io vengo fra voi oggi, tra i miei fratelli di un tempo, tra i grandi e modesti eroi del 3 marzo”. 
A Cuneo Capello visse anni di turgori. Sotto i portici di via Roma, da piazza Vittorio Emanuele II a piazza Torino militari e graduati minori passeggiavano sul lato sinistro, gli ufficiali sul destro, quello dei caffè-concerto. In tal modo coscritti,  caporali e sergenti erano dispensati da irrigidirsi ogni due passi nel saluto di prammatica ai superiori, a scanso di punizioni esemplari. Su quel lato privilegiato un giorno una signora (che non era Lydia) spinse due pargoletti dinnanzi ad “Attilio-Luigi” dicendo loro: “Salutate il vostro papà...”. Nessuno ci fece gran caso. Del resto persino il Feldmaresciallo Radetzky aveva avuto quattro figli da una fedelissima domestica. Volere l'ordine nel Lombardo-Veneto non comportava di nutrire repulsioni per i suoi abitanti, popolani inclusi (anzi, meno ancora per questi che verso gli altezzosi patrizi e borghesi che avevano linciato a colpi di ombrello il napoleonico ministro delle finanze, Prina, colpevole di aver fatto pagare le tasse).
Tenente colonnello nel 1898, colonnello nel 1904, nel 1909 Capello pronunciò a Torino l’orazione ufficiale per il cinquantenario della seconda guerra d’indipendenza. Auspicò la pace europea: “Se guerre ancora vi saranno non potranno essere per noi che guerre rese necessarie da grandi interessi nazionali; ed allora, ancor più che per il passato, l’esercito sarà il Paese. L’indole nostra, la nostra storia lo impongono. La tradizione militare del nostro risorgimento si associa nella mente del popolo e si confonde colla tradizione garibaldina...” Ritratto come “uno dei più giovani e colti nostri ufficiali superiori”, nel novembre 1911 partì da Padova alla volta della Libia alla testa del 57° reggimento di fanteria. Dopo il già ricordato successo di Derna, il 2 giugno spiegò ai soldati il valore dello Statuto, “santa legge di libertà e di eguaglianza la quale voi avete giurato di osservare arruolandovi sotto le bandiere”. Valutato “idoneo a conseguire il grado superiore”, proposto per l’encomio solenne e apprezzato da Armando Diaz, dal 1° febbraio 1913 fu assegnato al comando della brigata “Lombardia”.
La Quarta guerra per l'Unità d'Italia del Fratello Capello
Fautore dell'amicizia italo-francese, nel 1914-1915 Capello non nascose la sua inclinazione per l'intervento in guerra contro l'Austria, nemico storico. Era la Quarta guerra per l'indipendenza, a fianco di Marianne, depositaria del trinomio “libertà, uguaglianza, fraternità” scritto nei templi massonici da lui frequentati da quando era stato iniziato nella loggia “Fides” di Torino, il 15 aprile 1910 (brevetto n. 31.681).
Nell’agosto 1916, alla testa del VI corpo d’armata, Capello liberò la “Santa Gorizia”: un successo che lo impose all’attenzione generale e, come scrisse Renzo De Felice, ne fece l’“unico generale italiano di statura europea”. Nei momenti più complessi si valse di solidarietà propiziate dalla “fratellanza”: viatico per le relazioni con Ernesto Nathan, Eugenio Chiesa, Salvatore Barzilai, Leonida Bissolati, Ferdinando Martini... dei quali aveva bisogno per tenersi al riparo dagli eventuali fulmini del Comandante Supremo, Luigi Cadorna, che lo apprezzava come uomo di guerra ma non ne gradiva l'ostentazione di amicizie tripuntinate.  
Bollato quale “tiranno sanguinario” e persino “macellaio” (come si legge nella famigerata “Inchiesta su Caporetto” del 1919, ristampata dall'Ufficio Storico dello SME e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo presieduta da Gianni Rabbia), Capello si batté invece per migliorare le condizioni materiali e spirituali della truppa, valendosi anche dell’amicizia di padre Giovanni Semeria e di Agostino Gemelli. Promosso nel giugno 1917 alla testa della II Armata (circa 900.000 uomini: la più imponente mai allestita nella storia d’Italia come insegna il generale Oreste Bovio), in agosto guidò l’offensiva risoltasi nella conquista dell’altipiano della Bainsizza: una avanzata che però non si tradusse in vittoria strategica. Nelle settimane seguenti, mentre perdurava l’incertezza fra una seconda spallata e il ripiegamento del grosso della forza in vista di una possibile offensiva degli austro-ungarici, alleggeriti dalla “diserzione” della Russia, la fronte italiana rimase sbilanciata in avanti. La conferenza di Capello del 9 ottobre 1917 ai comandanti della sua Armata evidenzia la contraddittorietà della sua condotta: attestarsi sulla difensiva ma pronti alla controffensiva, con sbilanciamento in avanti, contro l'ordine impartito da Cadorna il 28 settembre: difensiva e arretramento delle artiglierie (tanto più che, dopo l'arresto dell'avanzata sulla Bainsizza, inglesi e francesi si erano affrettati a ritirare i cannoni prestati all'Italia). Capello ebbe il torto di non adeguarsi; Cadorna (come scrive suo nipote, Carlo) ebbe quello di non controllare l'esecuzione puntuale delle proprie direttive. Fregiato dal re motu proprio del Gran Collare dell’Ordine Militare di Savoia, colpito da attacco acuto di nefrite, Capello lasciò per pochi giorni il comando proprio alla vigilia dell’offensiva nemica che, preceduta da intenso bombardamento, vide in campo anche gli Alpenjaeger, reparti germanici di élite, tra i cui ufficiali spiccò Erwin Rommel, lanciati a penetrare nelle linee italiane e a superarle in profondità. Tornato febbricitante in linea, condivise la decisione di Cadorna, interprete del pensiero del Re, di arretrare sulla destra del Piave. 
Assegnato al comando della V Armata, raccogliticcia e formata in gran parte con gli “sbandati” della II Armata - tanto che, egli scrisse, “in un solo reggimento vi erano rappresentati i colori delle mostrine di oltre cento brigate” -, il 17 febbraio 1918 Capello venne “messo a disposizione” della Commissione d’inchiesta sulle responsabilità della ritirata, presieduta dal generale Carlo Caneva, a suo tempo rimosso da Giolitti dal comando delle forze impegnate in Libia. Benché tra i commissari fosse il deputato e già sindaco di San Remo, Orazio Raimondo, socialista, e, come lui, interventista e massone, Capello non ebbe alcuna speciale tutela. Bissolati gli fece sapere che l’unico a poter intervenire a suo favore era Emanuele Filiberto, Duca d’Aosta, comandante della III Armata, mentre da Londra il generale Armando Mola, addetto militare all'Ambasciata d'Italia, gli scrisse che “in Inghilterra mai un momento si era dubitato di lui” (6 settembre 1918).
Risalire la china: la Democrazia del Lavoro
Posto in congedo definitivo il 18 marzo 1920 con effetto retroattivo e quindi escluso dai benefici previsti dal 1° gennaio 1920, Capello visse per ottenere giustizia. Dinnanzi all’impresa di Fiume (12 settembre 1919) plaudì alla continuità tra garibaldinismo e dannunzianesimo: “Soldato e democratico, sono contrario ai pronunciamenti militari; ma questo non è fenomeno militare, è pronunciamento nazionale, pronunciamento italiano”: l'opposto di quanto ritennero Giolitti e Cadorna, a giudizio dei quali la “marcia di Ronchi” era inammissibile sedizione, da reprimere manu militari.  Il 5 febbraio 1920 Capello si dichiarò pronto ad appoggiare la “Repubblica dannunziana”, mentre lo scaltro “Vate” evitava di rompere davvero con la Corona e varò la Reggenza.
Fautore come Giolitti dell’“abolizione della diplomazia occulta”, nel dopoguerra Capello affermò: “Non s’illudano le classi borghesi di ridivenire arbitre e sfruttatrici. Il problema è essenzialmente di lavoro e di produzione”. Si schierò per la valorizzazione dello Stato contro la demagogia. Nel movimento fascista originario, come Ernesto Rossi e tanti futuri antifascisti irriducibili, anche Capello intravide un volano della democrazia del lavoro, terreno d'incontro dei “produttori”. Del fascismo gli piacquero anche l'anticlericalismo (condiviso da Arturo Toscanini, Filippo Tommaso Marinetti e Guido Podrecca, ex direttore di “L'Asino”, rivista ferocemente antipretesca: candidati con Mussolini nelle elezioni del 1919 contro i socialisti e i “popolari” di don Sturzo) e la valorizzazione degli Arditi, in gran parte sua ideazione. In Esercito e squadrismo sollecitò il ritorno alla legalità con la trasformazione delle squadre in “milizia volontaria, animata da elevato sentimento ed operante per le alte idealità nazionali nell’orbita dello Stato, consona alle tradizioni più fulgide del nostro Risorgimento”.
Alla sfilata dei “marciatori in Roma” e in Loggia
Il 31 ottobre 1922 con i generali Gustavo Fara e Sante Ceccherini anche Capello sfilò in Roma dopo che il Re aveva incaricato Mussolini di formare il governo. Proprio alla vigilia della Marcia, la commissione senatoriale per la revisione delle risultanze della precedente Commissione d’inchiesta sulle responsabilità di Caporetto aveva concluso con un verdetto di piena riabilitazione tanto di Cadorna quanto di Capello. Musssolini però ne vietò la pubblicazione per non riattizzare già aspre polemiche e per “tenere al guinzaglio” i vertici delle Forze Armate. Niente affatto compensato con una missione privata in Germania e da un compromettente “rimborso spese” di 5.000 lire concessogli dal generale Emilio De Bono, direttore generale della polizia, da quando il governo consentì e incoraggiò gli assalti squadristici alle logge Capello optò decisamente per la difesa della massoneria e ne capitanò l’opposizione al fascismo. 
Il 5 novembre 1925 fu arrestato a Torino per pretesa connivenza col progettato, ma mai attuato, attentato alla vita di Mussolini imbastito dal socialista Tito Zaniboni (niente affatto massone, a differenza di quanto asserisce Fulvio Conti, senza produrre documenti), affiancato da Carlo Quaglia, ex militante del partito popolare e informatore della polizia. Processato, malgrado la mancanza di prove concludenti e la testimonianza a suo favore del gran maestro Domizio Torrigiani, appositamente rientrato dalla Francia e assegnato a cinque anni di confino di polizia, Capello fu condannato a trent’anni di carcere, uno dei quali in regime cellulare, tre di sorveglianza speciale e l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Aveva quasi settant'anni... Ad alleviargli la solitudine furono due sacerdoti, il Cappellano del carcere di San Gimignano e, a Soriano sul Cimino, il padre Bernardino della Passione, uomini “di cuore e di spirito” che nelle lunghe conversazioni non toccarono mai argomenti che potessero suscitare disagio. Dal generale ingiustamente incarcerato non pretendevano alcuna “capitolazione”. Lasciavano che a giudicare fosse l'Altissimo o il Grande Architetto.
La storia è galantuoma?
Sorretto dalla certezza che “la storia è galantuoma”, Capello passò da un carcere all'altro con “sopportazione tranquilla” ma senza alcuna “rassegnazione”. “Mangio tutto quello che mi danno” scrisse alla moglie. Viveva di ricordi, con “mente sana per comprendere ed apprezzare” e la coscienza adamantina della propria totale estraneità al “complotto” che gli era stato imputato. Lo disse alla corte che lo giudicava, sorda, prevenuta, eterodiretta: chi aveva comandato la II Armata non avrebbe mai imboccato il viottolo di cospirazioni dilettantistiche. Quando, dopo sei mesi di reclusione cellulare uscì a vedere il sole, malgrado il “magnifico panorama” ne trasse un'“impressione penosa” per le condizioni che gli venivano imposte. “Si resiste meglio a un temporale che a una goccia persistente”, aggravata dall'“albagia più sfacciata ed incosciente” e dal “difetto di ogni misura e di sentimento di opportunità” dei carcerieri. 
Non ebbe alcuno speciale aiuto né dal massone Ugo Cavallero, né da Pietro Badoglio. Passò poi alle cliniche di Montefiascone (laida e desolante) e di Formia e infine all’ospedale Littorio di Roma (1° giugno 1935). Poté tornare a casa l'anno seguente, ma nel silenzio assoluto, con un sussidio di 600 lire mensili erogati dal Capo della polizia, Arturo Bocchini. Anche per intervento dei “fratelli” Roberto Farinacci e Giuseppe Bottai, sua figlia Giulia ebbe un impiego all'INPS, all'epoca caso ancora rarissimo per una donna, e venne tenuta al riparo dalle altrimenti consuete insidie di colleghi inclini a esibire la loro pochezza mascolina. Dopo la concessione degli arresti domiciliari, Capello morì da detenuto il 25 giugno 1941. Da poco era caduta Derna, che egli aveva assicurato all’Italia il 3 marzo di trent'anni prima.
Nel dopoguerra la famiglia non chiese affatto la revoca della condanna per l'attentato a Mussolini. A quel punto era semmai un merito. Però occorreva annullare gli effetti “amministrativi” della condanna. “Amnistiato” post mortem dai governi Bonomi e Parri, solo con il governo De Gasperi il ministro della Difesa Mario Cingolani lo riabilitò e reintegrò nel grado di generale d’armata della riserva e nelle onorificenze (5 agosto 1947). La sua difesa fu affidata al memoriale scritto dalla figlia Laura, N. 3264. Generale Capello (Garzanti, 1947), che mandò un messaggio criptico: 3264 era il numero di brevetto di Capello quale grado 33 del Rito scozzese antico e accettato (6 novembre 1915). 
Capello rimane in attesa di una biografia esaustiva, in parte anticipata dagli atti del convegno Luigi Capello: un militare nella storia d’Italia (Cuneo, 3-4 aprile 1987, ed. L’Arciere, 1987). Con esemplare rettitudine nel 1930 l’Enciclopedia Italiana diretta da Giovanni Gentile ne ricordò la figura e le opere (Per la verità e Note di guerra, entrambe del 1920), senza tacerne la “grave condanna per complotto politico”. Con la sua carriera Capello mostrò che nella monarchia statutaria anche la piccola borghesia poteva raggiungere i gradi supremi delle Forze Armate, un tempo appannaggio dell’aristocrazia. Lo Stato era un ascensore sociale a tutto vantaggio dell'armonia tra Istituzioni e cittadini.
Aldo Mola

NE' TRANSIZIONI NE' RIVOLUZIONI
 SOLO UNITA E IN ORDINE L'ITALIA PUO' FARE GRANDI COSE
  
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 28 luglio 2019, pagg. 1 e 11.
 
Francesco GuicciardiniIl “leghista” Guicciardini a lezione da Ferdinando il Cattolico
  Ferdinando il Cattolico, già sovrano di Aragona, confidò al fiorentino Francesco Guicciardini (1483-1540) il segreto del Regno di Spagna “solo la nazione può compiere grandi imprese se si mantiene unita e in ordine”. Era il 1512. Il mondo stava rapidamente cambiando. Vent'anni prima Cristoforo Colombo era approdato a San Salvador.  Poco conta se nativo di Genova o di un paesino del Monferrato, cattolico fervente o di sangue ebreo. Meno ancora importa dove avesse sbirciato o persino trafugato carte geografiche e portolani altrui e se avesse fiutato il vento soggiornando a Madera. Il punto è che fu lui per primo a “cruzar  el charco” al comando di tre navicelle e a vincere la partita da tanti sognata: “Buscar el Levante por el Poniente”. Non arrivò a Cipango, ma aprì alla Spagna (e quindi all'Europa cattolica) le Indie Nove. Era al servizio di una Corona che stava ampliando i raggi del suo compasso, dai Caraibi all'America centro-meridionale e di lì a poco al Messico. Il Re aveva alle spalle il coronamento della “reconquista”, compiuta a fianco di Isabella di Castiglia, pari a lui nelle visioni e nella concezione dei metodi, talora brutali, necessari alla loro realizzazione. Il Potere è tanto più saldo e fattivo quanto più deciso a impiegare i mezzi necessari per liberarsi da nemici interni ed esterni e imporre unità e ordine.
Nel 1512 Guicciardini aveva 29 anni. Genio del pensiero politico come il concittadino Niccolò Machiavelli (1469-1527) e fondatore della storiografia scientifica, il giovane ambasciatore di Firenze in Spagna era il frutto maturo della finissima diplomazia cresciuta alla scuola di Lorenzo de' Medici, morto nel 1492, quando l'Italia intera ne aveva più bisogno che mai. Signore di Firenze, il Magnifico, scettico come rivelano alcune sue “canzoni”, era stato l'“ago della bilancia”. Anno dopo anno aveva mediato tra i cinque Stati principali del mosaico italiani: il regno di Napoli (ne era sovrano un Aragona, la cui Casa dal 1282 regnava sulla Sicilia), la repubblica di Venezia (il doge era emanazione del Consiglio dei Dieci, espressione dall'aristocrazia), il Ducato di Milano (sottratto ai Visconti dagli Sforza) e lo Stato pontificio, da poco restaurato col ferro e col fuoco e forte di pontefici di statura grandiosa, da Sisto IV ad Alessandro Borgia, che tracciò la “raya” per appagare gli opposti appetiti di Spagna e Portogallo nella conquista delle Americhe. E poi vi era appunto Firenze, ricca, colta, mirabile ma stretta fra nemici infidi e affacciata su un Tirreno che, al sicuro da scorrerie dei barbareschi grazie ai valorosi Cavalieri dell'Ordine di Santo Stefano, le stava sempre più stretto.
Guicciardini percepì il messaggio di Re Ferdinando ma non poté metterlo a frutto. Il suo era e rimaneva il piccolo mondo antico di un'Italia sull'orlo del precipizio, tra guerre franco-ispaniche per l'egemonia sull'Europa passando per l'Italia e la faglia che si stava aprendo nella chiesa d'Occidente. In passato erano pullulate eresie, prontamente eliminate con l'eliminazione, anche in forme crudeli, dei loro estemporanei profeti. Dagli albigesi (o càtari), i dualisti d'Occidente impareggiabilmente narrati da Emmanuel Le Roy Ladurie, rimanevano poche frange nascoste in lande marginali, destinate agli ultimi roghi. Stava invece per esplodere la Protesta di Martin Lutero, la Grande Riforma, che sconvolse la Chiesa cattolica proprio quando la Croce veniva innalzata nelle Americhe e in Asia dai massimi esploratori-conquistatori, da qualche tempo dipinti quali criminali assoluti da chi giudica il mondo dai “valori” odierni anziché sforzarsi di conoscerne il percorso effettivo.
Guicciardini era troppo assorbito dallo scacchiere italiano per cogliere a pieno il cambio epocale. Nel 1512 l'ottantenne papa Giulio II della Rovere capeggiò una effimera lega italiana per cacciare dall'Italia i francesi di Luigi XII con un'insegna che non chiedeva traduzioni: “Fuori i barbari”. Ma tre anni dopo il suo successore, Francesco I, piombò in Italia e vi menò stragi. Dopo la prematura morte del Magnificò Firenze aveva vissuto la ventata di follia di frate Gerolamo Savonarola (inviso a Guicciardini  come a Machiavelli). Al culmine della sua fanatica lotta contro il lusso, la bellezza, la poesia, la filosofia, il brodo primordiale dal quale scaturiscono l'esibizione dei corpi, la lussuria, i sette vizi capitali..., quel frate finì bruciato in piazza della Signoria, previo strangolamento.
Come Machiavelli (torturato con tratti di corda, emarginato e finito a indossare vesti “di fango e di loto” e a meditare sui Principati e sulla Prima Deca di Tito Livio), anche Guicciardini visse a lungo tra speranze di riscatto e constatazione dell'arroganza dei  de' Medici, usi a preferire i cortigiani. Estromesso dalla macchina del potere lasciò la Storia d'Italia che lo rese immortale.
A differenza di Spagna, Francia e Inghilterra, l'Italia non era nazione, non aveva né unità né ordine. Dei cinque Stati dell'età del Magnifico solo Venezia rimase indipendente. Gli altri decaddero a dominio diretto o indiretto dell'imperatore Carlo V e dei suoi discendenti e successori, da Filippo II d'Asburgo a Francesco II di Borbone, sconfitto da Giuseppe Garibaldi nell'ottobre 1860 e cacciato da Vittorio Emanuele II nel febbraio 1861. Papa Clemente VII, Giulio de Medici, tardò più di Guicciardini a capire il cambiamento in atto. A chiarirglielo fu il “sacco di Roma” del 1527, al quale seguì l'assedio di Firenze, i cui difensori  (scrisse poi Guicciardini) erano animati dalla “fede”, che è irrazionale, suscita eroismi (Francesco Ferrucci) e protrae oltre ogni limite ragionevole i tempi della sconfitta finale. Nel 1530 il papa andò a Bologna per incoronare Carlo V Sacro Romano Imperatore. Dopo di lui si susseguirono sul Sacro Soglio esponenti di grandi Casate (i Farnese), di Ordini (Sisto V) e dell'aristocrazia, ma in una visione sempre più circoscritta della Missione degli Apostoli. I sovrani pontefici (come Urbano VIII Barberini, il Chigi e altri molti) abbellirono Roma, ma si guardarono dal rischiare il martirio di Pietro e Paolo.
L'Italia rimase in massima parte dominata e in piccola parte “a noleggio”, pedina  di scambio tra le Impero e Francia. Lo insegnano la sorte di Mantova, la “guerra del Casale”, la liquidazione della repubblica di Siena e altre vicende del tutto secondarie mentre la flotta di Francis Drake compiva la seconda circumnavigazione del globo, dopo quella del portoghese ispanizzato Ferdinando Magellano, il cui quinto centenario è ignorato in un'Italia con l'occhio reso opaco tra contemplazione del golfo della Sirte e le sbirciatine al reggiseno di Carola Rackete. 
L'unificazione d'Italia per la pace europea e l'ordine interno
Quasi quattro secoli dopo la catastrofe di fine Quattrocento-inizio Cinquecento, il “miracolo” del Risorgimento dette all'Italia i beni più preziosi di cui una nazione di antica cultura e civiltà può andare fiera: indipendenza, unità, libertà. Un patrimonio inalienabile, da custodire con cura amorevole per le generazioni venture. 
Come nacque e come venne completata l'unificazione nazionale? Per quanto superfluo va ricordato che essa ha richiesto un secolo, dai primi moti costituzionali del 1820-1821, dalle cospirazioni di carbonari e massoni, dalla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi (1831-1834), e settant'anni di guerre per l'indipendenza, dalla prima (marzo 1848-marzo1849) contro l'impero d'Austria, alla vittoria (4 novembre 1918), ancora contro l'Austria e i suoi alleati. Un cammino di tre-quattro generazioni. 
Lasciando tra parentesi il lungo, faticoso e persino tortuoso percorso è la meta che infine conta. La nazione italiana unita e in ordine, precorsa dall' “opinione nazionale” di Massimo d'Azeglio e dalla Società Nazionale di Daniele Manin e del “fratello” Giorgio Pallavicino Trivulzio, compì grandi imprese grazie alla monarchia sabauda, che ne conciliò unità con Tradizione e Legittimità, cardini del Congresso di Vienna del 1815 (mentore Metternich) ammodernati da quello di Parigi del 1856 (ispirato da Napoleone III). La Nuova Italia nacque dal consenso dell'Europa del tempo, che plaudì la lunga transizione dal mosaico degli Stati esistenti, debellati da insorgenze, moti, colpi di mano, invasioni a tutela delle libertà conculcate, sempre con l'avallo di plebisciti (1848-\1870). Questi possono essere irrisi da nostalgici degli “Stati” preunitari, ma vennero accettati dall'Europa, che conta più delle chiacchiere di revisionisti filologicamente calvi. Quella stessa Europa non batté ciglio quando l'Esercito italiano irruppe in Roma e la tolse al  Papa che la possedeva da 1.100 anni (donazione di Sutri). Dal canto suo l'Italia di Raffaele Cadorna col garibaldino Nino Bixio schierato nella retroguardia, a Roma non andò per fare dell'anticlericalismo spicciolo. Lo stesso Giosue Carducci dei “Giambi ed Epodi” solo nei suoi ultimi anni cominciò a usare il termine “laico”, succhiato non dalla Lupa  di Roma ma dai seni avvizziti di Marianne, dal mito della Rivoluzione francese, usato dalla borghesia d'Oltralpe come giustificazione per la strage dei comunardi (1871) e la deportazione dei sopravvissuti nell'inferno della Nuova Caledonia. 
Le due Italie: il Paese che lavora e “malpancisti” 
Lì si aprì il divario tra l'Italia dei letterati, dei rimatori, dei visionari e quella degli artefici, della cultura di Stato, di gran lunga più fattiva e meritevole dell'altra. Militari di alta cultura (Federico Menabrea e Luigi Pelloux, per esempio), ingegneri ferroviari e minerari (come Quintino Sella), giuristi, economisti, clinici, agronomi, fisiologi...una folla di liberi professionisti talvolta appena diplomati (geometri, ragionieri, tecnici) costruirono il Paese e lo traghettarono dallo squallore originario al decoro. Un camino lento, che chiedeva alto “senso dello Stato”. 
Ma proprio l' “altra” cultura non ne fu affatto soddisfatta. Gli “scapigliati” avevano fretta e quindi sentivano il  bisogno infantile di agitare il vessillo della Rivoluzione, l'ideologia posticcia che accomunava il “proletariato senza rivoluzione”, emarginati e supposti seguaci di Giuseppe Mazzini, via via sino alla “Rivolta ideale” di Alfredo Oriani. 
“Rivoluzione” divenne la parola d'ordine dei tanti che, frustrati dalla deludente quotidianità, invece di rimboccarsi le maniche e fare (sull'esempio di inglesi, tedeschi, svizzeri, austriaci...), si rifugiavano in sogni alternanti malinconie e furori. Meno facevano per il prossimo, più pretendevano dagli altri, dallo Stato, dipinto come padre-padrone, esigente (chiedeva persino il servizio militare obbligatorio e imponeva la scuola elementare gratuita, la vaccinazione, l'igiene personale maschile e femminile, l'educazione fisica...). La  minoranza rumorosa prevalse sulla maggioranza operosa, non nei fatti, che sono ostinati, ma nella rappresentazione, che è fantasiosa e deformante. Per decenni andò in scena la sacra rappresentazione dell'Italia delusa, riscoperta dal Sessantottismo perenne germinato nel Novecento, per molti versi ancora serpeggiante. 
Lo spaccio della bestia trionfante
Nel 1919 “Rivoluzione” divenne l'insegna anche del Grande Oriente d'Italia con la gran maestranza di Domizio Torrigiani, un avvocato toscano di ampia cultura, arguto come Ferdinando Martini (biografato da Guglielmo Adilardi), ma tentato di usare il lessico altrui per svuotarne la pericolosità. Invano. Chi, come Benito Mussolini, arrivava dal socialmassimalismo, massimalista rimase anche da fascista e dopo l'ascesa a presidente del Consiglio e tornò a esserlo all'indomani della sua defenestrazione dal comando della guerra, deliberata il 25 luglio 1943 dal Gran Consiglio del fascismo  (pomposamente denominato “organo della rivoluzione”). Tra il 1922 e il 1943 il regime non ebbe la grandezza nibelungica del nazionalsocialismo che nella notte dei lunghi coltelli, il 30 giugno 1934, massacrò le SA,  prendendone a pretesto i costumi dissoluti, in realtà per disfarsi del loro sinistrismo. Mussolini rimase l'uomo che, uscendo dal PSI nell'agosto 1914, aveva promesso ai “compagni” che si sarebbero nuovamente incontrati. Quando? Con quali scopi? Accelerare il corporativismo caro a Giuseppe Bottai, l'antico massone espulso dalla loggia per morosità, e a Farinacci, “il più fascista”?
Luigi Federzoni: i conti con la storia
Nel “Diario inedito, 1943-1944”, curato da Erminia Ciccozzi dell'Archivio Centrale dello Stato con illuminante saggio introduttivo di Aldo G. Ricci e  pubblicato da Pontecorboli (Firenze), Luigi Federzoni aiuta a capire che l'Italia non ebbe mai rivoluzioni. Tra le centinaia di citazioni possibili da un “Diario” che in 500 pagine nomina Giulio Cesare appena tre volte e mai Augusto, basti una sua riflessione sull'abuso di Mazzini attuato dal duce, issato a capo della Repubblica sociale italiana  ma ridotto a “morto che cammina” sotto il controllo di Hitler e dei suoi manutengoli. Nel mare magnum delle meditazioni vergate nel “Diario d'un condannato a morte” (titolo autografo, parallelo a quello del barone e “fratello” Giacomo Acerbo: “Tra due plotoni di esecuzione”) Federzoni, per molti aspetti a lungo “numero due” del regime,  osservò: “Il Risorgimento? Una leggenda sfatata: si salva appena Mazzini come precursore della repubblica mussoliniana, La costruzione legislativa, amministrativa ed economica dello Stato unitario? Un'oscura fatica di avvocati e di burocrati senza genio e senza storia. La prima campagna d'Africa? Un misero conato di grandezza, abortito perché ad attuarlo invece di Crispi, sarebbe occorso un Mussolini. La guerra italo-turca? Una piccola impresa sabauda, in cui l'unico episodio di rilievo fu il coraggioso tentativo del segretario della sezione socialista di Forlì (cioè Mussolini, col concorso del repubblicano Pietro Nenni, NdA) di fare svellere le rotaie per impedire la partenza delle truppe per la Libia. La guerra 1915-1918, con le 11 battaglie dell'Isonzo, il Piave, Vittorio Veneto? Un odioso termine d confronto, adoperato tendenziosamente dagli avversari del regime per sostenere che l'Italia di Salandra e di Cadorna, di Orlando e di Diaz sapeva combattere e vincere meglio dell'Italia mussoliniana. 'Fornitore di vertebre' è forse uno degli epiteti espressivi e pseudo-originali con cui Mussolini amerebbe restare nella storia. Ma per condurre la nazione alla guerra e alla vittoria bisognava fornirle non tanto le vertebre quanto alcune altre cose meno metaforiche: i cannoni, i carri armati, gli aeroplani. Senza delle quali cose un uomo di Stato, dirò meglio un patriota vero, aveva un solo dovere: non fare la guerra...”.
Acutamente Federzoni (monarchico, conservatore, autoritario, conciliatorista, sempre e comunque liberale) osservò che gli strali di Mussolini contro l'Italietta giolittiana e sabauda erano speculari a quelli degli antifascisti di matrice gramsciazionista (termine felicemente coniato da Dino Cofrancesco), che accomunò Luigi Salvatorelli, Carlo Sforza, persino qualche guizzo di Benedetto Croce  contro Vittorio Emanuele III, e trovò poi lunga eco negli scritti di Antonino Repaci, salveminiano in ritardo.
Quel che resta  dell'Italia?
Dopo il 1946 l'Italia non conobbe né transizioni né, meno ancora, Rivoluzioni, ma solo segmenti discontinui, ascese e crolli improvvisi, eterodiretti, sui quali oggi ci si interroga in termini sempre più lontani dalla scienza storica di cui Guicciardini fu Maestro insuperato (ebbe anche il pregio di additare la centralità degli Archivi: perciò chi voglia scrivere di storia d'Italia deve andare in Spagna, a Salamanca e a Simancas) e sempre più inclini al complottismo: quello, per esempio, che tratteggia Carola Rackete quale agente occulta di una cospirazione massonica mondiale … Una “dirigenza” raccogliticcia e storiograficamente digiuna è condannata  a cibarsi di panzane, altra cosa (del tutto opposta) delle fiabe d'antan che la maggior parte dei parlamentari bene farebbe a leggere. Di certo oggi l'Italia rimane “nazione non ancora del tutto disunita e in disordine” solo grazie al presidente Mattarella e a una minoranza, sempre più esigua, di politici ancora nutriti di senso dello Stato. Grazie a questa legione sacra ancora può compiere grandi imprese, nell'ambito di alleanze che nessun improvvisatore può mutare senza passare dal confronto alla luce del sole con gli attuali alleati e dal Parlamento.
Aldo A. Mola

L'ARTICOLO 16 DEL TRATTATO DI PACE (10 FEBBRAIO 1947)
 UN’ASSOLUZIONE PLENARIA ALL'ITALIANA
  
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 21 luglio 2019, pagg. 1 e 11.
 
Umberto IIGuardie e ladri: il gioco d'infanzia tagliato sull'Italia
Ai giardini pubblici, negli oratori, per le strade un tempo animate senza rischi dalle “bande” di ragazzi, fra i giochi preferiti dominava la gara tra “guardie” e “ladri”, con i secondi sempre più numerosi, perché, malgrado tutto, le forze del Bene, poche ma buone, alla fine prevalgono su quelle del Male. I cittadini dell'Ordine  vincono sull'Avversario, come l'Arcangelo Michele. I ragazzini, invero, non avevano un'idea precisa dei valori contrapposti, tanto che, a fine partita, il gioco riprendeva a ruoli invertiti: chi aveva fatto il ladro diventava guardia e viceversa. Era la sfida a chi correva più lesto, sapeva nascondersi meglio, balzar fuori all'istante opportuno e, tàc, toccare il bambino o la bambina della squadra avversa. Si proseguiva così a perdifiato per ore. Poi, tutti amici come prima, a casa per la cena. Altrettanto avveniva nelle colonie estive, comunali, parrocchiali, spesso allestite dall'Azione cattolica per arginare i “Pionieri” organizzati in alcune lande dal Partito comunista in attesa dell'Armata Rossa. Nell'immediato dopoguerra, invece, lo scoutismo rimase fenomeno elitario, sospetto di infiltrazioni massoniche. 
Nei campi estivi chierici giovanissimi insegnavano a giocare “a tattica”. Anche lì i ragazzini venivano suddivisi in “bande”. Non erano guelfi o ghibellini, cattolici o protestanti ma semplicemente compagni di vacanza che imparavano a divenire grandi. Acquattati tra le fronde scoprivano fiori stupendi, seguivano il volo di farfalle multicolore, scrutavano il prodigioso lavorio degli insetti fra gli steli d'erba. Nei rovi attendevano pazienti il passaggio di uno, due, tre rivali. Al momento giusto scattava l'assalto. Bastava un “alt” e si contavano i punti del vantaggio guadagnato secondo i gradi dei “prigionieri”, condotti nell'apposito accampamento: un soldato semplice valeva poco, un sergente assai più, un ufficiale era una trofeo. Ma la vera magia di quegli animosi giochi d'infanzia era la formula che a volte chiudeva la partita nel più strambo dei modi. Proprio quando una banda era sicura della vittoria e aveva raccolto gli avversari nel campo di prigionia, dai filari del gran turco, dalle piantagioni di fagioli o da chissà quali porte degli inferi sbucava il malandrino salvifico. Gli bastava sfiorare uno dei prigionieri e gridare “Liberi tutti” perché i detenuti se la squagliassero come oggi da un campo profughi in Libia dopo un bombardamento.
Un'Italia senza eresie né guerre civili
Quei giochi del buon tempo antico sono paradigma della storia d'Italia, che tanto arrovella quando, ed è consueto, se ne scordino complessità, sinuosità e brusche svolte. E' un percorso  a segmenti discontinui. Nell'ampia intervista rilasciata al “Corriere della Sera” nel suo 90° compleanno Sergio Romano, ambasciatore, storico e saggista, ha asserito che l'Italia ha vissuto “tre guerre civili: al Sud dopo il Risorgimento; poi negli anni tra la Grande Guerra e la marcia su Roma; infine tra l'8 settembre e il 25 aprile 1944: una guerra fra italiani che in Emilia durò ancora per un altro anno”. È un invito a riflettere, più che un assioma, anche perché la storiografia non detta sentenze. Essa cerca di comprendere e utilizza formule possibilmente precise come fanno i meccanici quando prendono in mano la chiave rispondente al bullone: tot pollici, sennò non funziona. “Guerra civile” è tra le formule più delicate e disputate possibili. Per tale, tecnicamente, s’intende la lotta tra due fazioni di cittadini di pari diritti appartenenti a un identico Stato che, consapevoli delle proprie scelte e in piena libertà d'azione, non eterodiretti da potenze straniere, si combattono per opposti ordinamenti. Tali furono le guerre al crepuscolo della Roma dei Consoli fra i seguaci di Cornelio Silla e di Caio Mario, di Giulio Cesare e di Cneo Pompeo, aristocrazia senatoria contro “popolani”, estremo regolamento di conti tra due opposte concezioni dello Stato, che tanto affascinò Teodoro Mommsen. Già il successivo mortale duello tra Caio Ottaviano Augusto e Marco Antonio fu vicenda del tutto diversa, perché contrappose due visioni dell'impero, la Romana e l'Egizia, il Senatus populusque romanus e il diritto divino.
A ben vedere, come non ebbe movimenti ereticali di massa, riforme evangeliche o protestanti numericamente rilevanti, così l'Italia non soffrì mai vere guerre civili. Non lo furono le compagnie di Santa Fede capitanate dal cardinale Fabrizio Ruffo (neppure ordinato prete) contro la Repubblica napoletana del 1799, né le “masse cristiane” di Branda Lucioni e altre “insorgenze” che nell'Italia settentrionale combatterono l'occupazione francese e la scristianizzazione forzata e mirarono a restaurare sovrani spodestati. Sorrette entrambe dal concorso di Stati stranieri, quelle fazioni non sono paragonabili alle guerre civili tra cittadini della Res publica romana. A sua volta il brigantaggio meridionale del 1861-1867 fu ribellione, anche prezzolata dall'estero, di chi non si riconosceva negli ordinamenti innovativi dello Stato unitario: servizio militare obbligatorio, nuovo sistema impositivo, uguaglianza dinnanzi alle leggi, abolizione dei secolari privilegi ecclesiastici, sorretti dalla manipolazione idolatrica delle coscienze e dalla demonizzazione dei non cattolici e, peggio, dei non credenti. Si può anche dubitare che possa essere classificata come guerra civile quella del 1943-1945 tra “partigiani” e fascisti repubblicani, se non nel indicato dal comandante piemontese di “Giustizia e Libertà”, Dante Livio Bianco, avvocato, già iscritto al Partito nazionale fascista, secondo il quale essa era “guerra di civiltà”. Né fu guerra civile il conflitto tra il Corpo volontari della libertà da una parte, proiezione dello Stato italiano riconosciuto dalle Nazioni Unite, e gli “occupanti”, cioè i tedeschi e i loro alleati. Comprendenti le milizie dello Stato repubblicano d'Italia (denominazione originaria della RSI): un conflitto nel cui ambito si contrapposero partigiani dai programmi, ideali e alleati stranieri molto diversificati e i fautori del fascismo repubblicano. Gli uni e gli altri rimasero minoranza quantitativamente irrilevante rispetto alla immensa “zona grigia” la cui storia rimane da scrivere. L'Italia, insomma, non visse nulla di paragonabile all'unica vera guerra civile dell'Europa occidentale, quella di Spagna, che nel 1931-1940 ebbe il decennio agonico di un conflitto radicato nei secoli e indurito sin dalla conquista franco-napoleonica d'inizio Ottocento.  
Umberto II, il Traghettatore  
La refrattarietà degli italiani a pulsioni destinate a esplodere in guerre civili trova conferma nel cambio istituzionale del giugno 1946. Con sorpresa generale esso avvenne in un clima complessivamente pacifico e, per i tempi, persino ordinato. Dopo comizi accesissimi, dai toni minaci, straripanti manifestazioni di piazza e timori di scontri volgenti in conflitto generale persino con intervento di armi straniere, il Paese registrò il passaggio dalla monarchia alla repubblica con un'onda di profonde emozioni individuali ma senza traumi politico-militari nazionali. A moderare la transizione fu Umberto II, che lasciò il suolo italiano sciogliendo dal giuramento alla Corona, ma non alla Patria, quanti l'avevano pronunciato. Proprio il sovrano fu il sommo traghettatore dall'uno all'altro regime. Già solo per questo merita molto più di quanto le Istituzioni sinora gli hanno riconosciuto. Ma occorre dare tempo al tempo. Nel frattempo il suo ruolo va apprezzato dalla storiografia per comprendere la pacificazione scandita dagli atti successivi: la “firma” del Trattato di Pace (sottoscritto dall'ambasciatore Antonio Meli Lupi di Soragna, che firmò con la stilografica personale e impresse sulla ceralacca lo stemma di famiglia per tacita protesta dell'Italia nei confronti dell'iniquo diktat ), la sua ratifica da parte dell'Assemblea Costituente e il varo della Carta repubblicana, pilastri portanti dell'Italia ormai compresa nelle Nazioni Unite, anche se per un decennio fermata sulla soglia della sua Assemblea. 
La lenta genesi dell'articolo 16 del Trattato di pace 
In “Chi doveva essere protetto dall'art. 16?” (speciale “Bombe sull'Italia”, n. 4) il direttore di “Storia in Rete”, Fabio Andriola, ha riaperto il dibattito su uno degli articoli meno noti e studiati del Trattato di pace imposto all'Italia il 10 febbraio 1947. Fermo restando che il Trattato fu scritto in inglese, russo e francese, nella pedissequa traduzione ufficiale esso recita: “L'Italia non perseguirà né disturberà i cittadini italiani, particolarmente i componenti delle Forze Armate, per il solo fatto di avere, nel corso del periodo compreso tra il 10 giugno 1940 e la data dell'entrata in vigore del presente Trattato, espresso la loro simpatia per la causa delle Potenze Alleate ed Associate o di avere condotta un'azione a favore di detta causa” (corsivi dell'autore). L'articolo 16 è connesso  al 15, che obbligò l'Italia ad assicurare ai suoi cittadini il godimento dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (“ivi incluse le libertà di stampa, di religione, di opinione e di associazione”) e al 17 che, preso atto dello scioglimento delle organizzazioni fasciste, attuato “in conformità all'art. 30 della convenzione di armistizio”, impegnava a “non tollerare la ricostituzione sul suo territorio di organizzazioni di questa natura, aventi un carattere politico, militare o paramilitare, ed il cui scopo sia quello di privare il popolo dei suoi diritti democratici”. 
Le premesse dell'art. 16 erano tre: una di carattere generale, altre connesse all'armistizio del 3-29 settembre 1943. La prima era la consapevolezza che la “guerra parallela” intrapresa dall'Italia il 10 giugno 1940 era stata decisa in condizioni molto diverse da quelle narrate dalla propaganda di regime. I dubbi e le contrarietà verso quel passo erano stati molteplici e  forti. A parte gli antifascisti all'estero (non tutti propriamente “esuli”: per esempio il monarcomaco Carlo Sforza, Collare della SS. Annunziata, rimase sempre senatore e non venne mai privato di alcun diritto), parecchi italiani, anche militari e persino di grado elevato, nutrivano “simpatia per la causa delle Potenze Alleate” e non lo nascondevano agli interlocutori più ricettivi quando se ne presentasse l'occasione. Se i rapporti dell'Ovra e dei questori traboccavano di dichiarazioni di sfiducia nei confronti delle armi italiane, di antipatia nei riguardi della Germania e di inclinazioni verso paesi nemici (“occidentali” molto più che l'Urss), va ricordato che lo scenario bellico cambiò ripetutamente in modo drastico, costringendo partiti, movimenti e personalità a capriole clamorose. Fu il caso del giudizio da esprimere sull'URSS e sulla Germania all'indomani del patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov (23 agosto 1939). I lungimiranti (altra cosa dell'“uomo della strada”, succubo della propaganda e di pregiudizi) sapevano che non esistono nemici assoluti, identici e perpetui. Ci si combatte, ci si ammazza, si tratta, si stabiliscono tregue, ci si scambiano i prigionieri ecc. ecc. Mentre alcuni combattono altri patteggiano, talvolta in vista di un cambio di alleanze. Da che mondo è mondo, gli uni e gli altri, anche con finzioni spudorate, svolgono la propria funzione. 
La premessa formale dell'art. 16 fu il “Pro-memoria” anglo-americano di Québec (18 agosto 1943) collegato alle condizioni dal generale Dwight Eisenhower al governo italiano per l'armistizio. Quando ancora gli anglo-americani pensavano di contenere i germanici a nord della linea Venezia-Livorno, precisò che “se informazioni sul nemico verranno fornite immediatamente e regolarmente, i bombardamenti degli alleati verranno effettuati nel limite del possibile su obiettivi che influiranno sui movimenti e sulle operazioni delle forze tedesche”. Quel “pro-Memoria” venne integrato dalla Dichiarazione di Mosca del 30 ottobre 1943. A conclusione della riunione tripartitica anglo-russo-americana questa stabilì il rilascio e la completa amnistia di “tutti i prigionieri politici del regime fascista”, che ovviamente avevano espresso “simpatia” per le Potenze Alleate (Urss compresa) nella loro già accennata geometria variabile.
I passi fondamentali successivi verso il futuro art. 16 del Trattato di pace sono documentati dai testi dell'armistizio e, ancor più, dai verbali delle riunioni svolte a Cassibile il 3 e a Malta il 29 settembre 1943, con delegazioni ogni volta del tutto diverse, ma convergenti sul nodo sostanziale: inglobare l'Italia nella guerra delle Nazioni Unite contro la Germania. I Generali Giuseppe Castellano e Walter B. Smith per conto di Badoglio e di Eisenhower il 3 settembre concordarono di coordinare i piani d'operazione. Smith assicurò che “gli ufficiali ed i marinai italiani non sarebbero stati assoggettati ad alcuna indegnità”. Nel timore che Vittorio Emanuele III e Badoglio venissero arrestati dai tedeschi, si convenne che il capo di stato maggiore Vittorio Ambrosio “parlasse da una stazione (radio) italiana e annunziasse che parlava con la loro autorità”. Nella segretissima “missione” a Torino del 7 settembre forse Ambrosio portò la registrazione dell'annuncio di armistizio, comunicato l'indomani da Radio Algeri e ribadito da Badoglio, secondo la sequenza stabilita a Cassibile.
A Malta il 29 settembre il testo armistiziale previde che il governo italiano consegnasse agli Alleati Mussolini, i suoi “associati fascisti” e tutti i sospetti di crimini di guerra (il cui elenco gli sarebbe stato trasmesso), nonché l'immediata liberazione di tutte le persone, “di qualsiasi nazionalità” detenute o condannate, anche in contumacia, per le loro relazioni con le Nazioni Unite. Durante la seduta collaterale alla firma, Eisenhower chiese che il Re sottoponesse ufficiosamente agli Alleati la lista di ministri “politici” da immettere nel governo; nel clima di collaborazione, Badoglio sollecitò il rilascio del Maresciallo  Giovanni Messe, “ufficialmente aiutante del re” (oltre che antico iniziato massone alla loggia “Michelangelo” del Grande Oriente d'Italia).
“Liberi tutti...?”
L'immunità di quanti prima, durante e dopo la guerra avevano concorso a ritardare e, nei modo più diversi, a “erodere” la portata filogermanica dell'intervento dell'Italia in guerra era dunque una misura scontata. Fa parte delle regole della guerra che, si sapeva anche prima di Clausewitz, sono la prosecuzione della diplomazia con “argomenti” suasori talora ruvidi (compresi i bombardamenti a tappeto, terroristici o pedagogici, secondo i punti di vista) che però non escludono la continuazione dell'utilizzo di altri, quali spionaggio, controspionaggio, disinformazione, propaganda, corruzione di apparati, etc., in una ridda in continuo divenire. Per una pacata visione dell'art. 16 del Trattato di pace un'altra considerazione si impone. Dal 10 giugno 1940 al 9 maggio 1946, capi delle Forze di terra e di mare erano stati Vittorio Emanuele III e il Luogotenente del regno Umberto di Piemonte. I ministri erano “ministri del Re”. Qualunque incriminazione di un militare per simpatie espresse o collaborazione operata a favore delle Nazioni Unite avrebbe comportato, salendo per li rami, anche quella del sovrano: cioè proprio del Re in nome del quale venne operato il cambio del luglio-settembre 1943, con quanto ne seguì sino al regime post-monarchico incardinato sul presidente provvisorio della Repubblica, Enrico De Nicola (monarchico) e sul governo De Gasperi, unico abilitato a legiferare. Mentre alcuni costituenti (come Benedetto Croce, Roberto Lucifero, Leo Valiani...) votarono contro la ratifica del discusso Trattato di pace, altri, parimenti liberali, dopo aggrovigliati e contraddittori ragionamenti, si schierarono a favore. Furono i casi di Francesco Saverio Nitti (a lungo esule) e di Vittorio Emanuele Orlando, nel 1924 candidato nel Listone nazionale, come De Nicola. La ratifica ottenne 262 voti favorevoli, 68 contrari e 80 astenuti: meno del 50% dei 555 costituenti. De Nicola, contrario a firmarlo, fece una scenata apocalittica, rovesciando tutte le carte dalla scrivania. La sua ratifica era però la via maestra per chiudere decenni di storia d'Italia con un colpo di spugna: “liberi tutti”. Era anche il viottolo per tornare a esercitare un minimo di sovranità nazionale dopo la pesante sconfitta militare e in un pianeta ormai diviso dalla “guerra fredda”. Come ruvidamente chiesto da Churchill e da Roosevelt, l'Italia pagava il salatissimo “biglietto di ritorno” tra le democrazie parlamentari. Grazie al Re essa era caduta sul fianco meno doloroso, lontano dalle mire di Stalin. Poteva persino accampare a proprio merito la dichiarazione di guerra contro il Giappone, deliberata dal governo Parri, con il consenso del Luogotenente Umberto di Savoia. 
Suscita perplessità, invece, la posizione di De Gasperi. Il 31 luglio 1947, chiedendo l'approvazione del Trattato, “dinanzi a Dio, moderatore di tutte le cose (Grande Architetto? NdA), e dinanzi agli uomini” proclamò che l'Italia non assumeva “nessuna corresponsabilità, né per gli effetti che avrà in Italia, né per gli effetti che avrà nella ricostruzione del mondo”. Era l'approdo di quanto deliberato da rappresentanti di alcuni partiti antifascisti a casa di Giuseppe Spataro una sera dell'agosto 1943: scaricare tutto il passivo della sconfitta sul fascismo e sulla monarchia, con distorsione della verità storica. Ma ormai Umberto II era all'estero. 
Il gioco del “liberi tutti” configurato dall'articolo 16 del Trattato di pace (ma come dimenticare l' “amnistia Togliatti” del 22 giugno 1947?) mandò indenni gli antifascisti che avessero fiancheggiato gli Alleati dal 10 giugno 1940 e tanti fascisti in vario modo contriti prima e dopo il 25 luglio 1943; non si estese invece a cittadini che, né ignavi né faziosi, propriamente fascisti non erano stati mai, bensì solo “patrioti”: la sempre trascurata “zona grigia”, tuttora in attesa di doverosa indagine storica. 
Aldo A. Mola

GIOVANNI GIOLITTI
 IL VECCHIO SAVIO DELLA NUOVA ITALIA
  
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 14 luglio 2019, pagg. 1 e 11.
 
GIOLITTI - IL SENSO DELLO STATO di Aldo Mola (ed. Rusconi)Vi sono parecchie ragioni per ricordare Giovanni Giolitti (Mondovì, 127 ottobre 1842.- Cavour, 17 luglio 1928), massimo statista italiano dalla proclamazione del Regno d'Italia a oggi. Ne ricordiamo almeno quattro. (*)
Dall'annessione alla Francia a capofila dell'indipendenza italiana 
In primo luogo Giolitti è la sintesi del regno di Sardegna restaurato nel 1814 dopo l'età franco-napoleonica, quando il Piemonte venne ridotto a XXVII Divisione dell'impero di Napoleone I. Se questo fosse durato, non vi sarebbero mai stati Risorgimento, unità e indipendenza. L'Italia sarebbe un'appendice di Parigi (come Oltralpe qualcuno ancora pensa). In Piemonte, però, la Restaurazione non fu pura e semplice Reazione. Lo si vide nel marzo 1821, quando il ventitreenne Carlo Alberto di Savoia-Carignano, reggente, concesse in via provvisoria la Costituzione di Cadice. A chiedergliela furono aristocratici cresciuti negli ideali di libertà e di bilanciamento dei poteri. Il nonno materno di Giolitti, Giovanni Battista Plochiù, alto magistrato in età franco-napoleonica, era Legion d'Onore, come Carlo Alberto era conte dell'impero. La Storia è continuità, anche grazie a società segrete (carboneria, massoneria, illuminati...) quando la libertà di opinione è conculcata. Giolitti nacque proprio quando Carlo Alberto accelerò il rinnovamento dello Stato non per pressione straniera ma dal suo interno, valendosi di una dirigenza di patrizi, borghesi, militari, ecclesiastici accomunati da due capisaldi: scienza e apertura all'Europa. A quel modo il Regno di Sardegna si candidò a interpretare e a esprimere il sentimento profondo dell'“opinione nazionale”, come auspicato da Silvio Pellico, Massimo d'Azeglio, Cesare Balbo, da uno stuolo di patrioti, anche esuli, come Vincenzo Gioberti. L'assillo del Piemonte non era solo di conoscere Parigi, Londra, Bruxelles, Berlino ma della valutazione che in quelle capitali si aveva di Torino. Nel Regno di Sardegna il “Quarantotto” non fu prodotto di importazione, ma frutto di lunga maturazione di una nuova moderna classe dirigente. Lo rievoca Giolitti nelle “Memorie della mia vita”,  pubblicate il 27 ottobre 1922  per festeggiare il proprio 80° compleanno. Vi ricorda l'incontro, al quale assisté, di Camillo Cavour con zio, Melchiorre Plochiù, magistrato e azionista di “Il Risorgimento”, una tra le grandi voci del Quarantotto, come “La Gazzetta del Popolo” di Felice Govean e Giambattista Bottero. Lo Statuto Albertino segnò il passaggio dalla monarchia amministrativa a quella rappresentativa, l'elettività dei consigli comunali e provinciali,  l'uguaglianza dinnanzi alle leggi e, quindi, la libertà di culto: caso unico in Italia. Da lì nacque la Terza Italia.  
Al servizio dello Stato., cioè dei cittadini
Inoltre Giolitti è il modello della generazione costruì lo Stato nuovo. Laureato in giurisprudenza a Torino a 19 anni, volontario senza stipendio al ministero della Giustizia a 20, sostituto procuratore del Re a 24, per un ventennio progredì nel servizio dello Stato, “prestato” al ministero delle Finanze con Quintino Sella, segretario generale della Commissione centrale delle imposte dirette (osservatorio privilegiato su Comuni e Province), della Corte dei Conti (1877), commissario alle Opere Pie San Paolo di Torino (che trasformò in “istituto bancario di sicuro avvenire”) e consigliere di Stato a quarant'anni. Quando nel settembre 1882 accettò la candidatura alla Camera si mostrò politico vero, capace di ascolto, abilissimo del procacciarsi il sostegno dei notabili, società di mutuo soccorso e sodalizi vari. Lo documenta la sua molto elaborata “Lettera agli elettori”, suggellata da una frase che anticipa quasi mezzo secolo della sua “politica”: “Allorché gli uomini di Stato più eminenti e gli operai sono concordi in un programma, vi ha la certezza che questi risponde ai veri bisogni del Paese”.
Estensore del Manifesto dell'opposizione subalpina contro la “finanza allegra” del ministro Agostino Magliani (1886), contrario a dispendiose e rischiose avventure coloniali ma fermo nella difesa della dignità nazionale, ministro del Tesoro e delle Finanze nel Governo presieduto da Francesco Crispi (1889-1890), quello delle grandi riforme (abolizione della pena di morte, trasformazione delle Opere Pie in Ipab, elettività dei sindaci e dei presidenti delle Deputazioni provinciali...), presidente del Consiglio dei ministri a soli 50 anni, Giolitti affrontò la più difficile delle riforme: dar vita alla Banca d'Italia in un Paese che trent'anni dopo la proclamazione del Regno e venti dopo l'annessione di Roma aveva ancora sei Banche abilitate a emettere moneta. Dovette fare i conti con l'intreccio tra malavita organizzata e la spesso cortomirante opposizione “democratica”. Perseguitato da Crispi, nel timore di carcerazione arbitraria andò a Berlino, ospite della figlia Enrichetta e del genero, Mario Chiaraviglio, massone. Rientrò quando seppe dalla moglie, Rosa Sobrero (“Ginotta”) che il mandato di comparizione non conteneva capo d'accusa.  
La terza lezione di Giolitti è l'alto senso della politica quale servizio allo Stato. Nei lunghi anni di “disgrazia”, durante i regni di Umberto I (tra il 1893 e il 1899) e di Vittorio Emanuele III (1915-1919), la sua lealtà nei confronti della monarchia, consustanziale all'Italia, non mutò di una virgola. Il monarchico non è un cortigiano. Ha il dovere di dire al sovrano anche parole “scomode”. Perciò egli rimase la grande “riserva” della Corona, per risollevarne il prestigio. Avvenne nel 1899, dopo la  repressione della cosiddetta “insurrezione milanese” del maggio1898, schiacciata con metodi inaccettabili e con l'arresto di deputati in carica. Giolitti capitanò la svolta liberale d'intesa con il democratico bresciano Giuseppe Zanardelli e con Ernesto Nathan, gran maestro del Grande Oriente d'Italia poi da lui voluto sindaco di Roma. Sempre capace di ascolto nel 1899, Giolitti recepì i suggerimenti di Urbano Rattazzi jr: dare voce al “Paese che lavora” e non inventare artificiosamente “nemici”. Iniziò il quindicennio più prospero dell'Italia unita, quando anche l'emigrazione (per lavoro, per fame) costituì una risorsa con le “rimesse” degli italiani dall'estero. Al governo si alternarono Zanardelli, lui, Alessandro Fortis (ex repubblicano), Sidney Sonnino, ebreo di culto protestante, Luigi Luzzatti, ebreo non praticante, una miriade di ministri e sottosegretari, sorretti da diplomatici, militari, dirigenti ministeriali, prefetti, magistrati, scienziati, accademici, docenti universitari, segretari comunali, insegnanti, artisti e, mai dimenticare, ecclesiastici ispirati da Pio X, il papa che “sospese” il divieto per i cattolici di voto attivo e passivo nell'elezione della Camera. Dai 3 cattolici deputati del 1904 si passò a 227 deputati liberal-moderati, radicali e persino massoni eletti col voto dei cattolici (il “Patto Gentiloni” del 1913), per arginare massimalisti, clericali e anarchici. Nel 1911 il bilancio del Cinquantenario registrò il grande progresso civile e sociale della Nuova Italia, cresciuta con la liberalizzazione degli scioperi “economici”, cioè per miglioramenti salariali, divieto assoluto di quelli “politici”, in specie nei servizi statali, leggi speciali a favore delle regioni arretrate, provvidenze d'ogni genere per istruzione e sanità. Conosceva bene la realtà. Contro tutte le leggende, il Piemonte aveva enormi sacche di povertà, generalmente sopportata con dignità anche grazie ai tanti Don Bosco.
Giolitti meridionalista e neutralista  
Sin da giovane alto dirigente statale Giolitti aveva esplorato il Mezzogiorno. Tra gli amici politici più fidati ebbe meridionali come Tommaso Senise, Antonio Cefaly, Antonino Paternò Castello di San Giuliano, Giuseppe Saredo, Pietro Rosano (che il  9 novembre 1903 si sparò per evitare che uno scandalo squallidamente orchestrato ai suoi danni potesse coinvolgere Giolitti e il neonato governo). Sapeva che per unificare davvero l'Italia occorreva destinare al Sud enormi investimenti per liberarlo dalla secolare arretratezza (infrastrutture, servizi pubblici,...). Messa a frutto la costosissima “impresa di Libia”, che all'Italia fruttò Tripoli e la Cirenaica (per evitare che se ne impadronissero la Francia o altri), Rodi e il Dodecanneso (liberati dal secolare turpe dominio turco), nel 1914-1915 ritenne che l'Italia non poteva impegnarsi in una guerra europea lunga e inevitabilmente esosa di vite e di risorse, causa di divisione non solo tra Nord e Sud ma anche fra lo Stato e le masse operaie naturaliter neutraliste e i cattolici, contrari a conflitti ai danni dell'unico impero cattolico, l'Austria. Neutralista, dopo l'intervento si schierò senza riserve a sostegno della Vittoria come tutto il Piemonte, da sempre uso a battersi “alle bandiere” con lo scudo sabaudo.    
La processione indiana: due passi avanti, uno all'indietro
Richiamato una quinta volta al governo da Vittorio Emanuele III, Giolitti ottenne successi fondamentali (abolizione del prezzo politico del pane, risanamento della finanza pubblica, superamento senza soverchi traumi della occupazione delle fabbriche da parte dei rivoluzionari decisi a “fare come in Russia”, cacciata di d'Annunzio da Fiume...). Chiese anche il trasferimento del potere di dichiarare guerra dalla Corona al Parlamento. Fallì l'obiettivo. Fu la sua prima seria sconfitta. La seconda venne col veto opposto da don Sturzo a una coalizione liberal-cattolica-socialriformista. Lo Statista trascorse a Cavour, in Piemonte, la notte fra il 27 e il 28 ottobre 1922, suo 80° compleanno: tormento e stasi. Il Re era a Roma per sostituire Facta, dimissionario, con un presidente fattivo. Mussolini temeva il ritorno di Giolitti. A Cesarino Rossi confidò: “ Se arriva Giolitti, siamo fottuti. Ha fatto sparare su d'Annunzio a Fiume”. Ma a Giolitti l'invito telegrafico ad accorrere a Roma arrivò solo “a cose fatte”. La storia non è una linea retta. Neppure quella d'Italia. Procede a zig-zag. Giolitti, statista serissimo e quindi capace di umorismo, osservò che il progresso è come certe processioni indiane: due passi avanti e uno all'indietro...
Nessuno come lui ebbe alto il senso dello Stato: una formula intraducibile, come la libertà, “ch'è si cara, come sa chi per lei vita rifiuta”. Quando andava al Colosseo o in montagna, Giolitti aveva sempre in tasca una delle cantiche della Divina Commedia. Chissà se ne ricorderanno tanti  dantisti “di complemento” da qui al 2021?  
Aldo A. Mola

(*) E' in libreria  il nuovo volume  di Aldo A. Mola, Giolitti. Il senso dello Stato, ed. Rusconi Libri, pp.XXII+626 e 16 ill.   ,

Giolitti secondo il generale Arturo Cittadini (1864-1928), primo Aiutante di Campo di Vittorio Emanuele III (Dichiarazione al generale Angelo Gatti, Palazzo del Quirinale, 30 marzo 1922): un ritratto acre, con tratti veridici.  

GIOLITTI COME L'IMPERATORE TIBERIO?

Giolitti ha dominato per molto tempo, anche quando non era al potere, la Camera. Da che cosa proviene questa forza indiscutibile di Giolitti? Ha prima di tutto la dote indiscutibile della conoscenza perfetta di tutto il congegno amministrativo dello Stato. A lui non la si può dare a bere.  La seconda qualità è di essere inflessibile ed irriducibile. La terza qualità è che è un uomo relativamente onesto: vale a dire che per se stesso non ha rubato. Per conto suo vive modestamente (a Roma) in un quartierino solito. La quarta qualità è di tenere tutti a distanza. Egli parla poco, e quando parla, con tono da padrone.
Quest'uomo avrebbe attratta l'attenzione di Machiavelli. Poiché fu un uomo veramente forte di fisico e di carattere. Facoltà principale della sua coscienza fu di considerare tutti gli uomini governabili e comandabili per i loro vizi. Facoltà principale del suo carattere fu quella di considerare se stesso padrone, e tutti gli altri servi.
In molti lati, (meno che per il sanguinario si capisce) questo vecchio somigliava a Tiberio. Aveva la sua grandiosa statura, il disprezzo degli uomini, la conoscenza dei loro vizi, la durezza del cuore, una certa onestà personale, il disdegno delle lodi palesi, la facoltà di governare da lontano, il rifuggire la folla, la semplicità, fino a un certo momento, della vita. Ma la sua facoltà principale, come conduttore di uomini parlamentari, era quella di sentirsi padrone. Era in questo aiutato dalla bassezza degli altri, che si sentivano servi.
Più difficile gli sarebbe stato governare le folle, che hanno anche passioni di entusiasmi, ecc.; ed, infatti, egli ciò non cercava. 
Egli è in disparte, solitario.

Tre domande all'Autore:

Questo “Giolitti. Il senso dello Stato” è nuovo rispetto ai libri precedenti?
R. Nel 2003 (l'anno della biografia scritta per Mondadori) non erano ancora disponibili molti documenti qui utilizzati sulla formazione politica di Giolitti, sulla crisi del “radioso maggio 1915”, quando venne ordito un attentato mortale alla sua vita, e sull'ottobre 1922, quando lo Statista rimase a Cavour mentre nella Capitale si giocava la partita fatale: la liquidazione del governo Facta, l'invito  inviatogli alle 5 del mattino del 28 ottobre e il telegramma firmato dal generale Cittadini che il 29 invitò Mussolini a Roma per formare il governo. Per me questo libro è un punto di arrivo e, forse, di congedo. Auspico giovi a chi vorrà continuare la ricerca. 

Qual è l'eredità di Giolitti?
Un'eredità morale e civile. Lo fece intendere egli stesso in una lettera del 1926 al nipote, Curio Chiaraviglio. Ormai ottantacinquenne, Giolitti leggeva le storie delle guerre del Cinque-Seicento per l'egemonia sull'Europa tra gli Asburgo e la Francia, quando l'Italia cadde sotto le dominazioni straniere. Come essa aveva superato tanti guai del passato, giungendo infine all'unificazione e all'indipendenza nazionale, così avrebbe fatto con quelli imperversanti, segnati dall'incipiente regime di partito unico. “La legge - osservava - riconosce il falegname, il filosofo, il ciabattino, l'avvocato, il cavadenti, il beccamorto ma il cittadino no. Il Civis Romanus sum è un'anticaglia. La libertà? Chi se ne ricorda? Ma il giorno in cui il popolo se ne ricordasse e la reclamasse?! Che cosa fare? Lavorare chi può ancora, stare a vedere chi non può più. Difendersi dal pessimismo. Pensare alla salute...”.
Bastano questa sue parole per capire l'attualità di Giolitti, il “Grande Saggio” della storia d'Italia.
 
Cavour, Giolitti, Einaudi. Chi è lo statista sommo?
Impossibile e inopportuno fare graduatorie. Meglio stare ai “fatti”. Cavour ebbe la (s)fortuna di morire il 6 giugno 1861, subito dopo la proclamazione del regno d'Italia, Nessuno sa come lo avrebbe governato. Non si era mai spinto a sud di Firenze, ove andò poche volte e litigò con il Re, molto più avveduto di lui.  Nel 1944 Einaudi fu aviotrasportato dalla Svizzera a Roma per prendere le redini dell'economia di un Paese vinto, lacerato e poi sotto l'incubo del Trattato di pace, duramente punitivo. Giolitti fu presidente del governo cinque volte (1892-1921) di un'Italia che era e si conduceva da Stato indipendente e che entrò nel novero delle maggiori potenze. Soprattutto, però, non dimentichiamo che i veri artefici di quell' Italia furono i Re, unici garanti agli occhi degli altri Stati: nemici, alleati, mai amici.
 
TUTTI A PIEDI
 VIA FRANCIGENA  E CAMINO DI SANTIAGO
  
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 7 luglio 2019, pagg. 1 e 11.
 
Quando Romano Prodi profetizzò la riscoperta della via Francigena
Con quella faccia un po' così, con l'espressione un po' così di chi apprende terribili segreti scrutando il fondo della tazzina di caffè, quando divenne presidente del Consiglio dei ministri un giorno fatidico Romano Prodi spiegò quale fosse il suo programma per l'Italia in Europa: ripristinare la via francigena. Sorrise. Il sorriso, tra criptico e tonto, riusciva bene a Gervaso, il cugino che Renzo Tramaglino noleggiò quale secondo testimone per tentar di sposare Lucia Mondella la notte degli imbrogli, come narra Alessandro Manzoni (ma meglio di lui ne scrisse Guido da Verona. Ce lo conferma Enrico Tiozzo, suo esegeta e ora curatore con Corrado Calabrò di “La libertà della sera” dell'Accademico svedese Kjell Espmark, ed. Ombre e luci del Nord).
Già. La via francigena. Il ritorno al futuro, il bivio perpetuo dinnanzi alla storia. C'è chi ci arriva come Dante Alighieri quando gli si parò davanti “la bella fera alla gaietta pelle”. C'è chi invece ha alle spalle lo smantellamento di quel che di buono rimaneva dell'Istituto per la Ricostruzione Industriale e ha svenduto pure la Cirio. Acqua passata. Per i Grandi Capitani l'importante è azzeccare la frase destinata a rimanere negli annali, tipo “Quaranta secoli di storia ci guardano”, come disse Napoleone dinnanzi alle piramidi. Avrebbe dovuto aggiungere: “E ci piangono”, dal momento che gli inglesi avevano distrutto la sua flotta ad Abukir tagliandogli la possibilità di rientrare a vele spiegate in Francia. Napoleone riprese la sua  “via francigena” in piccioletta barca e si rifece con il colpo di stato del 18 brumaio che lo elesse primo console: gradino verso l'Impero. Se uno va in Egitto e ne capisce storia e popolazioni (lo aveva fatto Marc'Antonio succubo dell'aerea Cleopatra) torna Faraone.
Toninelli: “Ma chi se ne frega di andare a Lione”?
Diversa è la sorte dell'Italia odierna. Mentre sola e pensosa va per i deserti calli, scopre quanto sa di sale lo scendere e il salir per l'altrui scale, valli, montagne, fori, trafori, vette. Adesso chi da Torino voglia andare in Francia deve munirsi di funi e di badili. Sull'erta via va incontro a sorprese sino a poco fa inimmaginabili. Hanno ragione quanti dicono che la prima capitale d'Italia è ornai una cittaduzza decentrata. Da Oltralpe infatti vi si arriva a fatica. E ce se ne parte con duolo. Ha detto bene il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli quando profeticamente esclamò: “Chi se ne frega di andare a Lione?” Viaggiare da Torino a Lione è un'idea balzana. Un cattivo pensiero. Ma quali alternative ha chi volesse andare da Vladivostok a Capo Finisterre o almeno a La Coruña, o da Abbiategrasso a Parigi passando, per farla più breve, proprio dalla Val Susa cara a Re Magno, che vi transitava andando e tornando dalla guerra con bramosia d'amor?
Se un tempo, diciamo sino a martedì scorso, già era un'impresa, quella tratta ferroviaria ora è un calvario. Una perfida slavina di fango irruppe sulla via ferrata dalle parti di San Giovanni di Moriana, che di là del crinale dicono Saint-Jean de Maurienne. È una graziosa e garbata cittadina. Vi si giunge in discesa da chi ruzzola dalle Alpi, in salita per chi punta verso l'Italia. Ma non è detto che le vie debbano denominarsi “salita san Giacomo” o “discesa san Giovanni Battista”. Quando venne invitato  a Soveria Manneli dall'allora sindaco Mario Caligiuri, in veste di assessore alla Invenzione o Fantasia, Giordano Bruno Guerri propose che le strade dell'ameno comune fossero in discesa da un lato, in salita dall'altro, perché così fan tutte. Dipende da come le si prende.
Il punto è sempre l'antico: “hic Rhodus, hic salta”. Piaccia o meno, se d'improvviso si viene assaliti dal capriccio di andare a Lione (città dei misteri con Torino e Praga: un triangolo massonico, più pericoloso di quello delle Bermude) da lì si deve passare, dalla fosca valle di Susa. Ma perché mai pretendere di usare il treno? Esso è il Progresso cantato da Giosue Carducci nell'“Inno a Satana”: “Un bello e orribile/mostro si sferra, /corre gli oceani, /corre la terra:// corrusco e fumido/ come i vulcani, / i monti supera, / divora i piani.// sorvola i baratri;/ poi si nasconde/per antri incogniti,/ per vie profonde.//  ed esce; indomito/ di lido in lido/come di turbine/manda il suo grido,//come di turbine/ l'alito spande:// ei passa, o popoli,/ Satana il grande./ Passa benefico/di loco in loco/ su l'infrenabile/carro del fuoco”. La Locomotiva. Il treno a vapore. Figuriamoci il convoglio a diesel o a trazione elettrica. O addirittura quello a Grande Velocità che i discendenti di Carlo Magno dicono Te-ge-vè, l'Accademia della Crusca appella Alta Velocità e il PCI (Partito Conciliatorista d'Italia) denomina Alta Capacità: TAC, che sembra un esame diagnostico sullo stato delle gengive.
In concreto da Saint-Jean de Maurienne il treno adesso non passa e non si sa quando riprenderà a passare. Perché non basta ramazzare via il fango dai binari improvvisamente precipitato dall'alto. Bisogna capire quanto e quando la ria collina potrebbe farvene scendere ancora, con i rischi che ognuno (toccando binari) facilmente immagina mentre si assopisce cullato dal dolce romorio del treno che sale (o che scende).
San Giovanni di Moriana. Sarà un sabotaggio dei nazional-sovranisti italiani che rivendicano la Savoia? O sono cose turche? Fu lì, infatti, che s'incontrarono i sommi capi dell'Intesa e il Comandante Supremo dell'Esercito italiano, Luigi Cadorna, nel corso della Grande Guerra. Figlio del generale Raffaele che il Venti Settembre 1870 espugnò Roma togliendola a Pio IX, Luigi Cadorna di guerra s'intendeva da quand'era bambino: perciò cercava di ottenere un minimo di coordinamento tra anglo-franco-russi e l'Italia contro gli Imperi Centrali. Sempre lì, Oltralpe, tentò di capire che cosa gli “alleati” avessero deciso di fare dell'Impero ottomano. In “Caporetto. Risponde Cadorna” (ed. BCSmedia) suo nipote, Carlo Cadorna, colonnello e cavallerizzo provetto, ricorda che il Generale intuì che gli “altri” si sarebbero spartiti le fette più appetitose e all'Italia avrebbero lasciato qualche landa desertica nei luoghi più sperduti e “una parte equa nella regione mediterranea finitima la provincia di Adalia, ove essa ha già acquisito diritti e interessi”. 
Scrutando beccaccini e paranzelle 
Come che sia, il ripristino della strada ferrata in Francia andrà per le lunghe. E questa landa d'Europa scopre tutta la sua vulnerabilità. Con gli occhi sbarrati a scrutare il mare di Alboran, le scialuppe che avanzano dal Golfo della Sirte, i beccaccini e le paranzelle di Garibaldi e garibaldini, ha perso di vista se stessa, il suo territorio, in larga parte abbandonato e ingabbiato dai ceppi di leggi e leggine pensate per le esose megalopoli e soprattutto da imposte, tasse, balzelli e tagliole come i ticket per entrare nel cuore antico delle città, identici alla cinta daziaria del buon tempo antico. Nel medioevo (che da noi è durato sino all'altro ieri: solo nel 1908 il governo Giolitti abolì la “ruota” ove deporre i neonati e introdusse la “ricerca della paternità” dei trovatelli) la “città” penalizzava l'ingresso di uova, polli, insaccati e ortaglie. Adesso incombe sui salami che pretendono di entrarvi al volante dell'auto per il cui acquisto hanno investito il trattamento di fine rapporto, acceso mutui, ipotecato la casa.
L'ardita Nizza-Ventimiglia, risorsa o beffa?   
Ma c'è alternativa a Saint-Jean de Maurienne? Forse che si, forse che no, direbbe Pirandello. Ci sarebbe, ci potrebbe essere, sarebbe forse immaginabile. Ma è praticabile? È l'ora della Cuneo-Ventimiglia-Nizza. Per darle un tono i suoi antichi artefici la dipinsero come Berna-Marsiglia, perché, per dirla sempre con Toninelli, chi se ne frega di prendere il treno se si deve andare solo da Cuneo a Nizza o viceversa? Bisogna vantare che la si prende larga. Come avviene dall'aeroporto di Cuneo (Levaldigi) dal quale non si va a Roma ma in Albania, Marocco, Romania. E da lì, chi proprio ci tiene può sempre andare a Roma... 
Sul Tenda papa Pio VII passò da prigioniero di Napoleone. Dal litorale francese doveva raggiungere  Savona. Anziché imboccare l'autostrada, che sarebbe stata tanto più comoda, o usare la strada ferrata, non ancora cantata da Carducci solo perché non c'erano né lui ne la ferrovia, il papa salì in carrozza lungo la Valle Roya. Spettacolo suggestivo quant'altri mai. Rupi scoscese, il canto delle chiare fresche e dolci acque, e poi i tornanti su. Benché non ci fossero i TIR e neppure le immense reti metalliche a fermare la caduta dei massi, era davvero una gran fatica.  Alla fine la carrozza venne smontata. Da una parte l'abitacolo, dall'altra le ruote. Tutto sulle spalle dei vetturali e di devoti volontari para-pontifici, alla volta di Palazzo Lovera, a Cuneo, e poi a Mondovì, sempre nella “portantina” ora in mostra nella Cappella di San Bernardo del Santuario-Basilica  di Vicoforte. Lì, ritratto in busto marmoreo, il papa guarda corrucciato il monumento funebre di Carlo Emanuele I, duca di Savoia, e quelli di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. Si domanda quale strada abbia percorso il feretro della Regina per giungervi da Montpellier. Mistero fittissimo.
La ferrovia Cuneo-Nizza, dunque, è un’alternativa alla Torino-Lione o, se si preferisce, alla Trieste-Parigi? Bello sarebbe se ferrovia davvero fosse. Sennonché ne ha solo l'apparenza. È suggestiva. Un capolavoro ingegneristico. Ma i trenini la percorrono a passo d'uomo per non deragliare. Del resto i suoi utenti sono forti e pazienti, come recita il motto di Cuneo, la città dei Sette Assedi. Si avventurano in treno non perché abbiano una meta, un affare da sbrigare, un voto da estinguere, una passione furtiva, un motivo qualunque ma perché così si distraggono dalla noia dell'immobilità su una panchina, voltan le spalle ai ricordi, evitano di rimuginare sul futuro, scacciano i cattivi pensieri. Guardano dal finestrino, contemplano il Creato e vanno…
Un viaggio da impazzire: lo prova il “caso Nietzsche”
La Cuneo-Nizza è l'emblema della decrescita felice. Del tutto opposta alla Torino-Lione-Parigi-Dakar (o la Parigi-Pechino?). Questa è ansiogena. L'altra, la cuneese, è rilassante. È una filosofia della natura. Anzi è “la” filosofia. Quali siano stati i tormenti del viaggiatore che verso fine Ottocento abbia voluto andare da Nizza a Torino è narrato da Sue Prideaux in “Vita di Friedrich Nietzsche” (Ed. Utet), ottimo candidato al Premio Acqui Storia 2019. Proprio nel capitolo che dà titolo al volume, “Io sono dinamite”, l’autrice, dotta storica dell'arte, inglese di origini norvegesi, racconta che nel 1888, felice di aver terminato “Al di là del bene e del male” e arcistufo di prendere pioggia battente e freddo, da Nizza il filosofo partì in treno alla volta di Torino. A Savona, tuttavia, stipati i bagagli sul convoglio per la capitale subalpina, sceso un attimo dal convoglio quando risalì si trovò per sbagliò su un treno per Genova. Tornò indietro e rimase due giorni nella città ove era stato prigioniero Pio VII. Arrivò a Torino solo il 5 aprile e prese stanza al terzo piano di via Carlo Alberto 6. Gli bastava aprire le finestre per sentire a scrocco l'esecuzione del “Barbiere di Siviglia”. Il 3 gennaio 1889 crollò. Vedendo un vetturino che picchiava spietatamente il suo cavallo, sopraffatto dalla compassione il filosofo gettò le braccia attorno al collo dell'equino. E cadde a terra (o fu spinto?) come corpo morto cade. Riportato a casa dal coinquilino Davide Fino, narra Prideaux, per molti giorni urlò, cantò a squarciagola, farfugliò tra se e sé, delirò. Scriveva lettere a Umberto I e alla regina Margherita, a Jacob Burckhardt, autore inarrivabile della “Civiltà del Rinascimento italiano”, e a Franz Overbeck. Suonava al pianoforte musiche di Richard Wagner, ballava nudo e si scatenava in riti dionisiaci. Era ormai fuori di senno. Traslato in Svizzera, gli venne diagnosticata la paralisi progressiva indotta dalla sifilide e fu affidato a un manicomio di Jena, la città ove Hegel aveva visto “il genio del mondo a Cavallo”, Napoleone I. Morì il 25 agosto 1900. La sua autobiografia, “Ecce homo”, uscì otto anni dopo. Era lettura obbligatoria per lunghi viaggi, in treno e in nave, per le lente notti d'estate e quelle rigide d'inverno. 
Che Europa era quella e qual è l'odierna? “Io sono dinamite” è la sintesi autobiografica di Nietzsche  ed è paradigma del cammino incompiuto dell'Europa che nel 1914 lasciò le grandi opere dov'erano e si buttò a capofitto nell'orgia della Grande Guerra: blitzkrieg fallito, guerra di trincea, guerra dei materiali, rivoluzioni, catastrofi. La guerra divorò investimenti che sarebbero bastati a mettere a lustro il pianeta per un secolo. È pur vero che poi venne la ricostruzione, ma ancora adesso si rinvengono ordigni bellici nei boschi che furono teatro della lunga guerra dei trent'anni (1914-1945), suggellata dai bombardamenti “a tappeto” documentati nel numero speciale di “Storia in Rete”, “Bombe sull'Italia”, con saggi di Fabio Andriola, Luciano Garibaldi, Emanuele Mastrangelo, Enrico Petrucci, Sebastiano Parisi e altri. A parte le circa 100.000 vittime (alcuni scrivono 170.000) della “guerra inutile” che imperversò per anni sul Bel Paese e lo ridusse in gran parte a rovine, anche le strade ferrate vennero duramente colpite. Fu appunto il caso della Cuneo-Ventimiglia, ripristinata solo nel 1979, con una visione tanto in ritardo sui tempi quanto era stata invece avveniristica la sua concezione originaria.
Perciò non può fungere affatto da succedanea della Vladivostok-La Coruña. L'alternativa è il “camino di Santiago”: a piedi, con mantello, bordone, conchiglia, tanta buona volontà e fortuna. Il Cebreiro illumina la mente e, se va bene, accende appetiti e fantasie wagneriane. Passo dopo passo si procede, con la speranza di non arrivare mai alla meta, perché lì il viaggio finisce. La tensione si spegne. Prevale il disincanto. Nella Cattedrale di Santiago di Compostela il botafumeiro va e viene nello Spazio... L'occhio lo segue incantato con l'interrogativo importuno: se scarrucolasse? Se mai si staccasse? Tutto è possibile. Come i miracoli, così sono le tragedie. Imprevedibili. “Umane, troppo umane”. Come l'inopportuna slavina di fango che blocca il “chemin de fer” più famoso e discusso d'Europa. Una fatwa? Per dire che da lì passa, o non passa, lo “straniero”? Ma “straniero” chi è? Lo era San Giacomo quando il suo corpo venne portato in Galizia e scoperto dall'anacoreta Pelagio? O quella di mille anni orsono era un'Europa più europea dell'attuale?   
Aldo A. Mola

 

CAPITALISTI, VIL RAZZA DANNATA
UNA, DIECI, CENTO CAPITALI DELL'ITALIA CHE SI SFARINA
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 30 giugno 2019, pagg. 1 e 11.
 
Pifferaio di HamelingE così, alla faccia di Karl Marx, grazie a una leggina senza oneri per lo Stato, in Italia trionfa il Partito dei Capitalisti. Non è quello di George Soros, l'ebreo ungherese naturalizzato statunitense che manipola immense fortune e soggioga governi come fosse Spectre. Non è neppure la allegra brigata che inventa la nuova libra, spaccia bitcoin, sogna di stampare nottetempo carta moneta più o meno fasulla e magari i “mini-bot”, sdrucita sottoveste degli antichi “pagherò”. Questi sono tardivi imitatori del frammassone settecentesco Giuseppe Balsamo. Noto come Alessandro conte di Cagliostro, dai muri umidi il “mago” grattava il bicarbonato per propiziare la digestione dei suoi “clienti” e incitava i gonzi a soffiare in canne attorno al pentolone nel quale il piombo sarebbe divenuto oro. Balsamo finì nel caveau di San Leo su ordine di papa Pio VI e vi morì dopo anni di bastonate e di urla strazianti. 
Quei fantasiosi venturieri erano solo dilettanti rispetto a quanto ora accade in Italia. Oggi vi trionfano i Capitalisti veri. È nato il nuovo PCI. Libero dalle macerie del suo omonimo (quello di Togliatti, Longo, Secchia...) è il “Partito delle Capitali d'Italia”, un neo-comunismo che va dalla Puglia alle Alpi, brucia incensi a vere e presunte città “già capitali” e mette tutti d'accordo riducendo la storia a timballo di maccheroni con contorno di fricassea. Ognuno ci aggiunge i condimenti e le spezie che meglio crede. 
La storia non si stabilisce per legge
Alle 12.30 del 26 giugno 2019, un mercoledì (giorno sacro a Mercurio, dio delle birbe), la Commissione affari costituzionali della Camera ha fuso il piombo di cinque proposte di legge propugnate da Elvira Savino (Forza Italia), Piero De Luca (Partito democratico) e tre “Pentastelline” (Anna Bilotti, Fabiana Dadone e Anna Macina) nell'oro di un bozzetto di legge, col soccorso dei deputati piddini toscani che vi han fatto inserire all'ultimo momento Firenze, curiosamente dimenticata dalle proposte originarie. All'unanimità (che non manca mai quando si tratta di bazzecole) la Commissione ha approvato il testo base di prossima approvazione. A Brindisi, Firenze e Salerno (citate dalla leggina in ordine alfabetico anziché cronologico) conferisce il titolo di “città già capitale d'Italia”. Esse potranno fregiarsene nei propri gonfaloni (già zeppi di emblemi, scritte, motti...). Per bontà della pentastellata Dadone l'articolo 2 della leggiuzza riconosce a Torino, come premio di consolazione, il rango di “città prima capitale d'Italia” (sarebbe bene correggere in “prima città capitale d'Italia”). Ma non sottilizziamo.  
Qualcuno ha fatto dell'ironia sulla proposta liquidandola come “leggina”; ma non è giusto. Come ognuno vede, ormai anche le “grandi” sono un coacervo di leggine. Ogni legge è un “omnibus”. Si veda quella sulla “Crescita”. Per coerenza, infatti, codesta mega-legge, poiché  bisogna rinvigorire l'Italia sfiduciata e sempre più moscia, contiene anche facilitazioni fiscali a favore dell'apertura di pornoshop nei comuni con meno di 20.000 abitanti. Così anche i “villani” potranno “crescere” (senza moltiplicarsi).
La leggetta sulle “città già capitali” dà motivo per qualche considerazione sommaria sulla “percezione” odierna della storia, dentro e fuori il Parlamento. È come la temperatura atmosferica. Non fedeltà ai fatti  ma “narrazione”, anzi mera “invenzione”. Ma le fantasie non hanno e non possono pretendere di avere valore legale. Questo è un punto niente affatto secondario in un Paese che sciaguratamente ha introdotto una legge punitiva del “negazionismo”, di opinabili “verità ufficiali”, che per gli storici semplicemente non esistono perché di mestiere indagano in cerca della verità documentata. Ebbene, sapendo di rischiare grosso, diciamo subito chiaro e forte che Brindisi e Salerno non sono mai state capitali d'Italia. Nessuna norma può imporre di ammetterlo: tanto meno questa aspirante leggina, storiograficamente infondata. 
Carlo Alberto Re di Cipro e Gerusalemme...
Andiamo per ordine. 
Lo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto di Savoia non fece parola della capitale del Regno di Sardegna. Parafrasando il motto latino secondo il quale ciò che è chiaro non richiede interpretazioni, non v'era motivo di scriverlo. Era Torino da quando il duca Emanuele Filiberto, che vi fece ingresso solenne il 7 febbraio 1563, la preferì a Chambéry, perno della Savoia: una scelta che, piaccia o meno e senza esagerazione, segnò il destino della dinastia, del Piemonte e dell'Italia. La Costituzione repubblicana del 1° gennaio 1948, che in quanto ha di limpido e chiaro ricalca lo Statuto Albertino, ignorò la questione. I costituenti discussero sui confini delle Regioni e sui loro capoluoghi, ma nulla dissero né di quelli nazionali (sul fronte orientale erano ancora in discussione e non dipendevano dall'Italia ma da accordi tra le Grandi potenze e la Jugoslavia, che figurava tra i vincitori mentre essa era tra i vinti) né della sua capitale. Per tutti era sottinteso che fosse Roma: perciò non era il caso di scriverlo. L'articolo 12 descrisse la bandiera della Repubblica (“tricolore italiano, verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni”) per differenziarla dalla precedente, adottata da Carlo Alberto il 23 marzo 1848, recante lo scudo sabaudo nella banda bianca. Su altro (dall'inno “nazionale” all'emblema statuale, poi disegnato da Paolo Paschetto, valdese e non massone) la Costituente si rimise al legislatore.        
Anche in Repubblica gli italiani vissero felici e tacitamente contenti di avere capitale Roma, poi marchiata “ladrona” dal predecessore di chi all'epoca chiedeva la secessione della Padania e oggi vorrebbe strapparla a una maggioranza che pare nata “a sua insaputa” e comunque si mostra inetta. Sennonché il 7 ottobre 2001 fu varata la sciagurata riforma del Titolo V della Carta. Nella nuova redazione essa recita che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato (…) Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento”. “Roma capitale” fu tra le insegne alzate da Gianni Alemanno che, all'epoca sindaco, nel 2010 ne celebrò i 140 anni nella Protomoteca del Campidoglio, partecipi Giuliano Amato e monsignor Angelo Ravasi, non ancora cardinale. Forse sognava il 150°, che cadrà il 20 settembre 2020. L'iniziativa si perse per strada. Gli atti del convegno non furono mai pubblicati e Alemanno ha altri grattacapi. 
Nel 2011, su impulso del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, fu solennemente celebrato il 150° dell'“unificazione nazionale”. In realtà (nella storia, non meno che nel diritto, la forma è sostanza) il 17 marzo 1861 venne pubblicata nella “Gazzetta Ufficiale” la legge in forza della quale, a maggioranza, il 14 precedente il Parlamento aveva sancito che Vittorio Emanuele II (di Savoia) assumesse il titolo di Re d'Italia. Il Parlamento non lo “proclamò”. Riconobbe quanto era nei fatti, avallati dai plebisciti confermativi delle annessioni votate da assemblee e/o da poteri provvisori. Lo si legge nel robusto volume curato da Gian Savino Pene Vidari “I plebisciti del 1860 e il governo sabaudo” (Ed.Deputazione subalpina di storia patria). 
Per Re Vittorio il nuovo titolo era un “anche”. Sovrano per grazia di Dio continuò infatti a proclamarsi Re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme, Duca di Savoia, Principe di Carignano, di Piemonte, Oneglia, Poirino, Trino, Vicario perpetuo del Sacro romano impero (che non esisteva più), duca di Genova, del Monferrato, del Chiablese, del Genevese, di Piacenza, marchese di Susa, Ceva, Oristano, conte di Nizza, Tenda, Asti, Alessandria, Novara, Tortona, Ginevra, Alto signore di Monaco, conte dell'impero francese (quello di Napoleone I), Nobil Uomo patrizio Veneto, patrizio di Ferrara e via risalendo e continuando. A Torino i Re ebbero Palazzo, consiglio della corona, poi consiglio dei ministri, Camera e Senato. Torino era il centro dell'amministrazione dello Stato, ma il Re era il Potere ovunque egli fosse poiché era il capo supremo dello Stato, così come oggi lo è il Presidente della Repubblica, che rappresenta dell'unità nazionale in qualunque luogo egli si trovi. 
Camillo Cavour e Giuseppe Regnoli:  il “voto” per Roma capitale 
A porre il nodo della capitale d'Italia fu Camillo Cavour a conclusione dell'interpellanza del deputato bolognese Rodolfo Audinot sulla “questione romana”. Tra i suoi passaggi forti spiccò l'invocazione: “Noi dobbiamo rivendicare i diritti su Roma capitale naturale d'Italia” (per “naturale” intendeva storica,“ovvia” e quindi “connaturata”), “simbolo della nazionalità riconosciuto da tutti”. Il 27 marzo 1861 il dibattito si concluse con l'approvazione del “voto” proposto da Carlo Boncompagni di Mombello, emendato dal bolognese Giuseppe Regnoli, massone e futuro membro della loggia “Propaganda”, come Giosue Carducci, Aurelio Saffi e altri padri della patria: “La Camera, udite le dichiarazioni del Ministero, confidando che, assicurata la dignità, il decoro e l'indipendenza del pontefice e la piena libertà della Chiesa, abbia luogo di concerto con la Francia l'applicazione del non intervento, e che Roma, capitale acclamata dall'opinione nazionale, sia congiunta all'Italia, passa all'ordine del giorno”. Il “voto” non era una “legge”, ma una speranza. Affinché divenisse realtà occorrevano tre condizioni: l'assenso del papa, della Francia e degli italiani. Come nulla fosse. Ne occorreva soprattutto una quarta, fondamentale ma solitamente ignorata. Il neonato Regno d'Italia tale era per asserzione della VIII^ Camera del Regno di Sardegna, che si tramutò in I^ Legislatura del nuovo Stato. Sennonché, con buona pace  dei sovranisti digiuni di diritto e di storia, agli Stati per esistere davvero non basta auto-proclamarsi. Occorre il placet della Comunità internazionale. All'epoca (1859-1860) questa era il Concerto delle Grandi Potenze che aveva fissato i suoi pilastri portanti (legittimità e tradizione) nel Congresso di Vienna del 1815, ribadito nei suoi canoni fondamentali da quello di Parigi del 1856. 
Vairano Catena capitale d'Italia?
Nel 1861 il regno d'Italia fu riconosciuto da Gran Bretagna, Svizzera, Stati Uniti e Grecia e basta. Altri Stati (all'epoca tutti imperi o monarchie) continuavano a riconoscere il regno delle Due Sicilie e la sovranità del Papa su Legazioni Umbria e Marche. L'Italia, insomma faticò a salire la china. Fu ammessa per la prima volta in una conferenza diplomatica internazionale a Londra solo nel 1867, grazie all'abilità di Isacco Artom, l'ebreo caro a Cavour. Quei precedenti vanno ricordati al nascente Partito Capitalista d'Italia. Se proprio si volesse cercare una “capitale” pre-unitaria, essa andrebbe individuata in Napoli, ove (lo ha ricordato Nico Perrone in saggi su Liborio Romano e sull'ammiraglio Persano) si svolsero le trame concluse con l'incontro di Teano, altra possibile “capitale”, perché lì, appunto, il 26 ottobre 1860 Giuseppe Garibaldi salutò “Re d'Italia” Vittorio Emanuele giuntovi al suono della Marcia Reale, come ricordò Giuseppe Cesare Abba nell'emozionante conclusione di “Da Quarto al Volturno”. Aggiungiamo che dal 1982 l'allora sindaco di Vairano Patenora spese passione e quattrini per certificare che l'incontro decisivo per la storia d'Italia non avvenne affatto a Teano ma nel suo comune, anzi a Vairano Catena. Sognava un futuro turistico, ma poi (come si diceva a Parigi nel 1968) dopo Marx venne Aprile, il giornalista-narratore che accusa i conquistatori venuti dal Nord di aver fondato un loro PCI, il Partito dei Carnefici d'Italia: i piemontesi buzzurri, canaglie, piombati dai crinali alpini, dal litorale ligure e dal famelico Bergamasco per devastare il Mezzogiorno, un Paradiso terrestre che a suo dire se la passava benissimo (come oggi, del resto, con due meridionali su tre al vertice del governo: Conte e Di Maio). I fatti sono stati ora rimessi in ordine da Giancristiano Desiderio nel succoso saggio “Pontelandolfo 1861. Tutta un'altra storia” (Ed. Rubbettino, candidato al Premio Acqui Storia).
Ubi Rex, ivi Lex 
Dove era la capitale? A Torino. Ma che cosa è la capitale di uno Stato? È la residenza nominale del Capo dello Stato, delle Camere, dei ministeri, di alcune “centrali” dell'esecutivo e dell'amministrazione. Con la Convenzione italo-francese del 15 settembre 1864 il governo italiano decise di trasferirla (nei termini anzidetti) da Torino a Firenze. Il Re continuò a esercitare il suo Potere (la “sanzione e la firma” dei decreti e delle leggi) ovunque si trovasse, in uno qualunque dei comuni d'Italia. Era il Capo di una Dinastia che apparteneva al circuito delle Famiglie Reali d'Europa e si estendeva ancora al Brasile. Era anche Re d'Italia, ma in una concezione poco percepita da tanti patrioti militanti (come poi da molti “storici”).
Quando andavano a caccia al camoscio in Valle Gesso o al cinghiale a San Rossore Vittorio Emanuele II, suo figlio Umberto e il nipote Vittorio Emanuele III erano Re d'Italia. Non portavano con sé l'apparenza della capitale (congerie di Camere e di “uffici”), ma la somma di Auctoritas e di Potestas. Del pari, quando il 9 settembre 1943 lasciarono Roma per Brindisi, ove giunsero l'11 seguente, Vittorio Emanuele III e il Capo del governo, Pietro Badoglio, non trasferirono affatto la “capitale”, che era Roma. Altrettanto vale per il passaggio del Re da Brindisi a Ravello (non Salerno). Roma rimase Roma, anche per l'altro “Stato”, la Repubblica sociale italiana, destinata a scomparire dalla storia se non per certi effetti “amministrativi”. Anzi Vittorio Emanuele III pose come condizione per il trasferimento dei poteri al figlio Umberto, “luogotenente del Re” (non “del Regno” come poi venne decretato) che esso avvenisse in Roma: perché quella era la “sua” città: simbolo dell'unità nazionale conseguita il 20 settembre 1870 e col plebiscito dell'ottobre seguente, recatogli dal duca Michelangelo Caetani di Sermoneta (massone nella loggia “Universo”,anche se di famiglia papale). 
Quando Sella fece i conti con il PCI e con il PIF
Accampare che Brindisi e Salerno abbian funto da “capitali” è dunque privo di fondamento storico. Se poi si volesse andare in cerca di chi per primo proclamò un Regno d'Italia occorrerebbe risalire nei secoli, non tanto a Napoleone I (il cui “regno d'Italia” era l'ex Repubblica italiana, poi in gran parte divenuto Reich lombardo-veneto dell'Impero d'Austria) ma ad Arduino, l'episcopicida marchese di Ivrea: più di mille anni fa. Nell'Italia delle Cento Città (ma almeno tre-quattrocento furono fulcro di qualche piccolo Stato meritevole di memoria (tutti derivanti dal Sacro romano imperatore), meglio è accontentarsi di tre capitali certificate: Torino, Firenze e Roma in sequenza cronologica chiara. Fermo restando che Roma comprende la Città del Vaticano, uno Stato sovrano il cui Monarca, suo vescovo in successione all'apostolo Pietro, non trasferisce la capitale quando visita una borgata o una delle tante città italiane. Così come non lo fa il Consiglio dei ministri dello Stato d'Italia quando, per motivi d'immagine più che di sostanza, si raduna in questa o quella città (solitamente per conclamati motivi di ordine pubblico o calamità: comunque sempre per sciagure).
Anziché arzigogolare su mai esistite capitali transitorie meglio occuparsi di Roma e cercare di farla funzionare. Un precedente eloquente: Quintino Sella, che più di ogni altro nell'estate 1870 volle “Porta Pia” e l'annessione di Roma e del Lazio all'Italia, non trasferì subito il ministero delle Finanze da Firenze a Roma. Lo tenne nella città del Giglio in attesa che fosse costruito il Palazzone, atto a incutere il senso della serietà dello Stato. E fu li che ebbe a fianco il giovane Giovanni Giolitti, lo statista che cercò di raddrizzare le gambe all'Italia. Senza troppo successo. Fece i conti con il PCI dell'epoca: il Partito dei Camaleonti d'Italia. E con il PIF, il Partito Italiano dei Pifferai. Suonano e trascinano verso la catastrofe: prima i topi, poi i bambini.
Aldo A. Mola

L'ANTICRISTO CHE E' IN NOI
BENEDETTO CROCE TRA PROGRESSO E  “FINE DEI TEMPI”
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 23 giugno 2019, pagg. 1 e 11.

Benedetto Croce: il rifiuto dello “Stato etico”  
In  “Declino e tramonto della civiltà occidentale” (Ed. Rubbettino) Giuseppe Bedeschi ripercorre l'angoscia del filosofo e storico Benedetto Croce all'indomani della seconda guerra mondiale, manifestata in saggi intrisi di profonda amarezza, al confine con lo scoramento. “Nel corso e al termine della seconda guerra mondiale – scrisse Croce in “La fine della civiltà” – si è fatta viva dappertutto la stringente inquietudine di una fine che si prepara, e che potrebbe nei tempi attuarsi, della civiltà, o, per designarla col nome della sua rappresentante storica e del suo simbolo, della civiltà europea”. In “L'Anticristo che è in noi” stigmatizzò il “distruttore del mondo, godente della distruzione, incurante di non poterne costruire altro che non sia il processo sempre più vertiginoso di questa distruzione stessa, il negativo che vuol comportarsi come positivo ed essere come tale non più creazione ma, se così si potesse dire, dis-creazione”. Erano gli “Adelphi della Dissoluzione” indagati da Maurizio Blondet?
Croce era stato profondamente colpito dall'impiego delle bombe termo-nucleari da parte degli Stati Uniti d'America per piegare il Giappone: quasi duello simbolico tra l'ordigno accecante e annientatore e l'impero del Sol Levante, il Satana prodotto dall'uomo e il divino della Tradizione. Luce che si fa Tenebre, come in tutte le visioni dualistiche, e contrapposizione tra il Bene e il Male. Croce era ormai lontanissimo dal pensiero del gigantesco ma sempre più deprecato Hegel, che aveva condotto  a “questo ideale di morte che ora si chiama 'totalitarismo' 'partito unico' e 'obbedienza al partito' frutto della esaltazione dello Stato”, che si fa “comandatore della vita morale” coniugandosi “coi più terribili tra i barbarici idoli primitivi, Moloch, Kemosh, Baal, Jahve, dai quali è provenuto il 'numinoso' che l'idea dello Stato etico serba e che ai tempi nostri ha rivestito forme molteplici, forme diverse ed opposte, ma tutte con un che di sacro”.
La Guerra: fatalità?
Nelle meditazioni di Croce si intrecciavano pulsioni contrastanti. Nel 1914 era stato fra quanti vennero colti di soprassalto dalla conflagrazione europea. Gli pareva impossibile che da una lunga rigogliosa epoca di pace e di progresso in tutti i campi del sapere e della vita civile si precipitasse in un conflitto generale feroce, disumano, negatore dei principi ispiratori della “civiltà”. Fatalità? Imprevidenza? Miopia? Eppure proprio lui pochi anni prima aveva irriso i postulati da due secoli professati dalla massoneria. Il pacifismo, l'umanitarismo, la fratellanza a suo avviso erano formule ingenue, “cultura” ottima per commercianti e maestrucoli di scuola, giacché, egli sentenziava riecheggiando Eraclito, la storia è sequenza di guerre. L'altro caposcuola del liberalismo italiano, il liberista Luigi Einaudi, a sua volta elogiò “la bellezza della lotta” proprio quando questa stava per giungere al culmine dello scontro fra opposti massimalismi: la sinistra rivoluzionaria (più a parole che nella capacità e nel dominio dei mobili di guerra) e il capitalismo dal cuore indurito nel corso della grande guerra. 
Il 24 ottobre 1922 Croce non si era perso lo spettacolo di Benito Mussolini che, orante e imprecante nel teatro San Carlo di Napoli, preannunciò la mobilitazione per agguantare il potere: la mai effettuata “marcia su Roma”. Senatore del regno e ministro della Pubblica istruzione nel V governo Giolitti (1920-1921), votò a favore del governo Mussolini non solo nei suoi primi vagiti (improntati dal liberismo di Alberto De Stefani) ma anche dopo l'“affaire Matteotti”, quando approvò il bilancio dell'Interno. Non vedeva alcuna alternativa al governo in carica, anche perché chi avrebbe dovuto opporglisi (a qualunque costo e anche a rischio della vita, come insegnò Giolitti)  aveva disertato l'Aula e si era arroccato nella posizione politicamente più improduttiva e perdente: l'“Aventino”. Opposizione anti-sistema ma nel sistema accampata e cresciuta da oltre trent'anni, la compagine di repubblicani, radical-democratici e socialisti si attendeva che a risolvere la crisi (di governo, non dello Stato) intervenisse Vittorio Emanuele III. Già a fine ottobre 1922 il Re si era trovato pressoché solo a dipanare l'imbrogliatissima matassa della politichetta governativa perché il presidente del Consiglio, Luigi Facta, non convocò il Parlamento e si smarrì negli intricati viottoli di trattative sottobanco con amici e nemici (incluso lo sprezzante Gabriele d'Annunzio) nell'illusione di succedere a se stesso appagando Mussolini con un ministero di seconda fila.
Se quelli erano i “Maestri di color che sanno” bene si comprende il disorientamento (o riorientamento) della generalità dei cittadini cosiddetti “comuni”, desiderosi solo di ordine pubblico, quiete personale e di un salario o stipendio sufficiente per campare dopo gli anni della lunga e dura prova bellica (680.000 morti e più di un milione di feriti e mutilati), della fame e della guerra civile strisciante. 
All'opposizione del regime, non contro lo Stato
Con il Manifesto degli intellettuali antifascisti (replica prolissa a quello, parimenti “accademico” dei fascisti, redatto da Giovanni Gentile e sottoscritto anche da futuri avversari del regime) Croce assunse la guida dell'opposizione a un partito che pretendeva di soggiogare il governo e a un governo che si ergeva a Stato, insomma al “regime”, capitanato dal “duce”. Negli anni difficili, dal Concordato tra l'Italia e la Santa Sede, proposto all'opinione pubblica come gratificante e pacificante “Conciliazione”, sino alla guerra contro l'Etiopia, scandita da abilissime operazioni mescolanti patriottismo e fascismo (per esempio l'“offerta dell'oro alla Patria”, cui anche Croce aderì), come la generalità dei politici anti o a-fascisti il filosofo imbevuto del pensiero di Giambattista Vico non colse subito la deriva di Mussolini verso la fatale alleanza con Hitler. Neppure le leggi razziali del 1938 suscitarono la manifestazione pubblica di opposizione netta. A differenza di Einaudi, non partecipò al loro voto in Senato, ove si contarono 10 astensioni su 160 presenti e circa 400 patres. Di anno in anno, di mese in mese l'Europa, e con essa l'Italia, passò dalla Conferenza di Monaco (settembre 1938, quando Hitler ottenne formalmente l'annessione dei Sudeti, politicamente ancor più emblematica di quella dell'Austria) al patto Ribbentrop-Molotov (ovvero tra la Germania di Hitler e l'Unione sovietica di Stalin) e alla nuova conflagrazione europea, poi volta in seconda guerra mondiale (settembre 1939).
Pochi ebbero chiaro che il nuovo conflitto era la prosecuzione del precedente e che l'Italia, giunta ultima e malvolentieri accolta tra le “grandi potenze”, rischiava di retrocedere. Nell'introduzione al volume di Vanna Vailati “1943-1944. La storia nascosta” (Torino, G.C.C., 1986), tra i “Documenti inglesi segreti che non sono mai stati pubblicati” il generale Luigi Mondini ricorda il progetto “allucinante” messo a punto dal Foreign Office e dal War Office britannici che prevedeva la spartizione dell'Italia, “dandone un pezzo a ciascuno degli Alleati, grandi e piccini. Alla Grecia venivano date le Puglie e gran parte del Sud; agli Jugoslavi una fetta che dall'Istria arrivava a Milano; ai francesi l'isola d'Elba, la Liguria, il Piemonte fino a Milano; agli inglesi la Sardegna, la Sicilia, la Calabria. Gli americani avrebbero occupato Roma, che sarebbe stata affidata al Papa”. La spartizione della flotta e delle colonie avrebbe imbonito l'Unione sovietica. L'Italia, insomma, avrebbe avuto la sorte della Germania, suddivisa, come Berlino stessa, nei modi ben noti: una tragedia che si prolungò sino al poco rievocato 1989 e il cui ricordo basta a spiegare i tremori non solo di Angela Merkel ma di chiunque conservi memoria della storia di ieri.
Vittorio Emanuele III, il traghettatore
L'obiettivo dell'Italia fu di uscire comunque dal conflitto, come rievoca Luigi Federzoni nel “Diario inedito, 1943-1944” (ed. Pontecorboli). Fra traversie complesse e in tempi oggettivamente rapidi (poche convulse settimane, tra ostacoli che parevano insormontabili: a cominciare dalla diffidenza dei nemici, ostili e divisi) a condurre in porto la trattativa fu il governo del Re. Con il trasferimento da Roma a Brindisi (9-11 settembre) esso salvaguardò la continuità dello Stato, rafforzata dalla dichiarazione di guerra contro la Germania (13 ottobre 1943), pilastro della “ricostruzione”. Fosse o meno gradito, Vittorio Emanuele III fu a tutti gli effetti l'interlocutore dei vincitori. Svolse il ruolo insostituibile di traghettatore dell'Italia dalla rovina alla sopravvivenza. Come nel citato Diario scrisse Federzoni il 24 dicembre 1943, “la monarchia non è una persona: è un sistema”. L'Italia si era salvata “sia pur tardi e alla meglio, o alla peggio, se si vuole; ma si è salvata perché aveva ancora un Re. Comprendono oggi tutto questo i così detti uomini d'ordine? Per molti segni ne dubito. In non pochi di essi prevale una specie di rancore contro Vittorio Emanuele III. È il solito personalismo, la solita incapacità di pensare obiettivamente, vizio incorreggibile di molte donne e di troppi Italiani che fanno politica”. Avrebbero accettato anche la repubblica. “Somigliano a chi si gettasse dal tetto, con l'intenzione di fermarsi al piano sottostante...”. Anziché abbattere la monarchia occorreva semmai rafforzarla, perché era il bastione contro lo Stato totalitario. Bisognava perciò tenerla al sicuro dai “monarchisti”, dalla folla di quanti pretendevano che il re fosse a loro individuale immagine e somiglianza.
Il rancore di Croce contro il Re
Tra gli “uomini d'ordine” che intrapresero una sorta di battaglia personale contro Vittorio Emanuele III spiccò Benedetto Croce, che il 28 novembre 1943 pronunciò nel chiostro di San Marcellino dell'Università di Napoli un discorso nel quale chiese pubblicamente l'abdicazione del re “illico et immediate”. Il 6 dicembre ne prospettò ruvidamente l'esilio: “Non v'è dubbio che da un regolare processo non potrebbe uscire se non la condanna del re, violatore dello Statuto e alleato del fascismo nel danno e nell'onta apportata al popolo italiano. Condannato, insisteremmo che fosse lasciato libero e allontanato dall'Italia”. Identici concetti ribadì nelle settimane seguenti e in specie il 28 gennaio 1944 nel congresso dei comitati di liberazione nazionale a Bari: “Il re non è in grado di formare un ministero, perché gli uomini che hanno esperienza e reputazione si rifiutano di giurare a lui fedeltà e temono da lui, e dalla gente che lo circonda, insidie”. Dissociazione di responsabilità... Non bastasse, il 3 maggio deplorò pubblicamente l'“intervista” subdolamente carpita al Principe di Piemonte, Umberto, e pubblicata dal “Times”. Luogotenente del Regno, questi aveva osservato che nel giugno 1940 nessuno si era opposto alla dichiarazione di guerra. Croce obiettò che opporsi o chiedere la convocazione delle Camere sarebbe stato da folli o da imbecilli (sic): autoassoluzione di un “popolo” che aveva riempito le piazze osannando. Pur essendo storico di vaglia, non si domandò se quel “documento” rispondesse pienamente al pensiero del Principe o fosse frutto di manipolazione.
Nel “Saluto all'Italia liberata” (5 giugno 1944) il filosofo aggiunse che gli italiani erano ora liberati anche dalla “ardua e penosa questione della persona del re” e forti di un “ministero democratico, formato dai rappresentanti di tutti i partiti...”.
La realtà si rivelò subito molto diversa da come l'aveva immaginata. Nel primo numero di “Rinascita”, la rivista del Partito comunista italiano, Palmiro Togliatti sparò a palle incatenate contro Benedetto Croce, liquidandolo quale silenzioso connivente del regime. Il filosofo non prese più parte dalle sedute del Consiglio dei ministri.
Il progresso e il suo contrario
Sarebbe soverchiamente lungo ed esula dall'economia di un articolo per questo Solstizio d'Estate ripercorrere gli ideali, le passioni e talvolta gli umori che danno vigore agli scritti crociani tra l'amaro risveglio dell'estate 1944 e il 1946, quando, con lo spettro dello stalinismo, gli si parò dinnanzi l'incubo della fine della civiltà europea. Non gli fu facile ammettere che a difenderla fosse un politico pragmatico come Harry Truman, grado 32° del Rito scozzese antico e accettato, il presidente degli Stati Uniti d'America che non aveva esitato a far sganciare due bombe atomiche sul Giappone e che non avrebbe esitato a cannoneggiare Tito se i comunisti jugoslavi avessero superato la linea fissata per la loro non apprezzata avanzata verso occidente.
Le meditazioni di Croce non furono comunque improntate solo al cupo pessimismo dell'“Anticristo che è in noi”, classificato quale “tendenza dell'anima”. “L'uomo - egli osservò – accetta la morte e la desidera al termine della vita operosa, ma non mai si rassegna al pensiero della fine della civiltà nella quale è nato, si è educato, ha lavorato ed ha amato e si è travagliato. Egli vorrebbe che quel mondo continuasse...”.  Gli pareva però che anche il “progresso” fosse poco più che uno “stato d'animo”, più pulsione emotiva che ideale o persino Idea. Se poi convenne che “la storia è sempre storia di progressi”, confutò però l'interpretazione della storia quale “corso predeterminato”, spiegabile con una causa univoca e affermò che essa è comunque sempre opera umana, quasi un “la storia siamo noi”: conclusione che non richiede speciale formazione filosofica e che serpeggia nell'animo di ciascuna persona, più o meno consapevole di sé.
Non approdò mai alla serenità di chi vive nella leopardiana consapevolezza che “tutto al mondo passa e quasi orma non lascia”, che i barbari barbari sono e il loro avvento non è redenzione ma rovina e che felicità suprema per la persona saggia è di non morire tra efferate torture ma, semmai, di finire porgendo il pugnale al consorte come la matrona Arria Maggiore al marito con la mesta esortazione: “Paete, non dolet”. Quelli erano Stoici. Mai avrebbero scritto “perché non possiamo non dirci cristiani”. Erano Pagani. Un altro mondo, non corroso dall'idea di progresso: capace di gustare la bellezza della vita nella serena contemplazione della morte.
Aldo A. Mola

GIUGNO 1940 – MAGGIO 1945
CINQUE ANNI SOTTO LE BOMBE E GUERRA CIVILE
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 16 giugno 2019, pagg. 1 e 11.

GIUGNO 1940: IL NORD-OVEST SOTTO LE BOMBE
L'anniversario è passato sotto silenzio. Invece agli smemorati per opportunismo e a quanti  forse neppure lo sanno va ricordato che il 10 giugno 1940 il capo del governo, Benito Mussolini, comunicò dal balcone di Palazzo Venezia che l'Italia aveva dichiarato guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Chiamate a raccolta in tutte le piazze, le folle plaudirono. Al duce che domandava “Volete burro o cannoni?” gli italioti rispondevano: “Cannoni”. Dimenticare e ignorare fa male. Ricordare no. Può aiutare a non sbagliare un'altra volta, a non mettersi invano contro chi è più forte. 
“Ex uno disce omnia...”. La tragica sorte dell'Italia sotto i bombardamenti angloamericani non iniziò con quello su Roma del 19 luglio 1943, considerato apocalittico perché tutti credevano che la Città Eterna fosse al sicuro grazie all'inviolabilità della Città del Vaticano e alla sacralità universale dei suoi monumenti. La catastrofe cominciò all'una e 35 minuti del 12 giugno 1940. Alcuni Whitleys britannici decollati dallo Yorkshire e dalle isole normanne con volo per i tempi ardito giunsero a bombardare Torino. Rovine, 11 morti e panico. Il 17 giugno aerei francesi partiti da Salon de Provence per colpire la stazione ferroviaria di Cuneo, militarmente irrilevante, la sbagliarono di mezzo chilometro. Quindici bombe caddero nei pressi della “Chiesa Nuova”. Non esplosero. Furono esposte in bella mostra per provare che il nemico era innocuo. L'indomani un altro bombardamento francese mancò clamorosamente l'aeroporto di Levaldigi, suo obiettivo. 
E L'AERONAUTICA ITALIANA?
L'armistizio italo-francese di Villa Olgiata (24 giugno) era ormai imminente. Francia e Italia non volevano farsi troppo male. L'avanzata degli italiani si arrestò a Mentone. Ne scrisse sapidamente Italo Calvino, studiato da Luca Fucini. 
Chi sapeva leggere i fatti constatò che nessun aereo italiano tentò di bombardare la Francia. Meno ancora la “perfida Albione”. La difesa antiaerea si era rivelata incapace di intercettare il nemico. Infine l'UNPA (Unione nazionale protezione antiaerea) era ancora lontanissima dal prendere corpo. Roma scommise sulla “guerra lampo”. Poiché tutto ha un costo, in specie l'allestimento dei rifugi blindati (pubblici, collettivi e singoli: tutti molto al di sotto dello stretto indispensabile) e la messa in sicurezza di stabilimenti industriali, centrali elettriche e monumenti di speciale rilievo, si sperò che la guerra finisse prima di cominciare. Nella generalità del Paese, del resto, quel giugno 1940 passò senza speciale patema d'animo, come documentano giornali e trasmissioni radio del tempo. I fortunati che già non erano in vacanza progettavano dove andarci. Eppure dall'agosto dell'anno precedente l'Europa era in guerra, a lungo stagnante,  ma alternativamente violentissima e micidiale. 
LA SECONDA ONDATA: TORINO DICEMBRE 1942
L'armistizio non chiuse affatto il conflitto. L'aviazione inglese continuò a colpire duramente l'Italia, senza sorvolare la Francia, parte occupata dalla Germania, parte sotto controllo del Maresciallo Pétain, non alleato di Berlino ma neppure in guerra contro Londra. Lo scenario mutò drasticamente nel dicembre 1941 con l'intervento degli Stati Uniti d'America contro il Giappone e a fianco della Gran Bretagna. Dopo l'operazione Torch (cioè lo sbarco in Marocco e Algeria, quando ormai le forze italo-germaniche in Africa erano pressoché sgominate), Piemonte e  Lombardia tornarono bersaglio precipuo, perché erano il fulcro della produzione industriale e quindi retroterra della difesa. Ogni dubbio fu spazzato la notte dell'8 dicembre 1942. Dopo numerosi attacchi e allarmi, Torino subì uno spaventoso bombardamento “a tappeto” da parte della britannica RAF, che colpì soprattutto stabilimenti industriali ed edifici civili. Causò oltre 200 morti, altrettanti feriti e danni gravissimi ai maggiori impianti produttivi, a cominciare dalla sede della Fiat al Lingotto. Il comando inglese elogiò l'impresa come la più efficace dell'intero anno.   
L'intento terroristico era chiaro: evidenziare l'inferiorità della difesa italiana, suscitare il panico nella popolazione, spingerla a sfollare nei centri minori con enormi disagi quotidiani, mettere a soqquadro la rete di distribuzione dell'energia elettrica proprio alle soglie dell'inverno e dei rifornimenti dei generi di prima necessità. In un Paese ove i consumi già erano razionati il malcontento presto sarebbe dilagato e si sarebbe tradotto nella richiesta popolare di pane e pace, come si vide con gli scioperi del marzo 1943, che presero in contropiede non solo Mussolini ma anche i partiti antifascisti, comunisti inclusi, che cercarono di cavalcare l'onda ma ne non furono affatto i motori. 
LA MISSIONE POLITICA DI ENRICO CUCCIA A LISBONA:
Nel maggio dello stesso 1942 Enrico Cuccia, genero del potentissimo Alberto Beneduce (antico massone, presidente dell'Istituto per la Ricostruzione Industriale e demiurgo della Banca d'Italia e della grande finanza dall'inizio degli Anni Trenta), nel corso di una missione a Lisbona per motivi connessi al suo ruolo di alto dirigente della Banca Commerciale Italiana, tramite il diplomatico statunitense George Kennan fu latore di un messaggio riservato di due esponenti del neonato Partito d'azione, Ugo La Malfa e Adolfo Tino, per Carlo Sforza, già ministro degli Esteri nel V governo Giolitti (1920-1921), senatore del regno d'Italia, Collare della Santissima Annunziata (e quindi “cugino del re”), mai dimissionario da alcun titolo e rango né “radiato” o privato di quelli conferitigli. Il Partito d'azione informò che voleva rovesciare il regime fascista e la monarchia: non il sovrano in carica, Vittorio Emanuele III, Inviso anche per le leggi razziali del 1938, ma l'istituto monarchico stesso, vivaio di governi reazionari. Il primo dei “Sette punti” elaborati e concordati nel luglio 1942 dai suoi fondatori recita: “La prolungata abdicazione degli istituti monarchici - corresponsabili con il fascismo della rovina del paese – legittima la inderogabile esigenza di un regime repubblicano...”. Sforza, come la Mazzini Society di New York, i massoni Randolfo Pacciardi e Alberto Tarchiani, Gaetano Salvemini e molti esuli italiani oltre Atlantico e in Inghilterra accolsero con entusiasmo quel pronunciamento. La monarchia era stata  sempre bersaglio di comunisti e socialisti, uniti nel patto di unità d'azione. Ma i partiti di estrema sinistra non incontravano soverchie simpatie a Londra e nessuna negli USA. Il PdA, invece, si proponeva ed appariva quale partito della borghesia operosa, riformatrice, “occidentale”. Esso lasciava intravvedere il rinnovamento ab imis dell'Italia senza condizionamenti né da parte dei cattolici (notoriamente sospettosi nei confronti degli USA, che ancora non riconoscevano la Santa Sede quale Stato) né dei “liberali”, che, poi asserì Benedetto Croce, consideravano i fascisti una temporanea “invasione degli Hyksos”, dopo la quale sarebbe tornata la pax interna, incardinata sull'Istituzione che “aveva fatto l'Italia”. I suoi tormenti sono ora passati in rassegna da Eugenio De Rienzo in Benedetto Croce. Gli anni dello scontento, 1943-1948 (Ed. Rubbettino).
Venne ripetutamente insinuato, ma non è mai stato provato, che tramite la missione di Cuccia a Lisbona o altri canali e in altri momenti il PdA in quanto tale abbia anche sollecitato gli anglo-americani a colpire l'Italia dal cielo per metterla definitivamente in ginocchio, aprire la crisi del regime fascista e clerico-monarchico e determinare l'avvento di un governo capace di guidare la ricostruzione morale e materiale del Paese, col sostegno (o tutela, o dominio) dei vincitori, senza i quali  “minoranze illuminate” con modesto seguito elettorale non avrebbero potuto o possibile fronteggiare il futuro. 
In realtà Roosevelt e Churchill non avevano bisogno di suggerimenti da parte di nessuno su quando, come e dove colpire l'Italia, per squassarla e costringerla alla resa. Per di più il PdA voleva la nazionalizzazione dei “grandi complessi finanziari, industriali e assicurativi e in genere di quante imprese hanno carattere di monopolio e rilevante interesse collettivo”: obiettivo che avrebbe intralciato la sottomissione del potere reale di un Paese destinato alla sconfitta militare e al declassamento politico da grande potenza a “provincia dell'impero”. Sapevano invece di poter contare su uomini che avevano fiancheggiato Mussolini sino a guerra inoltrata ma ora se ne dissociavano. Era il caso di Pietro Badoglio. Duca di Addis Abeba, ormai sicuro che l'Asse non avrebbe vinto la guerra, questi non era più “fedele a Casa  reale” e voleva “al momento giusto, prendere il potere e costituire un governo militare”. 
LA TERZA RISOLUTIVA ONDATA E L' “INFORMAZIONE”
Il colpo di Stato del 25 luglio 1943, la sostituzione di Mussolini con Badoglio e l'accelerazione delle trattative del nuovo governo per ottenere la “resa senza condizioni” per salvare la monarchia quale garante della continuità dello Stato e dell'esecuzione dei diktat dei vincitori, furono scanditi dalla raffica più violenta di bombardamenti aerei sulle maggiori città dell'Italia settentrionale. Badoglio esortò gli esponenti dei partiti antifascisti a capire che l'Italia era tra la dura incudine dell'occupazione germanica strisciante e il pesante martello dell'aviazione anglo-americana. Con il grosso delle forze armate disseminate all'estero (Grecia, Balcani, Provenza...) o in corso di riorganizzazione (i reduci dal fronte russo) essa non era in grado né di contrattaccare né di difendersi. Dopo l'annuncio dell'armistizio, diramato nelle note drammatiche circostanze, e l'ordine impartito all'Aviazione militare di trasferirsi nei campi assegnati, gli anglo-americani mirarono a ottenere il massimo di informazioni sulla rete difensiva e produttiva della nascente Repubblica sociale e dei tedeschi nell'Italia centro-settentrionale. Allo scopo utilizzarono tutti i referenti a contatto con il SOE britannico e l'OSS statunitense, le due reti in serrata competizione. 
Contrariamente a quanto da molti asserito, gli anglo-americani e i rispettivi “servizi” uti singuli poco si fidarono delle formazioni partigiane di matrice esplicitamente partitica, in specie dei “garibaldini” i cui commissari politici erano l'avanguardia dell'Unione Sovietica. Se l'Italia (anche grazie all'armistizio) era sicuramente assegnata all'“Occidente”, la costituzione di un forte partito comunista di massa (come poi propugnato e avviato con la “svolta partecipazionistica” di Palmiro Togliatti al suo rientro in Italia nel marzo-aprile 1944) sarebbe stata comunque una pericolosa spina nel fianco del nuovo regime. Gli anglo-americani privilegiarono invece rapporti con le formazioni “autonome” sia monarchiche sia di non dichiarato orientamento sulla questione istituzionale ma capitanate da militari. In quel panorama il Partito d'azione e le formazioni “Giustizia e Libertà” figurarono come il meno sta nel più. Ai “partigiani” gli anglo-americani chiedevano ragguagli precisi per interventi altrettanto mirati. Ogni loro missione di collegamento, come ogni intervento dal cielo richiedevano lunga preparazione e comportavano un costo elevato di mezzi e l'impiego di uomini di alta professionalità, talvolta senza ritorno. Gli accordi del dicembre 1944 tra gli anglo-americani e il Comitato nazionale di Liberazione Alta Italia, mediati dal governo presieduto da Ivanoe Bonomi, resero ancora più chiaro il “patto” tra Alleati e guerra partigiana. Contro l'ingente finanziamento del Corpo Volontari della Libertà comandato da un generale di comprovata competenza quale Raffaele Cadorna (che ebbe per “vice” l'azionista Ferruccio Parri e il comunista Luigi Longo), ai partigiani fu chiesta la massima collaborazione secondo direttive analitiche, più volte ribadite. 
Lo sbarco americano in Provenza (15 agosto 1944), l'arresto dell'avanzata anglo-americana sulla linea gotica (“proclama Alexander”, novembre 1944), il repentino tracollo delle “repubbliche partigiane” (clamorosi i fallimenti di quelle dell'Ossola e di Alba), il “rientro” nelle città di tanta parte di giovani (propiziato dall'“amnistia” del 28 ottobre 1944) e la pianurizzazione o trasferimento dalle alte valli a meno inospitali zone collinari di ormai esigui reparti partigiani accentuarono l'importanza strategica e tattica delle incursioni aeree anglo-americane, sia per aviolanci di armi, danaro e provviste, sia per bombardamenti di presidi militari nemici e soprattutto delle infrastrutture (in specie la rete ferroviaria, i convogli in transito, i magazzini…).
In tale ambito il concorso delle formazioni partigiane non venne organizzato sulla base della loro matrice ideologico-partitica ma sul piano dell'efficienza. In Piemonte, per esempio, svolse ruolo eminente il “Servizio X” incardinato nella III Divisione autonoma “Alpi” (o “R”, cioè Ricostruzione), allestito da un antifascista di lungo corso quale l'ancor giovane avvocato Giocondo (Dino) Giacosa e da Aldo Sacchetti, un ufficiale rientrato in Italia con la IV Armata,  poi autore di Un romano tra i ribelli.
QUANDO GLI ALLEATI RIFIUTARONO DI BOMBARDARE CUNEO 
Nei primi mesi del 1945 i bombardamenti aumentarono in frequenza, volume di ordigni sganciati e numero di vittime causate. Sarebbe però errato ritenere che abbiano centrato bersagli militarmente rilevanti. Per esempio, malgrado numerosi tentativi, il Viadotto Littorio di Cuneo (monumentale ponte ferrostradale sulla Stura, ideato in età giolittiana) non fu mai colpito. Il 28 agosto 1944 fu centrato l'Ospizio dei cronici (22 vittime tra ricoverati e suore) anziché una caserma.  
In un caso abbiamo la certezza documentata della sollecitazione di un attacco aereo da parte di un autorevole militante del PdA, il geometra Ettore Cosa, comandante della V Zona del Cuneese, designato sindaco del capoluogo provinciale. Il 27 aprile reparti di “Giustizia e Libertà” attraversarono a guado la Stura e si attestarono alla periferia della città. I tedeschi tennero libere le strade principali per consentire la ritirata in assetto di guerra della XXXIV Divisione dal crinale liguro-piemontese verso la destinazione assegnata nel corso delle trattative a Caserta tra germanici e anglo-americani. Gli scampati di una piccola Squadra di Azione Partigiana (SAP), mandata allo sbaraglio, dopo aver subito perdite gravissime bussarono alla porta della questura, per chiedere alla polizia di unirsi a loro per “prendere la prefettura”. Il vicecommissario Pietro Benigni rispose lapidario: “Io sono un commissario di Pubblica Sicurezza della RSI e non posso arrendermi a voi. Se arrivano le truppe americane mi arrendo a loro. Se arrivano i tedeschi vi  consegno a loro”.
Per spezzare la resistenza avversaria Rosa chiese allora al tenente Paolo Buffa (in realtà Paul Barton, ufficiale di collegamento della Special Force), da tempo operante come responsabile della Missione Siamang I, di chiedere via radio agli aerei alleati di stanza a Nizza di bombardare Cuneo per sloggiarne tedeschi e “repubblichini”. Il 27 aprile Barton inviò il messaggio n. 196. “Nizza” rispose che il cielo era nuvoloso. Non era il caso di rischiare aerei e uomini in una guerra ormai finita. In quel teatro l'avversario sarebbe caduto “per manovra”. Gli americani picchiarono duro invece nel Veneto, causandovi rovine e vittime, in linea con il bombardamento anglo-americano “pedagogico” su Dresda del 26 aprile 1945.
GUERRA ETICA?
Nel marzo 2001 l'antico agente S-2 Carlton M. Smith rilasciò un'ampia dichiarazione sulle missioni compiute: “Eravamo in guerra... Non si poteva ignorare che morivano anche i civili… Personalmente non ho mai avuto problemi morali… Esiste forse qualche differenza fra morire durante un bombardamento o a causa della bomba atomica?” Etica e guerra erano e sarebbero rimaste inconciliabili.
La documentazione prova  che la sconfitta, la resa, la guerra civile e il disastro seguente non furono frutto di un complotto pluto-giudaico-massonico ordito da cospiratori interni in combutta con Poteri Forti esteri ma fatale conseguenza del calcolo errato di chi aveva voluto l'ingresso in guerra e ne scontò infine le tragiche conseguenze.  
Aldo A. Mola

DALLO STATUTO ALBERTINO ALLA COSTITUZIONE
CORNICE E SOGGETTI
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 9 giugno 2019, pagg. 1 e 11.


Capo dello Stato, capitani e capi-popolo ieri e oggi
Statuto Albertino  Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando dichiara, epigrammatico e allusivo, e soprattutto quando osserva, distaccato e silente, sempre più evoca Carlo Alberto di Savoia, il sovrano che il 4 marzo 1848 promulgò lo Statuto del Regno di Sardegna. Identiche le loro virtù teologali, Fede, Speranza e Carità. Uguale la compostezza. E quel velo di arcana mestizia che trapela anche quando il volto sorride a labbra strette. Entrambi rappresentano il passaggio da uno ad altro Ordinamento dello Stato. Quello varato da Carlo Alberto durò un secolo. Il Presidente Mattarella regge il timone della Nave Italia, repubblica da appena 71 anni. È il nocchiero di cui il Paese ha bisogno, mentre i venti di tempesta rafforzano. Oggi non sono in discussione un governo, una maggioranza, poltrone varie. Sotto l'infuriare della tempesta stridono le funi e gemono i legni dello Stato. Reggeranno? Gli ufficiali di bordo conoscono la rotta? Ascoltano e capiscono gli ordini del Condottiero? Di sicuro tanta parte della ciurma alle urne fa l'“ammuina”, correndo tumultuosa da un capitano a un capo fazione, tutti “nomi” estranei alla nobile tradizione durata dalle “Vite Parallele” di Plutarco ai  “Rerum Gestarum” di Ammiano Marcellino.  
Aprendo la rievocazione di Camillo Cavour nell'avito Castello di Santena (Torino) il 6 giugno Nerio Nesi, presidente della Fondazione intitolata al Gran Conte, bene eretto dall'alto dei suoi 94 anni, ha detto che, pur avendone viste tante, per la prima volta è davvero preoccupato per le sorti del Paese: l'Italia, aggiungiamo, costruita dai Re, dai loro ministri, da una miriade di patrioti che avevano imparato a sentirsi italiani durante secoli di dominio straniero: Asburgo, Borbone, incursioni di “saraceni”, venturieri..., tutti in vario modo collusi coi papi che non solo condannavano alle fiamme eterne le anime dei miscredenti e dei devoti di altre confessioni cristiane ma ne perseguitavano i corpi (e questa era ed è sempre una seccatura, anche se non si finisce sul rogo). 
La Costituzione nacque come Venere dalle acque?
Vi è una differenza profonda tra la Costituzione della Repubblica e lo Statuto Albertino. Mentre altre grandi Carte, incluse quelle dell'ONU e dei Diritti universali dell'uomo, sono precedute da un Preambolo motivante, quella vigente in Italia si apre “ex abrupto” con i principi fondamentali: “L'Italia è una  repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo...”. Come Venere sorgente dalle acque, essa enuncia, afferma e ammicca. Dichiara, per esempio, che “l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli...”. Non ci voleva molto per uno Stato uscito a pezzi dalla Seconda guerra mondiale. Pagava il prezzo del dilettantismo di Benito Mussolini che “sua sponte” dichiarò guerra all'Unione Sovietica e agli Stati Uniti d'America come fossero Montecarlo e Seborga, ma non riuscì mai a mettere le mani su Malta e perse in poco tempo l'Africa Orientale Italiana. La Costituzione del 1° gennaio 1948 lascia tra parentesi la storia. Solo nelle Disposizioni transitorie e finali essa mescola passato prossimo e remoto, come fossero tutt'uno: un “mondo” da condannare e da dimenticare. Interdice agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e discendenti maschi l'ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale, senza spiegarne il perché; e vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” (ma non precisa se si tratti di quello sorto nel congresso di Roma del 1921, quello al potere dal 30 ottobre 1922 in una coalizione comprendente tutti i partiti costituzionali o del Fascista repubblicano del 1943, quasi i tre siano stati una medesima cosa). Di sicuro vi è che con la XIII disposizione transitoria e finale la Repubblica riconosce la legge salica, vigente dall'origine in Casa Savoia, e implicitamente la ritiene immutabile (è un segno di rispetto per le leggi della dinastia che risalgono a fine Settecento, checché ne pensino certi “monarchisti”, già deplorati da Luigi Federzoni nel “Diario inedito” ora pubblicato da Pontecorboli). Diversamente avrebbe vietato l'Italia anche alle Principesse. Come noto, la Repubblica “scordò” di esiliare il Principe Amedeo di Savoia, duca di Aosta, figlio di Aimone, già duca di Spoleto, a sua volta invece esule in Argentina e morto quando l'erede era infante, e sua madre, Irene. Ne scrivono lo stesso Principe Amedeo, Capo della Real Casa di Savoia, e Danila Satta in “Cifra Reale” (ed. La Compagnia del Libro). A chi gli rimproverò di averli “dimenticati” Alcide De Gasperi rispose che la Repubblica non poteva aver paura di una vedova e di un  bambino di cinque anni... Ne aveva invece molta di Re Umberto e doveva averne ancor più  di più di se stessa, di quanti, spesso in nome della sovranità del popolo, vi si incistarono e piano piano ne succhiarono la linfa vitale sino a renderla qual è: disertata alle urne dal 50% degli aventi diritto al voto e isolata da quell'Europa che pur non manca occasione per celebrarne maestosità, bellezza, sacralità. Valga a conferma che da duemila anni la Chiesa cattolica e apostolica è romana ancora.   
Lo Statuto albertino: “ grazia di Dio” per l'“itala Corona” 
Di tutt'altro tenore è lo Statuto Albertino. La sua premessa è un prodotto alchemico: unisce teo-teleologia e percezione pragmatica delle incombenze. Come le doppie finestre di un tempo si aprivano l'una verso l'interno l'altra verso l'esterno, così è lo Statuto. Di mezzo vi è il Re. Per comprenderne la complessità basta scorrere le poche righe del suo Preambolo. Carlo Alberto, “per la grazia di Dio re di Sardegna, prendendo unicamente consiglio dagli impulsi del suo cuore” deliberò “in mezzo agli eventi straordinari che circondano il paese” di “conformare le sorti dei regnicoli alla ragione dei tempi”. Sicuro delle tante prove di fedeltà date dal popolo (sic) alla “itala sua Corona” (itala, non piemontese o “sarda”), il Re decise dunque di varare “larghe e forti istituzioni rappresentative”. Non si trova nulla di analogo nelle altre Carte promulgate o votate nel 1848-1849 a Napoli, a Palermo, a Firenze, nella Roma di Pio IX. Anche la tanto celebrata costituzione “mazziniana” del 2 luglio 1849 dichiara costituito in repubblica democratica lo “Stato romano”, non l'Italia. L'itala opzione  dello Statuto Abertino precedette di pochi giorni il regio decreto con il quale il re sostituì la coccarda azzurra, “sola bandiera nazionale”, con il “tricolore italiano”, per “viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione italiana”. Dal 1° gennaio 1948 ne venne strappato lo “scudo  di Savoia”, ma il tricolore rimase e rimane contro ogni fatua negazione della storia. Sempre più, anzi, esso torna a campeggiare nei modi e nei luoghi più disparati...
Il cambio drammatico      
Con lo Statuto albertino il Regno di Sardegna si trasformò da monarchia consultiva e amministrativa in monarchia rappresentativa, come ricorda una miriade di studiosi di fama: Emilio Crosa, Mario Viora, Carlo Ghisalberti, sino a Isidoro Soffietti e Gian Savino Pene Vidari, che ne scrissero vent'anni orsono, seguiti poi da Domenico Fisichella e altri molti. A riproporre il confronto tra lo Statuto Albertino e la Costituzione Italiana è ora un convegno organizzato dal Gruppo Croce Bianca, presieduto da Alessandro Cremonte Pastorello, nel 25° della sua fondazione, con relazioni di Aldo G. Ricci, sovrintendente emerito dell'Archivio Centrale dello Stato, e di Tito Lucrezio Rizzo, già Consigliere per la Sicurezza della Presidenza della Repubblica (*). Nessun feticismo, dunque, ma una “esortazione alla storia”, per dirla con Ugo Foscolo.  
La firma dello Statuto avvenne in una scena solenne e drammatica. Carlo Alberto (oltre due metri di altezza, silente, emaciato dai ricordi...) siglò con mano ferma il testo, messo a punto dal “Conseil de Conférence”, presenti tutti i suoi componenti. I verbali dei lavori (quattro sedute in poche settimane), redatti in francese e firmati dal conte Radicati (nel 1945 pubblicati dallo storico Giorgio Falco) esplicitano la concitazione e al tempo stesso la consapevolezza dell'urgenza di mettere al sicuro la Corona quale sintesi dello Stato. “Videant consules ne quid detrimenti res publica capiat...”
Lo Statuto introdusse i capisaldi del patto tra il sovrano e i “regnicoli”, scandito dagli 84 articoli della “legge fondamentale perpetua e irrevocabile della monarchia”: potere legislativo collettivamente esercitato dal Re e da due Camere, composte l’una, di senatori di nomina regia e vitalizia e l’altra, di deputati da eleggere secondo una legge da scrivere; regolamentazione (futura) delle istituzioni comunali e provinciali; inamovibilità dei magistrati, inviolabilità dei diritti individuali. Suo cardine fu l'articolo 24: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo e grado, sono eguali dinnanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammessibili alle cariche civili e militari...”. I cittadini potevano compartecipare alla vita pubblica e alla gloria dello Stato. Perciò dal 17 febbraio erano già state e subito dopo vennero abolite tutte le discriminazioni per i cittadini valdesi e israeliti. 
Il Re Magnanimo
Ma chi era Carlo Alberto?
Nato a Torino il 2 ottobre 1798 da Carlo Emanuele principe di Carignano e da Maria Cristina Albertina principessa di Curlandia, orfano di padre a due anni, non sempre accudito dalla madre, conte dell'Impero dei Francesi con maggiorasco a quindici anni, dragone di Napoleone I, Carlo Alberto venne tenuto in serbo dalla dirigenza sabauda descritta da Walter Barberis, storico non sospetto di indulgenze filo-monarchiche. Lo fecero intendere i cinque volumi dell'“Histoire militaire du Pìémont” di Alessandro Saluzzo di Monesiglio. La forza del Piemonte, che “fa grado”, era stata mostrata per secoli nella capacità di battersi per la propria identità. Segnato da quelle vicende angosciose, il principe aveva due scelte: il pessimismo più cupo o affidarsi alla Provvidenza. Il Congresso di Vienna (tradizione e legittimità) lo designò erede della corona sabauda in forza della legge salica. Carlo Alberto, principe di Savoia- Carignano, parente di tredicesimo grado dei tre fratelli che si erano susseguiti al trono subito prima di lui (Carlo Emanuele IV, Vittorio Emanuele I e Carlo Felice) e fratelli voltò le spalle il pessimismo e optò per la Grazia di Dio, la Provvidenza. Nel marzo 1821 concesse la spagnola “Costituzione di Cadice” con la riserva della libertà dei culti ammessi. Era l'anticipazione dello Statuto di trent'anni dopo. Mortificato da Carlo Felice, relegato a Firenze, poi in Spagna contro i liberali, nella lunga vigilia della Corona sempre più si radicò nella certezza del proprio destino: attendeva il suo Astro. Da Re (1831) operò anno dopo anno a innovare lo Stato dall'interno. Lo descrisse bene Luigi Des Ambrois de Nevache, che visse quella lunga esperienza, e lo ha narrato lo storico Narciso Nada in pagine insuperate. La redazione e la promulgazione dello Statuto non avvennero sotto l'onda di rivoluzioni eterogenee. Furono l'approdo del lungo processo che candidò il Regno sardo, esso solo, a guida della lotta per l'indipendenza, l'unità e la libertà degli italiani da secoli di dominazioni straniere. 
Appena il re ebbe firmata la Carta, il conte Giacinto Borelli, ministro dell'Interno, annunciò le dimissioni del Consiglio di Conferenza. Aveva coronato la sua missione. Il Re si mostrò fortemente contrariato. I Consiglieri, uno per uno, gli baciarono la mano. Carlo Alberto li abbracciò, uno alla volta. Furono minuti di alta commozione. Lì si posero le basi della storia d'Italia. Due settimane dopo il regno dichiarò guerra all'Impero d'Austria. Nel 1859 ottenne il Ducato di Lombardia, poi i Ducati padani, le Legazioni pontificie, la Toscana, Umbria e Marche, il regno delle Due Sicilie. Nacque il regno d'Italia. Vinto in battaglia a Novara il 23 marzo 1849, esule a Oporto, Carlo Alberto morì il 28 luglio. Si scusò con l'archiatra di corte Alessandro Riberi inviatogli dal figlio, Vittorio Emanuele II: “Le voglio bene Riberi, ma muoio”. È sepolto a Superga.
Cent'anni di Statuto e la “Volontà della Nazione”                    
Lo Statuto resse a prove durissime. Dalla sua promulgazione al 1849 si susseguirono sette diversi governi, presieduti da Cesare Balbo, Gabrio Casati, Cesare Alfieri di Sostegno, Ettore Perrone di Sanmartino (morto nella battaglia di Novara), Vincenzo Gioberti, teologo, Agostino Chiodo, Gabriele de Launay. Presidente dal 7 maggio 1849 Massimo d'Azeglio ispirò il Proclama di Moncalieri (novembre) con il quale il Re chiese agli elettori di votare una Camera ragionevole: per risalire la china bisognava firmare la pace con l'Austria. Iniziò l'età di Cavour e del centro-sinistro con Urbano Rattazzi. Seguì di tutto: l'annessione di Roma nel settembre 1870, la rinnovata scomunica del re e dei suoi uomini da parte di Pio IX (per il quale Risorgimento e unità d'Italia erano frutto di un complotto massonico: e c'è ancora chi lo crede), il passaggio dalla Destra alla Sinistra, la politica coloniale di Depretis e Crispi, il regicidio di Monza, l'età giolittiana, la Grande guerra... Lo Statuto resse alle procelle, incardinato sui pochi robusti pilastri: l'elettività alle cariche pubbliche, l'indipendenza dell'ordine (non potere) giudiziario, la fedeltà delle Forze armate e dei pubblici impiegati, il profondo e sempre più diffuso “senso dello Stato”. Se c'è qualche cosa da rimpiangere di quel passato è che esso non sempre è abbastanza presente e vivo. 
Il 17 aprile 1861 il Parlamento nazionale deliberò a larga maggioranza che i regi decreti e le leggi sarebbero state firmate dal Re “per grazia di Dio e volontà della Nazione”. Lo Statuto però rimase immutato. In colloqui riservati anche Vittorio Emanuele III si dichiarò convinto che i re tali erano per volontà divina. Impersonavano un destino imperscrutabile. Sfugge alla generalità e spesso anche a chi ricopre cariche apicali. 
A chi voglia soffermarsi sulla meta-storia lo Statuto risulta affascinante non solo per quanto dice ma anche per ciò che lascia tra parentesi, sotto traccia, ma va inteso. Esso dedica tredici articoli (dall'11 al 23) al Re e alla Reggenza. Non mancano due articoli sibillini: “In mancanza di parenti maschi la Reggenza apparterrà alla Regina madre”. “Se manca anche la regina madre le Camere, convocate fra dieci giorni dai Ministri nomineranno il Reggente”.  Titolari del potere della convocazione erano i Ministri del Re (non esisteva ancora la figura del presidente del consiglio; men che meno quella del mussoliniano capo del governo). E se per effetto della secolare legge salica la successione fosse spettata a un congiunto straniero? 
Occorreva davvero confidare nell'Astro, nella Provvidenza, nello Stellone d'Italia, al quale guardarono e ancora guardano quanti credono nella Patria, una libera grande, “gran madre” della civiltà euro-occidentale.
Aldo A. Mola    

(*) Mercoledì 12 giugno, dalle h. 16.30, si svolge al Museo Nazionale del Risorgimento di Torino (Palazzo Carignano, Piazza Carlo Alberto 5) il Convegno “Dallo Statuto Albertino alla Costituzione della Repubblica italiana”.

I FAZIO
L'ACROCORO LIBERALE LIGURO-PIEMONTESE
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 2 giugno 2019, pagg. 1 e 11.


 Garessio Ferruccio Fazio neo-sindaco di Garessio 
Garessio, in provincia di Cuneo, il 25 agosto 1870 elevata a Città da Vittorio Emanuele II, il 26 maggio 2019 ha eletto sindaco Ferruccio Fazio. Classe 1944, egli ha sconfitto nettamente un avversario di tutto rispetto come il celebre designer Giorgetto Giugiaro, candidato nella lista “Garessio c'è”. Con “Ambiente e territorio” Fazio ha ottenuto 808 consensi; l'avversario appena 197. In lizza erano anche “Rialziamoci” guidata da Isaac Carrara e “Garessio bene comune” capitanata da Renza Roberi. Alla città degli avi Ferruccio Fazio ha prestato volentieri la canizie di clinico di fama internazionale, cattedratico insigne, sottosegretario di Stato al Lavoro nel IV Governo Berlusconi (2008), viceministro con delega alla Salute (dicembre 2009) e ministro della Salute sino al fatidico 16 novembre 2011, dopo il ferale 11-11-2011.
Ferruccio Fazio è nella storia come suo nonno, Egidio. Una stirpe di una terra che è una sorta di acrocoro liberale liguro-piemontese. Ne scrisse ripetutamente il rimpianto Fulvio Basteris, classicista, docente al liceo classico di Cuneo, saggista brillante, liberalsocialista e già direttore del “Giornale del Piemonte” e studioso appassionato della sua originaria Garessio. 
Alpigiani, naturalmente liberi
Per intendere le radici della parabola di “genti” quali i Fazio, come i Giolitti, Soleri, Moschetti, Einaudi, Riberi..., via risalendo nel tempo e passando dall'una all'altra valle liguro-piemontese, retaggio della IX Regio Augustea che andava dal mare alla destra del Po, merita ricordare quanto nel 1809 scrisse il “fratello” Dominique Destombes nell'“Annuaire statistique du Département de la Stura” su mandato del prefetto Pierre Arborio: “Il morale delle Alpi non è meno interessante del fisico. In queste alte valli, in cui non vi sono né signori né ricchi né una presenza frequente di stranieri, l'abitante, non vedendo attorno a sé che persone uguali a lui, dimentica che esistono uomini più potenti. Il suo animo si nobilita e si eleva; i servizi che egli presta e l'ospitalità che concede non hanno nulla di servile, né di mercenario.” Lo aveva già osservato Ferdinand de Saussure: gli alpigiani sono “naturalmente” liberi, orgogliosi della propria dignità, dell'indipendenza e delle tradizioni, ma senza pregiudizi né ostilità alcuna verso chi salga nelle “terre alte”, a patto che non pretenda di soggiogarle. Molto prima di Destombes ne aveva scritto da par suo l'abate Carlo Denina, nativo di Revello, in “Le rivoluzioni d'Italia”, suggellate dalla enunciazione dell'influenza del clima e del suolo sulla popolazione e dall'elogio del “Piemonte”, unico Stato italiano paragonabile alla Prussia. Esso era forte non solo per sé e in sé, ma anche per quanti ne emigravano in cerca di miglior fortuna: “Parte dell'eccedente popolazione dell'Alpi – egli scrisse – si sparge nelle pianure della Lombardia, parte nelle migliori città dello stato pontificio e in Roma; altri vanno fino a Napoli. Conviene che il resto si volga verso il settentrione, dove la grandezza degli Stati e la qualità degli abitanti offre più facile via di trovar fortuna”. Era migrante anche lui, dal regno di Sardegna alla corte di Federico II di Prussia e poi a Parigi, ove fu bibliotecario di Napoleone I. Denina non era un “cervello in fuga”, ma un europeo del suo tempo. Continuò a studiare la “Istoria dell'Italia occidentale” (1809) e i popoli che l'avevano abitata nel corso dei millenni. Avevano la propria identità: il gusto della libertà. La loro era, appunto, la terra delle famiglie che dettero nerbo al Risorgimento nazionale e alla costruzione della Nuova Italia. 
  Suo esponente insigne fu Egidio Fazio (Garessio, 1 settembre 1872-20 luglio 1957).
Il costo del consenso liberale nell'aprile 1924    
Il 6 aprile 1924 la Lista Nazionale orchestrata da Benito Mussolini registrò uno straripante successo elettorale. Non solo con  violenze e brogli (altrove, e non solo in Europa, accadeva di peggio), essa ottenne 4.305.936 voti. Altri 347.552 andarono a una lista fiancheggiatrice. Nell'insieme i “fascisti” ebbero il 64,9% dei voti validi: 54,3% al Nord, 76% al Centro, l'81,5% al Sud e il 69,9% nelle isole. I “liberali”, che sino al 1921 avevano la maggioranza dei seggi alla Camera, raggranellarono appena il 2,8% dei consensi e 15 deputati su 535. I repubblicani si fermarono all'1,3% con soli 7 eletti. I popolari crollarono da oltre 100 parlamentari a 39. I comunisti, con il  3,6% ne ebbero 19. I socialisti, divisi in due tronconi, precipitarono dai 150 seggi del 1919 a 46. Chi oggi si stupisce della volatilità dei consensi bene farebbe a ripassare la storia di un Paese che nel 1943 toccò il massimo degli iscritti al Partito nazionale fascista (oltre tre milioni) e nel 1945 ebbe il record di antifascisti. 
Dopo la conta dei voti venne quella dei costi della campagna elettorale. Marcello Soleri (Cuneo, 1882-1945), coordinatore della lista dei liberali presentata in Piemonte, mandò la nota-spese ai candidati: diciottomila lire a testa. Una somma astronomica. All'epoca un buon stipendio era 5-600 lire al mese. Il maggiorente della lista, l'ormai ottantaduenne Giovanni Giolitti, il 26 aprile 1924 non esitò a rispondergli: “Non nascondo che la somma mi disturba un po', perché io non sono in condizioni così floride come si può credere. La politica è stata per me una pessima speculazione”. Sia pure a malincuore, avrebbe comunque versato la sua quota.
Con Giolitti furono eletti Soleri e Fazio, non già Peano (a differenza di quanto scrive Pierfranco Quaglieni nella prefazione alla riedizione delle sue Memorie nella collana “Libro Aperto” valorosamente diretta da Antonio Patuelli). Anche grazie alla pubblicazione dei cinque volumi “Giolitti al Governo, in Parlamento e nel Carteggio” curati da Aldo G. Ricci e con prefazione di Giovanni Rabbia (Ed. Bastogi), lo Statista della Nuova Italia è ampiamente noto. Anzi, è in corso la sua rivalutazione malgrado la noiosa ripetizione dell'ingiurioso epiteto di “ministro della malavita” lanciato contro di lui dal livoroso Gaetano Salvemini, che gli  imputò le proprie ripetute sconfitte ai seggi elettorali.
Il nome di Soleri ricorre in due tornanti fondamentali della storia d'Italia: il passaggio dal secondo governo presieduto da Luigi Facta (nel quale rivestì la carica di ministro della Guerra) al ventennio di Benito Musoslini e la battaglia da lui condotta per la stabilizzazione della moneta quale ministro del Tesoro con Ivanoe Bonomi e Ferruccio Parri (1944-1945), accanto a Luigi Einaudi, governatore della Banca d'Italia e suo grande estimatore. Purtroppo per il Paese, Soleri morì proprio quando più ve n'era necessità.
La sua battaglia venne continuata da Egidio Fazio, componente della Consulta Nazionale per il Partito liberale italiano (1945-1946) ed eletto senatore nella prima legislatura repubblicana (1948-1953). Membro del Gruppo misto e dal 1° gennaio 1949 di quello Liberale, fattivo componente di commissioni permanenti e speciali, Fazio concorse al “miracolo” della Ricostruzione con l'esperienza di uomo politico di lunghissimo corso: monarchico, liberale, laico libero da infatuazioni anticlericali e strenuo fautore della collocazione dell'Italia nella nascente Comunità economica Europea nel quadro dell'“Occidente”. Poiché non aveva indossato il laticlavio, non fece parte del Gruppo dei Senatori del Regno costituito il 5 giugno 1955 su impulso di Re Umberto II né, sopraggiunta la morte, poté essere nominato nella Consulta dei senatori del regno, il cui profilo fu scritto da Aldo Pezzana in “Gli uomini del Re” (Ed. Bastogi).  
Il “cursus honorum” di un politico della Terza Italia
Il “cursus honorum” di Egidio Fazio è paradigmatico per comprendere la Terza Italia dal Risorgimento alle guerre per l'indipendenza alla costruzione dello Stato unitario, incardinato sull’elettività delle cariche (consigli comunali, provinciali e Camera dei deputati), meritocrazia (tramite il volano della scolarizzazione e della moltiplicazione degli “ascensori sociali”: convitti militari e collegi universitari pressoché gratuiti), convergenza di aristocrazia operosa e borghesia a servizio per lo Stato (militari, funzionari...), dilatazione delle libere professioni, premiate con ampia nobilitazione (generoso conferimento di onorificenze ripartite nei cinque gradi: cavaliere, cavaliere ufficiale, commendatore, grand'ufficiale, gran croce). Alla base della Nuova Italia operò la “pax” non dichiarata ma fattuale tra lo Stato e il clero. Ai cattolici veniva sconsigliato (“non expedit”) di votare per i deputati alla Camera: un immenso regalo alla borghesia liberale, composta quasi esclusivamente da “credenti senza ostentazione”, ai quali mai sarebbe passato per la mente di usare simboli per procacciarsi voti, giacché distinguevano tra fede e superstizione. Essi però presero costantemente parte attiva e passiva alle elezioni comunali e provinciali nonché alla vita quotidiana della moltitudine di enti, istituti e sodalizi che costituirono la spina dorsale della Nuova Italia, incluse casse di risparmio, banche popolari, casse rurali...
   Avvocato di affermata fama e competenza, dopo cariche amministrative locali, vicino ai quarant'anni Fazio fece il suo rodaggio nella Giunta Provinciale Amministrativa, interfaccia fra la Deputazione provinciale (corrispondente alla Giunta provinciale del dopoguerra) e la prefettura, da quando, nel 1890, questa non fu più presieduta dal prefetto, cioè, indirettamente, dal ministero dell'Interno, ovvero dal presidente del Consiglio, bensì da un consigliere liberamente eletto dal consesso.
Grandezza e decadenza dei Consigli provinciali
L'evoluzione politica e normativa dei Consigli provinciali dopo la legge Rattazzi dell'ottobre 1859, in massima parte identica sino alla loro sostituzione con i Rettorati istituiti dal governo Mussolini (1926), è rimasta ai margini della storiografia. Eppure essa è lo specchio della “costituzione materiale” della Terza Italia, quando essi furono solitamente presieduti da politici eminenti. Basti ricordare Quintino Sella a Novara, Giuseppe Saracco e i Rattazzi ad Alessandria e Giovanni Giolitti, presidente del consesso cuneese dal 1905 (in successione a Gustavo Ponza di San Martino, Alerino Como e Carlo Buttini tra il 1866 e il 1904) alle forzate dimissioni nel dicembre 1925.
Fazio fu eletto consigliere provinciale cuneese dal mandamento di Garessio nell'infausto luglio 1914, quando l'Europa precipitò nella conflagrazione generale. Il consesso contava 60 membri: una élite di altissima qualità: senatori (Giuseppe Carle, Eugenio Rebaudengo, Spirito Riberi), deputati (Lorenzo Bonino, Vincenzo Bovetti, Marco Cassin, Giacomo Curreno, il marchese Marco di Saluzzo, il conte Paolo Falletti di Villafalletto, Marcello Soleri), aristocratici (il marchese Calisto Gay di Lesegno, i conti Annibale Galateri di Genola, Giuseppe Galli della Mantica e Carlo Incisa di Santo Stefano Belbo, il marchese Alberto Scarampi del Cayro e di Prunetto) e una quantità di futuri sindaci, scienziati, artisti, docenti e “notabili” delle libere professioni.  Giuseppe  Ghio, eletto dal mandamento di Carrù, era esponente della Associazione “Giordano Bruno”, punta di diamante dell'anticlericalismo militante. Dal 1915 Giovanni Lanza, eletto per il mandamento di Limone, rappresentò l'avanguardia dei nazionalisti nel Cuneese. Voleva l'annessione di Nizza, ovvero la guerra con la Francia mentre il governo stava per passare dall'alleanza con Vienna e Berlino a quella con Parigi, Londra e San Pietrogrado. All'epoca si passava dall'uno all'altro Stato senza passaporto. Il possesso integrale della Valle Roya non valeva una guerra, come, secondo Giolitti, non era il caso di farla per spostare di pochi chilometri il confine orientale: meglio trattare e guardare lontano, a quell'Europa che ormai era realtà.
“Post fata”, l'eclissi del liberalismo: lo Stato per diritti e libertà
Come a Torino, Genova, Porto Maurizio (Imperia ancora non c'era) anche a Cuneo il Consiglio provinciale fu laboratorio di profonde riforme sociali. Fazio vi dette voce all'acrocoro liberale liguro-piemontese. Lo documentano gli Atti del Consiglio, sempre in attesa che venga aggiornata la “Storia dell'Amministrazione provinciale di Cuneo dall'unità al fascismo (1859-1925)” pubblicata nel lontano 1971. 
Nelle elezioni del novembre 1919 Giolitti rimase soccombente proprio nella sua terra. Con lui furono eletti solo Soleri e Camillo Peano, già deputato di Barge. La Granda elesse deputati quattro socialisti, quattro del neonato del partito popolare (cattolico) e un “agrario”. Al rinnovo del Consiglio provinciale, nel 1920, il mandamento di Garessio elesse il socialista Giulio Ferrari, come a Cavallermaggiore Domenico Chiaramello. Nelle nuove elezioni (maggio1921) con Giolitti alla Camera entrarono Soleri, Peano (dall'ottobre 1922 saggiamente nominato alla presidenza della Corte dei Conti) e, appunto, Fazio. L'arco alpino era il fortilizio dei liberali...
La terna Giolitti-Soleri-Fazio venne confermata, come già si è detto, nelle elezioni del 6 aprile 1924, mentre la lista liberale ligure strappò un solo deputato: l'avvocato genovese Michele Poggi. Quei travagli sono ripercorsi da Marco Mensi in “Destra d'Italia. Breve storia da Cavour a Salvini” (Erga Edizioni, Genova). Che fare? Tenere viva la tradizione del liberalismo di Cavour, Azeglio, Lanza, Sella. La lista giolittiana aveva compreso politici di alto profilo: Bruno Villabruna, Luigi Ambrosini, Eugenio Artom, Giovanni Cantono Ceva, sindaco di Pinerolo, Mario Risso, Emanuele Sella. Liberali e democratici erano sostantivi, non etichette di comodo. 
Dopo l'“affaire Matteotti” la pattuglia si domandò se rimanere in Aula o arroccarsi sullo sterile Aventino accanto a repubblicani, residui del partito popolare e dei socialisti, ormai ai margini della storia. Ne scrisse Raimondo Collino Pansa nella biografia di Soleri (Garzanti, 1948), antica ma non polverosa. Soleri propose di rimanere in Aula a qualunque costo perché quello era il mandato degli elettori. Giolitti chiuse la breve consultazione con il lapidario: “A't l'as rasùn, Soleri. Andouma”. In Aula Fazio impose al governo di emmettere e di dichiarare che i deputati eletti nel “Listone” erano liberi di votare come meglio credessero perché non rappresentavano un “partito” ma la Nazione, ai sensi dello Statuto del 4 marzo 1848, come anche oggi esige la Costituzione repubblicana, in tanta e più nobile parte continuatrice della Carta albertina. 
Dicembre 1925: il Natale dei tradimenti
Mussolini tentò in tutti i modi di attrarre Giolitti nella sua orbita. Gli fece ventilare la nomina a senatore (“piuttosto mi dimetterei da uomo” rispose lo Statista) e persino la presidenza della Camera Alta. Non potendolo piegare, corruppe i consiglieri provinciali. Promise loro un milione di lire per completare opere pubbliche in cambio dell’imposizione a Giolitti: tessera del PNF o dimissioni. Giolitti si dimise da presidente e, per elementare senso della dignità, da consigliere. Fu seguito da Soleri, Fillia, Enrico e da altri liberali per i quali la libertà non vale alcuna “messa” né si baratta con opere pubbliche e favori.
Nell'agosto 1943, dopo il rovesciamento di Mussolini Fazio fu nominato Regio Commissario alla Provincia di Cuneo. Lo rimase poche settimane. Il tempo di far tinteggiare i locali del Consiglio, all'epoca ospitati nella Prefettura, all'imbocco di via Roma: una sede decorosa ormai dimenticata dai più. Giova domandarsi se questi ricordi sian solo “povera foglia frale” o non pongano invece una domanda niente affatto retorica: che cosa fare dei Consigli provinciali? Delle Province? Della democrazia elettorale? In tempi di volubilità degli umori politici forse è ora di volgere lo sguardo all'arco alpino e di tornare ai piedi della Rocca di Cavour. Lì al funerale di Giolitti con tanti notabili dell'Italia liberale (Benedetto Croce, Einaudi, Bergamini, Frassati, Poggi, Ruffini, Soleri...) sfilarono anche il “fratello” Giovanni Battista Ceirano e il socialista Chiaramello, che si era dimesso dal consiglio provinciale per solidarietà con lui. Il socialismo umanitario piemontese (altra cosa dai rivoluzionari bolscevichi e dai massimalisti alla Mussolini) era un'ala del liberalismo. Riformare per conservare: più Stato in difesa dei deboli, dei meno fortunati, per maggiore uguaglianza dei diritti e della libertà. Fazio fece la sua parte. Perciò stupisce che né lui né Poggi compaiano nel “Dizionario del liberalismo italiano” (ed. Rubbettino): un repertorio che forse merita un terzo volume, riparatorio o quanto meno integrativo...
Aldo A. Mola

QUESTA EUROPA? 
C'E' DI PEGGIO NEL MONDO
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 26 maggio 2019, pagg. 1 e 11.

Giulio Giannelli - Storia di PipinoGiovane vecchia Europa 
  Nel 2022, il tempo vola e manca meno di quanto si pensi, il Mercato Comune Europeo compirà 65 anni. L'Unione Europea al confronto è ancora giovane. La sua forma attuale è appena adolescente. Nulla di più noioso che ripercorrerne le vicissitudini dai primi vagiti, quando nel 1952 nacque la CECA (Comunità del carbone dell'acciaio), poi venne ventilato l'Euratom e nel 1953 fallì la CED (Comunità europea di difesa), uccisa in culla dalla Francia nazionalista. Niente di più malinconico che ricordare passo passo il transito dall'Europa dei Sei a quella dei Dodici, poi dei Diciotto sino all'odierna: 28-1? Sì, no, forse. Con o senza la Gran Bretagna e i suoi secolari problemi con l'Irlanda e il Commonwealth? Come che sia, l' “Europa” è per ora una somma algebrica, remota dai propositi del tempo che fu. Lontanissima dagli ideali dei fondatori, da Jean Monnet a Robert Schuman, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi… Ma quando essa sorse le rovine della guerra erano ancora sotto gli occhi e i governanti capivano qual era la strada da imboccare: senso dello Stato e responsabilità comunitaria furono tutt'uno. La dirigenza uscita dal travaglio della guerra si afferrava al passato remoto, conscia che lì sono le fondamenta del presente: Carlo Magno, la Porta di Treviri, Roma,… la diffusione del cristianesimo, che impiegò mille anni a superare verso est i confini dell'Europa occidentale, mentre doveva difendersi dall'avanzata islamica da sud e dalla penisola iberica, liberata dopo sette secoli di dominazione. Cose notissime ma che forse oggi sfuggono anche a parecchi “politici” persino al governo, tenuti a filtrare la quotidianità attraverso le spesse lenti della Storia.
Come Pipino, nato vecchio morto bambino?
   Così com'è l'“Europa” dei 28-1 (tra Brexit, Italexit, sovranismi seborgici, infatuazioni neonazionalistiche e tuffi nel passato antidiluviano) è il capovolgimento della realtà che incombe. È il rovescio della stupenda favola di Giulio Gianelli, la “Storia di Pipino, nato vecchio e morto bambino”. Riassumiamo per i pochi che non la conoscono. “Pipino” è la trasfigurazione di una pipa che in una notte di luna assume fattezze umane dal destino segnato. Nasce sessantacinquenne, anziano per i tempi, con saggezza proporzionata alla barba già bianca e lunghissima. Mentre i romanzi di formazione del Sette-Ottocento avevano percorso via via le esperienze dall'infanzia alla maturità e alla senescenza, con guizzo geniale Gianelli muove dalla sapienza propria della Vecchiaia verso l'ingenuità del bambino, perché, lo si veda dalla nascita alla morte o viceversa, alla fin fine l'“uomo” è uno: una percorso segmentato, segnato da ascese e cadute, di quadri bianchi e quadri neri. Il cattolico Gianelli fa intendere che la bontà originaria è innata, come la “docta ignorantia”. Genuinità e spontaneità sono sentimenti “naturali” che per manifestarsi non hanno bisogno di sistemi filosofici né di enciclopedie delle arti e delle scienze. Sono congenite. Gianelli, però, non ha nulla a che vedere con Jean Jacques Rousseau. Non deplora gli uomini, la loro supposta pravità, né meno ancora le leggi degli Stati.
La  parabola di Giulio Gianelli
   Pipino muove i suoi primi passi nella natura, non per negare l'uomo, bensì per “vedere” (che è altra cosa dal “guardare”) la bellezza del Creato. Come noto, la favola di Pipino è un “romanzo” autobiografico. Mai davvero celebre, Gianelli fu quasi sul punto di divenire noto. Ancor oggi è ignorato da tanti sussiegosi repertori della letteratura. Ebbe tre gravi pecche: la sfortuna domestica, le malattie, la sua libertà di artista. Per di più il 7 ottobre 1879 nacque a Torino, che non è terra tenera con i poeti, semmai  verso gli “artieri”: aperta a un Giosue Carducci, refrattaria ai propri scrittori (ne seppe qualcosa Edoardo Calandra, apprezzato dal napoletano Benedetto Croce più che dal suo Vecchio Piemonte). Precocissima, la morte falciò Gianelli quando aveva appena trentacinque anni. La “Storia di Pipino” visse di fama propria. Ma solo come un “motto”, un modo di dire, senza riferimento all'autore. Infatti il libro, uscito nel 1911, fu presto dimenticato e venne ristampato solo nel 1993, proprio quando l'Europa odierna stava prendendo forma maggiore. Gianelli, rimase una figurina pallida, relegata nel novero degli scrittori minori tra Otto e Novecento, nel pulviscolo di crepuscolari, in una nicchia coperta da ragnatele accanto a quelle ormai sempre più impolverate del canavesano Guido Gozzano e del romano Sergio Corazzini.
   Abbandonato a due anni dal padre, ingegnere, che partì da Torino per l'Argentina senza più dare notizie di sé, orfano di madre a quattro anni, cresciuto in collegio col sussidio di benefattori, da quando ebbe tredici anni Gianelli si guadagnò a fatica la retta di un pensionato e gli studi. Campò come poté, tra umiliazioni, stenti, fame nera e amicizie caldissime con poeti come Giovanni Cena e Nino Oxilia, autore nel 1909 dell'estemporaneo inno goliardico musicato da Giuseppe Blanc “Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza”, poi abusato da chi al potere arrivò vecchio  e zeppo di programmi  raffazzonati. Alternando raccolte poetiche di qualche successo, come “Mentre l'esilio dura”, e lunghe degenze in ospedale, afflitto da una forma di tubercolosi all'epoca inguaribile, dopo la pubblicazione di “Gli Intimi vangeli” nel 1908 Gianelli andò a Roma per concorrere con Giovanni Cena, Sibilla Aleramo e l’insuperata Maria Montessori alla campagna per l'alfabetizzazione e l'incivilimento della popolazione dell'agro romano. Era l'esordio dell'amministrazione guidata da Ernesto Nathan, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Quella non era una battaglia ideologica, di mangiapreti contro clericali. Era una “missione”, come quella che nel 1884 aveva veduto a Napoli fianco a fianco per risollevare le sorti dei colerosi il radicale Felice Cavallotti, le suore di carità e il Re Umberto I. Quella era l'Italia. La stessa che fronteggiò la catastrofe del terremoto di Messina e Reggio Calabria: centomila morti. Una sciagura oggi inimmaginabile, Non si sa come l'Italia odierna, gonfia di appelli a chiudersi in se stessa, saprebbe e potrebbe fronteggiare. Da Messina Gianelli tornò a Roma recando con sé due bambini, Mario e Ugo Morosi. Li affidò al collegio del Nazareno e ne seguì le sorti anche dopo la comparsa della madre, sopravvissuta alla catastrofe. 
  Nella favola di “Pipino nato vecchio e morto bambino” Ughè , “il piccolino”, e Mariù, “il pensatore”, accompagnano “Biddicchiu Pipino” (Giulio stesso) in una successione di “quadri” allegorici che fanno della “Storia” un libro appena un gradino al di sotto del tanto più famoso “Pinocchio” di Collodi. Particolarmente allusivi sono la visita a Paidopoli, cioè la città dei bambini, e l'allarme verso un conflitto devastante incombente. “A 25 anni la guerra non fa paura” scrisse Gianelli nel 1911. Era lo stato d'animo destinato a durare sino al 1915-1918, quando essa si mostrò in tutti i suoi orrori. Ma ormai Gianelli non c'era più. Dopo molti ricoveri e un'operazione chirurgica dall'esito infausto morì il 27 giugno 1914: il giorno prima del mortale attentato di Sarajevo, che fu detonatore della Grande Guerra: tre spari, due vittime (Francesco Ferdinando d'Asburgo e sua moglie  Sofia), quattordici milioni di morti...
Garibaldi, Novicow e Pellico profeti dell' Europa in pace
  L'Europa unita e pacifica era già allora un sogno maturo. Aveva alle spalle il pensiero del massimo filosofo europeo, Immanuel Kant, che dedicò i suoi ultimi anni a vaticinare la “Pace perpetua”. Mentre tanti illuministi del tempo suo predicavano la distruzione di torni e di altari (finì con la Grande Paura, gli emigrati, le stragi, il Terrore, la “legge dei sospetti”, l'avvento di Napoleone, vent'anni di guerre ininterrotte e almeno cinque milioni di morti...), Kant additò agli uomini la Legge morale e il Cielo stellato. Altra cosa dalla “nazione” di Fichte (“i tedeschi sopra tutti”) e l'esaltazione del “genio del mondo” di Hegel, padre putativo di Karl Marx e di quanto ne seguì. 
   Quindici anni dopo il crollo di Napoleone e due lustri dopo il fallimento dei moti costituzionali in Spagna, a Napoli e in Piemonte, Giuseppe Mazzini fondò la “Giovine Europa”: una “setta” che nei suoi propositi doveva suscitare ovunque insorgenze, moti, tirannicidi. Al confronto risulta molto più pacato e attuale Giuseppe Garibaldi, pur con tutte le contraddizioni del suo temperamento e delle vicissitudini che ne scandirono la vita. Se una volta scrisse che “la guerra è la vera vita dell'uomo” (non era pensiero suo proprio ma citazione di un motto altrui), il 9 settembre 1867 propose al Congresso della pace organizzato a Ginevra la sua convinzione più autentica: “Tutte le nazioni sono sorelle; la guerra tra loro è impossibile: tutte le querele che sorgeranno tra le nazioni dovranno essere giudicate da un Congresso (…) La religione di Dio è adottata dal Congresso e ciascuno dei suoi membri si obbliga a propagarla. Intendo per religione di Dio la religione della verità e della ragione (…) La democrazia sola può rimediare al flagello della guerra”. Nel 1870 sognò anche di istituire nella sua nativa Nizza l'areopago per la soluzione pattizia delle contese interstatuali. La “missione” di una città internazionale non era ergersi a centrale di affaristi apolidi ma promuovere la fratellanza universale. C'era più “filosofia della storia” sotto il suo curioso berretto e il suo poncho che sotto la calvizie di tanti studiosi da biblioteca. Del resto, nel 1860, proprio all'indomani della brillante e decisiva vittoria sull'esercito borbonico al Volturno (2-3 ottobre) il Generale scrisse l'appello famoso all'Unità dell'Europa, ripetuto nei decenni seguenti. Utopia? Forse. Ma venne condivisa da chi sapeva guardare lontano: anzitutto scongiurare la “guerra”, che “fa male”, come sanno bene i militari, proprio perché alla fin fine tocca anzitutto a loro prendersela sulle spalle. 
   L'Europa è approdata alla pace nel 1945 dopo due Grandi Guerre precipitate in Guerre Mondiali. Ha vissuto settant'anni di quiete interna (a tacere di movimenti terroristici di varia denominazione, in parte spontanei e in parte eterodiretti) anche grazie alla sua debolezza politico-militare. Questa però per alcuni è stata sorgente di lungimiranza, per altri di inguaribile frustrazione. L'intuizione che occorresse andare oltre l'illusoria sovranità dei singoli Stati fu chiara all'inizio del Novecento. Se ne fece interprete Giacomo Novicow in “La missione dell'Italia” (1902). Lo ripeterono Luigi Einaudi, Giovanni Agnelli, Attilio Cabiati e altri nel corso della Grande Guerra, quando la Federazione europea venne contrapposta all'illusione della Lega delle Nazioni propugnata dal presidente americano Wilson, che nascondeva sotto il tappeto la “dottrina Monroe”, cioè il disegno di dominio universale degli Stati Uniti d'America.
   Con altrettanto vigore gli stessi ideali vennero riproposti nel corso della fase agonica della seconda guerra mondiale. Da lì arriva l'Unione Europea odierna. Le sue istituzioni possono piacere poco. Nondimeno nel volgere di pochi giorni quattrocento milioni di cittadini scelgono i propri rappresentanti in un Parlamento sovrano. È un caso unico al mondo. Un esperimento senza precedenti nel fantasmagorico laboratorio della storia. Come tutti gli esperimenti anche questa “Europa” può riuscire bene o può fallire. L'esito, però, non dipende da un Mago e da giochi di prestigio di una manciata di “politici” ma dalla moltitudine dei votanti.  Al di là della narrativa sui progressi compiuti dall'affratellamento oggettivo negli affari, nella moneta (utilissima e ormai indispensabile, malgrado i guai prodotti!) e in promozioni civili come l' “Erasmus”, ovviamente la generalità dei votanti non conosce la maggior parte di quanti a loro volta depongono la scheda nell'urna chissà dove. Ma è quanto accade all'interno dei singoli Stati, che erano e sono moltitudine di regioni dalle radici storiche remotissime, inclusi lingue (o dialetti), costumi, abitudini alimentari, giudizi e pregiudizi. La volizione a lungo sospesa infine precipita in un cristallo. Lo aveva intuito Silvio Pellico che in “Dei doveri degli uomini” scrisse: “Due viaggiatori europei s'incontrano in altra parte del globo; uno sarà nato a Torino, l'altro a Londra. Sono europei; questa comunanza di nome costituisce un certo vincolo d'amore, un certo, direi quasi, patriottismo, e quindi una lodevole sollecitudine di prestarsi buoni uffici. (…) L'amor patrio quando s'applica ad un paese vasto e quando s'applica ad un piccolo, è sempre sentimento nobile. Ma badisi che l'amor patrio, tanto ne’ più ampli suoi circoli quanto ne’ più ristretti, non facciasi consistere nel vano insuperbire d'esser nato in quella tal terra, e nel covare indi odio contro altre città, contro altre province, contro altre nazioni. Un patriottismo illiberale, invido, feroce, invece d'esser virtù, è vizio”. Era il 1832, quasi duecento anni orsono. Ma era già tutto chiarissimo. Pellico era stato il redattore del “Conciliatore”, carbonaro, condannato a morte senza che avesse commesso alcun vero reato, prigioniero due lustri anni tra Milano, Venezia e lo Spielberg, in Moravia, ove visse anni tristissimi, ma non cessò mai di credere nell'Uomo né nel Figlio dell'Uomo.
“Una cosetta appena visibile?”
   Forse è il caso di ricordarsene e di rileggere la pagine finale del capolavoro di Giulio Gianelli. Pipino aveva avuto in sorte di nascere decrepito, di ringiovanire e di spegnersi al compimento del 65° anno. Col tempo divenne adolescente e poi così piccino che sulla fine veniva recato in tasca dalla “mamma” che non aveva mai avuto ma sempre sognata. Ad assisterlo furono i bimbi che aveva idealmente adottato. Uno scambio di generazioni. “Ughé” e “Mariù” trascorsero un anno in compagnia di Pipino, “usando al nano, che doveva presto morire, tutte le più delicate cure fraterne. Povero Pipino, pensavano. Dopo aver fatto tanto bene, ora non sei più che una cosetta appena visibile. Ma quanto ti siamo grati! Parleremo di te a tutto il mondo, narreremo la tua vita ai nostri figli e saremo sempre, con te, buoni”. È questa la sorte imminente dell'Europa vicina ai sessantacinque anni? Lo intuirono i suoi fondatori? O si rassegnarono presto ad adottare pargoli spesso discoli, irriconoscenti, avidi, ingrati?
Le Dodici stelle del Pavillon liberomuratòrio
   Se vogliamo essere sinceri sino in fondo questo 26 maggio 2019 dobbiamo fare due considerazioni concatenate: i libri sull' “Europa” e sui suoi intricatissimi problemi sono sfogliati solo da specialisti. Per la generalità dei cittadini essi sono noiosissimi e persino fastidiosi. La disaffezione verso le Istituzioni comunitarie si riverbera sulla scarsa affluenza alle urne, benché ì, come noto, chi non vota comunque ha sempre torto. Anche l'editoria di maggior peso continua a proporre figure e temi che affondano molto oltre le ginocchia nella palude del paleo-nazionalismo e delle sue varianti, dal nazionalsocialismo al comunismo sovietico. Qualunque biografia di Mussolini, Stalin, Hitler continua ad avere una moltitudine di lettori. Gli europeisti sono sprofondati invece nell'oblio. Quale cielo e quali menti illuminano le dodici stelle rilucenti nella bandiera dell'Unione? Chi ricorda che esse vennero prefigurate nel “pavillon”della Società delle Nazioni ideato dal Congresso delle massonerie europee il 28-30 giugno 1917? L' “Europa”, dunque, è ancora lontana da prendere corpo definitivo. Ma appena si guardi a quanto avviene negli altri continenti è inevitabile concludere che nel mondo c'è di peggio. Tanto vale tenerla in vita, un po' avvizzita e un po' bambina, e cercare di irrobustirla.
Aldo A. Mola   

IL DIARIO INEDITO DI FEDERZONI
I “CONTI CON IL FASCISMO” DI UN LIBERALE CONSERVATORE
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 19 maggio 2019, pagg. 1 e 11.

Luigi FederzoniUna crisi senza soluzioni?
La Nòttola di Minerva si leva al tramonto. Volteggia al buio su un mondo ormai libero da passioni e agonismi: le rovine del tempo. Il suo volo può ispirare la riflessione sulla crisi politica in corso in Italia, la più grave dal dopoguerra perché per la prima volta non se ne intravvede la via di uscita, a parte l'ennesimo ritorno alle urne (come in Spagna) o un governo “tecnico”, cioè il crepuscolo della “politica”.  Lasciate da parte le chiacchiere oggi imperversanti su fascismo e antifascismo, l'analogia tra la crisi sistemica odierna e la lunga storia d'Italia rimanda al 1919-1922 quando la “maledetta proporzionale” (la definizione è di Giovanni Giolitti) generò alla Camera due corposi partiti (il Partito socialista e il Partito popolare) e una pleiade di gruppi costituzionali incapaci di sintesi e corrivi ad anteporre i propri interessi a quelli del Paese. Ai margini rimanevano i repubblicani irriducibili e frange estremistiche, parte intruppate nel PSI (dal quale nel gennaio 1921 si spiccò il Partito comunista d'Italia, sezione nostrana dalla Terza internazionale) parte nel “fascismo rosso”, speculare a quello social-massimalista. Con un piede nel “sistema” e uno nell'illegalità, gli estremisti di opposto colore infettarono la vita pubblica. Finanziariamente spossato dalla partecipazione alla Grande Guerra, il Paese precipitò in una degenerazione che richiedeva responsabilità, dedizione e quel “senso dello Stato” tanto difficile da definire quanto facile da comprendere quando chi governa se ne mostra e ne risulta privo.
Il partito liberale nacque vecchio e morì bambino
Tra le prove che l'Uccello di Minerva spicca il volo quando ormai sopraggiungono le tenebre v'è la storia paradossale del partito liberale in Italia. Esso nacque in un congresso a Bologna l'8-10 ottobre 1922, dieci giorni prima della leggendaria “marcia su Roma”, quando il liberalismo in Italia era avviato al crepuscolo. A promuoverlo furono Alberto Giovannini, deputato, eletto segretario, Luigi Albertini, direttore e comproprietario del “Corriere della Sera”, Nino Valeri (iniziato massone in un'officina della Gran Loggia d'Italia con Gabriellino d'Annunzio) e il genovese Emilio Borzino, issato alla presidenza del partito. All'assise bolognese si affacciarono anche Antonio Salandra e Giovanni Giolitti, parlamentari di lungo corso, ministri ed ex presidenti del Consiglio, l'uno molto distante dall'altro: democratici liberali e liberali-democratici contrapposti. Giolitti si iscrisse al gruppo parlamentare “liberal-democratico”, poi semplicemente “democratico”. Finì con la scissione dell'atomo: la fine dei liberali. 
Negli stessi giorni il Partito socialista si spaccò per l'ennesima volta: Filippo Turati e Giacomo Matteotti slittarono “a destra”, mentre gli altri continuavano a volere la “rivoluzione”, pur avendo alla loro sinistra Gramsci, Bordiga, Togliatti e Tasca, cioè la già citata Terza Internazionale di Lenin. Quando nel 1931 si spense a Parigi, ove era espatriato da sei anni, Turati fu irriso da Togliatti come strumento succubo della borghesia. All'epoca i comunisti bollavano i riformisti come social-fascisti. Solo anni dopo Stalin promosse i fronti popolari per contrastare l'ascesa dei nazional-socialisti di Hitler e le destre, dall'Italia di Mussolini, all'Ungheria di Horthy, alla Spagna di Franco. Morto durante il rapimento di cui fu vittima il 10 giugno 1924 (come ha documentato Enrico Tiozzo nel 2° volume della sua biografia, “Il Delitto”, ed. Bastogi), Matteotti divenne l'icona dell'antifascismo democratico, che però ebbe il torto di astenersi dai lavori della Camera e così regalò l'Aula al governo che, piaccia o meno, rappresentava lo Stato (non per caso l'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche pochi mesi prima della tragica fine del socialista di Fratta Polesine aveva aperto l'ambasciata a Roma senza invitare i socialisti).
Un “letterato” ministro dell'Interno:Federzoni   
Proprio l'assassinio di Matteotti fermò per qualche mese la deriva del Paese, sospeso tra ripristino della legalità e vittoria del “Trucio”, come Benito Mussolini era detto da Alberto Giannini nella rivista satirica “Il Becco Giallo” (ristampata dal geniale Oreste Del Buono). Dinnanzi all’immediata cattura degli squadristi responsabili della morte di Matteotti (Amerigo Dùmini, Augusto Malacria...) e alle loro palesi connivenze con la cupola del fascismo (Giovanni Marinelli, Cesarino Rossi...), senza bisogno di farselo dire pubblicamente da Vittorio Emanuele III (la cui biografia rimane da scrivere), Mussolini varò subito il più  importante rimpasto di governo dal suo avvento. Il 17 giugno cedette il ministero dell'Interno, posizione nevralgica, a Luigi Federzoni, già titolare delle Colonie. Il 1° luglio l'Istruzione passò dal filosofo Giovanni Gentile al liberale e cattolico Alessandro Casati. Lo stesso giorno Gino Sarrocchi sostituì Gabriello Carnazza ai Lavori Pubblici. Alla Guerra e alla Marina rimasero Antonino Di Giorgio e Paolo Thaon di Revel, “uomini del Re”, mai teneri nei confronti dell'incipiente regime, come il massone Aldo Oviglio alla Giustizia. 
 Il cambio più significativo fu appunto l'avvento di Federzoni (Bologna, 27 settembre 1878- Roma, 24 gennaio 1967). Il suo nome oggi suona quasi senza eco. Eppure egli fu tra i massimi protagonisti della storia d'Italia. Figlio di un amico e cultore di Giosue Carducci, saggista, poligrafo e collaboratore del “Giornale d'Italia”, nel 1910 Federzoni fu tra i fondatori dell'Associazione nazionalista italiana con Enrico Corradini, Roberto Forges Davanzati, Francesco Coppola e altri eredi del pensiero di Alfredo Oriani. Promotore de “L'Idea Nazionale”, nel 1913 eletto deputato nel prestigioso collegio Roma I, fautore dell'interventismo nel 1914-1915, volontario in guerra e decorato al valore, rieletto alla Camera nel 1919 e 1921, oratore facondo e acuto, nel febbraio 1923 egli propiziò la fusione nel Partito fascista dell'Associazione nazionalista, sorretta dalle Camicie azzurre, monarchiche, che tante volte si erano scontrate con quelle Nere. Quale pegno, il Gran Consiglio del fascismo (consesso ancora privato, ma certo influente) poco prima aveva proclamato l'incompatibilità tra fasci e logge massoniche. Membro del Gran Consiglio del fascismo dal 5 marzo seguente, Federzoni costituì una garanzia per i monarchici all'interno del governo e nel partito, alla cui vicesegreteria fu nominato Maraviglia.
La forma è sostanza: l'Aula
Come può essere classificato mezzo secolo dopo la sua morte? Il suo nome non compare nel “Dizionario del liberalismo italiano” (ed. Rubbettino), che del resto non ricorda neppure quello di Borzino, presidente del PLI. Nondimeno Federzoni fu un protagonista del liberalismo in Italia. Il Risorgimento italiano (1792-1860 circa) fu animato da società segrete (carbonari, massoni, Giovine Italia...) ma non ebbe “partiti”. Era impensabile in tempi di repressioni, condanne durissime e patiboli per chi chiedeva costituzioni, libertà di culto, di pensiero, di stampa… Neppure all'estero vi erano veri e propri “partiti” come poi sorsero tra Otto e Novecento; neanche in Gran Bretagna (più celebrata che davvero conosciuta), ove la contrapposizione tra conservatori e liberali aveva molteplici sfumature. La sua peculiarità era connessa alla forma dell'Aula che tutti vedono ma non tutti conoscono e pochi si fermano a osservare. 
I “modelli” del “Parlamento” nel tempo sono stati tre: il Senato di Roma, l'inglese e quello della Costituente francese, imitato per entrambi i rami del Parlamento italiano. Per quanto si sa, i “patres” dell'antica Roma sedevano in file ordinate su gradini come in aula universitaria. In Gran Bretagna i deputati sono distribuiti in due settori che si confrontano, con un fondale che sa di “Oriente”. Al centro vi è un tavolino per il deposito degli atti. Originariamente fu questa la foggia della Camera allestita a Palazzo Carignano, diversa da quella, celebratissima della Camera “subalpina”. Quest'ultima ebbe forma semicircolare, meno accentuata dell'attuale a Montecitorio ma sufficiente per propiziare la caratteristica del nascente liberalismo italiano: il trasformismo, che nacque dalla coniugazione delle idee ma fu anche facilitato dal luogo fisico nel quale crebbe, come accade per tutti i corpi viventi. 
Quel liberalismo ebbe molteplici protagonisti e altrettanti volti, più e meno noti. Va detto che la dirigenza unitaria e postunitaria fu di primaria grandezza. Essa sfidò l'Europa. Di sette diversi staterelli ormai stenti e succubi dei loro dominatori (gli Asburgo, i Borbone, il papa-re), essa  fece uno Stato che dal 1867 sedette nella Conferenza delle potenze europee e mezzo secolo dopo registrò un progresso civile, economico e sociale apprezzato da tutti gli osservatori stranieri. Basti rileggere “Italy-today” di Thomas Okay.
Il passo imperiale di Luigi Federzoni
Certo vi furono dall'inizio due-tre Italie. La prima non voleva fare il passo più lungo della gamba (i conservatori). Un'altra allungava la gamba a costo di farsela ferire (Garibaldi). Infine quella che puntava a orizzonti infiniti. L'equilibrio fu raggiunto con Giolitti, cinque volte presidente del Consiglio tra il 1892 e il 1921: lo statista che unì ideali e pragmatismo. Ma proprio a lui si contrappose il nazionalismo di Enrico Corradini e di Luigi Federzoni. I nazionalisti erano un altro volto dell'Italia liberale, sulla scia della Sinistra storica di Agostino Depretis e, ancor più, di Francesco Crispi.  D'Annunzio non scrisse le “Odi Navali” in omaggio Mussolini. Espresse i turgori dell'Italia che aspirava al Mar Rosso, all'Oceano Indiano, all'“Impero” quando al governo si alternavano Rudinì, Giolitti, Crispi e Pelloux, mentre il socialista Antonio Labriola predicava l'espansione coloniale quale volano per il progresso economico e l'avvento dell'industria senza la quale il “proletariato” non sarebbe mai nato. Marx dixit. 
Nel torbido clima dell'estate 1924 fu dunque Federzoni a farsi carico di rimettere un po' d'ordine tra Stato, Governo, partiti e movimenti in un'Europa in subbuglio, tra colpi di stato qui e là tentati e regimi autoritari (come quello di Miguel Primo de Rivera in Spagna). Finissimo letterato prestato alla politica (fu anche il caso dei filosofi Benedetto Croce e Gentile), Federzoni resse l'Interno sino a quando l'attentato a Mussolini, attribuito ad Anteo Zamboni, proprio nella sua Bologna scatenò l'inferno: pena di morte, la “seconda ondata”... Nel novembre 1926 il “duce” riprese l'Interno e relegò Federzoni alle Colonie. Senatore dal 1929, presidente del Senato sino al 1939, quando venne sostituito col più “devoto” Giacomo Suardo, al vertice delle principali istituzioni culturali (dalla “Nuova Antologia” all'Accademia d'Italia) nel luglio 1943 Federzoni fu con Dino Grandi e Giuseppe Bottai autore dell'ordine del giorno che chiese al Re di riprendere i poteri statutari e mise fine al regime. Braccato, riparò nell'ambasciata del Portogallo presso la Santa Sede. Lì scrisse il “Diario” ora pubblicato a cura di Erminia Ciccozzi dall'editore Pontecorboli (Firenze)  con ampio saggio introduttivo di Aldo G. Ricci. L'originale del “Diario inedito, 1943-1944”, dopo lunghe traversie, è stato donato da Francesco Sommaruga all'Archivio Centrale dello Stato. 
L'opera di Federzoni ministro dell'Interno è sintetizzata dall'invettiva che contro di lui venne lanciata dal ras di Cremona, Roberto Farinacci, mentre l'ex gerarca era imputato con Galeazzo Ciano e altri per “alto tradimento” e condannato a morte dal tribunale di Verona. Secondo la Repubblica sociale aveva perseguito la “tendenza normalizzatrice”, represso l'estremismo e mostrato “condiscendenza costante verso i partiti antifascisti”. Purtroppo per lui, egli venne destituito da senatore (come innumerevoli altri patres) e condannato all'ergastolo proprio dagli antifascisti al potere. Dopo un breve soggiorno, sempre in clandestinità, nel Pontificio collegio ucraino al Gianicolo, nel maggio del 1946, vigilia del referendum, riuscì a riparare in Brasile, donde nel 1948 passò in Portogallo ove insegnò nelle Università di Coimbra e di Lisbona. Torno in Italia nel 1949 in forma riservatissima e poi dal 1951.  
Federzoni fu aspramente nemico della massoneria che considerava nociva per l'Italia contemporanea, ma questo non basta a dichiararlo non liberale. Altrettanto si dovrebbe fare di Benedetto Croce o di Luigi Einaudi. Sulla massoneria vi furono e rimangono giudizi e pregiudizi. Proprio a dimostrare la superiorità di alcuni massoni  il “Diario inedito, 1943-1944” è uscito con il contributo dell'Istituto intitolato al Gran Maestro Lino Salvini, che ottenne il riconoscimento del Grande Oriente d'Italia da parte della Gran Loggia Unita d'Inghilterra, e si è valso della competenza di un massonologo qual è Guglielmo Adilardi. 
Il problema angosciante dell'Italia odierna è la pochezza delle dispute su fascismo e antifascismo e, persino, su unificazione nazionale e “guerra per il Mezzogiorno”, che dà titolo al saggio in cui Carmelo Pinto dà veste vagamente scientifica alle tesi propugnate da noti libelli neoborbonici. Va ricomposta la visione unitaria della storia di questa piccola porzione d'Europa mentre urge far ripartire la Comunità europea (l'“Unione” verrà chissà quando) nell'ambito delle alleanze garanti della sicurezza e della sua integrità territoriale (l'“indipendenza” è acqua passata: ma vale per noi come per tutti i 27-28 componenti dell'Unione Europea).
Monarchici e monarchisti: Federzoni a Umberto II
Perciò è attualissima la lezione impartita in splendida lingua italiana da Luigi Federzoni. A libro “Diario”chiuso al lettore vengono in mente i busti degli italiani illustri al Pincio e i fregi dell'Altare della Patria: rappresentazioni complesse della nostra storia, ove vi è spazio per tutti, senza “damnatio memoriae”, nella consapevolezza che ognuno ha fatto quel che meglio sapeva o gli venne consentito, e ognuno pagò. Una sosta al Pincio merita il monumento levato da Edoardo Calandra a Umberto I, assassinato a Monza da un anarchico estero-diretto. Ai piedi del Re lo scultore subalpino pose il volto della Medusa: l'anarchia, l'odio verso lo Stato. Anche da quell'evento tragico nacque il nazionalismo, che contrassegnò i primi decenni del regno di Vittorio Emanuele III. La sostituzione di Federzoni alla presidenza del Senato coincise con l'inizio della guerra senza frontiere di Mussolini contro la monarchia. Lo ebbe chiaro Federzoni che in una lettera nel primo viaggio segreto in Italia (1949) al “Sire”, Umberto II”, distinse tra monarchia e monarchismo, una piaga, quest'ultima, ancora aperta perché tanti sedicenti monarchici vorrebbero il re a propria immagine e somiglianza.
Umberto Gentiloni Silveri, Pietro Scoppola e altri vent'anni fa si domandarono perché non fosse nato in Italia un “partito conservatore”. Il liberalismo italiano non ebbe mai un partito, né con Cavour né con Giolitti. E poi non fu conservatore, se per tale si intende difensore degli “interessi costituiti”. Fu sempre fautore di profonde riforme, “popolari”. Lì fu la sua forza: progresso civile per consolidare le basi delle Istituzioni. Quello fu anche il liberalismo di Croce (che controvoglia accettò la presidenza del Pli nel dopoguerra) e di Luigi Einaudi. È quanto occorre oggi. Perciò ogni “parte” dovrebbe sacrificare un po' di se stessa e convergere in un “cartello” nell'interesse supremo dell'Italia e dei cittadini. Ma il motto “Italia innanzi tutto” non è dei partiti e dei movimenti. Era di Umberto II che morì esule il 18 marzo 1983. Federzoni fu sino all'ultimo il suo ascoltato consigliere.    
Aldo A. Mola 

L'ILLUSIONE DELL'IMPERO UNIVERSALE
CARLO V E L'ITALIA
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 12 maggio 2019, pagg. 1 e 11.

Carlo VIl mondo contemporaneo invita a riflettere su quello di mezzo millennio addietro e a interrogarsi sulle prospettive venture. L'attuale è imperniato su una potenza neo-europea, gli Stati Uniti d'America, in contrapposizione a una asiatica, la Cina. Gli USA hanno nell'Unione Europea un alleato politicamente sfrangiato, non sempre affidabile, e militarmente piatto. Alcuni suoi membri trattano direttamente coi cinesi accordi economici, quasi che questi non ne implichino altri, politici e militari, connessi alle diverse e spesso distanti concezioni dell'uomo e dei suoi diritti. Gli USA si confrontano con un altro avversario, la Federazione Russa, che, di radici e cultura indiscutibilmente europea, si pone militarmente come potenza “terza”, anche se la sua effettiva forza economica e bellica in prospettiva di lungo periodo appare declinante. 
“Plus ultra”: dal tallero al dollaro
Cinquecento anni or sono la Storia ebbe un guizzo e dette un saggio di meta-storia. La concezione patrimonialistica della sovranità, in forza della quale il sovrano disponeva di pieno dominio sulle terre avite e sui suoi “mobili”, inclusi gli abitanti, si intrecciò con quella dell'Impero, sacro perché ripeteva la sua identità dalla investitura del pontefice, Vicario di Cristo. L'Impero era davidico. Il 24 febbraio 1500 nacque a Gand, nelle Fiandre, Carlo d'Asburgo, figlio di Filippo il Bello, a sua volta erede di Massimiliano I, imperatore, e di Giovanna “la Pazza”, figlia del re di Spagna, Ferdinando il Cattolico, e di Isabella di Castiglia. I loro grandi ammiragli proprio in quegli anni stavano scoprendo le Indie Nuove e annettevano le Americhe, spartite tra Madrid e Lisbona dalla “raya” tracciata dal lungimirante papa Alessandro VI Borgia. Per una serie di legami dinastici ingarbugliati e di lutti imprevedibili quel neonato si trovò a essere per mezzo secolo il perno della storia d'Europa proprio nell'età dei grandi esploratori e conquistatori, oggi deplorati da chi guarda la storia come un ventaglio chiuso. 
“Plus Ultra”, l'insegna poi assunta da Carlo d'Asburgo e tuttora distintiva del regno di Spagna, indica la volontà di andare non solo “oltre le colonne d'Ercole” che per millenni avevano delimitato lo spazio verso Occidente, ma anche al di là della  visione particolaristica comune agli Stati sorti in Occidente dopo la catastrofe dell'Impero romano. Il suo obiettivo ultimo fu la “Renovatio imperii”, che è universale o non è. Altrettanto enuncia il dollaro, sintesi del programma imperiale degli USA. Come noto, il suo simbolo ($) è la stilizzazione dell'emblema personale di Carlo V e tuttora del regno di Spagna (le due colonne d'Ercole intrecciate dal Serpente). D'altra parte il dollaro statunitense nacque da quello ispano-messicano a sua volta  derivante dal tallero europeo. Non si svela nulla di arcano ricordando la congerie di segni, cifre e motti che affollano il dollaro ed evocano l'ideario dell'impero: la piramide sormontata dal triangolo, la stella di Davide racchiusa tra le ali dell'Aquila bicipite, la lettera G fiammeggiante e le divise “in god we trust”, “e  pluribus unum”, “Novus Ordo seclorum” (anziché “secolorum”, con voluto errore affinché stia in 17 anziché 18 lettere) e “annuit coetpis”, comune al Rito scozzese antico e accettato. 
Carlo d'Asburgo dalla Borgogna alla Corona imperiale
La Grande Visitatrice  in pochi anni portò con sé i genitori del piccolo Carlo d'Asburgo, che già titolare dei Paesi Bassi e della Borgogna, regione strategica nell'Europa centrale, divenne  erede del regno di Spagna, quale nipote maggiore di Ferdinando il Cattolico. La Falce (che mieté i più dei suoi sei figli legittimi, tranne Filippo II, re di Spagna, e molti dei cinque illegittimi riconosciuti), risparmiò suo fratello minore, Ferdinando. Ripercorrere il repertorio cronologico dei titoli via via acquisiti da Carlo sin da bambino richiederebbe un qui impossibile “trattato” della  storia europea. Merita invece individuarne la profonda contraddittorietà intrinseca. Più aumentavano potere e responsabilità, più le basi stesse della sacralità imperiale venivano intaccate e corrose.
Nel 1516, con la morte del nonno materno, Ferdinando il Cattolico, Carlo assunse la corona di Spagna, dall'ormai vastissimo impero extraeuropeo. Visitò subito il regno. Cresciuto tra Malines e Bruxelles con “governatori” e consiglieri di vaglia scelti dalla zia Margherita d'Austria, perfettamente padrone del fiammingo, del francese e del latino, Carlos Primero vi ebbe accoglienze fredde. Al trapasso del nonno paterno, Massimiliano I (1519), Carlo affidò la Spagna al saggio e austero Adriano di Utrecht (poi papa Adriano VI nel 1522-1523) e tornò nelle Fiandre per seguire da vicino l'elezione del successore alla corona imperiale, che veniva assegnata da sette principi, tre dei quali ecclesiastici. Se le Cortes dei singoli “regni” spagnoli accampavano antichi privilegi e nel 1520 i Comuneros scatenarono una rivolta generale repressa con spietata durezza, la “Germania” era incendiata dal verbo di un teologo, Martin Lutero, al quale inizialmente papi come Leone X (figlio di Lorenzo il Magnifico, 1513-1521; e Clemente VII, altro de' Medici, 1523-1534) non prestarono particolare attenzione. Grazie a giganteschi “doni” e a concessioni varie ai principi elettori il 18 giugno 1519 Carlo ottenne lo scettro imperiale come Carlo V . L'impero di Carlo Magno aveva compreso Francia, Italia centro-settentrionale (il Mezzogiorno era in parte dominato dai bizantini e in parte bersaglio degli islamici) e lembi della Germania. Quello di Carlo V spaziò dall'Europa centrale alle Americhe e agli arcipelaghi nell'Estremo Oriente, sino alle Filippine e alle Marianne. Che su di esso il sole non tramontasse mai non fu un suo modo di dire ma realtà. A sorreggerne le sorti cominciarono a giungergli oro e argento dalle Americhe e i proventi dalla vendita delle indulgenze ai peccatori in cerca di perdono per sé e per gli antenati, abilmente orchestrate dai banchieri Fuegger ai quali ne era stato concesso il monopolio, con enorme scandalo di chi predicava contro il Papato. Roma era marchiata come Nuova Babilonia, sentina del peccato e dei più turpi commerci a tutto vantaggio della edificazione di San Pietro, non già  cattedrale della Chiesa cattolica apostolica romana ma ricettacolo di “idoli” e pretesto per sperperi che finivano nei mille rivoli della perdizione di una città che contava almeno ventimila prostitute. 
Il 23 ottobre 1520 Carlo d'Asburgo fu incoronato imperatore in Aquisgrana, sacro alla memoria di Carlo Magno e all' “idea di Europa”. Però il suo antagonista nella gara alla corona imperiale, Francesco I di Francia, re “cristianissimo”, non rinunciò affatto a contendergli lo scettro. La posta in gioco fu anzitutto il ducato di Milano, per il quale entrambi vantavano titoli. Francesco, che già nel 1515 aveva valicato le Alpi e additato al suo esercito la pianura  padana quale la terra più propizia per guerreggiare, ricca qual era di biade, di armenti e di abitanti da soggiogare alle sue turpi voglie, invase nuovamente l'Italia. Il 24 febbraio 1525 Carlo V festeggiò il proprio 25° compleanno con la vittoria di Pavia, ove l'esercito francese venne disfatto. Francesco I cadde prigioniero e fu deportato a Madrid. Ne dette egli stesso notizia col messaggio famoso: “tutto è perduto fuorché l'onore e la vita che è salva”. La “pace delle dame” non risolse il différend tra l'imperatore e il rivale, che riprese a intrigare. Da “cristianissimo” non si alleò con i riformatori luterani né con i seguaci di Giovanni Calvino, attestato a Ginevra, però si spinse a segrete intese con gli islamici. Nel 1526 i turchi sottomisero l'Ungheria, giunsero ad assediare Vienna e imposero agli Asburgo una pace molto onerosa. Francesco di Francia agì come se oggi l'Unione Europea odierna rivendicasse un proprio primato contro gli Stati Uniti alleandosi con la Cina, accampando il pretesto di vantaggi commerciali e magari cedendole anche porti e controllo delle comunicazioni sensibili...
L'Italia di Carlo V
Il groviglio di contese e di guerre in Italia culminò con il saccheggio di Roma (1527) da parte di un esercito mercenario (i lanzichenecchi) capitanato dal connestabile di Borbone e dal luterano Frundsberg e con la rassegnata capitolazione del papa, Clemente VII. In una fastosissima cerimonia a Bologna il 22 febbraio 1530 il pontefice incoronò Carlo Re d'Italia (con tanto di Corona ferrea) e il 24 imperatore. Fu l'ultimo successore di Carlo Magno a essere direttamente consacrato dal pontefice. Dopo di lui il titolo di Re d'Italia fu assunto da Napoleone I (che si auto-incoronò a Milano il 26 maggio 1805) e da Vittorio Emanuele II (14/17 marzo 1861) per sé e i successori, sino a Umberto II. Quale suggello della pace con la Santa Sede Carlo V fece abbattere in Firenze la repubblica (invano difesa da Michelangelo e da Francesco Ferrucci) e ripristinare il ducato, affidato ai de' Medici, poi con rango di granduchi. Nel 1529 Genova, piazza di transito dei metalli preziosi dalle Americhe (via Spagna) verso Piacenza e Milano, era passata con Andrea Doria a fianco  dell'imperatore. Ne beneficiò per quasi due secoli. Il suo declino iniziò quando a Madrid gli Asburgo furono sostituiti dai Borbone, che a quelli della Superba anteposero gli interessi dei porti franco-spagnoli.  
A garanzia dell'esclusione della Francia dall'Italia Carlo V impose agli stati ancora indipendenti (Venezia e Roma) una lega, che era pallida ombra di quella un tempo proposta da Lorenzo il Magnifico in funzione anti-turca o da papa Giulio II col motto “fuori i barbari”. Ormai l'Italia era quasi del tutto direttamente o indirettamente sottomessa all'imperatore. Quel baluardo, tuttavia, era necessario per arginare Francesco I di Francia, che riprese la guerra contro Carlo V, dapprima in combutta con Kair-ad Din “Barbarossa” (il “pirata” che si impadronì di Tunisi e minacciò la Sicilia) poi in sfacciata alleanza con la Sublime Porta, dopo la sconfitta di Andrea Doria a Prevesa (27 settembre 1538). 
A subire le conseguenze del conflitto fu soprattutto il Ducato di Savoia. Nel 1543 Nizza venne assediata e devastata dai turchi. Il Piemonte fu ripetutamente invaso e saccheggiato dai francesi.  Carlo III il Buono (1486-1553) morì mentre lo  Stato era preda del nemico. Dal 1548 i francesi si erano impadroniti del Saluzzese, il cui ultimo marchese, Gabriele, già vescovo, fu condotto prigioniero a Pinerolo e avvelenato. Non era scritto in alcun libro del destino che un giorno lo Stato sabaudo sarebbe tornato indipendente e protagonista della storia. 
Un Principe sabaudo restauratore del Ducato 
Occorreva un Principe. Lo ebbe in Emanuele Filiberto (“Testa di Ferro”), figlio di Carlo III.  Comandante dell'esercito spagnolo, il giovane Savoia (1528-1580 )sbaragliò i francesi nella battaglia di San Quintino (1557) aprendo ai “tercios” la via di Parigi e si meritò la gratitudine del re di Spagna, Filippo II. Con la pace di Cateau Cambrésis (aprile 1559) gli Asburgo e il re di Francia, Enrico II (succeduto nel 1547 a Francesco I ) riconobbero a Emanuele Filiberto il ducato di Savoia come bene dotale della consorte, Margherita di Valois, sorella di Enrico II. Per precauzione i francesi continuarono a occupare  Torino, Chieri, Chivasso e altre piazze strategiche mentre gli spagnoli tennero Asti e Vercelli.  Era dura risalire la china. La riconquista vera e propria del ducato da parte di “Testa di Ferro” richiese molti anni e la capacità di conciliare il governo assoluto con la mediazione. Ne dette esempio con l'accordo di Cavour (1561) che concesse ai valdesi libertà di culto in luoghi deputati: un caso pressoché unico nell'Europa dell'epoca, contrassegnata da intolleranza e guerre di religione improntate al fanatismo più cieco. La riorganizzazione del Ducato fu impresa titanica. 
Guerre di religione e frantumazione dell'Impero
Proprio le guerre di religione avevano corroso il sogno universalistico di Carlo V. Dopo anni di lotta contro la lega di Smalcanda formata dai principi luterani (sconfitti nel 1547 a Muelbergh) con la pace di Augusta (1555) l'imperatore ratificò il principio “cuius regio ejus et religio”: i sudditi dovevano professare la confessione cristiana del loro sovrano o andarsene. A taluni parve un'alba di tolleranza. In realtà era la tregua tra settarismi. Comportò comunque la morte del Sacro Romano Impero. Il papa, infatti,  cessò di rappresentare l'unità del cristianesimo in Occidente, mentre perdurava la divisione tra questo e la Chiesa d'Oriente. 
Carlo V ne trasse la conclusione. Nel 1556 abdicò. Cedette la corona imperiale al fratello Ferdinando, deputato a fermare l'avanzata dei turchi da Oriente. La Spagna con il vastissimo impero coloniale e i domini in Italia andarono al figlio Filippo II, che gli eresse per mausoleo il Monastero di San Lorenzo dell'Escorial. Dal ritiro a Cuacos de Yuste Carlo V visse in spartana semplicità. Seguì con crescente distacco le vicende del suo tempo sino alla morte (21 settembre 1558). Durante il suo sessantennio di vita si susseguirono dieci papi, metà dei quali posero mano al Concilio più volte suggerito dall'imperatore, ansioso di trovare una via d'uscita alla crisi della cristianità in Occidente, aggravata dall'ex “Defensor fidei” Enrico VIII d'Inghilterra che istituì la chiesa anglicana. Carlo V non riuscì a pacificare l'Impero, né a metterlo al sicuro dal massimo nemico esterno, l'impero ottomano, né a indurre la Francia alla coesistenza. Questa venne raggiunta solo nel 1598 con la “pace dei Pirenei”, che si risolse in breve tregua tra molti e lunghi altri conflitti.
Impero universale: un sogno svanito? 
Quale sorte attende il mondo contemporaneo? Gli Stati Uniti vantano successi economici (crescita del prodotto interno e occupazione in termini inconfrontabili con quelli europei e specialmente dell'Italia), ma vivono con la psicosi dello stato d'assedio, fra rivendicazione del primato dei loro abitanti, elevazione di barriere fisiche verso immigrazione irregolare e diffusa paura di “invasioni”. Al tempo stesso, mentre la questione di Cuba rimane aperta, mostrano incapacità crescente a risolvere conflitti in spazi remoti, con preoccupante inclinazione a lasciare che la storia faccia il suo corso. Ne sono esempio i casi, recenti e per molti aspetti sconcertanti, della Libia e del Venezuela. L' “impero” è sogno impossibile? Lo aveva già spiegato Daniele a Nabucodonosor nella visione profetica dei quattro regni, le “quattro bestie”, destinati a crollare uno dopo l'altro, dopo aver causato rovine, sofferenze e lutti infiniti. L'Impero sopravvisse a Carlo V, ma ormai dimezzato e ridotto a potenza meramente continentale, in lotta perenne su tutti i fronti. Il conflitto con quello turco si risolse solo quando la Grande Guerra, quando, paradossalmente, Vienna e la Sublime Porta combatterono affiancati ed entrambi vennero sconfitti: un paradosso della storia.  
Aldo A. Mola 

LA VERA SICUREZZA? ESTERI E DIFESA
LO STATO D'ITALIA
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 5 maggio 2019, pagg. 1 e 11.

Stati e lunga durata degli interessi dei cittadini
Gli Stati sono la loro politica estera e militare. La loro forma (monarchia, repubblica, federazione, cessione consensuale o forzata di poteri ad altri ...) può mutare. Gli interessi generali permanenti dei loro cittadini invece rimangono nel tempo. Sono la “lunga durata” insegnata da Fernand Braudel. E questa non si riduce a contabilità pubblica e privata. Sono la certezza del futuro, la sicurezza politico-militare, fondata su coerenza, continuità, affidabilità. La vera sicurezza non si difende sulla soglia di casa ma ai confini dello Stato. Quella degli italiani del terzo millennio si difende a migliaia di chilometri dai loro confini geo-politici, grazie alle politiche comunitarie, ad alleanze collaudate da decenni ed a costosissimi sistemi d'arma in via di perfezionamento. Vale soprattutto per gli Stati deboli per la posizione geostorica e per la loro fragilità genetica. Essi stanno al mondo venturo come i piccoli potentati e i borghi italiani vissero quindici i secoli dalle invasioni barbariche all'unificazione nazionale: facile preda di eserciti e “bande” di passo. È il caso dell'Italia. La sua politica estera e conseguentemente militare nel corso dei neppure 150 anni dall'unione del regno con Roma risultò di sua scelta complessivamente discontinua, volubile e povera di risultati, sino alla sconfitta catastrofica nella seconda guerra mondiale, il cui passivo fu e sarà scontato per molte generazioni. Gli errori compiuti nel quinquennio 1935-1940 (la guerra d'Etiopia, la sbandata di Mussolini a fianco della Germania, dettata da calcoli di politica interna e finita con la resa senza condizioni del settembre 1943 e con la pace mortificante del 10 febbraio 1947) ebbero però la premessa nella politica estera dal 1914 al 1919. Il suo centenario scivola via, sommerso da fatue dispute sulla “difesa della storia” ora accampata anche da chi ha solitamente subordinato la ricerca storiografica a interessi partitici ed elettorali, mentre tanti studiosi anziché poco corrivi a firmare appelli lavoravano negli archivi. Ma l'Italia, con buona pace degli “appellisti”, è il Paese dei “manifesti degli intellettuali”, oggi come nel 1925.  
Le “ragioni” dell'intervento dell'Italia nella Grande Guerra
Perciò meritano un rapido sguardo i catastrofici errori del 1919, quando, vinta la guerra da parte dei militari (da Cadorna e Capello a Diaz, Giardino e Badoglio), l'Italia la perse per insipienza dei “politici”, cioè del governo dell'epoca, incardinato sul presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, e sul ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, apprezzato cultore di Dante (come tanti a quel tempo),  protomeridionalista acuto ma privo di lungimiranza  e di senno politico, che poi è tutt'uno con il “senso dello Stato”, di cui rimane esempio sommo l'insuperato Giovanni Giolitti.
Cent'anni orsono l'Italia sprecò gran parte delle ragioni con le quali aveva motivato l'intervento nella Grande guerra a fianco dell'Intesa anglo-franco-russa. Il 18 gennaio 1919 si aprì a Parigi il Congresso per la pace. Dopo mesi di schermaglie procedurali e di liti tra le gareggianti ingordigie, il 24 aprile la delegazione italiana lasciò polemicamente i lavori per protesta contro gli alleati, specialmente contro il presidente degli Stati Uniti d'America, Woodrow Wilson, che rifiutavano di assegnare all'Italia Fiume, la seconda città portuale dell'Adriatico settentrionale, strategica per tutta l'area dell'Europa centrale. Il 24 maggio 1915, con Antonio Salandra presidente e Sonnino già agli Esteri, il governo aveva spinto il Paese in guerra puntando al dominio sull'Adriatico. Fra le tre possibili opzioni (annessione delle terre notoriamente italofone; richiesta del confine naturale, ovvero la displuviale alpina, comprendente ampie aree a larga maggioranza germanofone o slave; espansione  oltre il confine naturale, con acquisizione di isole e città dell'antica Dalmazia) con l'accordo di Londra del 26 aprile 1915 Roma puntò sulla terza: il sogno di una talassocrazia circoscritta all'Adriatico mentre già molto faticava a tenere le briglie di un dominio coloniale troppo costoso per le sue risorse, dall'Eritrea alla Somalia alla Libia. Le sue “ragioni” furono ripetutamente messe in discussione durante il conflitto, in specie nell'estate 1917, quando il congresso della massoneria dei Paesi alleati e neutrali (28-30 giugno) approvò lo Statuto della Società delle Nazioni e subordinò a plebiscito la demarcazione dei confini nelle zone mistilingue. Tale principio (propriamente massonico) avrebbe comportato per l'Italia il ripiegamento sulla soluzione minimalistica, cioè la rinuncia al Brennero e alle terre a est di Gorizia e di Trieste, per non parlare del lungo elenco di isole e basi sulla costa adriatica orientale minuziosamente elencate nell'arrangement di Londra.
1918-1919: gli USA ignorarono gli accordi preesistenti tra alleati 
L'intervento degli Stati Uniti in guerra, il 6 aprile 1917, venne salutato anche in Italia con motivato entusiasmo, nella convinzione che Washington avrebbe concorso alla vittoria senza mettere in discussione i patti corsi tra gli alleati. All'opposto, gli USA non riconobbero affatto né l'Intesa né gli accordi via via stabiliti tra questa e i nuovi alleati e/o associati europei ed extraeuropei. Ai suoi occhi il groviglio di trattati e patti pregressi avevano l'imperdonabile inconveniente di essere “segreti”. Essi, inoltre, comportavano modifiche largamente condivise (evacuazione dei tedeschi dalle aree invase, a cominciare dal Belgio, ritorno dell'Alsazia-Lorena alla Francia, ricostituzione della Polonia e della Boemia indipendenti e italianità di Trento e Trieste), ma risultavano opachi sulle sorti dell'immenso impero turco, sull'Austria-Ungheria, sulle colonie germaniche e sul destino dei Balcani, incluso il confine tra regno d'Italia e lo stato serbo-croato-sloveno, la cui costituzione venne proclamata nel convegno di Corfù all'indomani del congresso massonico parigino, con la benedizione di Parigi. Anche gli osservatori meno sospettosi compresero che i nuovi Stati, come la Boemia e la Jugoslavia, nascevano sotto tutela della Francia, i cui obiettivi postbellici risultavano dunque del tutto contrastanti con quelli italiani.
Il divario degli USA rispetto all'Europa venne accentuato dai Quattordici punti l'8 gennaio 1918 enunciati da Wilson e dalle Proposte complementari (12 febbraio) quali basi della pace ventura. Essi dissero chiaro che gli USA erano entrati in guerra a causa delle violazioni del diritto che li avevano direttamente colpiti. Oltre alla libertà di navigazione sui mari in pace e in guerra e alla piena libertà di commercio, Washington non tenne in alcun conto gli “accordi internazionali privati di qualsivoglia natura”, cioè i “patti” tra gli alleati, da sostituire con “pubblici trattati di pace, conclusi apertamente”. L'opinione internazionale era sotto l'impressione suscitata dalla pubblicazione del protocollo costitutivo dell'Intesa e dell'accordo italo-intesista del 26 aprile 1915, rinvenuto dai bolscevichi di Lenin negli archivi segreti dello zar e pubblicati dal quotidiano del partito, “La Verità”, con grande scandalo e irritazione dei loro autori e fautori e indignazione di quanti scoprirono che “lavoravano per il re di Prussia”. Fu il caso dei cattolici dinnanzi all’esclusione della Santa Sede dal Congresso di pace. Il 9° punto di Wilson allarmò il governo di Roma: “Una rettifica delle frontiere italiane dovrà essere effettuata secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili”. Mentre ricalcava le conclusioni del Congresso massonico parigino, esso si intrecciava col punto 10°: la garanzia di sviluppo autonomo dei popoli dell'Austria-Ungheria, ai quali gli USA intendevano salvaguardare un posto tra le nazioni. Al riguardo l'Italia era lontana da una posizione univoca. Mentre per Sonnino la duplice monarchia doveva essere tenuta in vita quale antemurale verso l'avanzata degli Slavi, altri erano per la sua totale dissoluzione a vantaggio dei popoli “oppressi” ascendenti a Stati, in un quadro politico-militare reso confuso dalla rivoluzione in corso nell'ex impero zarista.
Inizialmente esaltato come sicuro interprete del pensiero democratico, quando compì il viaggio in Italia Wilson fu accolto da manifestazioni popolari deliranti, assecondate da giornali e riviste che lo dipinsero quale novello Giuseppe Mazzini. Poiché i suoi progetti erano criticati dalla Santa Sede, Wilson fu anche spacciato quale campione della massoneria universale. In realtà, non lo era affatto, a differenza del suo predecessore, Theodore Roosevelt, e di suoi successori quali William Howard Taft (celebre come “isolazionista”), Warren G. Harding, Franklin D. Roosevelt, in carica dal 4 marzo 1933 alla morte, il 12 aprile 1945, ed Harry Truman. Nell'entusiasmo, miscuglio di disinformazione, miopia e calcoli infondati, gli vennero intitolati vie, piazze, bar, ristoranti e locali cinematografici. Come tanti innamoramenti focosi per una persona invero sconosciuta, quello per il presidente degli USA presto volse in delusione cocente. Se Parigi era in serrata competizione con Roma, dalla Cecoslovacchia al Mediterraneo orientale, agli interessi dell'Italia Wilson antepose quelli della Jugoslavia e, ignaro, superficialmente informato o per la sua inclinazione al misticismo, si dichiarò fiducioso nell'evoluzione democratica della rivoluzione in Russia.
In Italia il quadro quadro politico non poteva essere più caotico. Dopo la fondazione del partito popolare italiano (19 gennaio), Mussolini costituì a Milano i fasci di combattimento (23 marzo), dal programma polivalente e labile. Il 1° maggio 1919 Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti e altri fondarono a Torino l'“Ordine Nuovo”, ferocemente antigiolittiano. Lo Statista stava elaborando il progetto più avanzato della borghesia riformatrice, incardinato su restaurazione della finanza pubblica, politica estera scevra da tentazioni imperialistiche, progressività delle imposte e rilancio dell'istruzione in tutti gli ordini e gradi, a cominciare da quella tecnica e professionale. Incombevano tre urgenze concatenate: drastica riduzione delle dimensioni delle forze armate, sia perché sproporzionate agli obiettivi politici perseguibili dall'Italia inchiodata da un debito pubblico spaventoso, il passaggio dalla produzione di guerra a quella di pace e l'adeguamento di salari e stipendi alla svalutazione del potere d'acquisto della moneta, che anche in Italia metteva in ginocchio la media e piccola borghesia. Era scontato che questo accadesse nei paesi vinti (a cominciare dall'Austria e dalla Germania, precipitate in una crisi economica, sociale e morale avvilente) ma era inconcepibile che avvenisse anche in Italia, Paese formalmente vincitore. Per di più in ottobre il Partito socialista, guidato da Giacinto Menotti Serrati, sterzò a favore della Terza Internazionale bolscevica per “fare come in Russia”
Dinnanzi al rifiuto degli Alleati di riconoscere all'Italia Fiume in aggiunta ai compensi previsti dall'accordo di Londra, come detto il 24 aprile la delegazione italiana lasciò Parigi. Il gesto, che voleva scuotere gli alleati, cadde nella loro indifferenza generale. Seguirono giorni di frustrazione e di polemiche roventi. Il gran maestro del Grande Oriente, Ernesto Nathan, che nel 1915 aveva rappresentato l'Italia all'inaugurazione del Canale di Panama e all'Esposizione universale di San Francisco, il 25 aprile lanciò un appello agli italiani contro Wilson. Però a Parigi i lavori proseguirono come nulla fosse. Anzi, venne approvato lo statuto della Lega delle Nazioni (da non confondere con la massonica Società delle Nazioni), con sede a Ginevra (anche perché il Congresso avrebbe di lì a poco ribadito la neutralità della Svizzera) e una serie di clausole lontane dalle aspirazioni dell'Italia. L'art. 21 della Lega fu però il più emblematico: il dominio planetario degli USA. Mentre spazzava via la diplomazia segreta, che per secoli era stato il metodo ordinario delle relazioni interstatuali nella Vecchia Europa (anche in forma di accordi tra i suoi singoli Stati e il nemico principale della cristianità: la Sublime Porta di Istanbul, vezzeggiata per calcoli inconfessabili), lo statuto della Lega adottò la “Dottrina Monroe” del 1823, sintetizzata nella formula sbrigativa ma chiara “l'America agli Americani”, senza reciprocità per gli europei.
L'amara via francigena 
Dopo dieci giorni di aventinismo diplomatico al governo di Roma dovette bere l'amaro calice: riprendere la via francigena. Il 2 maggio Sonnino riassunse lo stato della crisi: non rimaneva che “invocare per ora il puro e semplice trattato di Londra, come sta, e senza modificazioni (cioè rinunziando per ora a Fiume). All'infuori di ciò non resta che rassegnarsi alle imposizioni di Wilson, attenuate in parte, se possibile, dalle proposte degli alleati”. Dopo una “riunione tempestosa” con Orlando, presente Armando Diaz, già Comandante Supremo, la delegazione italiana radunata a Roma prese atto dell'oggettiva ostilità degli alleati dinnanzi alle loro richieste: non avrebbe ottenuto la sovranità su Zara, Sebenico e le tre terre agognate. Le avrebbe ricevute “pro tempore” come “mandato” da parte della Lega che a sua volta avrebbe assunto la sovranità su Fiume. Tornata a Parigi il 5 e ai lavori congressuali dal 7 maggio 1919, la delegazione passò da una delusione all'altra: una situazione insostenibile non solo a Parigi ma anche in Parlamento. Il nodo della vertenza tornò a essere il vincolo non aggirabile di indire il plebiscito nelle terre mistilingue, che vi avrebbe messo “in istato di maggiore inferiorità la nazionalità italiana”. 
Il 19 giugno la Camera respinse a larghissima maggioranza (appena 78 “si” contro 262 “no”) la proposta di Orlando di adunarsi in comitato segreto per discutere le comunicazioni del governo sulla politica estera. Il “presidente della Vittoria” non aveva ancora capito che era finita per sempre l'epoca delle trattative segrete e dei segreti sulle trattative. Lo aveva spiegato due anni prima Giolitti nel famoso discorso del 13 agosto 1917 da presidente del Consiglio provinciale di Cuneo, con sei mesi di anticipo sui 14 punti di Wilson: “Sarebbe pericolosa illusione credere che si possa riprendere con poche varianti l'andamento della politica estera a base di trattati segreti”.
Sonnino: firmò la pace, ma ormai decaduto dalla carica 
Il 23 giugno a Roma si insediò il nuovo governo presieduto da Francesco Saverio Nitti con agli Esteri il giolittiano Tommaso Tittoni. Il 28 giugno fu solennemente firmato il trattato di pace contro la Germania. Per l'Italia esso venne sottoscritto da Sonnino, rimasto appositamente a Parigi, ma ormai privo della carica di ministro. Non fu una gran figura, né per lui né per il suo Paese. Quelle peripezie vanno ricordate non solo per vezzo antiquario ma per porre con fermezza la domanda che da un anno incalza senza risposta: qual è la politica estera dell'Italia attuale? Essa va discussa nell'unica sede istituzionale appropriata: il Parlamento. Il 17-21 maggio 1915 esso venne plagiato dal governo. Ma all'epoca il governo era “del re”, in un sistema istituzionale scaleno, sbilanciato a favore del monarca e del “suo” esecutivo. Quel regno però era uno Stato pienamente sovrano. 
Perduta politicamente la Grande guerra e sotto tutti i profili la seconda, oggi lo Stato d'Italia è vincolato a trattati che non consentono ambiguità né “giri di walzer”. Per quanto riguarda la politica estera l'esecutivo oggi in carica rimanda alle parole dell'Evangelista: “E gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce” (Giovanni, 3, 19). In Libia come sugli altri fronti internazionali “caldi” il governo balbetta, come fosse fuori dal mondo. Non può contare all'infinito sul pronto soccorso assiduamente prestato dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per rimediare ai grossolani svarioni di ministri, capi politici, portavoce... Senza una politica estera (e conseguentemente militare) chiara e condivisa, discussa e approvata in Parlamento, non il solo governo ma lo Stato stesso perde quella “sovranità” di cui tanti parlano senza sapere che cosa si dicano perché, appunto, ne hanno una visione inguaribilmente localistica, “rurale”. 
Aldo A. Mola
 
DONATO ETNA (1858 -1938)
IL “VECIO ALPIN”  CHE VESTÌ IN GRIGIOVERDE L'ESERCITO ITALIANO
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 28 aprile 2019, pagg. 1 e 11.

Dal blu al grigioverde: sempre “Avanti Savoia” e viva l'Italia.                         
IL �VECIO ALPIN� CHE VEST� IN GRIGIOVERDE L'ESERCITO ITALIANOCon la  visita all'Altare della Patria e a Vittorio Veneto, il Milite Ignoto e la città sacra alla Vittoria del IV novembre 1918, ancora una volta il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha indicato, col linguaggio dei simboli e dei luoghi memoriali, la parabola della vera storia d'Italia nel giorno convenzionale della liberazione dalla guerra e dell'inizio della Ricostruzione. Questa voleva, doveva e dovrebbe essere l'unità Stato-Nazione e della fratellanza tra i popoli nella giustizia internazionale: “pax in iure gentium”, la divisa della “Corda Fratres”. A un mese dall’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo il mònito del Presidente giunge puntuale. Ricorda l'abissale differenza tra l'Europa attuale, da quasi 75 anni in pace (sia pure “armata”) dall'Atlantico a Vladivostok, e quella del 1919-1920, gli anni delle paci sbagliate, o quella del 1945-1946, che videro l'inizio della guerra fredda, greve e opprimente negli Stati sotto giogo dell'URSS, ma sempre meglio che sotto le bombe atomiche. 
Nei cento anni dalla Grande Guerra a oggi lo “strumento militare” è profondamente mutato in ogni suo aspetto, come ricordano la “Storia dell'esercito italiano” del generale Oreste Bovio e il succoso “Esercito italiano. Storia e Tradizioni” editi dall'Ufficio Storico dello SME (Roma, via Etruria 23). Per secoli gli eserciti sono andati in battaglia con abiti e vessilli sgargianti. I colori facevano la differenza. Distinguevano dai nemici e mostravano la superiorità dei corpi organizzati rispetto alle truppe raccogliticce. Sull'esempio delle legioni romane (con labari e aquile), Napoleone I coniugò arte militare e genio politico e dedicò massima cura alle divise perché, contrariamente a quanto solitamente si dice, esse fanno il guerriero, proprio come la tonaca fa il monaco nelle parti consacrate (la testa e le mani). Gli ussari dell'Impero napoleonico rimangono i cavalieri più eleganti della storia di Francia. Sicuramente costosi, furono anche i più valorosi. Un'élite nell'ambito dell'immensa Armata giunta a contare 600.000 uomini su 30 milioni di abitanti. Per stare alla pari, l'Italia odierna dovrebbe avere in linea un esercito di circa 1.200.000 effettivi. Invece la sua politica estera (che è anche militare) tragicamente annaspa. Né vale obiettare che oggi ogni soldato è un concentrato di tecnologia bellica d'avanguardia. Lo erano anche i militari di allora, bardati e armati di tutto punto, nei confronti della forza dei “civili”. Il perfezionamento delle armi da fuoco mutò lo scenario dei campi di battaglia. Un tiratore scelto di primo Ottocento non sempre centrava un albero a cinquanta metri. Le bombarde facevano più rumore che danni. Poi la canna rigata, i cannoni a retrocarica e a tiro rapido e, infine, la mitragliatrice cambiarono tutto. All'avanguardia fu la guerra di secessione degli USA: il primo grande massacro con “ferri nuovi”. Per la maggior parte degli eserciti europei la svolta venne con la conflagrazione del luglio-agosto 1914. Andare all'assalto o anche solo appostarsi ai margini di un bosco o sul ciglio di una trincea indossando pantaloni rossi, bianchi o giallini e giubbe azzurre o scarlatte significava far da bersaglio al fuoco nemico. Bisognò cambiare, e in fretta. Molto prima che s’imponesse la severa lezione della grande guerra, a voltar pagina in Italia ci aveva pensato un ufficiale degli alpini, Donato Etna. D'intesa con il presidente della sezione milanese del Club Alpino Italiano, Luigi Brioschi, egli propose di passare almeno per gli alpini dal “blu”, comune a tutta la fanteria, al grigio, il colore delle rocce. In molti ambienti la proposta non fu affatto gradita. Non era facile separarsi dai colori consegnati alla memoria dai celebri quadri di Fattori, Induno, Segantini e narrati dalla sterminata memorialistica e narrativa delle guerre risorgimentali.
I primi a vestire il nuovo colore furono 40 alpini della brigata Morbegno, comandata da Etna. Il “Plotone Grigio” nell'ottobre 1906 montò la guardia al Palazzo Reale di Milano in occasione di una visita di Vittorio Emanuele III. Pensoso e riflessivo, il Re lo passò in rivista. Poco più di un anno dopo, il 4 dicembre 1908, con la disposizione 458 fu ordinata l'adozione del grigioverde per l'intero Regio Esercito Italiano. Presidente del Consiglio era Giovanni Giolitti (Mondovì, 1842-Cavour, 1928), che fondeva senso dello Stato e buon senso antico e col Re parlava in piemontese. Ministro della Guerra, per la prima volta dall'unità nazionale, era un borghese: Severino Casana, ingegnere torinese, poi sostituito dall'alessandrino Paolo Spingardi, già comandante generale dei carabinieri. 
Il “cambio” non riguardò solo l'abito. Dieci anni dopo la repressione delle “insurrezioni” a Milano, Pavia e in Toscana, seguite di sei anni ai “fasci siciliani”, e dopo il suo ricorrente impiego nel ripristino dell'ordine pubblico messo in forse da scioperi politici sovversivi, l'esercito doveva non solo essere ma sentirsi tutt'uno con il Paese, come lo avevano vaticinato Francesco De Sanctis, Edmondo De Amicis, Giosue Carducci e capi di stato maggiore che arrivavano dalle file del volontariato garibaldino, come Enrico Cosenz, già allievo della “Nunziatella” di Napoli. Avanzava una generazione di ufficiali di volitivi, studiosi, attenti a quanto avveniva non solo oltralpe ma anche in terre lontane: dalla feroce guerra anglo-boera in Sud-Africa (Churchill vi fece la sua “prova del fuoco”) a quella russo-giapponese del 1904-1905. Il ruolo delle forze armate come espressione della Nazione era nelle prime pagine dei quotidiani all'epoca più diffusi. 
Donato Etna di sangue reale          
Donato Etna ebbe più influenza di quanto generalmente si sappia. Nel 1906, a quarantotto anni, venne promosso colonnello. Aveva alle spalle un lungo servizio. Volontario con ferma permanente dal 1877, quando aveva 19 anni, sottotenente degli Alpini dal 1880, temporaneamente assegnato al corpo di stato maggiore, nel 1898, dopo la sconfitta subita dagli italiani ad Adua (1 marzo 1896) era andato alpino in Eritrea, la terra ove erano caduti i piemontesi Pietro Toselli, di Peveragno, Giuseppe Galliano, di Vicoforte, Giuseppe Arimondi, di Savigliano... Come lui, partì una legione di militari italiani (lo fece anche il giovane Pietro Badoglio) sulla traccia del cardinal Massaia. Visionari? Colonialisti? Imperialisti? Altrettanto facevano da molto più tempo i loro coetanei inglesi, francesi, olandesi e da poco anche belgi e tedeschi nei rispettivi possedimenti. Altri Stati europei non avevano colonie ma dominavano con altri mezzi non meno convincenti degli “scarponi sulla terra”: la finanza e la bilancia commerciale. Gli Stati Uniti erano il modello. Difficile stabilire se il commercio seguiva la bandiera o viceversa.  
Al di là del grado nell'Esercito, Donato Etna aveva una carta in più per risultare convincente. Alla nascita, in Mondovì, il 15 giugno 1858, fu registrato figlio di genitori ignoti. Nel suo caso, però, mentre della “madre” si vociferò fosse una “maestra di Frabosa” (non si sa se Soprana o Sottana) il “pater” fu subito certo, come riferisce un appunto nell’archivio storico dello Stato Maggiore. Era Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, che se ne occupò con discrezione e affetto. Il nome e il cognome furono un riconoscimento e un programma. Donato nacque poche settimane prima degli accordi di Plombières tra  Napoleone III e Camillo Cavour, premessa sostanziale e poi formale dell'alleanza tra impero francese e regno di Sardegna contro l'Austria per l'ingrandimento sabaudo nell'Italia settentrionale. Sin dal 1713 la Sicilia aveva recato la corona regale a Vittorio Amedeo II, come narra Tommaso Romano, componente della Consulta dei senatori del regno: una decisione ribadita nel 1848. A Torino il possesso del Vulcano dell'Isola del Sole più che una speranza era e rimaneva un programma. 
La famiglia “allargata” di Vittorio Emanuele II
Re Vittorio aveva una vita privata più lineare, persino monocorde, di quella solitamente narrata. La Consorte, Adelaide, era morta nel 1855 nel travagliato ottavo parto in soli 11 anni dalle nozze. Dei figli maschi le sopravvissero Umberto, principe di Piemonte, duca di Savoia e poi Re di Sardegna e d'Italia; Amedeo, duca di Aosta e poi Re di Spagna; e Oddone, duca di Monferrato (1846-1866). Duca di Savoia, dal 1847 Vittorio Emanuele aveva instaurato un rapporto uxorio con la quattordicenne Rosa Vercellana. A suo modo le rimase fedele “usque ad mortem” al di là degli “incontri casuali”, all'epoca consueti non solo per sovrani ma per militari di terra e di mare, commercianti, esploratori e anche per politici, sia stanziali (Cavour ne è un esempio) sia erratici (come Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi e Francesco Crispi...).
Dalla “Bella Rosina” (dall'11 aprile 1859 contessa di Mirafiori e di Fontanafredda) Re Vittorio ebbe Vittoria ed Emanuele Alberto Guerrieri (che lo seguì nella campagna del 1866 contro l'Austria). In pericolo di vita, il 7 novembre 1869 il Re sposò Rosa con rito religioso e il 7 novembre 1877 con rito civile: matrimonio morganatico, cioè senza senza effetti dinastici, benché la sposa avesse titolo di “Altezza”. Esclusa dal Pantheon (“tomba” provvisoria del Re, come poi di suo figlio, Umberto assassinato a Monza a soli 56 anni) Rosa venne poi deposta nel “piccolo Pantheon” appositamente fatto edificare dai suoi eredi a Mirafiori (16 metri di diametro). Molti trovarono curiosa l'insegna scritta sul suo frontone, “Dio, Patria, Famiglia”, sia poiché essa era cara a Mazzini, sia perché Re Vittorio, come Cavour, era stato scomunicato per la “debellatio” dello Stato Pontificio e la sua famiglia era un po' “allargata”. La figlia, Vittoria, sposò il primo aiutante di campo del Re. Alberto impalmò la figlia del dovizioso conte di Larderel e si affermò come enologo di fama europea, come già il marchese Tancredi Falletti di Barolo. Sulla sua traccia proseguì Gastone Guerrieri di Mirafiori, deputato nazionalista e senatore. 
Il “vecio” Etna a Carzano,  dopo Caporetto...
Già decorato durante l'“impresa di Libia”, asceso a generale Donato Etna si condusse con valore nel corso della Grande Guerra. Legò il nome a due sue battaglie, una azzardata (rimasta nell'oblio), l'altra (la ritirata dall'Isonzo al Piave), ove nel disastro generale rifulse il suo valore. La prima fu il “sogno di Carzano”, più volte narrato come possibile “sfondamento in Trentino” un mese prima di Caporetto, “occasione perduta” secondo il “memoriale” di Cesare Pettorelli Lalatta. In sintesi, per quanti già non conoscano la vicenda, dall'agosto 1917 un militare sloveno prese contato con Pettorelli per informare sui piani austro-ungarici e caldeggiare un'offensiva italiana in quello che era ritenuto settore debole della difesa austro-ungarica. Dopo ulteriori contatti e tergiversazioni, il piano venne proposto al Comandante Supremo, Luigi Cadorna, che ci rifletté e infine autorizzò l'azzardo. La filiera fece capo proprio al generale Etna, comandante della XVIII Divisione, che però ebbe al seguito ufficiali nominati da poco nei rispettivi ruoli. Mancò un vero progetto. A ben vedere su quel tratto non si sfondava proprio nulla per due motivi chiarissimi a Cadorna: in primo luogo lì l'Austria poteva essere ferita ma non penetrata e vinta. In secondo luogo ormai si era esaurita l'offensiva generale d'agosto sulla Bainsizza. Lo sforzo era stato enorme. Come l'anno prima, anche nel 1917 l'Italia era stato l'unico Paese ad avanzare in territorio nemico. L'Austria-Ungheria fu sull’orlo del collasso. A salvare gli Imperi Centrali fu il crollo della Russia, in preda alla rivoluzione bolscevica innescata da Lenin trasferito dai tedeschi in vagone piombato dalla Svizzera, con le trame del “Grande Parvus”.
Cadorna, stratega autentico come ha documentato suo nipote Carlo in “Caporetto. Risponde Cadorna” (ed. BCSMedia), aveva una visione europea della guerra. La “missione Carzano” finì come prevedibile. Il primo a non crederci fu proprio Etna, che appesantì le truppe con i “fardelli” per attestarsi quale eventuale “testa di ponte” in attesa di rinforzi che però il Comando Supremo non poteva inviare perché li avrebbe distolti dal fronte principale. A conclusione la VI Armata venne sciolta e fusa con la I. Il “Capo” aveva ragione. Proprio sull'alto Isonzo alle 2 del mattino del 24 ottobre 1917 si scatenò l'inferno che costrinse all'arretramento del fronte come narrò Luigi Cadorna in “La guerra alla fronte italiana” (BastogiLibri, 2019). Tra i migliori comandanti nella lunga sanguinosa e spesso eroica battaglia di arresto del nemico vi fu proprio Donato Etna, molto apprezzato dal nipote, Vittorio Emanuele III, che stimava quello “zio”, gli era sinceramente affezionato e gli conferì decorazioni e riconoscimenti. Del resto proprio Etna era stato tra i migliori nell'organizzazione delle difese del Monte Grappa, fulcro della difesa italiana contro l'avanzata nemica e della riscossa del 1918.  
Il 14 ottobre il sessantenne generale Etna guidò l'avanguardia dell'Esercito italiano nella battaglia finale di Vittorio Veneto e meritò la medaglia d'argento. Poi al comando del corpo di armata di Torino, nel 1919 fu esonerato perché intimò perentoriamente il rilascio degli ufficiali che si erano dichiarati favorevoli all'impresa di d'Annunzio a Fiume. Candidato alla Camera senza successo per la Lista della Vittoria nelle elezioni del novembre di quell’anno, il “Vecio Etna” guadagnò ampio seguito tra gli alpini e quanti temevano la rivoluzione rossa, che non era una fiaba ma una minaccia vera, come si vide con l'attacco della Russia di Lenin e Stalin alla Polonia in coincidenza con l'occupazione delle fabbriche nel triangolo industriale Torino-Milano-Genova. Prefetto ad Alessandria (febbraio-luglio 1923), piazza strategica sull'asse Torino-Genova all'avvento del governo Mussolini (31 ottobre 1922), e commissario al Comune di Torino nel 1925, nel 1933 Etna fu creato senatore del Regno.  Così raggiunse alla Camera Alta i Principi del sangue e tanti generali, ammiragli, politici e imprenditori che avevano avuto ruolo protagonistico dall'intervento alla Vittoria.
...e per fermare lo spopolamento delle aree montane
Al centro della sua attenzione rimasero le ripercussioni negative dello spopolamento delle montagne sull’efficienza delle truppe alpine e sulla difesa della frontiera montana. Nel 1930 ne parlò al I congresso piemontese di “economia montana”: un assillo che non è né di destra né di sinistra. Era ed è un problema vero e serio. Lo divenne ancor più dopo la guerra del 1940-1945 quando le valli furono teatro di tanti conflitti: quello italo-francese del 1940-1943, il franco-italiano del 1944-1945, il germano-francese del 1943-1945 e, non ultimo, quello fratricida tra italiani dal 1943 al 1945. Un groviglio che richiede pazienza e pacatezza per essere districato in tutte le sue implicazioni e conseguenze. Gli “americani”, pochi ma in posizione chiave, stavano a guardare. 
Scrivere di storia è facile trincerati fra libri. Altra cosa è farla. Costa lacrime e sangue. Perciò chi scrive deve sentire rispetto per le Persone di cui scrive. A distanza di tanto tempo si possono indicare tra gli eredi morali di Donato Etna uomini che si batterono per la liberazione del Piemonte da invasori di ogni genere e per la restaurazione dello Stato. In Piemonte la “nazione” esisteva da secoli, proprio grazie a Casa Savoia che aveva inoculato il senso di appartenenza e di condivisione. Le sue antiche insegne vennero rialzate dall'eroico generale Mario Perotti, fucilato al Martinetto di Torino, da Enrico Martini “Mauri”, Icilio della Rocca, Edgardo Sogno, Alessandro Trabucchi e da Aldone Quaranta, comandante militare della I Divisione “Giustizia e Libertà”, massone, figlio e nipote di illustri “Fratelli”. Fu lui a scrivere l'ordine di scioglimento della IV Armata dettato dal generale Mario Vercellino, grazie al quale i subordinati non poterono essere accusati di diserzione. 
A differenza dei conti di Mirafiori, Donato Etna, non prese moglie. Sposò l'esercito. Dopo la caduta della monarchia, non ebbe neppure “eredi morali”.  La sua Italia, grande e generosa, andava dimenticata. Motivo in più per ricordarlo ottant'anni dopo la morte. Fu il “vecio” che vestì gli alpini di verde, poi mutato nel grigioverde. Col suo vulcanico cognome insegnò la continuità montana dell'Italia, dalle valli dell'Italia settentrionale alla dorsale appenninica, dagli Abruzzi e Molise, bacino storico di truppe alpine, ai monti siciliani. Donato Etna, figlio di Vittorio Emanuele II e della “maestrina di Frabosa”, insegna che l'unità orografica della “Saturnia Tellus” è tutt'uno con quella morale della “itala gente da le molte vite”.
Aldo A. Mola

“25 APRILE 1945” 
CONTI, RACCONTI E STORIA DELLA LIBERAZIONE DALLA GUERRA
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 21 aprile 2019, pagg. 1 e 11.

�25 APRILE 1945� CONTI, RACCONTI E STORIA DELLA LIBERAZIONE DALLA GUERRA di Aldo A. MolaUna guerra mondiale fa
Dalle ore 14 del 2 maggio 1945 scattò la resa dei tedeschi in Italia agli anglo-americani, presente il generale Aleksei Kislenko per conto di Stalin. Il “rito” era stato celebrato il 29 aprile nella Reggia di Caserta. Fu un “patto” tra militari, tutti consci del  loro duro “mestiere”. I germanici s’impegnarono a deporre le armi nei “campi” indicati dai vincitori, ove vennero trattenuti per anni. A trattare sottobanco per conto loro era da mesi il comandante delle SS in Italia, Karl Wolff. Le guerre sono così. Gli Stati le dichiarano. Tocca ai militari farle. Chi prevale detta le condizioni. I “nemici” si scambiano i prigionieri. Poi si ricostruisce. Nella generalità dei casi i “guerrieri” si conoscono, di persona, per intermediari o per studi. Portano sulle spalle il corso della Storia. Quanti, ignari, ne vengono travolti soffrono e ricordano la loro personale esperienza, circoscritta nel tempo e nei luoghi. È quanto accade dal 1945. Da quel tempo le guerre non si dichiarano nemmeno. Si fanno. Senza preavviso per nessuno. Perciò quando se ne scrive o parla è difficile passare dalla “memoria” individuale alla visione generale degli eventi e, ancor più, dalla storia alla metastoria, dalla somma dei fatti alla percezione del loro significato ultimo, recondito, impenetrabile. Lo accennò Socrate quando venne condannato a bere la mortale pozione di cicuta. I “provvidenzialisti” (alla Alessandro Manzoni) “giustificano” le sofferenze (altrui). Gli storici se ne astengono. Non hanno neppure la debolezza di credere alla hegeliana (poi marxiana) “filosofia della storia”. Si riconoscono in Giacomo Leopardi che dette voce al canto notturno di un pastore errante sui monti dell'Asia e contemplò lo “sterminator Vesevo”, le catastrofi naturali, al cui confronto la capacità distruttiva degli umanoidi è piccola cosa, con buona pace degli “ambientalisti”, con o senza treccine, dimentichi che per millenni i loro simili si sono uccisi con selci levigate e coltelli, utili anche a decortirare corpi vivi, se ben maneggiati. 
Quel 2 maggio 1945 in Italia la guerra finì. Da pochi giorni gli anglo-americani avevano fatto irruzione in Emilia-Romagna per superare il Po, spingersi verso il confine orientale e fermare le straripanti ambizioni degli jugoslavi, ancora a mezza via tra Stalin e il troppo celebrato Churchill. Per loro la guerra in Italia era finita da giorni. Il “resto”, cioè le divisioni tedesche ancora attestate in Italia, soprattutto a ovest, sarebbe caduto “per manovra”. Erano in una tenaglia: gli americani (pochissimi) al di là delle Alpi, la Germania ormai nel caos. Secondo la cronologia, che è l'“attaccapanni” della Storia, Berlino cadde e Hitler si uccise  quando la 34^ divisione germanica era ancora attestata sul versante orientale delle Alpi Marittime. Si ritirò in assetto di combattimento. Non si arrese ai “partigiani” ma agli anglo-americani e represse attacchi inconsulti secondo le leggi di guerra.
Il trauma dell'Italia settentrionale
Nel frattempo il Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia (CLNAI) diramò la direttiva “Aldo dice 26 x 1”, cioè l'insurrezione generale delle forze partigiane organizzate nel Corpo Volontari della Libertà (CVL), ribadito dai CLN regionali. In alcune città importanti i partigiani precorsero l'avanzata degli anglo-americani. Fu il caso di Genova, ove ottennero la resa dei tedeschi. I germanici in ritirata lasciarono con le spalle al muro la Repubblica sociale italiana, sorta sotto la loro tutela nel settembre 1943 con a capo Benito Mussolini, tornato al suo originario socialismo repubblicano. Il passaggio dalla guerra al dopoguerra nell'Italia settentrionale fu traumatico e in molte regioni centro-meridionali tuttora non è compreso. È ingenuo pensare di rimuoverlo affermando che parlare di fascismo e comunismo è anacronistico. Ogni persona davvero adulta fa i conti quotidianamente con la propria vita. Del pari, un popolo che non la l' “esame di coscienza” è condannato a rimbambire. Perciò almeno una volta l'anno è necessario riflettere sulla “via crucis” di fine aprile-inizio maggio 1945 e con l'arrivo degli Alleati, che insediarono la loro amministrazione militare a controllo dei Comitati di liberazione (tema scabroso, poco studiato, di solito obliato).
La macabra “conta” dei caduti
Fra le molte stranezze di questo anniversario della fine della guerra in Italia irrompe la “conta” di quanti italiani combatterono effettivamente contro l'occupazione germanica e il governo della RSI. Il primo a parlarne senza bisogno di archivi e cattedratici fu Ferruccio Parri, comandante delle formazioni Giustizia e Libertà, al Teatro Eliseo di Roma il 13 maggio 1945. La mera esposizione di numeri è però irrilevante se non si accompagna alla loro almeno sommaria contestualizzazione. Perciò giova una sintesi degli eventi, forzatamente rapida.
Nel 1942 gli iscritti al Partito nazionale fascista raggiunsero l'apice. In Italia era diffusa la convinzione che l'Asse Berlino-Roma-Tokyo avrebbe piegato l'Unione sovietica e vinto la guerra. Si dimenticava che l'Urss e il Giappone non si erano affatto dichiarati guerra. Ognuno faceva la propria. Come già nel 1915-1918, il governo Mussolini non ebbe affatto chiaro quale fosse la sua o ne coltivò una visione minimalistica. Malgrado le ristrettezze imposte e la perdita dell'intera Africa Orientale, la partita contro la Gran Bretagna sembrava ancora aperta nell'Africa settentrionale, grazie a Rommel, il “camerata Richard, benvenuto”. Germania e Italia avevano anche occupato la Francia meridionale, in tanta parte “collaborazionista”. Pochi mesi dopo, la svolta: la riscossa della “guerra nazionale” russa, lo sbarco anglo-americano in Mauritania in Marocco e Algeria, la rovinosa ritirata dall'ARMIR dal fronte russo, il primo sciopero nelle grandi fabbriche dell'Italia settentrionale, l'annientamento delle residue forze italiane oltre mare, la richiesta del Gran Consiglio del Fascismo al Re di riprendere tutti i poteri statutari, la sostituzione di Mussolini con il Maresciallo Pietro Badoglio, le rumorose manifestazioni di piazza contro il fascismo, ormai in liquidazione e infine la fatua illusione che il Paese fosse ormai uscito dal conflitto. Al governo Badoglio toccò la partita più difficile: ottenere che l'Italia potesse arrendersi “senza condizioni”, cioè in termini così umilianti da essere coperti dal segreto. Mentre Badoglio trattava, i tedeschi la occuparono in forze, per sfruttarne risorse e uomini e tener lontana la guerra dai loro confini. L'armistizio del 3-29 settembre 1943 stabilizzò la linea di combattimento poco a nord di Napoli, anche perché gli anglo-americani già programmavano lo sbarco in Normandia, chiesto perentoriamente dall'URSS, e non volevano rimetterci altro. Lo raccontano “La Pelle” di Curzio Malaparte e le “Am-lire”. 
Dopo l'annuncio dell'armistizio, il trasferimento del re e del governo in Puglia e la costituzione dello Stato repubblicano d'Italia (poi Repubblica sociale italiana) sotto ruvido controllo germanico, quanti (pochissimi) si erano schierati pubblicamente contro il regime si trovarono in pericolo di vita e dovettero darsi alla clandestinità. Rafforzati da militari fedeli al giuramento al re e da sbandati delle disciolte armate impossibilitati a rientrare nell'Italia centro-meridionale, i politici dettero vita a bande che, secondo la valutazione  più ottimistica nel tardo autunno del 1943 ascesero a circa 8-9.000 uomini. L'inverno non ne aumentò la forza, anche perché la repressione politica della RSI risultò subito efficiente. Anche al Sud e persino in Roma tedeschi e repubblicani sapevano come e dove cercare il “nemico interno”. Fu il caso del monarchico Giuseppe Cordero di Montezemolo, capo del fronte militare clandestino, e del massone Placido Martini (ne scrive Francesco Guida nel saggio sui massoni assassinati alle Ardeatine). Molti suoi futuri protagonisti entrarono nella guerra partigiana solo dopo lo sbarco americano ad Anzio, nella certezza che sarebbe stato risolutivo. In “Un romano fra i ribelli” Aldo Sacchetti, resistente dal settembre 1943, ricorda che Nuto Revelli aderì a “Giustizia e Libertà” solo a metà  febbraio del 1944, dopo lo sbarco  anglo-americano tra Nettuno e Anzio, che lascio erroneamente presagire chissà quale avanzata. 
Le vicissitudini delle “Bande” 
I “rastrellamenti” della primavera 1944 misero a dura prova le “bande”. I tedeschi non incalzarono perché impegnati sul fronte sud. Il 4-5 giugno Clark tentò di “rubare la scena” ad Eisenhower anticipando di un paio di giorni l'ingresso in Roma rispetto allo sbarco in Normandia. Ne scrive Gabriele Ranzato in “La liberazione di Roma. Alleati e Resistenza” (ed. Laterza). A inizio estate le valli si riempirono di giovani senz’armi né preparazione bellica. Dilagava la certezza della liberazione imminente, grazie a un secondo sbarco sulla costa settentrionale italiana. Ma questo avvenne a metà agosto e in Normandia. Nei mesi seguenti l'avanzata degli Alleati ristagnò. Si fermò sul crinale appenninico. Il maresciallo britannico Harold Alexander invitò i partigiani alla “stasi invernale”. La “bande” (che avevano assunto nome di brigate e di divisioni senza aumentare di molto gli effettivi) in gran parte si dissolsero. Il rientro degli “ometti” nella vita ordinaria fu favorito dalla “amnistia” promulgata da Mussolini il 28 ottobre 1944.
 Dall'aprile di quell’anno Vittorio Emanuele III era stato costretto ad annunciare che avrebbe trasferito tutti i poteri della Corona, nessuno escluso, al quarantenne Umberto di Piemonte, la cui consorte Maria José dal settembre 1943 era riparata in Svizzera con tre figlie e Vittorio Emanuele principe di Napoli: “riserva aurea” della continuità della monarchia, ovvero dello Stato che aveva ottenuto di arrendersi sul fianco meno doloroso per il futuro degli italiani. 
Raffaele Cadorna al comando del Corpo Volontari della Libertà
Al termine di complesse alchimie il governo stipulò l'intesa con il Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia (comprendente i rappresentanti di liberali, democristiani, socialisti, comunisti e partito d'azione). Le formazioni partigiane avrebbero ricevuto ingenti soccorsi finanziari e aumento di aviolanci di armi ma sarebbero state agli ordini di un Comando, comprendente, sì, i rappresentanti dei partiti, ma affidato al generale Raffaele Cadorna (Pallanza, 1889-1973).
In questo anniversario del 25 aprile 1945 merita ricordare che suo nonno, Raffaele, aveva comandato l'Esercito italiano che irruppe in Roma il 20 settembre 1870. Suo padre, Luigi, era stato Comandante Supremo nella Grande Guerra (ne ha scritto Carlo Cadorna nel recentissimo “Caporetto. Risponde Cadorna”, BCSMedia). Il suo elogio venne pronunciato da Ferruccio Parri nel citato discorso del 13 maggio: alla guida del movimento di liberazione rappresentò “quello che c'era di migliore, di salvabile e di onorevole nelle vecchie tradizioni militari italiane. Per assumere il compito di “consigliere militare” e poi di comandante del CVL, non esitò a farsi paracadutare in Val Cavallina,nel Bergamasco, ove era atteso da Fiamme Verdi, che lo scortarono a Milano.   
La “guerra fratricida”. Come Giovanni Agnelli finì alle “Nuove”
Nei mesi seguenti la lotta tra fascisti e antifascisti divenne più mirata, implacabile, atroce. Guerra fratricida. Vi si mescolarono “questioni private” (come narrò Beppe Fenoglio), geometrie variabili ideologiche e giganteschi intrecci per la tutela degli impianti industriali (a cominciare dalla produzione di energia elettrica) in vista del dopoguerra. Migliaia di militanti delle opposte fazioni si scontrarono e si eliminarono nei giorni del “furore”: formula di Giorgio Agosti, il magistrato torinese, pro tempore questore di Torino, che auspicava una “San Bartolomeo dei repubblichini”. Secondo Gianni Oliva (“La grande storia della resistenza, 1943-1948”, ed. Utet)  i “repubblichini” (talora spacciati per tali) eliminati nei giorni cruciali furono circa 25.000. Un “regolamento di conti” affiancato dalle sentenze dei tribunali partigiani che irrogarono fucilazioni con appello e riesame entro sei ore dalla sentenza.
Nel marzo 1945 in forma del tutto arbitraria il comunista Giorgio Amendola annunciò in una sala mensa della Fiat che il CLN regionale del Piemonte aveva decretato la pena di morte per Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta. Nei giorni dello “sfascio totalitario” gli Alleati avvertirono il CLN che avrebbero assunto il controllo di Torino il 5 maggio e che da quel giorno non ci dovevano essere cadaveri per le strade. Benché la sua villa in via Giacosa fosse vegliata da un drappello di “Giustizia e Libertà” il fondatore e presidente della FIAT trascorse la notte alle “Nuove” di Torino, perché, paradossalmente, il carcere era il luogo più sorvegliato a sicuro.
Oltre i racconti, la Storia, Oltre i nazionalismi l'Europa.   
Quegli eventi vanno ricordati tutti, anche perché incisero sui decenni seguenti, che in molti passaggi nuovamente furono di terrorismo politico, drappeggiato e persino “giustificato” con visioni (o meglio deliri) millenaristici, salvifici, comunque estremi. Bastarono manciate di venturieri, spesso eterodiretti, per tenere l'Italia sulla corda lungo un ventennio. Altrettanto era accaduto e durò in Spagna con l'Eta e in Irlanda con l'Ira, le cui connessioni con centrali di destabilizzazione dell'Occidente sono ampiamente documentate.
A conclusione va osservato che l'estremismo è sempre pronto ad alzare la testa. Lo si è veduto in Catalogna, col pretesto dell'indipendentismo nazional-repubblicano in nome di un mai esistito “stato” catalano”. Lo si registra altrove. Chi però osservi pacatamente il flusso della storia constata che la generalità degli abitanti dell'Italia nel 1943-1945 agognò sopravvivenza, cibo e pace, senza farsi incantare da chimere ideologiche. Era la immensa “zona grigia” la cui storia rimane da scrivere. I cittadini ne dettero conferma il 18 aprile 1948, quando Raffaele Cadorna venne eletto senatore come indipendente nelle file della Democrazia cristiana. Fu un plebiscito a favore dell'Occidente, dei principi costitutivi dell'Italia di Cavour, Azeglio, Sella, Giolitti, Einaudi.... Anche in questi giorni gli italiani stanno celebrando un grande referendum. Mentre la “politica” è rissa quotidiana, i cittadini vanno al mare, in montagna, in viaggio all'estero e/o persino nel proprio Bel Paese, così definito dall'abate Antonio Stoppani, un prete patriota. È un segno del rifiuto della “narrazione” di un'Italia rissosa, sprofondata nello psicodramma radio-televisivo. Gli abitanti del Paese Italia ne hanno viste tante. Ora dicono la loro: confidano nel Colle delle Beatitudini. Al timone la società odierna ha la “Generazione Erasmus”, la moltitudine di giovani che dagli Anni Ottanta si affacciò alla realtà internazionale quando ormai il bipolarismo stava crollando e che ora pensa in europeo, senza tentazioni provinciali né tardo-nazionalistiche.    
Aldo A. Mola

L'EDITORIALE
L'ITALIA RICONOSCE IL GENOCIDIO DEGLI ARMENI
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 14 aprile 2019, pagg. 1 e 11.

Il Massacro di ScioMeglio tardi che mai: il Genocidio degli Armeni denunciato dalla Camera
Finalmente la  Camera dei deputati della Repubblica italiana (seduta 158, lunedì 8 aprile 2019) ha approvato la mozione Formentini, De Carlo, Dalmastro, della Vedova, Quartapelle, Colucci e altri che impegna il governo a “riconoscere ufficialmente il genocidio armeno e a darne risonanza internazionale”. Voti a favore 382, contro 0, astenuti 43 (i deputati di Forza Italia), applauso finale unanime. Un evento storico? Vedremo. Con il coraggio e l'unanimità che lo contraddistingue in politica estera (e non solo), il governo Conte-Di Maio-Salvini si era rimesso al giudizio dell'Aula. Che cosa farà adesso? Nel frattempo il presidente Recep Tayyip Erdogan ha convocato l'ambasciatore d'Italia ad Ankara per esprimergli il “dispiacere” per il voto della Camera: un “altolà” nei confronti di Roma. In Turchia dire che gli Armeni furono vittima di genocidio è reato punibile con arresto e reclusione sino a tre anni. Ne è stato vittima anche il più illustre scrittore turco, Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura, che in un'intervista deplorò quello che gli Armeni bollano “grande crimine”.
Il testo della mozione approvato dalla Camera è scritto in italiano approssimativo. Non dice infatti che il genocidio degli armeni (non “armeno”) fu opera dell'“impero turco”. Eppure basterebbe un po' più di precisione linguistica e di dati storici per scongiurare polemiche o mettere in evidenza la doppiezza di chi le solleva. In attesa di vedere quanto farà il governo e, soprattutto, come agirà lo Stato, ricordiamo che l’uno e l’altro sono ben distinti: i ministeri passano, gli Stati durano, con i loro obblighi, assunti non solo per calcolo di costi/benefici, scambi di fichi e noccioline, ma sulla base di principi morali, enunciati dalla Costituzione e dai documenti condivisi dall'Italia, a cominciare dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 10 dicembre 1948, dalle Convenzioni e dai Trattati che ne discesero. 
Il lungo silenzio dell'Italia
La solenne condanna del genocidio degli Armeni pronunciata dalla Camera dei deputati è subito scivolata via come acqua sulle pietre: nonostante la sua importanza, infatti, non se ne sono occupati né la Rai (pagata dai cittadini), né i principali quotidiani. D’altro canto il voto parlamentare suona tardivo. Un lungo elenco di Stati condannò, da molto tempo, quel genocidio: Austria, Argentina, Bolivia, Cipro (per metà ancora sotto giogo turco), Francia, Germania, Grecia (secoli di dominazione ottomana), Russia, Svezia, Svizzera, Uruguay e persino il Venezuela. L'Italia arriva solo ora: “Ultimo viene il corvo...”. In attesa del pronunciamento di Parlamento e governo, molti consigli comunali, anche di città non proprio irrilevanti (Roma, Milano, Venezia, Firenze...), già condivisero la risoluzione del Parlamento europeo che aveva esortato il governo di Ankara a riconoscere il genocidio quale premessa per una nuova relazione con gli armeni. Il 23 aprile 2015 la presidente della Camera, Laura Boldrini, ricordò in Aula che quello degli Armeni fu il primo genocidio del Novecento. Lo aveva fatto poco prima papa Francesco (12 aprile 2015), ricalcando la dichiarazione del lontano 2001 di Giovanni Paolo II e del patriarca armeno, e lo ripeté nel corso del suo viaggio apostolico in Armenia nel 2016. Papa Francesco deplorò anche le molte persecuzioni in atto nel mondo contro i cristiani che “vengono pubblicamente e atrocemente uccisi – decapitati, crocifissi, bruciati vivi - oppure costretti ad abbandonare la loro terra”. Tutte “stupidaggini” secondo Erdogan.
Erdogan per un nuovo Califfato turco-centrico? 
Il voto della Camera dei Deputati offre motivo di riflessione sulle due facce di una stessa medaglia. Esso deplora lo sterminio degli Armeni attuato da militari turchi su ordine del governo del Sultano-Califfo della Sublime Porta nel 1915. Non chiama però in causa lo Stato sorto dopo la Grande Guerra né l'attuale governo di Ankara. È quest'ultimo, invece, a sentirsi correo e a respingere con fermezza la taccia infamante di genocidio attuato dall'antico impero turco-ottomano.  
La storiografia cammina sul filo del rasoio della verità dei fatti. Chi perde l'equilibrio rischia grosso. Per comprendere la doppiezza di Erdogan va ricordato che la Turchia attuale non ha alcuna continuità logico-cronologica con il Califfato durato a Istanbul dal 1527 al 1924, quando esso venne abolito da “Ataturk” (massone), fondatore della Turchia moderna, basata  sull'adozione dell'alfabeto latino e dei principi fondamentali di libertà propri dell'Occidente.  Da tempo, però, Erdogan ha fatto e fa rimuovere i ritratti di Ataturk e ne oscura la memoria. Si propone successore di Maometto II e di tutti i Sultani dell'impero turco sino ad Abd-ul-Hamid? Alla radice del suo disegno vi è la rivendicazione del Califfato turco-centrico prospettata dal coltissimo Ahmet Davutoglu, già ministro degli Esteri dal 2009 e primo ministro dal 2014 al 2016? La partita è molto più complicata di quanto venga percepita a Montecitorio e da “farfalloni amorosi” in tutt'altre faccenda affaccendati. Lo ha fatto intendere Mattarella nei “messaggi” mandati dalla Giordania e in specie da Petra: Luce dopo le Tenebre. 
Per comprenderne la complessità giova una ripassata rapida ai “fatti”.
Le radici remote della tragedia armena
Il genocidio degli Armeni da parte del governo turco dell'epoca ebbe inizio con la razzia della loro classe dirigente, consumata a Costantinopoli la notte fra il 23 e il 24 aprile 1915, allorché un migliaio di politici, scrittori e artisti furono arrestati, deportati ed eliminati. Per la Sublime Porta di Istanbul gli Armeni avevano due “vizi” di fondo. Erano di una “razza” diversa dalla loro, ed erano cristiani, una religione incompatibile con l'islam, che annienta gli infedeli e impone la “sottomissione” a quanti vengono temporaneamente risparmiati. Malgrado secoli di dominazione e di repressione, spesso feroce, gli Armeni non si erano mai piegati. Perciò andavano eliminati. Dovevano sparire dalla loro terra. La Turchia doveva essere dei turchi. Il Sultano non poteva sterminare gli europei da “Cos-poli”, ma era deciso a farlo in Anatolia. Fu genocidio. Il primo attuato con le procedure poi usate contro altre minoranze etniche (i gitani, gli ebrei e i “devianti”). I Giovani Turchi (che si erano affacciati alla storia come modernizzatori: alcuni erano anche iniziati e/o infiltrati in logge massoniche) agirono in combutta con ufficiali germanici, nel quadro della Grande Guerra in corso anche nell'antica Mesopotamia, teatro del conflitto tra gli inglesi, comandati da Townshend, e i tedeschi agli ordini del maresciallo von der Goltz. Con una differenza sostanziale. Per questi ultimi, infatti, gli Armeni rappresentavano un pericolo militare, per i turchi essi erano invece un’“infezione”. Col nemico ci si batte e si tratta. Il “virus” va invece azzerato.  
Nei secoli gli Armeni erano stati bersaglio di sanguinose rappresaglie da parte del governo turco. L'Europa stava a guardare. Era avida e vile. Voleva spartirsi l'Impero turco-ottomano, che andava dai Balcani alla Persia, dal Vicino e Medio Oriente alla “Libia”, dall'Eritrea alla Somalia, ma non sapeva come farlo. La diplomazia dell'epoca (inclusa quella italiana) riempiva scatoloni di carte geografiche e di frenetiche corrispondenze per la fatua contesa di pochi chilometri quadrati di coste, isolotti, quisquilie, ma non andava al dunque. Il “grande malato d'Oriente” faceva comodo a chi voleva comunque impedire alla Russia di affacciarsi sul Mediterraneo, uscire dagli Stretti e addirittura arrivare all'Adriatico tramite i serbi. All'epoca come oggi. Meglio il Sultano che lo Zar. 
Gli Armeni furono vittime del cinismo della Santa Alleanza (1815), alla quale (va ricordato) non aderì il Papato proprio perché non non ne condivideva metodi e scopi: il mercato dei popoli. Quale fosse la sua miseria morale emerse dall'abbandono dei cristiani alla vendetta dei turchi. Lo scrisse  Giovanni Berchet (1783-1851) nell'appassionato poemetto I profughi di Parga, pubblicato a Parigi nel 1823.  Il lungo Ottocento (segnato dalla guerra anglo-franco-turca, con ex post celebrata adesione del regno di Sardegna, contro la Russia) fu costellato da tentativi di imporre alla Sublime Porta un minimo di rispetto dei cristiani. Alcune plaghe (Romania, Bulgaria...) da secoli sottoposte al suo dominio ebbero indipendenza con sovrani catapultati dall'Europa centrale quali garanti di equilibrio tra le potenze. Spesso non conoscevano la lingua dei loro “sudditi” e allestirono residenze reali di stile avito, con materiali fatti venire dalle loro terre. Comunque erano meglio dei turchi e dei loro segugi. Al proprio interno Istanbul continuò a fare quel che meglio credeva per circoscrivere e quando necessario estirpare la “malapianta” armena. Allo scopo organizzò anche corpi speciali di curdi. Alimentare la gara famelica tra sottoposti è sempre stata arte del “padrone”.
Gli Armeni furono vittime designate, malgrado la “costituzione” garantista promulgata dal Sultano nel 1876 con il consiglio dell'armeno Midhat Pascià. Un mero paravento. Il loro “irredentismo” fu ripetutamente schiacciato, nel 1860, nel 1887-1890 e nel 1895-1896 quando ne vennero massacrati almeno 100.000. Nel 1897 lo denunciò Giosue Carducci, poeta e vate della Terza Italia, in versi attualissimi, “La mietitura del turco”: “Il Turco miete. Eran le teste armene/ che ier cadean sotto il ricurvo acciar:/ ei le offeriva boccheggianti e oscene/ a i pianti dell'Europa a imbalsamar// Il Turco miete. E al morbido tiranno/ manda il fior de l'elleniche beltà./ I monarchi di Cristo assisteranno/ bianchi eunuchi a l'arèm del Padiscià”.
Nell'ottobre del 1911, su impulso di Vittorio Emanuele III, il governo presieduto da Giovanni Giolitti dichiarò guerra all'impero turco per tutelare gli italiani di Tripolitania e Cirenaica. L' “impresa di Libia” fu e rimane l'apice della Terza Italia. Roma decise senza chiedere permesso né agli alleati (Vienna e Berlino), né alla Francia e neppure, caso unico, alla Gran Bretagna. Tre giorni dopo l'inizio delle operazioni Vittorio Emanuele III domandò al presidente del Consiglio Giolitti che cosa ne avrebbe pensato l'Inghilterra. Ormai era fatta. E così andò avanti, con la liberazione di Rodi e del Dodecanneso dal secolare e mai rimpianto giogo ottomano. Poi, con l'avvento di Salandra e di Sidney Sonnino, la politica estera divenne miope e opaca. Lo rimase a lungo. È sintomatico il silenzio della stampa italiana dell'epoca sull'ecatombe degli Armeni nel 1915-1916. Non se ne trova traccia nella “Illustrazione Italiana”, la più patinata e prestigiosa rivisita dell'epoca, una sorta di “televisione” della borghesia: che apprende solo quel che le viene detto. 
Il 13 ottobre 1921 la micro-repubblica di Armenia fu riconosciuta da Mosca quale componente della Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, spacciata da Lenin come liberazione dei popoli e finita con la repressione sia di quelli compresi negli antichi confini dell'impero zarista sia di quelli via via soggiogati sino alla oggi dimenticata “cortina di ferro” scesa da Stettino a Trieste all'indomani della seconda guerra mondiale.
Agli Armeni non rimase che la diaspora, sorte analoga a quella di altre minoranze etniche e religiose perseguitate nel corso del tempo. In Italia una loro importante comunità prese stanza nell'isoletta di San Lazzaro, a Venezia. I flutti chi si adagiano sul suo bordo sono gli stessi dell'amarissimo mare della loro indimenticabile terra. L' “isola” è un “destino” in attesa dell'Apocalisse.  
Ankara e Tursun Bey: gli Armeni paradigma della Storia
Secondo Ankara gli Armeni non sono mai stati bersaglio di persecuzione etnica e/o religiosa. Furono semplicemente “trasferiti” quando costituivano una minaccia per la sicurezza nel corso della guerra. Molti morirono di fame e di sete solo perché non si erano organizzati per la “marcia” attraverso il deserto.  Colpa loro. L'imponente documentazione della sorte agghiacciante alla quale andarono incontro venne cancellata. Le fotografie delle impiccagioni, delle fucilazioni, degli altri orrori furono quasi tutte distrutte. Ankara si spinse a vantare di aver salvato gli Armeni dall'odio dei bizantini novecento anni prima. 
La magnanimità degli islamici nei confronti degli infedeli è bene espresso da Tursun Bey in “La conquista di Costantinopoli”  nel 1453 (Mondadori).  Sterminati i difensori, i vincitori capitanati da Maometto II “spinsero nella strada e nei mercati giovinetti greci e franchi, russi e ungheresi, cinesi e tartari: rubacuori, schiavi belli come la luna e fanciulle dall'ombelico di cristallo”. Tra i militari prigionieri i più vennero “passati al filo della spada della legge”. Altri vennero lasciati vivi “per essere sfruttati nel lavoro”. In onore del dio clemente e misericordioso dell'islam. Lo stesso che nel 1822 dettò la sorte degli abitanti di Chio (isola greca) ove vennero uccisi i bambini inferiori ai tre anni e superiori ai dodici, tutti gli uomini e le donne con più di 40 anni. Il resto era “utile”.  
Sta ora al governo, a questo governo Conte, tradurre in atti dello Stato la mozione votata dal Parlamento che riconosce e proclama il genocidio degli Armeni da parte dei turchi: quelli del 1915, non gli attuali, a loro volta vittime del regime di Erdogan, indurito dopo il farsesco “colpo di Stato” di una notte di agosto di molti anni addietro. Ma non fa molto sperare la miriade di leggi che rimangono da attesa di norme attuative.
In Italia gli Armeni sono poche migliaia. Motivo in più per dichiararsi solidali con loro come con tutte le minoranze discriminate, per tutelarne identità e memoria: sono paradigma della “cristianità” cara a Cesare Balbo, della Storia universale, di “popoli dimenticati”. Uno specchio dell'Italia di ieri e della sorte che incombe su chi dimentica il passato.
Aldo A. Mola

IL “CASO CADORNA”
PARADIGMA DEL “DIFFEREND” IN ITALIA TRA “POLITICI” E FORZE ARMATE
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 7 aprile 2019, pagg. 1 e 11.

Cadorna   Nel 70° della NATO il presidente degli USA, suo “socio di maggioranza”, richiama ruvidamente l'Italia a investire il dovuto per la difesa, come richiesto dal Trattato. Incontra il consenso del Presidente Mattarella, capo delle Forze Armate, come lo era il Re, che comandava le forze di terra e di mare. I “militari” tacciono. I “politici” si voltano da un'altra parte. Nulla di nuovo sotto il sole italiano. Dall'Unità i governi hanno sempre speso il meno possibile per lo “strumento militare”, salvo imporgli imprese al limite dell'impossibile. Crispi pretese troppo nella prima rovinosa guerra d'Africa (1893-1896), Giolitti sottovalutò la durata dell'impresa di Libia (1911-1912). Peggiori furono Salandra e Sonnino che nell'aprile-maggio 1915 gettarono l'Italia nella grande fornace della guerra europea sbagliando tutte le previsioni. Anch'essi chiesero al Capo di Stato Maggiore, Luigi Cadorna, di farsi carico di condurre una guerra offensiva, senza mettergli a disposizione lo stretto necessario: armi, magazzini, crediti... e, ciò che più conta, una condotta lineare della politica estera, indispensabile per un Paese che nel conflitto entrò dopo essere stato per una settimana alleato di tutti, salvo poi denunciare un'alleanza che durava dal 1882.     
  Elevato a Comandante Supremo, Cadorna era destinato a divenire il primo e principale capro espiatorio in caso di sconfitta o anche solo di qualche ripiegamento. Il “caso Cadorna” è il paradigma del secolare “différend” tra “politici” e Forze Armate. Perciò è stato ancora una volta demonizzato nei molti recenti libri sulla Grande guerra o largamente eluso, a parte alcune relazioni del convegno “La Guerra di Cadorna”, i cui Atti sono ora pubblicati dall'Ufficio Storico dello SME. A gettare più luce sulla vicenda è la “Giornata Cadorna”, organizzata dai Comuni di Verbania e di Miazzina con la collaborazione della Associazione di studi storici “Giovanni Giolitti” (Cavour), in programma oggi, 7 aprile 2019, al Mausoleo e nel salone di Villa Giulia, a Pallanza, culla della Famiglia Cadorna, le cui vicende sono state minuziosamente ricostruite da studiosi illustri, quali Marziano Brignoli e Silvia Cavicchioli.    
   Verbania è un luogo unico nella geostoria d'Italia. Altre aree del Paese sono una sorta di vivaio di militari illustri. È il caso dell'Alessandrino, che dette i natali, fra altri, ai Capi di Stato maggiore generale e marescialli d'Italia Pietro Badoglio, originario di Grazzano, e Ugo Cavallero, di Casale Monferrato, mentre di Spigno Monferrato fu Paolo Spingardi, comandante del Corpo dei Carabini eri e ministro della Guerra con Giolitti. Verbania fece di più. In due sue frazioni nacquero i due militari più emblematici dell'Esercito italiano nella prima guerra mondiale: Luigi Cadorna, appunto, e Luigi Capello. Difficile immaginare due personalità così diverse, unite dalle Stellette nella devozione allo Stellone d'Italia, ma al tempo stesso differenti per formazione e vocazione. Cadorna, di schiatta patrizia, nacque in una famiglia che aveva dato al Regno di Sardegna suo zio Carlo, avvocato liberale, apprezzato da Camillo Cavour, ministro, senatore, e suo padre, Raffaele, generale, comandante dell'Esercito che il 20 settembre 1870 irruppe in Roma e debellò lo Stato Pontificio. 
Avviato alla carriera militare da quando entrò a soli dieci anni nella Scuola Theulié di Milano, monarchico e liberale, Luigi Cadorna fu cattolico osservante ed esigente verso sé stesso e i suoi stretti collaboratori, sempre nella rigorosa separazione tra Stato e Chiesa, in linea con i Re d'Italia. Luigi Capello, di famiglia piccolo borghese, a sua volta fu  allievo da adolescente in un Convitto militare, e poi scrisse articoli e saggi pesantemente critici contro l'ordinamento dell'Esercito, proponendone la sostituzione con la “nazione armata”, antico sogno più mazziniano che garibaldino. Entrambi si guadagnarono gradi e ruoli grazie alle competenze e al valore mostrati “sul campo”. Come per congiunzione astrale i due si trovarono nei ruoli apicali dell'Esercito italiano nel corso della Grande Guerra. Cadorna, come già detto, da capo di Stato maggiore e poi da Comandante Supremo;  Capello quale generale divisionario, poi di corpo d'armata e infine della II Armata, la più grande mai esistita dall'Unità a oggi: circa 900.000 uomini, un’immensa “città militare”. Cadorna (come bene argomenta suo nipote Carlo in “Caporetto, risponde Cadorna”, ora edito da Cesmedia) era lo stratega: vedeva l'esercito italiano nell'ambito della guerra europea. Ne conosceva a fondo ogni minimo aspetto. Quando gliene venne addossato il comando esso aveva 750.000 fucili modello 1891 e 1.200.000 altri arnesi antiquati, con scarse munizioni. L'unica fabbrica abilitata a produrne, la Terni, ne sfornava 2.500 al mese. In vista dell'intervento bisognò armare oltre 800.000 uomini in poche settimane; nel prosieguo, ne vennero inquadrati cinque milioni e mezzo. In quotidiano conflitto con il governo, che gli lesinava tutto, Cadorna fu l'artefice dello “strumento militare”. Poiché fu l'Italia a dichiarare guerra all'impero austro-ungarico egli dovette condurre l'offensiva, con riserva di arretrare quando necessario perché il confine, risalente al lontano 1866, era lunghissimo e svantaggioso: un cannone ogni chilometro, mitragliatrici del tutto insufficienti, uomini esposti al fuoco del nemico arroccato su posizioni munitissime e pronto da mesi a rintuzzare ogni assalto.
Capello, invece, era ansioso di “agguantare” l'avversario e di batterlo. Proiettato all'offensiva: tattico molto più che stratega.
   La diversità di vedute fu all'origine di quello che Cadorna definì il “disastro” di Caporetto: la sconfitta nella dodicesima battaglia dell'Isonzo, costata circa 30.000 morti, altrettanti feriti, 300.000 prigionieri, 400.000 sbandati e l'arretramento del fronte sino “alla Piave e al Grappa”: non una “rotta” (a differenza di come è stata e ancora viene narrata), ma una battaglia come tante se n’erano combattute nella Grande Guerra. In venti giorni, il 9 novembre, essa si risolse nell'arresto del nemico, grazie alle misure da tempo studiate da Cadorna, nella lunga riorganizzazione delle file e nella riscossa dell'anno seguente, culminata nella vittoria, coronata con la resa degli austro-ungarici il 3 novembre 1918.
   Nelle settimane precedenti l'offensiva austro-germanica (24 ottobre 1917) Cadorna impartì ordini perentori: il passaggio alla difensiva in vista della possibile stasi invernale; ma Capello continuò a rimanere sino all'ultimo sbalestrato in avanti, pronto a scatenare la contro-offensiva.
   L'immagine del generale Luigi Cadorna è in massima parte debitrice di quanto ne scrisse Angelo Gatti nel “Diario”, dall'autore lasciato inedito e pubblicato nel 1964 a cura di Alberto Monticone (il Mulino). Collaboratore della “Gazzetta del Popolo” di Torino e poi del “Corriere della Sera”, conferenziere brillante e saggista di successo, Gatti (Capua, 1875-Milano, 1948) aspirò a scrivere una storia della partecipazione dell'Italia alla Grande Guerra, un'opera su Caporetto (prima avallata poi vietata da Mussolini, perché “non era tempo di storia ma di miti”) e una biografia del Comandante Supremo, che nel marzo 1917 lo aveva chiamato a dirigere l'ufficio storico dell'Esercito. Dopo l'improvvisa morte della giovane moglie, Emilia Castoldi (1927), Gatti passò dalla storiografia alla narrativa, con romanzi autobiografici di successo (Ilia e Alberto, 1931; Il mercante del sole, 1942; L'ombra della terra, 1945). Non sappiamo se e come avrebbe dato alle stampe il “Diario”, talora indulgente ad affermazioni molto più che discutibili e persino a pesantissime insinuazioni, per esempio a proposito della “non riuscita del matrimonio” di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. Nella sua superiore discrezione lo avrebbe certo emendato dal superfluo e dal vano. Indigna leggervi il ritratto di Vittorio Emanuele III (“piccolo, magrolino, bianco-grigio, come un uccellino scodinzolante”, con “salterelli improvvisi di cutrettola” e l'infame cenno alla regina Elena (“non è la donna che ci vuole per lui, e, forse, non è nemmeno una buona donna”), su cui Monticone ricamò. Sappiamo invece con certezza che il suo racconto non sempre risponde ai fatti, com’è ovvio per chi vive gli eventi da un osservatorio circoscritto anziché da storico. Mentre Gaetano Salvemini, esigente quanto umorale, lo valutò “mirabile per equilibrio e chiarezza” (come viene ripetuto in Angelo Gatti, E' la guerra. Diario. Maggio-Agosto 1915, ed. il Mulino, 2018), nel “Diario” egli risulta non di rado ridondante, omissivo e vago. Per esempio non fa alcun cenno alla sua occulta iniziazione alla loggia “Propaganda massonica” (Grande Oriente d'Italia) il 28 giugno 1917, pochi giorni dopo aver affidato un impegnativo “Promemoria” a Cadorna, al generale Luigi Capello (massone) e al colonnello Roberto Bencivenga (anni dopo iniziato da Domizio Torrigiani nella Loggia clandestina “Carlo Pisacane” a Ponza, ove erano entrambi confinati). Cadorna lo ignorò. Il colonnello vi scrisse: “C'è bisogno di rinnovarci nella guerra (...) di ricominciare da capo. È necessario inculcare un nuovo  spirito; fare nuova organizzazione; studiare una nuova tattica; trasformarci col tempo (....) È tutto l'insieme che non va. C'è qualcosa di intimo, di profondo, che si rompe. La guerra è vecchia: bisogna farla con questa vecchiaia, tener conto di essa; guardare le compagini in faccia come composte d'uomini, non come materia”. Parole. Parole di chi passava ore a scrivere, mentre il Comandante aveva dinnanzi agli occhi la strategia complessiva della guerra che da europea, dopo la rivoluzione in Russia e con l'intervento degli Stati Uniti d'America, era divenuta mondiale. La “tattica”, sulla quale Gatti si disperde, andava inquadrata in quell'ambito, nei calcoli politico-militari dei franco-inglesi che ritirarono dal fronte italiano il loro avaro centinaio di cannoni quando l'offensiva si arenò sulla Bainsizza e il 28 settembre Cadorna ordinò il passaggio alla difensiva.
   La lunghissima narrazione della tragica giornata del 24 ottobre 1917 da Gatti affidata al “Diario” è del tutto contrastante con quanto emerge dalle carte ufficiali di Cadorna e dalle sue lettere ai famigliari, pubblicate nel 1967 dal figlio, Raffaele, già Comandante del Corpo volontari della libertà. Mentre Gatti “scoprì” l'avanzata austro-germanica solo dopo essere andato a cena e al cinema (sic!), da molte ore Cadorna dettava le misure per contenere a oltranza l'offensiva nemica e, se del caso, per ripiegare sulla destra del Tagliamento o, se necessario, sul Piave, come subito previsto anche da Vittorio Emanuele III (proprio il Re lo confidò a Gatti nell'“intervista” concessagli al Quirinale, ora pubblicata in Luigi Cadorna storico della grande guerra, prefazione alla nuova edizione di Luigi Cadorna, La guerra alla fronte italiana, ed. Bastogilibri, 2019).
L'influenza del “Diario” di Gatti nel giudizio negativo che si è stratificato sul Comando Supremo dagli Anni Sessanta dello scorso secolo è paragonabile alla versione cinematografica di Un anno sull'altipiano di Emilio Lussu: il famigerato “Uomini contro”,  visione obbligatoria per le scolaresche come poi “Il delitto Matteotti” e altre “narrazioni” filmiche di momenti drammatici della storia nazionale, che manipolarono i fatti ed elevarono un bastione invalicabile tra ricerca storica innovativa, documenti alla mano (liquidata come “revisionismo”), e pregiudizio, spacciato per “verità”. 
   Oltre mezzo secolo dopo la pubblicazione del “Diario” di Gatti curato da Monticone tempo è venuto di riaprire il cantiere della ricerca, con una domanda preliminare: come mai tuttora non esiste una biografia scientifica del Comandante Supremo? Eppure i materiali non mancano affatto. Qualche luce emerge proprio dalle “interviste” raccolte da Gatti per scrivere la storia dell'Italia nella grande guerra o del Comando Supremo, il cui “ufficio storico” gli era stato affidato nel marzo 1917. Tra le molte è sconcertante quella rilasciatagli da Vittorio Emanuele Orlando, che rivendica a proprio merito la defenestrazione di Cadorna e la anticipa al 28 ottobre, dieci giorni prima dell'“incontro” di Rapallo (5-6 novembre) tra i vertici politico-militari italiani e quelli anglo-francesi, preludio a quello, parimenti celebre, di Peschiera, ove l'8 seguente Vittorio Emanuele III orgogliosamente garantì che l'Italia avrebbe resistito: un’affermazione molto sminuita da Orlando, al quale il re affidò il governo del Paese durante l'arretramento del fronte dall'Isonzo al Piave (v. box).
Il “caso Cadorna” risulta più che mai attuale, proprio per cogliere le radici remote della perdurante ritrosia dei “politici” a onorare i trattati ai quali lo Stato italiano è vincolato e a investire adeguatamente per la saldezza e le fortune dello strumento militare.   
Aldo A. Mola
LA SOSTITUZIONE DI CADORNA 28 OTTOBRE 1917
VITTORIO EMANUELE ORLANDO AD ANGELO GATTI (*)


La sostituzione avvenne il 28 di ottobre. Il Re domandò a Orlando – che gli aveva proposto di sostituire il Cadorna per quello che stava preparando la Camera – se aveva candidati. “No, gli disse Orlando e Vostra Maestà?” “Io ne avrei uno, ma non glielo dico. Tocca a lei proporre.” “Non conosco nessuno.” “Cerchi.” “Ci vorrebbe un uomo di fama indiscussa, di sopra di tutti, noto, accettato dal paese. Mi pare che l’unico sarebbe il Duca d’Aosta.”
“Aosta non può essere nominato, i tempi sono tremendi, può succedere qualche cosa, che travolga anche me. Aosta dovrebbe allora prendere le redini dello Stato, anche solo come reggente.” “Giusto, ma allora non so.” “Non conosce neppure?” “Nessuno. Ah, sì, uno, che mi ha fatto buona impressione.”
Bisogna dire che qualche tempo prima di Caporetto, Orlando s’era trovato a colazione al Comando Supremo, seduto tra Cadorna e Diaz. Finita la conversazione col Cadorna, Orlando s’era messo a parlare col Diaz, il quale, con la sua chiarezza d’esposizione e d’idee, era piaciuto ad Orlando. Avendogli specialmente quest’ultimo parlato del grande consumo di risorse d’uomini fatte da Cadorna (“non crede che sia il pozzo di San Patrizio?” Aveva detto Orlando) il Diaz aveva convenuto con lui; e l’Orlando aveva detto: “Ecco finalmente un generale che parla con buon senso”.
“Io dirò il mio nome a V.M., disse Orlando; ma, dopo, V.M. deve promettermi di dirmi il suo.” “Sta bene.” “Diaz.” “È anche il mio nome”, disse il Re. E raccontò all’Orlando che conosceva già il Diaz, ma che l’aveva veduto ad una azione del suo Corpo d’Armata, e là gli era piaciuto moltissimo. “I generali in questa guerra si vedono al telefono” disse il re ad Orlando.“Allora, Diaz.”“Diaz.”
Ma bisognava tener segreta la nomina. Perciò Orlando, temendo che Cadorna se avesse subodorato la sostituzione avrebbe ripetuto il colpo di testa di Baratieri [Un’ipotesi assurda e maligna, mentre Cadorna ordinava il ripiegamento del fronte: nota di Aldo Mola], fece quei telegrammi e quelle lettere di piena fiducia in Cadorna. “Quando si mentisce, bisogna mentire bene” disse a me.
Perciò non è affatto vero che la sostituzione di Cadorna fosse voluta dagli Alleati. (…). Il cambio fu così del tutto italiano. (…).  Della intenzione di sostituire il Cadorna Orlando non parlò con nessuno salvo che al Sonnino e all’Alfieri, ministro della Guerra; il quale – mi dice Orlando – io scelsi, sapendo che era una mediocrità: ma tutti i generali bravi erano al fronte. 
Circa il Convegno di Rapallo e di Peschiera, [Orlando] dice che tutte le risoluzioni furono prese a Rapallo, non a Peschiera. Egli aveva preparato il proclama. E lo portò al Re; il Re cambiò alcune parole del primo periodo, e tolse due o tre aggettivi: Ojetti, perciò, anche qui non c’entra per niente. Il discorso del re, in inglese, per dire che aveva grande fiducia nell’esercito italiano, avvenne veramente; ma non fece che confermare ciò che si era inteso, non cambiò la situazione, come può far credere anche qualche parola di Lloyd George; il soccorso agli Italiani era già stato concordato.
Il telegramma di Orlando che costrinse Diaz alla battaglia di Vittorio Veneto fu terribile: “Preferisco una sconfitta all’inazione” (ma questo me l’ha detto Giardino).

(*) Intervista rilasciata da Vittorio Emanuele Orlando ad Angelo Gatti, che annotò “Dettomi a casa sua”. Manoscritto in Fondo Angelo Gatti, Archivio storico del Comune di Asti, ora in Luigi Cadorna, “La guerra alla fronte italiana”, a cura di Aldo Mola, BastogiLibri, 2019. 
 
FIUME: UN CENTENARIO INDIMENTICABILE
FRATELLI D'ITALIA CON D'ANNUNZIO ALLA “RIVOLUZIONE” (1919-1920)
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 31 marzo 2019, pagg. 1 e 11.

D'Annunzio e Treves Fu il torinese Giacomo Treves, ebreo e massone (1882-1947), l'artefice segreto della “marcia di Ronchi” capitanata da Gabriele d'Annunzio nella notte del 12 settembre 1919 per affermare l'italianità di Fiume. Dall'origine l'“impresa” è al centro di giudizi controversi. “Festa della rivoluzione” secondo Claudia Salaris; “una delle più buffonesche italianate della nostra Storia” per Indro Montanelli, che però (confessò) se avesse avuto vent'anni forse vi si sarebbe divertito. Già, perché Fiume fu… un fiume in piena, Verbo che si fa Carne, con volontari, legionari, ammiratori, spregiatori, morti e feriti. E soprattutto tanti delusi. Com’era stata la Repubblica romana del 1849, morta proprio quando la sua Assemblea ne approvò la costituzione. A Fiume il Verbo si fece anche carnascialesco. “Severità e goliardia, gioco e guerra, amore e violenza”, la “città martire” divenne un'icona in un Paese dalla memoria labile. Lo scrive Giordano Bruno Guerri in “Disobbedisco. Fiume 1919-1920” (Mondadori) sulla scorta dell'imponente Archivio della Fondazione del Vittoriale degli Italiani da lui diretto (Gardone Riviera, www.vittoriale.it).
D'Annunzio ebbe il torto di morire nel 1938, quando Benito Mussolini sterzò decisamente verso l'alleanza con la Germania di Hitler, dal Vate sprezzantemente liquidato quale “Attila imbianchino”, “ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot”. Da quell'anno, anche con le “leggi razziali” (da d'Annunzio ritenute folli, anche perché la “vita orizzontale” è “aperta”, non ha né tessere di partito né “razze”), Mussolini puntò a isolare Vittorio Emanuele III per abbattere la monarchia. Dopo funerali solenni, d'Annunzio venne relegato nei ricordi del tempo che fu, osannato dai suoi cultori, anche giovanissimi, ma ormai incompatibile col “regime”.  L'11 febbraio 1929 Mussolini aveva firmato il Concordato con la Santa Sede e spazzato via tutti i Guido da Verona d'Italia. D'Annunzio svaporò in fantasma letterario in un Paese dalla memoria a corrente alternata, corriva all'osanna e al crucifige. Nel decennio seguente (tra “Patto di Acciaio” e vittoria di Alcide De Gasperi contro il Fronte popolare) dai semplificatori “analfapreti” e da tanti sinistri d'accatto (spesso dannunziani pentiti: i più pericolosi) il Vate fu demonmizzato quale colluso col fascismo. Anche chi aveva letto l'edizione nazionale delle sue opere e si era inebriato recitandone i versi o intere pagine di romanzi e di “orazioni” ormai lo detestava. Si vergognava di averlo “amato”. Come Norberto Bobbio si vergonava delle  sue “petizioni “al duce. Mancò l'“esame di coscienza”. 
Nino Valeri storico, massone, dannunziano occulto
I primi due storici a fare i conti con il d'Annunzio vero, ricorda Guerri in “Disobbedisco”, furono Paolo Alatri, anni prima costretto a pubblicare opere finissime con pseudonimo perché ebreo, poi comunista, in realtà illuminista, e Nino Valeri. Di famiglia coltissima, Valeri affondò il bisturi nella piaga. D'Annunzio, egli scrisse, è il campione  del “disprezzo per gli ordini costituiti, di disinteresse per il passato e per l'avvenire, di irridente spregio per la virtù e per il risparmio, per la famiglia, per gli avi, per la religione, per la monarchia e per la repubblica: di nichilistica aspirazione, in fondo, di finirla in bellezza questa inutile stupida vita, in una specie di orgia eroica”. Sono sentimenti, aggiunse, “che giacciono anche nel remoto sottofondo di molti benpensanti, ma normalmente repressi e condannati in nome della rispettabilità”. D’Annunzio evidenziò le contraddizioni profonde e perpetue del farisaismo italico, del perbenismo, dei “sepolcri imbiancati”. I “cinquecento giorni di rivoluzione” (sottotitolo dell'importante Opera di Guerri) confermarono che l'Italia è una terra di cospirazioni, sommosse, moti incomposti, guerre “di” o “per” bande, di delitti e persino di guerriglie eterodirette (sanfedisti contro giacobini; il “grande brigantaggio” del 1860-1867, evocato da opportunisti e plaudito da “neo-barbonici” odierni; la cosiddetta guerra civile del 1943-1945, con la sua stucchevole “conta dei morti”) ma geneticamente incapace di rivoluzioni. 
Socio dell'Accademia delle Scienze di Torino, direttore della splendida collana di biografie “La vita sociale della Nuova Italia” per la Utet e di classici come La lotta politica in Italia, Valeri scrisse capolavori su d'Annunzio. Aveva le sue motivazioni occulte. Prima che storico era stato un artista. Anche sul suo capo era scesa la fiammella dello Spirito, forse mentre volava nei cieli quando morirne era altamente probabile. Era stato al seguito del Comandante. Non solo. Nino Valeri venne iniziato massone nella stessa loggia”Dante Alighieri” di Roma, accanto al figlio del Vate, Gabriellino d'Annunzio, un cammeo della Serenissima Gran Loggia d'Italia. Futuro storico di inarrivabile classe, all'epoca Valeri era direttore artistico cinematografico. Fiume gli rimase nel sangue. Non potendo scrivere subito del “suo” Reggente del Carnaro (all'epoca era “politicamente scorretto”), narrò le vicende di Facino Cane e di altri Signori sino a quando l'Italia crollò sotto le dominazioni straniere. Strizzava l'occhiolino al lettore. Finì con la biografia di Giovanni Giolitti, l'anti-d'Annunzio, ma, al tempo stesso, il più dannunziano degli statisti perché capì la politica estera meglio dei diplomatici. L'Italia è alternanza di saviezza e di follia. Chi governa deve tenerne conto per reggerne le briglie. Giolitti lo fece: mite con i deboli (gli scioperanti per motivi economici), duro con gli arroganti, come gli industriali torinesi che nel settembre 1920 gli chiesero di liberare le fabbriche ma misero la coda tra le gambe quando egli si disse pronto a farle bombardare.    
Il disastro perpetuo della politica estera italiana
Guerri ha il merito di aver acceso i fari sulla poliedricità della genesi dell'impresa di Fiume. Essa ebbe moltissimi padri nella sua fase apicale e gloriosa. Presto, però, iniziarono i “distinguo” e le defezioni. Infine il Comandante si trovò pressoché solo alla guida di pochi disperati, guardati come avessero la peste sia dalla popolazione (ormai alla fame e alle prese con i bombardamenti e sempre atterrita dal ritorno degli slavi: quanto non solo a Fiume accadde nel 1943 e dopo il 1945) sia dall'Esercito italiano, schierato attorno alla città come cordone sanitario per impedire il contagio rivoluzionario, e infine anche dal vasto arco di governativi e antigovernativi. Se per pochi giorni nel settembre 1919 il Vate era riuscito nel miracolo di mettere d'accordo quasi tutti gli italiani a sostegno dell'italianità di Fiume, un anno dopo ottenne il risultato esattamente opposto: gli italiani non ne potevano più. Bisognava chiudere quel capitolo, a qualunque costo, compresa, se necessaria, la sua eliminazione fisica. D'Annunzio sapeva tanto, troppo anzi; e quindi era ormai scomodissimo per tutti. In pochi gli rimasero fedeli oltre il crollo della Reggenza e la sconfitta del suo disegno politico.
Per comprenderlo occorre vedere il ventaglio politico mondiale entro il quale l'impresa nacque e quello, del tutto diverso, dei mesi nei quali essa si avvolse nel sudario di morte, tra il settembre e il dicembre 1920.
In estrema sintesi, nel 1919 l'Italia ricevette due batoste in pochi mesi: il Congresso di pace di Versailles negò seccamente la richiesta di Roma di aggiungere Fiume al “bottino” previsto dall'accordo di Londra del 26 aprile 1915. L'Italia lo aveva onorato con sleali riserve mentali. Ora le sue aspirazioni cozzarono contro tre avversari: anzitutto l'espansionismo francese nell'ex impero austro-ungarico, in gara di velocità con gli italiani, a loro volta impegnati a procacciarsi il massimo di vantaggi. Lo documenta Antonino Zarcone nella corposa biografia di Roberto Segre pubblicata dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito. Malgrado le premesse e promesse, all'amicizia con l'Italia Parigi anteponeva quella con lo stato serbo-croato-sloveno, fondamentale per l'espansione francese nell'Europa orientale dopo il tracollo dello zar. Il governo di Parigi aveva pieno appoggio del Grande Oriente e della Gran Loggia di Francia, il cui gran maestro, generale Paul Peigné, scrisse la prefazione alle “Rivendicazioni” di Belgrado, che chiedeva il confine all'Isonzo e ad ovest di Trieste. Per gli jugoslavi 680.000 morti e 1.200.000 feriti italiani erano un affare interno di chi aveva dichiarato guerra all'Austria. Per loro l'italianità di Fiume non era neppure sull'orizzonte. Perciò vi mandarono un piccolo contingente. Per gli inglesi, che in duecento anni avevano gettato il cavo d'acciaio della loro talassocrazia da Gibilterra a Malta, da Suez a Cipro, il “Mare Nostrum” era solo un lago dalla Manica verso l'Oceano Indiano. Non consideravano affatto l'Italia come partner nel dominio sul Mediterraneo Orientale. Anche gli Stati Uniti d'America di Woodrow Wilson erano filoslavi.
Il passaggio dal governo Orlando-Sonnino a quello presieduto da Francesco Saverio Nitti col giolittiano Tommaso Tittoni agli Esteri (23 giugno 1919: cinque giorni prima della proclamazione della “pace” con la Germania) non migliorò il quadro diplomatico. Il 10 settembre venne firmata la pace di Saint-Germain tra Italia e Austria. Fiume rimase “corpus separatum” in attesa delle paci seguenti, in specie con l'Ungheria, l'altro “erede” della “duplice monarchia” asburgica. 
A quel punto bisognava agire o rinunciare per sempre.
“Marciare, non marcire”: tra Mussolini e il Vate 
Fu dunque proprio Giacomo Treves a imprimere accelerazione alla trama imbastita da quasi un anno, come egli stesso narrò in un analitico memoriale denso di documenti. Il 18 dicembre 1918 lui e altri otto massoni di varie logge italiane dettero vita in Trieste a una nuova “officina” del Rito Simbolico Italiano, all'obbedienza del Grande Oriente d'Italia. “Riconosciuta l'urgente necessità di costituire un primo nucleo massonico” Odoardo Pesaro (eletto venerabile), Edoardo Viterbo, Eugenio Bianchi d'Espinosa, Giulio Regis, Camillo Sclavo, Angelo Scocchi, Enrico Liebmann e Adolfo Ciampolini alzarono le colonne della loggia “Guglielmo Oberdan”, sacra alla memoria di chi nel 1882 (in risposta al Trattato Roma-Vienna-Berlino) aveva attentato alla vita di Francesco Giuseppe, l'“imperatore degli impiccati”, ed era stato puntualmente condannato a morte e suppliziato. Treves fu eletto 1° sorvegliante. La decisione di riattivare in Trieste l'officina che per anni vi aveva operato segretamente fu assunta ignorando l'invito a soprassedere formulato dal gran maestro del Grande Oriente, Ernesto Nathan, secondo il quale nella città tergestina  vi erano fratelli sufficienti per creare due logge (ne voleva una sotto suo controllo; la “Oberdan”gli sfuggiva). Roma annaspava. Trieste faceva. Il 20 dicembre la “Oberdan” uscì allo scoperto con un manifesto, cofirmato dalla consorella “Alpi Giulie”. A Nathan non rimase che approvare, promettere aiuti per la costruzione del nuovo tempio e inviare statuti e rituali. Lo stesso 20 dicembre la “Oberdan” organizzò la rievocazione del martire con un oratore d'eccezione: Benito Mussolini. Nell'invito ai cittadini il manifesto ammonì: “Nessuno deve mancare”. Il futuro duce era all'epoca espressione dell'interventistmo intervenuto. Come ha sintetizzato Renzo De Felice era l'“uomo in cerca”. Non aveva ancora individuato il proprio cammino. Dall'adunata nel circolo industre-commerciale di piazza San Sepolcro messogli a disposizione il 23 marzo 1919 dal massone ed ebreo Cesare Goldman non scaturì un “manifesto”. Il “racconto” dell'adunata (lo documentò Chiurco nella “Storia della Rivoluzione fascista”) si limitò a elencare i partecipanti e i vari temi toccati. Solo molto dopo i fasci di combattimento si dettero un programma sommario, di tono accesamente repubblicano, socialisteggiante e aspramente anticlericale. 
Esso stava nell'ideario massonico come il meno sta nel più. All'epoca, infatti, il Grande Oriente stava elaborando un progetto di riforma sociale ispirato alla “democrazia del lavoro”: molte idee, parecchio confuse e di impossibile immediata realizzazione, com’è tipico dei “partiti d'azione”. Nel volgere di pochi mesi i suoi capisaldi si riassunsero in lotta al capitalismo e al bolscevismo, cooperazione dei “produttori” e sostituzione del regime vigente con un altro (cioè la repubblica al posto della monarchia: quanto bastava per non esser presi sul serio da Londra, ove sin dalla nascita  massoneria fa rima con monarchia). A elaborare lo Stato Nuovo sarebbe stata una Costituente. 
Dall'estate 1919 Mussolini si mise in proprio, in vista del rinnovo della Camera dei deputati. Per la circoscrizione di Milano formò una lista comprendente, fra altri, Filippo Tommaso Marinetti, autore del manifesto dei futuristi, Arturo Toscanini, già celebre direttore d'orchestra, Ugo Podrecca, ex direttore dell'“Asino”, il settimanale satirico più mangiapreti d'Italia. Il futuro “duce” non era disponibile per progetti altrui. Perciò Treves e altri “fratelli” individuarono in d'Annunzio il vessillifero del colpo di mano: la “marcia su Fiume”.
D'Annunzio a Treves: per Fiume italiana, Alalà
Preso contatto diretto con il Vate il 7 settembre, grazie a ufficiali iniziati in loggia e a una rete di massoni operanti nei servizi ferroviari, telefonici, telegrafici e postali vennero gettate le premesse dell'azione. Benché febbricitante, d'Annunzio accettò. Il 9 settembre mandò a Treves una cassa di bottiglie di spumante con il cartiglio: “Bevete coi compagni questo fervido vino italiano alla salvezza di Fiume che è oggi l'eroina della libertà del mondo folle e vile. Per Fiume italiana. Alalà”. Non era la prima volta. Già nel 1915 d'Annunzio era stato trascinato a pronunciare il celebre Discorso per il monumento dei Mille a Quarto di Genova  (5 maggio) dall'oscuro Ettore Cozzani, come ricorda Carlo Sburlati, per anni demiurgo del Premio Acqui Storia.  
Tramite fra i massoni di Trieste, Padova, Milano, Torino, Bologna e la città erano gli iniziati alla loggia “Syrius” (tutta da documentare: ma le carte non mancano), a cominciare dal sindaco di Fiume, Antonio Vio. Anche parecchi tra gli ufficiali al seguito del Vate erano stati o ancora rimanevano in logge pullulanti da un capo all'altro del Paese. Era il caso di Eugenio Coselschi (di altri diremo). Circa la loro vitalità basti ricordare che nel 1919 i nuovi iniziati furono circa 4.000 e che l'anno seguente crebbero a quasi 5.000. 
Nell'impossibilità di seguire passo passo la vicenda, per cogliere la centralità del ruolo svolto da Treves basti dire che egli venne munito del permesso speciale di entrare e uscire dalla città a suo piacimento. Portava denari, armi e quanto serviva alla “rivoluzione”. Membro di un Comitato segreto, il 26 ottobre 1919 con  Angelo Scocchi ed Ercole Miani approntò il progetto di una “Marcia da Fiume su Roma” passando per Trieste. Ma a Trieste arrivò il nuovo gran maestro, Domizio Torrigiani. Al termine di una lunga drammatica seduta, il Grande Oriente recise i ponti con il programma del Vate. Alla vigilia delle elezioni, una “marcia” verso l'Italia avrebbe suscitato l'insurrezione dei socialisti e la risposta delle Forze Armate: un nuovo governo militare, dopo quelli di Menabrea (1867-1869) e di Luigi Pelloux (1898-1900), l'eclissi delle libertà. Come si sarebbero schierati i neonati “popolari” di don Sturzo? 
Il crepuscolo di un dannunziano
Nel marzo 1920 Treves lasciò Trieste. La sua trama svaporò. Rimase nell'azione dell'Unione spiritualista dannunziana, di un partito socialista democratico (da lui abbozzato sin dal 1923), di squadre dannunziane contrapposte a quelle mussoliniane e a quelle nazionaliste di Luigi Federzoni e Alfredo Rocco: il microcosmo clerico-reazionario con il quale egli non volle mai avere nulla da spartire.
Nell'estate 1920 Treves promosse la raccolta di fondi per canali diversi da quelli fagocitati da Mussolini. Anche il Vecchio Piemonte vi concorse con aristocratici, borghesi e popolani, perché Fiume continuava a essere emblema della Grande Guerra. Lo rimase anche dopo la cacciata di d'Annunzio dalla città martire, metodicamente cannoneggiata dalla “Andrea Doria” su disposizione del presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti. Il “Natale di sangue” 1920 chiuse la cronaca. Rimase l'epopea. Merito del corposo volume di Guerri è di aver riproposto al centro dell'attenzione quell'Italia di passione: niente miope sovranismo ma universalismo. Utopia per i tempi, come si evince dalla Carta del Carnaro, stesa dall'anarco-sindacalista Alceste De Ambris e perfezionata dal Vate, comprendente, tra l’altro, il divorzio, che in Italia vigeva dall'antica Roma, e tante altre forme di libertà che ancor oggi sono privilegio di minoranze pensanti. A quell'epoca, con quegli uomini, l'Italia era crogiuolo di Grande Storia. Anche le due Comunità massoniche lo erano. Non per caso d'Annunzio, ricevuti brevetto e insegne di grado 33° della Gran Loggia d'Italia, frequentò anche il venerabile della “XXX ottobre” Attilio Prodam: una vicenda che meriterà di essere ampiamente documentata.
Alla morte, nel 1947, GiacomoTreves, iniziato nella loggia “Ausonia” di Torino ( 17 giugno 1913, matricola 42.904, e dalla “Oiberdan” transitato nella “Syrius”) fu commemorato nella rivista “Lumen Vitae”. Rimane in attesa di una biografia. Ne emergerebbe “La Fenice” della Terza Italia, che era ed è europea, anzi “mondiale”, anche grazie al Poeta Soldato.   
Aldo A. Mola

PEDRO SANCHEZ NON VALE UN FRANCO
IL FANATISMO DEI NEOSOCIALISTI SPAGNOLI
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 24 marzo 2019, pagg. 1 e 11.

Pedro Sánchez il becchino  
Goya - La fucilazione“Quieta non movère” è un saggio mònito degli antichi. Invece il chiodo fisso dei neosocialisti spagnoli, da Zapatero a Pedro Sánchez, è rimuovere la salma di Francisco Franco dal Valle de los Caídos per trasferirla nella cripta più nascosta di Spagna. Zapatero ci provò per anni, invano. Sánchez ripete la litania. Ha persino strappato il tacito consenso delle Cortes, con silenzi opachi e astensioni del Partito popolare e di Ciudadanos, sempre affetti dall'orticaria quando si parla di Franco e del Franchismo, quasi arrivino da un altro pianeta anziché dalla lunghissima transizione che vide alternarsi al governo senza traumi i socialisti di Felipe González e i popolari di Aznar. Da quando è stato battuto in Parlamento e ha dovuto indire elezioni anticipate per il prossimo 28 aprile, Sánchez ne sta facendo una questione di vita o di morte. Poiché spera che la nascita di un nuovo governo vada per le lunghe, ha fissato al 10 giugno il giorno nel quale, costi quel che costi, la salma imbalsamata di Francisco Franco y Bahamonde va assolutamente rimossa, malgrado l'opposizione del priore dell'Abbazia benedettina di Santa Cruz, Santiago Cantera, dipinto come bieco reazionario. Contro la pretesa di Sánchez e dei suoi accoliti sono schierati all'unanimità i sette nipoti di Franco (Carmen, Mariola, Francis, Merry, Cristóbal, Arancha e Jaime), l’Associazione per la Difesa del Valle de los Caídos e un ventaglio di organizzazioni sempre più decise a difendere la memoria autentica del Paese. In attesa che il Tribunale Supremo dello Stato si pronunci sui molti ricorsi pendenti, Sánchez fa della estumulazione uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale. Il suo vero obiettivo, però, non è rimuovere quel che resta del Caudillo di Spagna (come Franco venne detto ai tempi della sua sanguinosa ascesa) ma intimidire Popolari e Ciudadanos, ricattarli con l'accusa di paleofranchismo, di “fascismo eterno” (il “vangelo” di Umberto Eco, ora riecheggiato da Francesco Filippi in “Mussolini ha fatto anche opere buone”, ed. Bollati-Boringhieri). In realtà Sánchez mira a “provocare” e ad infoltire le file di “Vox”, il movimento sorto proprio contro l'estremismo neosocialista e la flebilità dei “moderati”. In tal modo calcola di frantumare il fronte avversario in tre corpi separati e di batterli alle elezioni, grazie alla legge elettorale vigente, pensata per il bipartitismo, non per il caleidoscopio di partitelli e partitini (autonomisti come i “canarini”, indipendentisti, separatisti, federalisti, repubblicani senza se e senza ma...), causa sicura della deflagrazione se non vi fosse lo scudo della monarchia. 
Le radici dell'ascesa di Francisco Franco al potere 
Ma perché mai l'ossessione neosocialista ispanica per la salma di Franco? Come tutte le “idee fisse”, anche questa non è affatto un mistero. A ben vedere è una sorta di franchismo uguale e contrario. Riassumiamo. 
Il Caudillo nacque in una famiglia di liberi pensatori. Lo era suo padre, che gli preferiva il fratello, Ramón, massone accanito come altri consanguinei, poi da Francisco abbandonati alla furia dei reazionari. Il futuro Jefe del Estado fece una brillante carriera nell'esercito, conseguì successi Oltremare e divenne il più giovane generale d'Europa. Però non avrebbe mai avuto spazio politico se la Spagna fosse stata capace di darsi un governo parlamentare stabile. Il dramma del Paese arrivava dal suo passato remoto: secoli di “reconquista cristiana” dal giogo dei “moros” e, nel Cinquecento, la lotta per la “limpieza de sangre”, che impose a islamici e a ebrei di andarsene o di travestirsi da moriscos e da marranos, convertiti ma sospettati. La pace di Utrecht (1713), dopo la guerra di successione sul trono di Madrid, segnò il passaggio dagli Asburgo (“Los Austria”) ai Borbone di Francia. Nel 1808 Napoleone I invase la Spagna e impose re suo fratello maggiore, Giuseppe, “don José Primero”. La feroce guerriglia per l'indipendenza, sorretta dagli inglesi, non finì con la cacciata degli invasori ma con l'annientamento degli “afrancesados”, uccisi o costretti all'esilio. Era la vendetta contro la repressione bonapartistica immortalata da Francisco Goya nel “Dos de Mayo”, rivendicazione popolare contro i metodi insopportabili degli occupanti (gli aristocratici in buona parte si erano “accomodati”). L'Ottocento in Spagna fu un secolo di moti liberali (quasi sempre guidati da militari), di sette segrete e di guerre tra opposti rami della dinastia (uno, reazionario, guidato da don Carlos, contrario alla successione femminile sul trono di Madrid), e di complotti che finirono con l'assegnazione della corona a un re designato dalle Cortes: Amedeo di Savoia, Duca d'Aosta, secondogenito del re d'Italia,Vittorio Emanuele II. Don Amadeo Primero regnò poco più di un anno, col beneplacito del “concerto europeo”, ma dovette fare i conti con il malcontento (locale ed eterodiretto) culminato in vari attentati.
Dopo un'effimera repubblica e il ritorno dei Borbone con Alfonso XII e la perdita di Cuba e delle Filippine (1898), lacerata da movimenti rivoluzionari anarco-socialisti (ne fu campione  e vittima Francisco Ferrer y Guardia, fucilato quale promotore della “semana trágica”), la Spagna parve appartarsi dalla storia d'Europa. Evitò di immischiarsi nella Grande Guerra. La sua economia crebbe, come documenta Fernando García Sanz in opere tradotte anche in italiano. Dalle turbolenze postbelliche uscì non con dittature più o meno totalitarie come avvenne dalla Russia all'Italia e alla Germania ma con un governo autoritario e fattivo, presieduto da Miguel Primo de Rivera. Stanco di opposizioni querule, de Rivera si dimise e si trasferì a Parigi. Nel 1931, all'indomani del successo delle sinistre nelle elezioni amministrative, Alfonso XIII di Borbone lasciò la Spagna senza rinunciare alla Corona. A Madrid venne proclamata la seconda Repubblica. Iniziarono anni di travagli. Si scatenò l'anticlericalismo serpeggiante nel Paese come fiume carsico. Furono dati alle fiamme chiese e monasteri e vennero perpetrate infamie ai danni dei cattolici, documentate da Arturo Mario Iannaccone nell'inoppugnabile “Persecuzione. La repressione della Chiesa in Spagna fra Seconda Repubblica e guerra civile, 1931-1939” (ed. Lindau).
Dopo cinque anni di disordini, in risposta al brutale assassinio del monarchico José Calvo Sotelo da parte dei “rossi”, con l'alzamiento di quattro generali nel luglio 1936 la Spagna precipitò nella guerra civile. Accordi sovraordinati indicarono nel generale José Sanjurjo, già promotore di un colpo di stato militare contro la Repubblica, il capo di una giunta comprendente Emilio Mola, vero “direttore del golpe”, Franco e Queipo de Llano. L'aereo che riportava Sanjurjo dal Portogallo in Spagna cadde, forse per il peso eccessivo del bagaglio. Il suo potenziale successore, Mola, repubblicano, sospettato a torto di affiliazione massonica, nel 1937 a sua volta morì in incidente aereo. Queipo era un sanguinario succubo del fascino femminile e dell'alcol, privo di fiuto politico. Rimase Franco, che pazientemente raccolse via via al suo seguito tutti i nemici della Repubblica di Madrid: i falangisti di José Antonio Primo de Rivera, figlio di Miguel, i requetés (monarchici “carlisti”) e un ventaglio di movimenti e personalità. Tutti vennero benedetti dall'alto clero spagnolo e da papa Pio XI, che condannò il nazionalsocialismo pagano di Hitler, il bolscevismo materialistico di Stalin e non aveva certo motivo di avversare chi, come Franco, in Spagna combatteva contro atei dichiarati e anticlericali fanatici. La guerra civile fu orrenda. Franco era vendicativo e crudele. Oltremare aveva utilizzato reparti speciali “di colore” contro i marocchini. Altrettanto fecero tutti gli eserciti coloniali dell'epoca. Mescolò motivazioni di varia genesi. Tra le sue vittime emblematiche rimane Federico García Lorca, che agli occhi dei conservatori rappresentava l'“Anti-Spagna”, anti-nazionale e più “scostumata” che libertina. Eppure da mezzo secolo in Spagna cresceva l'appello alla modernizzazione. Ne erano stati portavoce e interpreti letterati, storici e politici di alto profilo come Miguel Azaña (massone per un giorno), Alcalá Zamora, Alejandro Lerroux, Diego Martínez Barrio, più conservatori che rivoluzionari. Della vera Spagna furono interpreti Miguel de Unamuno e i tanti militari “di loggia” che passarono a fianco dei Quattro generali. 
Non fu Franco a semplificare il conflitto e a ridurlo a lotta mortale tra le tenebre e la luce. In realtà, e lo documentano l'inglese Paul Preston, Juan Pablo Fusi e Fernando Cortázar, vi erano non due ma tre Spagne: la rivoluzionaria, la reazionaria e quella che aspirava a liberarsi dalla taccia di “Spagna invertebrata” e a farsi Europa, liberale, democratica, non senza influssi massonici come si legge in “L'integrazione europea e la penisola iberica” (a cura di Romain H. Rainero, ed. Marzorati). Era la Spagna che aveva alle spalle il filosofo e pedagogista tedesco Krause, l'“ideario spagnolo” di Angel Ganivet e Ortega y Gasset.  
La massoneria ebbe un ruolo specifico nel dramma? Ne hanno scritto storici di vaglia come Maria Dolores Gómez Molleda, José Antonio Ferrer Benimeli e Juan José Ruiz Morales, autore di “Palabras asesinas” e di poderosi  saggi sulla repressione di comunisti e massoni da parte di Franco. I fatti però dicono che molti “fratelli” di alto rango, militari, politici e “intellettuali”, si schierarono con il Caudillo. Franco era massonofago. Lo mostrò  negli articoli pubblicati tra il 1947 e il 1950, con lo pseudonimo di J. Boor (una contraffazione delle “lettere” incise  sulle colonne dei Templi: J. B.). Secondo Franco le logge erano al servizio degli stranieri, anzitutto i francesi, i sovietici e le brigate internazionali che portarono migliaia di volontari in Spagna a fianco della Repubblica. Per vincere davvero la Spagna, “faccia al sole e camicia nuova”, doveva eradicare l'altra, la rivoluzionaria, e  spazzare via la “terra di mezzo”. Lo fece con la benedizione del Pontificato. Pio XII scomunicò Juan Perón (caso unico di un capo di Stato cattolico nella storia moderna della Chiesa) e conferì l'Ordine del Cristo a Franco, suscitando l'indignazione di tanti fedeli, anche in Italia. Non solo per il papa, da quindici anni Franco era divenuto il simbolo della lotta contro il “comunismo”. Se questo fosse prevalso a Madrid, l'Europa centro-occidentale avrebbe visto cancellato forse per sempre illuminismo, liberismo, diritti dell'uomo. Per quanto paradossale, proprio in Spagna venne combattuta una battaglia decisiva, che vide anarchici, liberali e molti socialisti spazzati via non da Franco ma dai moscoviti ortodossi, come Palmiro Togliatti, Longo e Vidali.   
Verso la Spagna attuale: Opus dei e instaurazione della monarchia.  
Ma Franco non è né può essere ridotto solo al Caudillo della guerra civile. Ne hanno scritto Edgardo Sogno e Nino Isaia in “Due fronti” (ed. LibriLiberal) che meriterebbe di esser ripubblicato e meditato mentre divampano fatue chiacchiere sul ”fascismo”. Franco ebbe tre meriti indiscutibili, che si impongono anche a chi non ne apprezza la personalità, la sua “retranca”, astuzia del contadino gallego, uso nei secoli a celare i suoi propositi. In primo luogo tenne la Spagna al di fuori della Seconda guerra mondiale, malgrado le pressioni di Mussolini, che lo considerava ingrato nei confronti dell'aiuto datogli dall'Esercito italiano nella guerra civile con il Corpo Truppe Volontarie: il CTV che gli spagnoli traducevano in “Cuando ten vas?”. Dopo aver inutilmente tentato di circuirlo in un lungo esasperante colloquio a Endaya, Hitler disse che mai più lo avrebbe incontrato. Franco era sfuggente, indecifrabile. In realtà pensava alla sua terra. Ebbe la saggezza di lasciarvi approdare silenziosamente gli anglo-americani: un garanzia sulla vita non sua personale ma della Spagna Eterna. In secondo luogo favorì la modernizzazione propugnata dall'Opus Dei, che formò una classe dirigente di tecnocrati. Parlavano anche inglese ma pensavano in spagnolo. Al suo interno ripresero spazio antichi propositi del falangismo di José Antonio: una visione “popolare”, a correzione del ritorno in forze dell'aristocrazia arcaica. Infine il Caudillo ebbe chiaro che il suo potere personale era transitorio: doveva passare dalla “Jefatura del Estado” alla monarchia. Il cambio non poteva però ridursi a puro e semplice ritorno al passato. Di mezzo vi erano stati i molti enormi errori dei Borbone, la condotta di Juan, conte di Barcellona, da lui ritenuta poco lineare e infine la guerra civile. Per essere davvero punto di equilibrio e garanzia per il futuro la monarchia non andava “restaurata” ma “instaurata”. Anche Umberto II, in esilio, si adoperò per convincere don Juan a passare la mano al figlio, Juan Carlos, designato Re. Iniziò il processo che ebbe protagonisti Manuel Fraga Iribarne, Adolfo Suárez e altri uomini della “transizione”, coronata con la Costituzione del 1978 redatta da giuristi anche socialisti come Gregorio Peces Barba.  
Alla morte Franco poté ritenere aver ricostruito la Spagna “una, grande, libre”, membro delle Nazioni Unite dal 1955, lo stesso anno nel quale l'Italia vi venne ammessa. 
Il Valle de los Caìdos, simbolo di pacificazione.
La salma del Caudillo non appartiene solo alla sua famiglia e alla Spagna. Essa rappresenta un capitolo della storia d'Europa. Non solo. L'immensa croce ritta sul colle sovrastante la cupa Basilica vuol essere un simbolo di pace eterna, un invito alla meditazione sulla storia universale. Quando pure le sue spoglie venissero rimosse, l'opera di Franco rimarrebbe consegnata alla storia: anzitutto di un'Europa che ha troppo a lungo ostacolato l'ingresso della Penisola Iberica nella Comunità Economica, accampando violazioni dei diritti dell'uomo, per ostacolarne, in realtà, le esportazioni e ritardarne la modernizzazione. Chi ha visitato la Spagna durante la dittatura o all'indomani della morte di Franco e la confronta con l'attuale conosce bene i passi da gigante compiuti dal Paese grazie alla dirigenza cresciuta negli anni del franchismo. Unì senso dello Stato e memoria del Passato. Il Passato che non deve passare. E' il futuro. 
Anche Sánchez sa che i “monumenti” sono come la storia. Non si cancellano. Lo ha ricordato Francesco Rutelli contro certe manie dilaganti oltre Atlantico e anche in Italia, ove imperversa la smania di rimuovere, abbattere, obliare. Tuttavia conduce la sua lotta disperata per la estumulazione: vuole svellere la pietra angolare degli avversari, seminare la zizzania tra i suoi rivali, dividerli e sconfiggerli alle urne, per riportare la Spagna all'indietro, a fianco di Maduro, della Cuba perennemente castrista. Senza alcuna nostalgia personale del massonofago Caudillo (che finse di non sapere quante logge anglo-americane proliferassero nel suo Paese malgrado i divieti ufficiali), i quarant'anni del suo dominio hanno diritto a un giudizio storico pacato, libero dai precetti di “leggi sulla memoria” che sanno di censura ideologica e di fanatismo, contrario ma esattamente uguale al suo.
Aldo A. Mola
 
PRIMA E DOPO CAPORETTO?
RISPONDE CARLO CADORNA CON DOCUMENTI
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 17 marzo 2019, pagg. 1 e 11.

Gli Uomini che fecero la Storia: Giolitti, Cadorna, Diaz  
Luigi CadornaIl 1928 in pochi  mesi portò via Armando Diaz (classe 1861), Giovanni Giolitti (1842) e Luigi Cadorna (1850), tre massimi protagonisti della storia d'Italia: lo Statista e i due Comandanti Supremi dell'esercito nella Grande guerra. Diaz non lasciò memorie. Le sue carte sono state studiate e valorizzate dal generale Luigi Gratton (2001), fiero di essere stato alfiere del Tricolore al rientro dell'Italia a Trieste nel 1954. Giolitti pubblicò le Memorie della sua vita nel suo 80° compleanno, il 27 ottobre 1922. Nei sei anni seguenti non aggiunse nulla, né rilasciò interviste. Ma il 16 marzo 1924, vigilia delle elezioni vinte dal “listone nazionale” filofascista che candidò Enrico De Nicola a Napoli e Vittorio Emanuele Orlando in Sicilia, Giolitti deplorò la deriva precipitosa dalla democrazia liberale di Azeglio, Cavour e Sella al “partito unico”, sempre con l'avallo della Camera dei deputati, pronuba dinnanzi al “duce”, che ripetutamente la umiliò con parole sferzanti. Dal canto suo Cadorna non tenne un “Diario” né pubblicò  “memorie”. Però cent'anni orsono fece di più e di meglio. Nel 1919, vergò la sua opera fondamentale: “La guerra alla fronte italiana fino all'arresto sulla linea della Piave e del Grappa (24 maggio 1915-9 novembre 1917)”. Non generici “ricordi” personali ma Storia, densa di documenti e di atti ufficiali. L'opera è la “biografia” dell'Italia dalla Conflagrazione europea (luglio1914) alla sostituzione  di Cadorna con Armando Diaz a capo dell'Esercito italiano (9 novembre 1917). 
Quando scrisse, il Generale viveva a Firenze, in un villino acquistato per festeggiare il suo 68° compleanno: una residenza appartata, modesta, senza riscaldamento. Chi lo visitava nei lunghi mesi del freddo lo trovava alla scrivania “intabarrato e inguantato”, intento a compulsare documenti. Posava la penna e conversava. Limpido, chiaro, tutto “fatti”, dati, luoghi. A volte s'accendeva, alzava la voce, batteva il pugno sulla scrivania, come gli accadde mentre conversava con Olindo Malagodi. Aveva sempre dinnanzi agli occhi le sterminate carte militari “della fronte” e l'“ordine di battaglia” aggiornato per anni, le 35 divisioni iniziali, via via cresciute di numero e di capacità, ma sempre periclitanti per carenza di mezzi e la sorda ostilità serpeggiante malgrado l'attivismo del “fronte interno”. 
In “La guerra alla fronte italiana” il Generale ampliò quanto aveva dichiarato alla Commissione d'inchiesta “sugli avvenimenti dall'Isonzo al Piave (24 ottobre-9 novembre 1917)”, titolo pudico della Relazione pubblicata in due volumi nell'estate 1919. 
Per capire il canone della sua opera occorre ricordare i drammatici mesi vissuti da Cadorna dal giorno stesso dell'arretramento dalla conca di Caporetto alla destra del “fiume Sacro”, quando fu rimosso dal comando della macchina militare da lui costruita con determinazione, grazie all’intelligente collaborazione di militari di alte capacità, di “militari senza divisa” e dell'apparato industriale, a cominciare dall'Ansaldo di Genova, che si valse, tra altri, delle competenze scientifiche di Federico Giolitti, figlio dello Statista. 
Dal dicembre 1917 rappresentante dell'Italia nell'appena costituito Consiglio superiore di guerra interalleato con sede a Versailles (carica accettata con spirito di servizio, dopo iniziale riluttanza), il 20 gennaio 1918 Cadorna fu chiamato “a disposizione” della Commissione d'inchiesta come un teste qualunque, quasi non potesse essere “audito” diversamente, come invece avvenne al migliaio di altre persone chiamate a deporre. Qualcosa non gli tornava. Né torna a chi studi il “caso” senza preconcetti. 
Il Generale nella tempesta scrive la verità dei “fatti”
Tirava vento pessimo. L'antico Comandante Supremo ne colse le prime folate, ma non avvertì la bufera. Nel luglio 1918 fu drasticamente collocato a disposizione “in sovrannumero”, con riduzione di rango e assegni. All'estero il provvedimento venne inteso come punizione, “una vera e propria destituzione”. “Ma le porcherie e le vessazioni – egli scrisse il 1° agosto al figlio, Raffaele, futuro comandante del Corpo Volontari della Libertà - hanno sempre disonorato chi le commette e non chi le subisce”. Protestò col presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, da anni suo fierissimo nemico, lo stesso che in quei giorni incalzava Armando Diaz affinché scatenasse l'offensiva contro l'esercito asburgico e, secondo il vicecomandante Gaetano Giardino, arrivò ad affermare: “Preferisco una sconfitta all'inazione”, quasi che il Paese potesse permetterselo. In realtà, un eventuale sciagurato disastro (la storia insegna che nessuno sa “prima” come finiscano le battaglie né le guerre) avrebbe fatto crollare il regno d'Italia, senza speranze di riscossa, com'era accaduto in Russia e poi avvenne in Bulgaria, Austria, Turchia e Germania.  
Il 21 novembre 1919 Cadorna aveva già terminato i primi quattro dei dieci capitoli del libro “Dalla Bainsizza al Piave”. Contava di terminarlo entro l'anno e di mettere subito mano a un secondo tomo “Dall'origine alla Bainsizza”. Non aveva ancora deciso se pubblicarli separatamente o fonderli in un unico volume. Nel frattempo cominciarono a uscire le memorie di altri generali, come le “Note di guerra” di Luigi Capello, già comandante della II armata, travolta dall'avanzata austro-germanica dell'ottobre 1917, e il memoriale di Luigi Nava, da lui rimosso da comandante della IV Armata. “L'affare di Caporetto –  scrisse Cadorna al figlio – è come una pentola che bolle e che ogni tanto solleva il coperchio e poi si chiude. Figurati che pandemonio accadrà quando se ne parlerà sul serio” (14 marzo 1919).
Il governo Orlando-Sonnino era alla resa dei conti. La delegazione italiana alla conferenza di pace di Versailles non fu all'altezza del compito, né dell'alto prezzo pagato dal Paese per la vittoria finale. Lo ammise Orlando nelle “Memorie” (lasciate incompiute per motivi fabulosi), in cui polemizzò aspramente ex post con il presidente degli Stati Uniti d'America, Woodrow Wilson, “arbitro di fatto dalla forza irresistibile della sua potenza” e al tempo stesso succubo di “una forza occulta”, degli jugoslavi e (venne insinuato) delle loro “attiviste”. Fantasie. Non avendo ottenuto Fiume in aggiunta a quanto previsto dall'arrangement con il quale il 26 aprile 1915 il governo Salandra-Sonnino aveva aderito all'Intesa (senza però entrarvi organicamente: imperdonabile errore strategico di politica diplomatica), la delegazione di Roma lasciò il Congresso di Parigi (“non conferenza di pace” ma arbitrato secondo Orlando), nell'indifferenza degli altri partecipanti, che si affrettarono ad approvare lo statuto della Lega delle Nazioni e a fissare i preliminari del diktat contro la Germania. Non le rimase che riprendere la via francigena. Il 23 giugno la Camera rovesciò il governo Orlando-Sonnino, pochi giorni prima della firma del Trattato di pace nel Castello di Versailles nel quinto anniversario del mortale attentato di Sarajevo, motivo scatenante della conflagrazione.
Anche il nuovo presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, alimentò la canea nei confronti di Cadorna, in vista della pubblicazione della Relazione della commissione d'inchiesta. Questa gli attraeva i consensi degli antimilitaristi. Per lui il generale era solo un “brutto ricordo”. Perciò Cadorna venne messo nell'oggettiva impossibilità di rispondere  pubblicamente con la necessaria efficacia e abbandonato al “crucifige” di una “piazza” da oltre un anno aizzata e assetata del sacrificio di un capro espiatorio. I due volumi di “La guerra alla fronte italiana” rimasero inediti sino all'aprile del 1921. Cent'anni dopo escono (BastogiLibri, Roma, con prefazione di Gianni Rabbia) in vista della Giornata Cadorna in programma a Pallanza il 7 aprile prossimo.   
Facit indignatio versum                                       
Mentre scriveva l'Opus magnum, come fosse due persone in una, con due teste e quattro mani, il generale intraprese l'“altro libro”. Il primo era la Storia, il secondo una sorta di lunga “nota a pie' di pagina”, puntuale e puntuta, meticolosa e rigorosa, sempre documenti alla mano. Man mano che i lavori della Commissione d'inchiesta procedevano, egli sentiva sempre più impellente e doveroso “testimoniare” dinnanzi all'opinione nazionale e internazionale. Doveva illuminare i passaggi fondamentali del différend tra la sua opera di Comandante supremo e i governi susseguitisi dalla conflagrazione alla sua rimozione: Salandra-San Giuliano e Salandra-Sonnino sino al 10 giugno 1916, il ministero Boselli, rovesciato il 25 ottobre 1917, e gli esordi di quello presieduto da Orlando, sempre con Sonnino agli Esteri, anello di congiunzione fra le trame diplomatiche del 1914 e il rovescio del 1919. Neppur Sonnino lasciò “Memorie”. Solo un “Diario”, molto frammentario e lacunoso proprio nei passaggi cruciali, e lettere.  
Sin dai primi mesi dell'intervento dell'Italia in guerra Governo e Comando Supremo giunsero ai ferri corti su molti versanti sostanziali delle rispettive competenze. Lo aveva anticipato il ministro della Guerra Domenico Grandi quando, consultato proprio Cadorna, il 23 settembre 1914 aveva avvertito Salandra: il governo era l'unico titolato a valutare lo spirito pubblico e le esigenze politiche e a stabilire se “il Paese” avrebbe condiviso e assecondato, o no, l'ingresso nella fornace ardente, con tutti i rischi derivanti dalla impreparazione dello “strumento bellico”. Poiché non era allineato con gli scopi occulti del governo, Grandi venne sostituito. Ad aggravare la tensione sull'inizio del 1916 intervenne la decisione dell'Esecutivo di intraprendere un'azione militare in Albania. Attestarsi a Vallona (come all'epoca si diceva) per Salandra e Sonnino significava fare dell'Adriatico il “lago italiano”, come a  grandi linee tratteggiato dall'“accordo” (non patto né trattato, a differenza di quanto molti scrissero e ripetono) siglato a Londra il 26 aprile 1915 in vista dell'adesione all'Intesa anglo-franco-russa. 
Secondo Cadorna l'apertura di quel fronte bellico sulla “quinta sponda” era invece del tutto fuorviante: avrebbe distratto mezzi e uomini dall'unico vero campo di battaglia e, in prospettiva, assorbito risorse sempre più ampie, in uno scenario politico-militare colmo di incognite e di possibili sorprese negative. Lo stesso valeva per le truppe italiane Oltremare, dalla Tripolitania al Mar Rosso, Ve n'era invece urgente e prioritario bisogno sul lunghissimo sinuoso fronte italo-austriaco. L'Italia, egli soleva ripetere, avrebbe riconquistato la Libia sul Carso, ove, diversamente, rischiava di perdere tutto. Anche Londra si disperdeva in imprese azzardate su teatri diversissimi, ma da secoli era un impero. All'opposto l'Italia doveva invece concentrare tutte le sue risorse per sfondare il fronte austro-ungarico a est, arrivare a Lubiana e Zagabria e aggirare da sud l'impero asburgico, suscitandovi l'insorgenza delle “nazioni senza Stato” o, come poi si disse, dei “popoli oppressi”. La sua visione potrebbe essere classificata mazziniana o garibaldina se non fosse che sin dal 1864 Vittorio Emanuele II aveva caldeggiato un'azione italiana di quel tenore, per destabilizzare l'Austria. Come scrive suo nipote Carlo nel succoso saggio introduttivo a “Caporetto. Risponde Cadorna” (BCSMedia, Grottaferrata, aprile 2019), il Comandante era “un generale del Risorgimento italiano”. 
Il “differend” tra governi allo sbando e il Comandante Supremo
La risposta del governo ai suoi mòniti e, presto, alle sue rimostranze, consegnate anche al carteggio con il titolare degli Esteri, Sonnino, fu quanto di più deludente e assurdo. Lo documenta il verbale della seduta del Consiglio dei ministri del 26 febbraio1916, firmato da Antonio Salandra e da Salvatore Barzilai, sinora inedito: “Presenti tutti i ministri. Si autorizza la pubblicazione di un decreto relativo all'avvio delle azioni militari in Albania, in sostituzione del decreto 1 dicembre 1915”. Il governo avocò a sé il comando dell'impresa. Così l'Italia condusse due guerre separate, una con la regia del Comandante Supremo, un'altra “gestita” direttamente da Roma. Quella delibera comportava due diverse politiche estere, perché (lo aveva insegnato Clausewitz) le armi sono la prosecuzione della diplomazia con altri mezzi. Ma era appunto la politica estera il “ventre molle” del governo italiano. Lo si vide anche con l’esecutivo Boselli, quando Roma non poté più esimersi dal dichiarare guerra alla Germania, che si era impegnata a combattere sin dal 26 aprile 1915. Dopo la “spedizione di primavera” (o “punitiva”) austroungarica del maggio 1916 e la controffensiva abilmente allestita da Cadorna, culminata con l'ingresso in Gorizia il 10 agosto, la guerra mutò volto e “ragione sociale”: non poteva più essere confinata nel recinto del “sacro egoismo” accampato da Salandra, il cui vero e miope obiettivo era annientare Giolitti. La guerra dell'Italia andava inquadrata nell'ambito di una visione europea, delle alleanze e delle loro prospettive postbelliche, come da Cadorna scritto e ripetuto sin dal luglio 1914, con lungimiranza superiore a quella dei “politici”. 
Solo il 24 agosto 1916, presenti tutti i ministri, il governo Boselli fece mettere a verbale il passo fatale: udita la relazione del ministro degli Esteri, deliberò “in conformità degli impegni assunti con gli alleati, di proporre a Sua Maestà la dichiarazione di guerra alla Germania, [autorizzando] il Presidente  del Consiglio e il ministro degli Esteri di determinare il momento opportuno per dar seguito alla deliberazione presa”. Roma doveva però motivare una decisione così gravida di conseguenze. Lo fece con argomenti di basso profilo: gli aiuti militari germanici all'Austria-Ungheria sua alleata, la consegna agli asburgici di militari italiani evasi dai campi di prigionia, la sospensione del pagamento delle pensioni dovute a operai italiani: contenziosi da sottoporre a commissioni paritetiche, non alle armi. La dichiarazione di guerra venne comunicata alle 13.40 del 27 agosto con efficacia dall'indomani. Lo stesso giorno la Romania scese in campo a fianco dell'Intesa. A quel punto Cadorna chiese a Sonnino di farsi almeno comunicare “i patti interceduti fra gli alleati circa la sorte eventuale dell'impero turco: Costantinopoli, gli Stretti, l'Asia Minore, questioni di primaria importanza per la preparazione della pace, a cui bisogna pure pensare quando non ci sia altra guerra da dichiarare”. Sonnino si chiuse a riccio. La politica estera era suo riservato dominio. Di più e di peggio fece Boselli col sostegno del ministro dell'Interno, Orlando. Lungo tutto il 1917 e specialmente dopo la rivoluzione in Russia, l'ingresso degli USA nella guerra e il rischio di un'offensiva austro-germanica, come bene documenta Carlo Cadorna, il Comandante Supremo incalzò il governo con ben quattro lettere per chiedere il potenziamento del “fronte interno” e la lotta contro il disfattismo che dal paese contagiava l'Esercito. Non ebbe alcuna risposta. Il 27 marzo e il 28 settembre Cadorna partecipò a due sedute del governo. Della prima non v'è alcuna traccia nei verbali del Consiglio dei ministri; la seconda è riassunta in poche righe, elusive, senza alcun cenno al dibattito. Cadorna non compare. Secondo una postuma Dichiarazione di Orlando, il Comandante supremo gli condensò il programma in poche parole a seduta ormai terminata: “Lei pensi ad assicurarmi le retrovie, che ai soldati ci penso io”.
La vera storia di quei drammatici mesi non si comprende appieno dunque né dalle Memorie di Orlando o dal carteggio di Sonnino né, tanto meno, dall'Inchiesta su Caporetto, ma emerge invece a luce meridiana da “La guerra alla fronte italiana” e dal volume ora pubblicato da Carlo Cadorna per riaprire il dibattito su pagine fondamentali della storia d'Italia.
    Aldo A. Mola 

FEDERZONI, UOMO DEL RE?
ESCE IL SUO DIARIO INEDITO (1943-1944)
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 10 marzo 2019, pagg. 1 e 11.

Luigi Federzoni da internetComunione e confessione prima del Gran Consiglio
  La mattina del 24 luglio 1943, un sabato, Luigi Federzoni (Bologna, 27 settembre 1878- Roma, 24 gennaio 1967) andò a confessarsi e a comunicarsi. Lo ricordò egli stesso in “Italia di ieri per la storia di domani”, il “memoriale” pubblicato un mese dopo la sua morte. Altrettanto fecero Dino Grandi e “forse qualcun altro” componente del Gran Consiglio del Fascismo, convocato a Palazzo Venezia per le 17 in piena calura estiva. Quei gerarchi, ricorda Emilio Gentile nel saggio più recente sul 25 luglio (ed. Laterza), erano “consapevoli del rischio mortale, ma sereni per la certezza di combattere una battaglia forse decisiva per la salvezza del Paese”. Alcuni alla riunione andarono “bene armati”. Federzoni narra che uno lo “rimorchiò in un cantuccio e con aria alquanto spaccona trasse di sotto la palandrana di prescrizione due bombe a mano”. Era forse il pugnace Cesare Maria De Vecchi, conte di Val Cismon, pluridecorato al valore, quadrumviro della marcia su Roma del 31 ottobre 1922, fiduciario di Vittorio Emanuele III. Il Gran Consiglio, organo supremo della Rivoluzione fascista” dal 1928, non si riuniva da oltre quattro anni. Contava e non contava. I suoi poteri effettivi erano e rimangono dispute tra costituzionalisti. Ne ha scritto recentemente Guido Melis in “La macchina imperfetta” (ed. il Mulino), Premio Acqui Soria 2018. A volte gliene vengono attribuiti molti più di quanti ne avesse, in specie sulla successione al trono, nel quale non ebbe mai alcun potere determinante. Poteva solo esprimere “pareri”. Quanto poco Mussolini lo tenesse in considerazione si era visto negli anni successivi all'abbraccio mortale tra lui e Adolf Hitler, Fuerher della Germania e del suo partito unico, il nazionalsocialista. Esondando dai poteri di capo del governo, il duce del fascismo aveva deciso l'alleanza militare con la Germania, la “non belligeranza” e poi la dichiarazione di guerra (10 giugno 1940) contro Francia e Gran Bretagna, Unione Sovietica e, davvero esagerando, conto gli Stati Uniti d'America senza mai consultarlo. D'altronde nessuno dei suoi componenti si era sentito in dovere di chiederne la convocazione. Anche per loro il Duce aveva sempre ragione.
  Tre anni dopo lo sciagurato ingresso in guerra, perduta in pochi mesi l'intera Africa Orientale (Eritrea, Somalia ed Etiopia, conquistata appena sei anni prima) e poi l'intera Libia e l'ultimo ridotto in Tunisia, anche la Sicilia dal 10 luglio era stata invasa dagli anglo-americani, i cui comandanti impartirono alle truppe direttive poco tenere nei confronti degli italiani, civili compresi. Molte piazzeforti si arresero senza opporre resistenza. Gli “alleati” in molti casi furono accolti come liberatori. A quel punto occorreva salvare il salvabile.
Federzoni avverte il re, che già sapeva tutto
Federzoni concorse con Dino Grandi alla redazione dell'ordine del giorno da proporre al Gran Consiglio, per proclamare “il dovere sacro di tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l'unità, l'indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l'avvenire del popolo italiano”. Lo pensavano e lo ripetevano da anni quel che rimaneva di liberali, democratici, popolari, socialisti, antifascisti in forzato esilio o da molti anni incarcerati, militanti del neonato partito d'azione e il repubblicano Randolfo Pacciardi, massone. Il Risorgimento non era affatto monopolio dei nazionalisti, meno ancora dei fascisti, che lo avevano confiscato e ridotto a retorica. L'Italia era e doveva tornare a essere degli italiani, come avevano spiegato a loro tempo tanti patres della Terza Italia, quali i “fratelli” Francesco De Sanctis, Giosue Carducci, Giovanni Pascoli e una legione di studiosi che non si erano fermati alla contemplazione letteraria del Paese ma si erano immersi negli studi di statistica, scienze sociali ed economia. Non avevano mai formato un partito, ma una “opinione nazionale”, sulla scia di Cavour e di Massimo d'Azeglio, nel solco di Giuseppe Garibaldi, Francesco Crispi e via via sino a Giovanni Giolitti, capofila del “senso dello Stato”.
Federzoni ebbe il merito di far arrivare clandestinamente il testo dell'ordine del giorno a Vittorio Emanuele III, che ne aveva già notizia indiretta, così come lo ebbe anticipatamente il demolaburista Ivanoe Bonomi tramite Domenico Maiocco, socialista, antifascista e massone. Chi davvero aveva il potere di fare ebbe quindi modo di muovere le falangi di un ordine di battaglia predisposto da tempo.     
Al Re i poteri statutari per salvare l'Italia
Con breve interruzione la seduta del Gran Consiglio durò oltre le due del mattino e si concluse con l'approvazione dell'ordine del giorno Grandi-Federzoni, al quale avevano aderito anche Giuseppe Bottai, Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, mesi prima defenestrato da ministro degli Esteri e nominato ambasciatore presso la Santa Sede (così poté tramare con maggior sicurezza), e altre personalità eminenti del “regime”. Ciascuna di esse poi narrò in memoriali o a intervistatori quanto ricordava. I Grandi Consiglieri del Fascismo tradirono il partito o addirittura l'Italia? Volevano la eliminazione del duce? Anche il verbale redatto da Federzoni molti giorni dopo la seduta conferma che persino i più strenui fautori della “svolta” in realtà si limitarono a “invitare il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re (…) affinché egli voglia per l'onore e la salvezza della Patria assumere con l'effettivo comando delle Forze Armate (…) quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono...”. L'appello era necessario giacché gli anglo-americani preparavano l'assalto alla penisola, le armate italiane erano disperse all'estero, dalla Provenza alla Jugoslavia e alla Grecia, e, dopo anni di stolida autarchia e di razionamento, la maggior parte della popolazione, specialmente nelle città, era ormai alla fame, preda della ”borsa nera”. Gli scioperi del marzo 1943 proprio nei centri industriali avevano suonato il campanello d'allarme: “pane e pace”. Una settimana prima della seduta del Gran Consiglio, nell'incontro di Feltre Mussolini per l'ennesima volta non riuscì a far capire a Hitler che l'Italia non ce la faceva più. Il Fuerher comprese invece che doveva farvi affluire subito divisioni in assetto di guerra per prenderla sotto controllo prima dell'invasione angloamericana. In quelle ore Roma stessa subì un devastante bombardamento aereo “pedagogico”: una brutale esortazione a muoversi, a disfarsi del fascismo e del suo duce prima di essere sistematicamente schiacciata dal cielo, come sin  dal 1940 era accaduto a tante sue città, da Torino a Genova e Cagliari…, in un crescendo di rovine e di orrori. Del resto era stata l'Italia a dichiarare guerra.
La mattina del 25 luglio 1943, una domenica, Roma si destò come poteva. Alternava speranza e angoscia. Mussolini, dopo una mattinata di lavoro ordinario (ricevette persino l'ambasciatore del Giappone, al quale assicurò che l'Italia avrebbe  “tirato diritto”: qualcuno ha favoleggiato che stesse approntando la richiesta di pace separata all'Urss staliniana), alle cinque del pomeriggio andò in udienza dal re, che gli revocò la carica di capo del governo, lo fece fermare (non “arrestare” o “incarcerare”) dai carabinieri, “nei secoli fedeli”, e tradurre al sicuro sotto sorveglianza. Poche ore dopo, il maresciallo Pietro Badoglio, duca di Addis Abeba, annunciò per radio la sua successione al “cavalier Mussolini”, che in effetti dal 1924 era insignito dell'Ordine della Santissima Annunziata, “cugino del re”.
Nella seduta, in alcuni momenti concitata ma mai tumultuosa, Federzoni, Grandi, Bottai e gli altri firmatari dell'ordine del giorno avevano chiesto quanto da tempo il re aveva deciso da sé: il cambio al vertice dell'Esecutivo in vista dell'uscita dell'Italia da una guerra ormai insostenibile, al costo minore possibile. Iniziava una partita difficilissima tuttora poco capita dalla storiografia e dall'opinione comune. Non era la prima volta nei secoli di Casa Savoia. Quel che contava era salvare la continuità dello Stato, sulla base della ribadita unione tra Istituzioni e Paese: “Italia e Vittorio Emanuele”, secondo la formula cara a Garibaldi. L'Italia fu pervasa da manifestazioni di giubilo per la caduta del regime. Non si registrarono mobilitazioni significative a favore di Mussolini né del Partito nazionale fascista, che pochi giorni dopo venne sciolto per decreto legge, come la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, un tempo onnipotente ma che non mosse un dito a favore del “Capo”. Tacquero anche i celebrati “battaglioni M”. Dai cortei nessuno inneggiò a Federzoni, Grandi, Bottai, Ciano o al altri firmatari del poi famoso ordine del giorno. La storia aveva mutato corso senza attenderli. I gerarchi uscirono di scena. Entrò in campo il governo di militari e di tecnici (come Raffaele Guariglia agli esteri) che sin dal 1925 Giovanni Giolitti aveva vaticinato quale unica alternativa alla deriva dell'Italia verso il “partito unico” e le sue nefaste conseguenze interne e internazionali. Qualcuno lamenta che Badoglio impiegò 45 giorni a ottenere la “resa senza condizioni”. Che cosa fa oggi il governo in 45 giorni? 
Il regime
Il partito unico ebbe la premessa il 23 febbraio 1923 con la confluenza dei nazionalisti nel partito nazionale fascista, previo un solenne rito sacrificale: la dichiarazione di incompatibilità tra fasci e logge massoniche, deliberata dal Gran Consiglio del fascismo con la partecipazione, in via eccezionale, di uno spretato massonofago, che già aveva pubblicato in Italia i Protocolli dei Savi anziani di Sion e da un decennio faceva da rompighiaccio dell'estremismo contro liberalismo e democrazia parlamentare. Se il giovane Federzoni aveva deplorato la germanizzazione del lago di Garda, quell'ex reverendo aveva scritto un libello su la Germania alla conquista dell'Italia, denunciando i complotti di banche (come la Commerciale di Milano) e di grandi industrie a favore dello straniero.  
A quel punto i nazionalisti ritennero di mettere le briglie al fascismo, ancora un arcipelago di correnti, dissidenze e pulsioni mai giunte a sintesi. Di fatto nell'ambito del regime essi rimasero una frangia autorevole per cultura giuridica e letteraria ma scarsamente influente nell'apparato del partito che era un caleidoscopio di “ras” e di personalità dagli itinerari disparati, ben lontani da qualunque sintesi nella guida politica del Paese. 
I nazionalisti avevano avuto maggior peso quando erano la piccola avanguardia dell'opposizione di estrema destra e, sulla scia delle generose visioni di Alfredo Oriani, si erano attribuiti il ruolo di antesignani del grande ritorno a una storia mai esistita. Di fatto avevano funto da mosche cocchiere nella guerra per la sovranità dell'Italia su Tripolitania, Cirenaica e occupazione/liberazione di Rodi e delle Sporadi. Questa venne decisa da uomini pragmatici come il re, Giolitti e San Giuliano, pronti a tirare le somme di vent'anni di trattative diplomatiche. Del pari si considerarono avanguardia dell'intervento dell'Italia nella Grande guerra, ove però furono anticipati dal loro principale contendente, il Grande Oriente d'Italia capitanato da Ettore Ferrari, e si pronunciarono per la guerra contro l'Austria quando Alfredo Rocco (l'unico nazionalista con alto senso dello Stato) ancora guardava con ammirazione all'impero di Germania quale modello da replicare in Italia. Nel corso del conflitto, che tra gli interventisti registrò la prevalenza di sindacalisti rivoluzionari, socialisti riformisti come Leonida Bissolati, socialmassimalisti alla Mussolini e repubblicani, sempre pronti a minacciare “guerra o rivoluzione”, i nazionalisti ebbero un ruolo marginale, sino alla fase estrema, dopo Caporetto, quando tornò preminente il Grande Oriente guidato da Ernesto Nathan, per il quale bisognava schiacciare i pacifisti come serpenti.
Il Nazionalismo e la Nazione 
“Nipote” in senso ideale di Giosue Carducci (suo padre, Giovanni, ne era discepolo e cultore), Federzoni dovette il successo del suo esordio politico proprio al declino di Nathan quale sindaco di Roma, non per sua incapacità amministrativa (gli assessori erano competenti e valorosi) ma per la “crociata” da lui incautamente lanciata contro la Chiesa cattolica il 20 settembre 1910. Eletto deputato a soli 35 anni il 2 novembre 1913 nel prestigioso collegio Roma I in ballottaggio contro Antonino Campanozzi (4322 voti contro 3872) Federzoni parve stella cometa di una Quarta Italia. In realtà l'affluenza dei cattolici alle urne era ormai dilagante in tutta Italia in attuazione del “patto Gentiloni” che sommò cattolici moderati, liberali temperati e massoni lungimiranti. Nessuno sentiva bisogno di clericalismo, estraneo all'Italia e soprattutto al suo Re, che aveva da poco scoperto la statua equestre del Padre della Patria e rimaneva scomunicato come i suoi antenati, colpevoli di aver debellato il potere temporale di papi.
Federzoni assunse dunque un ruolo divisivo. La sua ascesa era fatalmente subordinata all'annientamento di un “nemico interno”: il giolittismo e la massoneria, il socialismo riformistico e la democrazia liberale. Non conseguì affatto l'obiettivo. Sulla fine dell'ottobre del 1922 il governo presieduto da Luigi Facta (il sesto in appena tre anni, il peggiore per inconcludenza) fu spazzato via ma non venne sostituito da una compagine nazional-moderata guidata, per esempio, da Antonio Salandra, ma da una compagine di costituzionali capitanata da Mussolini, che andò da Alberto De Stefani al filosofo Giovanni Gentile, da Colonna di Cesarò, demosociale, al giolittiano Teofilo Rossi di Montelera e fu vegliata da Armando Diaz e da Paolo Thaon di Revel, grande ammiraglio. Il quarantaquattrenne Federzoni fu assegnato alle Colonie in successione a Giovanni Amendola, teosofo e massone. Quella del 31 ottobre 1922 non fu Rivoluzione fascista ma continuità dello Stato. Dopo le elezioni del 1924 l’Italia visse la stagione del rapimento e assassinio di Giacomo Matteotti (l'unica certezza sulla sua fine è che morì, ha osservato il suo documentato biografo, Enrico Tiozzo) e dei quattro attentati alla vita di Mussolini, usati quale acceleratore della storia, quasi fosse un paese balcanico. Chiamato a sostituire Mussolini al ministero dell'Interno nella fase più oscura della guerra civile nuovamente strisciante, Federzoni constatò l'ingovernabilità del caos con mezzi ordinari. L'Italia passò allora alle leggi fascistissime, alla reintroduzione della pena di morte per i reati contro lo Stato e al Tribunale Speciale. Il governo aumentò il consenso, ma imboccò il viottolo della repressione di ogni forma di opposizione partitica e, ben presto, di dissenso culturale. Il nazionalismo prevalse solo riducendosi a uno spicchio della Nazione, negando e conculcando la verità della storia. Dal 1925 le Comunità liberomuratorie d'Italia, che facevano da tramite con le democrazie parlamentari più avanzate (monarchie e repubbliche, quali Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti d'America, Svezia, Olanda...), furono costrette ad sciogliersi. Il Paese si era avviato alla decrescita civile. Per frenarla Mussolini stesso chiamò al governo strenui avversari del nazionalismo, quali i massoni Giuseppe Belluzzo all'Economia e all’Educazione nazionale Balbino Giuliano iniziato massone nella loggia “Valle del Chienti” di Camerino quando vi era giovane docente universitario. Ad Alberto Beneduce, grande oratore del GOI, fu affidato il nascente Istituto per la Ricostruzione Industriale. Quella era l'Italia vera. 
Federzoni: un umanista di grande talento
Dopo l'avvento del regime di partito unico Federzoni ebbe ruoli eminenti prima da nuovamente ministro delle Colonie, poi come componente del Senato, di cui fu per dieci anni presidente, e soprattutto quale presidente di istituzioni accademiche benemerite, promotrici di opere emblematiche. E' il caso dell'edizione nazionale delle opere di Garibaldi e di Carducci che firmò  con lo pseudonimo “Enotrio Romano” i carmi più  antivaticaneschi usciti da penna italiana (più ancora di quelli di Lorenzo Stecchetti, l'Argia Sbolenfi  ben noto nella Bologna cara al giovane Federzoni).
 Per tutti questi motivi era importante dare alle stampe l'edizione critica del vero Diario scritto da Federzoni nei mesi durante i quali fu ospite dell'ambasciatore  del Portogallo presso la Santa Sede. Riuscì così a scampare alla Repubblica sociale che nel gennaio 1944 condannò a morte e fucilò come traditori Ciano e altri quattro sfortunati firmatari dell'ordine del giorno del 24-25 luglio 1943. E' significativo che a promuovere l'edizione del Diario inedito di Federzoni, impeccabilmente curata da Erminia Ciccozzi, funzionaria dell'Archivio Centrale dello Stato, e da Aldo G. Ricci, suo sovrintendente emerito, sia l'Istituto Lino Salvini di Firenze, per i tipi dell'editore Angelo Pontecorboli: un modello di cultura e di serena contemplazione della grande storia di un'Italia che seppe essere e deve tornare “universale”, lontana dal provincialismo spacciato come sovranismo.
Dal Diario, Federzoni emerge quale aspirante uomo del Re. Ma Vittorio Emanuele III volle essere Re di tutti gli italiani, senza pregiudizio di tessere di partito, di opinioni politiche e di culto religioso. Il carteggio tra l'antico “gerarca” e Umberto II esule in Portogallo documenta la coscienza adamantina e la profonda passione di Federzoni per l'Italia. Cinquant'anni dopo la sua morte, merita di essere conosciuto e riconosciuto nella sua identità di patriota.    
Aldo A. Mola
 
ANDREA CAMILLERI, IL “LATO C” DI FRANCESCO CRISPI
E ROSALIA MONTMASSON, L'ANGELO CADUTO
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 3 marzo 2019, pagg. 1 e 11.

    Il neo-meridionalismo siculocentrico di Andrea Camilleri...
“Maxima debetur puero reverentia...” dicevano gli antichi. Altrettanta se ne deve agli anziani. Con una differenza. Dal “puer” non ci si attendono lezioni di storia. All'anziano, invece, si concede volentieri che narri il “suo” buon tempo andato, spesso rivisto con occhiali deformanti atti a cancellare i cattivi ricordi e a salvare i gradevoli. Ma se il vecchio parla del tempo “di tutti”, se s'impanca a sentenziare sui massimi sistemi dell'universo, allora si espone a obiezioni e a correzioni come chiunque altro. È il caso di Andrea Camilleri, che ha fustigato Francesco Merlo con una lettera a “Repubblica” intrisa di commosso elogio dell'Isola del Sole, a suo avviso terra  felice sino a quando venne saccheggiata, come tutto il Mezzogiorno, da “piemontesi” e “nordisti”. La reverenza verso la verità storica ha la meglio su quella per l'anagrafe.  Camilleri ha un'età invidiabile, ma questo non è un merito particolare. Accade a un numero sempre più elevato di abitanti del Paese Italia proprio grazie al progresso sociale, economico e civile dovuto all'unificazione nazionale del 1859-1860 e al suo inserimento nel circuito mondiale che ha sommato scienza e diffusione del benessere, superando i particolarismi. Per buona sorte (il suo provvidenziale Stellone) e di alcune ondate di classe dirigente vera susseguitesi nel tempo, sia pur con cesure e discontinuità, l'Italia fece e ancora fa parte dell'“Occidente”. E' avvenuto per merito della unione, che fa aggio sulla deflagrazione e sulla temuta balcanizzazione implicita nei propositi pseudo federalistici, antitetici al senso complessivo della sua storia millenaria. Camilleri gode del plauso per la trasposizione filmica dei suoi racconti, in specie la serie televisiva del Commissario Montalbano, dovuta alla speciale bravura di Luca Zingaretti, anche più delle “storie”, il cui pregio letterario esula dalle presenti considerazioni. Quando appunto si è autorevoli, quando si parla “erga omnes”, si assumono speciali responsabilità. Anzitutto la “reverentia” che tutti dobbiamo alla verità dei fatti.
Orbene, secondo Camilleri intorno al 1100 la Sicilia già aveva un parlamento mentre l'Italia settentrionale “brancolava nel buio del medioevo”. Forse dovrebbe rileggere alcune opere sicuramente a lui ben note, da “Gli arabi in Sicilia” del suo conterraneo Michele Amari all'“Italia moderna” dell'abruzzese  Gioacchino Volpe. All'epoca, come nei secoli precedenti e in quelli successivi, l'Italia fu un crogiolo di genti e di conseguenti apporti di civiltà. Solo sull'inizio del Novecento, poco più di un secolo fa, una conventicola fanatica, imbevuta di nazionalismo, inventò il mito della “razza italiana”. I suoi apologeti non ne furono mai pienamente consci, ma nell'insieme ebbero l'intento di superare i “popoli d'Italia” e le loro rispettive vicende in un “unicum”, una “nazione” storicamente mai esistita, come ripetutamente spiegato, fra altri, da Giuseppe Galasso nell'insuperato “L'Italia come problema storiografico”. 
… e la “razza italiana” di uno spretato massonofago.
Un famoso spretato, massonofago come tanti clericali dei tempi suoi, quando riuscì a farsi nominare Ispettore della razza nella Repubblica sociale italiana da Benito Mussolini (che per note ragioni cercava di vederlo meno possibile e solo con le mani in basso) impostò la legge che riconosceva “italiani” quanti fossero stati in grado di indicare gli antenati almeno dall'inizio del secolo XIX. Scordava che tra il 1800 e il 1814 mezza Italia dipendeva direttamente da Parigi, l'altra metà era governata dal figlio adottivo di Napoleone o da suo cognato, Gioacchino Murat, la Sardegna aveva per re il francofono Vittorio Emanuele I di Savoia e la Sicilia era sotto controllo di lord William Bentinck, che convinse Ferdinando IV di Borbone a liberarsi dall'ingombrante moglie Maria Carolina d'Asburgo, farfallona amorosa, e gli dettò la Costituzione dell'isola. Al confronto con lo spretato Telesio Interlandi, il razzista di complemento biografato da Giampiero Mughini (ed.Marsilio) pare un dilettante.  
A sostegno del neo-meridionalismo siculocentrico Camilleri cita con orgoglio alcune città monumentali della Trinacria: Agrigento, Erice, Monreale, Noto, Siracusa, Taormina... Sono tutti capolavori di altrettante e diverse civiltà e della loro sovrapposizione e, talvolta, fusione nel corso del tempo: fenici, greci, romani, bizantini, arabi, normanni, aragonesi, spagnoli, asburgici d'Austria, Borboni di Spagna e loro progenie. Lì è il fascino dell'Isola: un “continente”, uno straordinario mosaico, che affascinò nel tempo i suoi visitatori. Il “viaggio in Sicilia” divenne un classico attestato da Wolfgang von Goethe. Esso propiziava l'incontro con i suoi uomini, così unici e così fantasmagorici, dallo sguardo intenso come nei ritratti di Antonello da Messina. A proprio conforto Camilleri cita anche, in ordine molto sparso, le eccellenze politico-culturali siciliane: Vincenzo Bellini, Finocchiaro Aprile (Camillo, ministro della Giustizia con Giolitti e massone come suo figlio, Andrea: con la differenza che il primo fu tenacemente “unitario”, il secondo focosamente separatista), lo scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa (precorso dall'insuperabile Federico De Roberto), Salvatore Quasimodo, massone e premio Nobel per la letteratura, e Vittorio Emanuele Orlando, giureconsulto insigne. Quando, dopo Caporetto, questi ascese a presidente del Consiglio il 30 ottobre 1917 la deputazione siciliana gli propose di barattare l'abolizione del servizio militare per gli isolani con l'autonomia economica. Unitario sino al midollo, Orlando respinse sdegnosamente un' “offerta” che sapeva di ricatto, se non di tradimento.
Naturalmente Camilleri esalta il presunto primato economico del Regno delle Due Sicilie alla vigilia della nascita del regno d'Italia (1861): marina, commerci, cantieri, riserve d'oro... “Laudator temporis acti”, lo scrittore dovrebbe però spiegare come mai, se il Mezzogiorno viveva in amorosi sensi, come egli sostiene, la Sicilia insorse ripetutamente in armi contro Napoli, nel 1820 e nel 1848, e la sua ribellione fu sanguinosamente repressa “manu militari” da Ferdinando I di Borbone (ex IV) e poi dal nipote, Ferdinando II di, che si meritò l'epiteto di “Re Bomba” per quanto fece sulla pelle di Messina. Va anche ricordato che nel 1713 re di Sicilia divenne il duca Vittorio Amedeo II di Savoia e che nel 1848 i siciliani offrirono la corona dell'isola a un altro Savoia, a conferma che non volevano proprio saperne di Napoli. Il dualismo tra la Sicilia e le terre “al di qua del Faro” fu pari solo a quello tra Sicilia occidentale e Sicilia orientale, tema che esula da queste poche righe. Camilleri dovrebbe anche spiegare perché la “Borbonia Felix” con tutto il benessere da lui decantato avesse pochi chilometri di ferrovia in Campania e nessuno nel resto del regno, Sicilia inclusa. Dovrebbe dire come mai la popolazione di Calabria, Basilicata, Abruzzo fosse per l'80-90% analfabeta, la rete stradale quasi inesistente (il traffico commerciale costiero superava quello per via interna) e mancassero decenti collegamenti terrestri tra Tirreno e Adriatico, come del resto nello Stato Pontificio.
I “fatti” sono nelle statistiche, nell’ingente massa di ricerche esperite da politici indipendenti, quali Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, che a proprie spese condussero la celebre “Inchiesta” sulla Sicilia, perno del meridionalismo  un tempo fiorente ma oggi soffocato dalla confusione tra polemica spicciola e storia (è il caso dei libelli e della pletora di articolesse di Pino Aprile e dei suoi imitatori, corrivi ai ditirambi in onore di briganti e brigantesse).
Per un ritratto veridico della sua terra, Camilleri dovrebbe infine ricordare i tanti siciliani e, più in generale, meridionali suppliziati, detenuti, costretti all'esilio da sovrani spergiuri e imbelli: gli Illuministi “napoletani” (in realtà rappresentanti di tutto il Mezzogiorno, come ampiamente documentato da Benedetto Croce e Franco Venturi), i costituzionalisti del 1820-21 e quelli del 1848: Vincenzo Cuoco, Pietro Colletta, benefattore di Giacomo Leopardi, Luigi Settembrini, Pasquale Stanislao Mancini (intrinseco di Camillo Cavour e docente di Giolitti a Torino) e il grande Francesco De Sanctis, il cui “Discorso ai Giovani” (1848) è stato ripubblicato dal presidente dell'Associazione ex Allievi della Nunziatella, Giuseppe Catenacci, in memoria del grande storico della letteratura italiana e ministro della pubblica istruzione, già docente nella Scuola militare dalla quale uscirono Enrico Cosenz, Domenico Primerano e Alberto Pollio, capi di stato maggiore dell'Esercito italiano,  e Salvatore Pianell, tra i migliori in campo nella guerra del 1866.
Francesco Crispi: rivoluzione, riforme e un matrimonio volante 
Esuli siciliani furono anche Giuseppe La Farina, Francesco Ferrari e Francesco Crispi, detto “Ciccio” in famiglia e per gli amici, come Camilleri appella Francesco Merlo. 
“Albanese” come Bettino Craxi, il siciliano Crispi (Ribera, provincia di Agrigento, 1818 – Napoli, 1901) con Giovanni Giolitti è e rimarrà tra i massimi Statisti della Nuova Italia. Studiato da Arturo Carlo Jemolo, Sergio Romano e vent'anni addietro da Christopher Duggan, col passare degli anni Crispi emerge sempre più nel suo vero valore di uomo di Stato. Al suo principale governo (1887-1891) si debbono riforme fondamentali: l'istituzione dei sottosegretari di Stato, il nuovo codice di diritto penale, che abolì la pena di morte e pose l'Italia all'avanguardia nel mondo, l'elezione dei sindaci dei comuni con più di 10.000 abitanti e dei presidenti delle deputazioni provinciali, la trasformazione degli enti di carità in istituti di pubblica assistenza e beneficenza, l'accelerazione di gigantesche opere pubbliche e una politica estera fondata sull'alleanza difensiva di Roma con Berlino e Vienna e sulla convergenza con Londra  per la stabilità del Mediterraneo, a tutto vantaggio dell'espansione italiana, tarpata dall'imposizione francese del protettorato sulla Tunisia. In termini solo apparentemente diversi la sua linea venne proseguita e riaffermata dal “grande ministero” Giolitti- Antonino di San Giuliano, catanese, che si sublimò nella sovranità dell'Italia su Tripolitania e Cirenaica e nella liberazione di Rodi e del Dodecanneso dal feroce dominio secolare di quella Turchia che oggi qualcuno, pretendendo ci bendassimo gli occhi dinnanzi a un regime oggettivamente liberticida e negatore delle conquiste civili introdotte dal “fratello Ataturk”, vorrebbe nell'Unione Europea. 
Molti uomini politici (ma vale anche, se non di più, per capitani d'industria, finanzieri, artisti, scrittori, scienziati e persino per ecclesiastici perché “tous les hommes sont hommes et les moines sourtout...”) hanno pagine più e meno commendevoli. Quelle di “don Ciccio” Crispi sono ora narrate da Marco Ferrari nel gustoso e informato Rosalia Montmasson. L'angelo dei Mille (Mondadori). Nata nel 1823, di origini savoiarde (ovvero dell'allora Regno di Sardegna), migrata a Marsiglia per trar di che vivere dal suo mestiere di lavandaia, Rose (Rosalia) vi “conobbe” (nel senso biblico) il giovane Crispi, esule politico. Di avventura in avventura il giovane “don Ciccio”, avvocato senza reddito, la prese in moglie in un forzato soggiorno a Malta: un matrimonio celebrato il 27 dicembre 1854 da un sacerdote forse non abilitato all'amministrazione del rito e con due testi a loro volta esuli, Giorgio Tamajo e Luigi Dario Depreti.
Il “lato C” di “don Ciccio”.
Un giorno a Torino, ove dimorava in via Vanchiglia,  Rosalia ebbe la sgradevole sorpresa di aprire la porta a una  precedente moglie di Crispi, Felicita Vella, detta Ciuzza, accompagnata dal figlio, Tommaso. Fu poi col marito nella garibaldina spedizione dei Mille (5 maggio 1860), unica donna a bordo, poi a Palermo (ove “don Ciccio” subì l'attentato che lo convinse a rifugiarsi in una loggia massonica il 13 febbraio 1861), e ne assecondò passo passo il corso politico, segnato dalla scelta fondamentale enunciata nel settembre 1864: “La monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe”. Crispi ormai rifiutava di essere classificato mazziniano o garibaldino. Era Crispi. E lo mostrò nel tempo, sino all'elezione a presidente della Camera dei deputati e all'ascesa a ministro dell'Interno e a presidente del Consiglio. 
Dopo i due figli avuti dalla “segretaria” del suo ormai fiorentissimo studio forense,  Luisa Del Testo, egli ebbe l'ultimo incontro fatale, con la giovane Filomena (Lina) Barbagallo. Ottenuto un “accordo” con Rosalia (1875) e l'annullamento del precedente matrimonio “per vizio di forma”, formalmente libero dall'imputazione di bigamia sposò Lina. La loro figlia, Giuseppa Ida Marianna, era ormai grandicella. Andò in sposa al principe di Linguaglossa ed ebbe l'onore di un carme di Giosue Carducci,  dalla vita “sentimentale” abbastanza disordinata. Il “lato C” della vicenda umana di Crispi riserva dunque pagine sconcertanti, ma non troppo diverse da quelle del “birichino” Cavour e dei primi due re d'Italia. Umberto I lo liquidò come “un porco”, ma ne aveva bisogno e ne condivise la politica estera, specie la coloniale, perno del suo secondo governo (1893-1896), alla cui guida venne chiamato benché fosse implicato fino al collo nello scandalo della Banca Romana. A distruggerlo non furono i romanzi scollacciati di Léo Taxil e di Domenico Margiotta, né i “fasci siciliani”, né socialisti rivoluzionari e anarchici. Proprio Crispi, precursore della Conciliazione Stato-Chiesa, presente Guglielmo Sanfelice, arcivescovo di Napoli, invitò al patto “Con Dio, con il Re, per la patria”. Egli fu travolto dalla sconfitta del corpo di spedizione italiano contro Menelik, negus d'Etiopia (1° marzo 1896). Al governo salì un altro siciliano, il marchese Antonio di Rudinì, dalla vita privata altrettanto sfortunata. 
“Sunt lacrimae rerum...”. Malgrado le loro sorti individuali, quegli uomini fecero l'Italia. È emblematico che un dibattito sul bel libro di Ferrari venga promosso ad Alessandria (alle 17 del 9 marzo, Museo della Garbarina) dal centro studi presieduto da Marco Mensi e intitolato a Urbano Rattazzi, altro statista dalla vita privata parecchio turbinosa: un cognome, un destino. Così fu e per molti aspetti è la Storia d'Italia...
Aldo A. Mola
 
UN CONCILIO TIRA L'ALTRO
1869-1870 QUANDO IL PAPA RISULTO' INFALLIBILE
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 24 febbraio 2019, pagg. 1 e 11.
    
Il Pellegrinaggio GoyaLo Spirito e la Terra tra due mari
    Il Papa è infallibile solo da 150 anni? Tanti ne sono passati dal Concilio ecumenico vaticano, aperto a Roma l'8 dicembre 1869 da papa Pio IX dopo lunghissima preparazione, e dall'Anticoncilio organizzato a Napoli il 9 dicembre da mangiapreti, liberi pensatori, razionalisti e qualche massone. La chiesa cattolica voleva e doveva fare i conti con il Tempo. Vi è la quotidianità. Vi è quello della Storia. Vi è lo Spirito. Il papa, Pio IX, non solo era ma si sentiva Vicario di Cristo: nella gloria e della sofferenza. Da settant'anni i Sommi pontefici erano l'Agnello di Dio “qui tollit peccata mundi”. A differenza di quanto solitamente si crede, non significa affatto “che toglie (cioè candella, perdona) i peccati dal mondo”. Vuol dire, invece, che “prende su di sé” i peccati del mondo e si offre per il Sacrificio supremo. Non “toglie” affatto i peccati. Li stigmatizza e li condanna. Ma al tempo stesso ha misericordia per i peccatori. Offrendosi capro espiatorio suggella il Patto.
De settant'anni i Papi erano stati spazzati via quali sovrani di un'ampia area di un'Italia dominata da  potenze straniere, gli Asburgo e i re di Francia che, Valois o Borbone, da secoli se la giocavano tra guerre feroci e tregue provvisorie. Mentre Venezia era ormai crassamente assopita e il re di Sardegna, vicario del sacro romano imperatore, aveva sbarrato l'accesso al Ligure dalla Repubblica di Genova, lo Stato pontificio andava dal Volturno alla Toscana, da Marche e Umbria a Romagna ed Emilia, dal Tirreno all'Adriatico. Ma la sua forza non era nell'estensione territoriale. Rimaneva quella di successore di Pietro. Clemente XIV nel 1773 non esitò a sciogliere la Compagnia di Gesù per fronteggiare l'offensiva dei Borbone, sospinti dai “Lumi”, di cui poi i re di Francia rimasero vittime. Per salvare il salvabile Pio VI non esitò a recarsi a Vienna, “pellegrino apostolico”, per impetrare comprensione dall'imperatore Giuseppe II, protettore del massone Wolfgang Mozart. Impresa vana. Alla sua morte per la prima volta dopo secoli il conclave non si tenne in Roma ma a Venezia. Il Creator Spiritus molto tempo impiegò a scendere sul capo di Pio VII, il mesto Barnaba Chiaramonti, povera foglia frale nel turbinio tra incoronazione di Napoleone a Parigi, prigionia a Savona e  Restaurazione.
Evitare la mala sorte: papa sotto tutela    
La Chiesa aveva bisogno di riforme profonde dal suo interno: ritrovare la missione. La Compagnia di Gesù, rianimata dal 1814 guidò la ripresa, a fianco degli scolopi, che ne contendevano l'egemonia sull'insegnamento, specie in Italia, ove erano apprezzati da ogni ceto. Sul crepuscolo del 1848, nel quadro del turbinio rivoluzionario europeo, Pio IX, sul Sacro Soglio da poco più di due anni, ritenne prudente lasciare Roma e riparare a Gaeta, all'epoca dominio borbonico. Il costituzionalista liberale nel quale aveva riposto fiducia, Pellegrino Rossi, liberale e settario era caduto vittima di un attentato mortale, eseguito in forma “rituale”. Tirava pessima aria. La conferma venne poco dopo, il 9 febbraio 1849, quando Carlo Luciano Bonaparte principe di Canino e Giuseppe Garibaldi in Roma proclamarono la Repubblica, che si aggiunse a quella di Venezia, ormai agonizzante. Il papa lasciò fare alle potenze europee. Nessun sovrano parteggiava per i repubblicani. Neppure Luigi Napoleone Bonaparte, antico carbonaro, rivoluzionario, scrittore di talento, eletto presidente della Repubblica francese col sostegno dei moderati e proteso a ricalcare le orme del grande zio, Napoleone I. Per salire sul trono imperiale doveva però spazzare via la Repubblica dalla Città Eterna e riportarvi il Pontefice. Lo fece e la tenne sotto tutela. Per ostacolare l'Austria e il Borbone di Napoli, pronti ad allungare i tentacoli nello o sullo Stato pontificio, ma soprattutto perché doveva consacrare il proprio potere. Il “fosco figlio di Ortensia” come Luigi Napoleone Bonaparte (come venne lapidariamente ritratto da Giosue Carducci), non poteva fidarsi di nessuno. Non certo di protosocialisti, repubblicani (un groviglio di sette), né nella fungaia di monarchici. Non gli rimanevano che i “moderati”: militari, cattolici e, dopotutto, i massoni, che realisticamente preferivano un Napoleone III al caos permanente. Era il protettore del papa? Tanto meglio. Voleva dire che il pontefice non poteva interferire nella vita interna della Francia gallicana dai tempi di Francesco I di Valois e dei suoi domini diretti e indiretti. A conti fatti, grazie a Napoleone III il potere temporale papale sarebbe sopravvissuto, ma avrebbe pesato meno anche sull' Italia e in Italia. Toccava agli italiani rimboccarsi le maniche e risalire la china dopo il fallimento della prima guerra  per l'indipendenza dall'Austria (1848-1849). Lo intuirono e ci lavorarono il disincantato Massimo d'Azeglio (il cui gigantesco “Epistolario”, curato da Georges Virlogeux per il Centro Studi Piemontesi, volge al termine), Camillo Cavour, Urbano Rattazzi (studiato da Rosanna Roccia) e una miriade di innovatori che ripresero a tessere la tela imbastita con i Congressi degli scienziati italiani nei quali il lungimirante cancelliere imperiale Metternich aveva intravveduto il fumus della rivoluzione. Dal canto suo papa Gregorio XVI, benché meno gretto di come veniva descritto (e lo ha documentato Romano Ugolini in saggi esemplari),  non si lasciò mai incantare dalla musa della modernità.
Sul suo solco marciò spedito Pio IX. Appena eletto papa nell'enciclica Qui pluribus denunciò la massoneria quale artefice del complotto contro la Chiesa di Cristo, depositaria della Verità e della Salvezza. Di anno in anno ribadì condanne e scomuniche di ogni forma di “eresia”. La sintesi venne racchiuse nel Syllabus (8 dicembre 1864, decennale della proclamazione del dogma dell'Immacolata Concezione), raccolta degli “errori” dai quali la chiesa prese drasticamente le distanze. All'origine di tutti i mali (comunismo, socialismo, democrazia,...) vi era il liberalismo, un virus che si presentava nelle forme allettanti di tonico ma in realtà era tossico. 
Alla pars destruens Pio IX affiancò la costruzione: il Concilio. Non se ne tenevano dal remoto 1545-1563, quando a Trento la Chiesa di Roma ruppe definitivamente con evangelici e luterani e intraprese la Riforma cattolica, con una moltitudine di santi e missionari non solo nei Nuovi Mondi ma anche all'interno delle aree che cristiane erano (e in gran parte sono) solo di nome. 
La convocazione del Concilio  vaticano era dunque nell'aria da tempo. Presieduto da Luigi Federico Menabrea, un generale, scienziato e fautore delle infrastrutture indispensabili per fare dell'Italia un Paese europeo (e quindi ferrovie e trafori alpini, sulla scia del grande Camillo Cavour), il governo del regno, allogato a Firenze, non aveva responsabilità diretta di quanto sarebbe avvenuto in Roma, sulla quale semmai vegliavano gli zuavi di Napoleone III, orgogliosi delle perdite inflitte ai garibaldini a Mentana nel novembre 1867 (non mancavano di celebrare i loro caduti e i loro trionfi in San Luigi dei Francesi a Roma). Però il governo d'Italia doveva garantire l'afflusso di centinaia e centinaia di vescovi da ogni parte del mondo, in specie dagli Stati cattolici che garantivano l'incolumità del papa: l'impero austro-ungarico, la Francia, la Spagna, l'America centro-meridionale, la Baviera e persino la calvinistica Svizzera. Con seguito sfarzoso, il vescovo di Ginevra fece tappa a Modena per visitare campioni dell'aristocrazia papista e filoasburgica: una vera provocazione mentre la pianura padana era in rivolta contro la tassa sulla macinazione delle farine, sfociata in scontri armati e arresto di molinari, chiusi tra l'incudine dei “contatori automatici” imposti da Quintino Sella e il martello di contadini, panettieri e consumatori affamati e furiosi. 
Tesi (Concilio), antitesi (Anticoncilio di Napoli), sintesi... 
Se il governo era riuscito a scontentare le “masse popolari”, l'indizione del Concilio sparigliò i “laici”, divisi in tre ampie frange. La prima, era formata da mangiapreti senza se e senza ma, quasi sempre con trascorsi giovanili in seminari e convitti religiosi. Ne fu alfiere Pietro Sbarbaro (Savona, 1838-Roma,1893), già allievo del collegio degli Scolopi, laureato in giurisprudenza a Pisa,  ma già a vent'anni direttore di giornali e riviste, docente  di economia politica a soli 26 anni, prima a Pisa poi a Modena. Geniale e polemico, oratore brillante, indiziato venerabile di loggia e politicamente caotico, Sbarbaro propose l'adunata dei “liberi pensatori” a Loreto, la città della miracolosamente traslata Casetta di Nazareth. Spalleggiato da massoni celebri, come il perugino Francesco Guardabassi, chiese imperiosamente l'abolizione dell'articolo 1 dello Statuto: “La religione cattolica apostolica e romana è la sola religione dello Stato. Gli altri culti ora ammessi sino tollerati conforme alle leggi”. Come poi argomentarono docenti insigni di diritto ecclesiastico e storici, quali Francesco Ruffini e Arturo Carlo Jemolo, la tolleranza è virtù se praticata dai privati ma è vizio se dipende dal diritto pubblico, che deve invece assicurare la piena parità dei culti o delle associazioni e degli Ordini, se non violano la legge penale. Era ed è il caso della Massoneria, sempre perseguitata da chi non la conosce e per ignoranza la teme. Del resto lo Statuto dichiarava i regnicoli uguali dinnanzi alle leggi, quindi a prescindere dalla loro professione di fede, liberi di non averne alcuna, nel rispetto delle altre. Sbarbaro fece leva sull' apostolato religioso di Giuseppe Garibaldi, una sorta di pontefice massimo del laicismo italiano, atei compresi. Ne aveva dato un saggio anche nei suoi primi romanzi, “Cantoni il volontario” e “I Mille”, che avevano come protagonisti gesuiti e un “monsignor Corvo”. Di polemica in polemica, più volte eletto deputato Sbarbaro fu destituito dalla cattedra universitaria dal confratello ministro della pubblica istruzione, Guido Baccelli (o “Guido dei miei baccelli”, come egli sarcasticamente scrisse). Finì e condannato al carcere per diffamazione. Onestissimo, morì in miseria.
Molto più efficace fu la convocazione dell'Anticoncilio lanciata da Giuseppe Napoleone Ricciardi (Nappli, 1808-1882). Secondogenito del ministro della giustizia di Gioacchino Murat, il re di Napoli che dalla sua nicchia sulla facciata di Palazzo Reale in Piazza del Plebiscito fa il saluto massonico ai passanti, a soli 24 anni fondò la rivista “Il progresso delle scienze”. Mazziniano, cospiratore, esule in Francia e a Londra, finanziatore della sfortunata spedizione dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, fucilati nel vallone del Romito a Cosenza (1844), tornato a Napoli nel rivoluzionario 1848, dopo la revoca della costituzione da parte dello spergiuro Ferdinando II di Borbone Ricciardi scampò alla forca riparando prima  Corfù poi in Piemonte. Collaborò  alla rivista “La Ragione” diretta dal massone Ausonio Franchi (già don Giuseppe Bonavino). Sotto influsso dei socialisti utopisti Saint-Simon, Fourier e altri, tra i primi in Italia il napoletano Ricciardi propugnò il “reddito di cittadinanza”: lo Stato doveva garantire a ognuno il lavoro o, in carenza, assicurargli di non morire di fame.
Al suo appello risposero decine di logge italiane, circoli di liberi pensatori, scrittori, artisti. Invece il Grande Oriente di Francia rifiutò di aderire  (143 logge contro 111) perché aveva gran maestro il maresciallo Magnan, mai iniziato in loggia ma imposto da Napoleone III, che non voleva screzi col papa. A sua volta il Grande Oriente d'Italia respinse l'invito. Il suo gran maestro Ludovico Frapolli (che poi finì in manicomio per le dolorose cure della lue, la “malattia del secolo”, e si sparò) rispose che la massoneria avrebbe fallito la sua missione se si fosse preoccupata “di ciò che un caposetta qualunque dispone coi suoi fedeli”. Non era gentile verso Pio IX, ma serviva per tenere a distanza gli anticlericali più facinorosi, soprattutto i francesi come Victor Hugo, Edgar Quinet (che bollò il papa come “cadavere vivente”), Emile Littré e Jules Michelet, che propose di far presiedere l'Anticoncilio dall'ombra di Jan Hus, l'eredito boemo arso vivo gli inizi del Quattrocento (e fu biografato dal socialrivoluzionario Benito Mussolini in “Hus l'eretico”). In onore dell'Anticoncilio  Giosue Carducci ristampò l' Inno a Satana e digrignò i denti: “Noi siamo satanici...”, suscitando l'indignazione del massone teista Quirico Filopanti e dello stesso Frapolli, che, per evidenziare la lealtà della massoneria verso le Istituzioni, si premurò di inviare auguri di pronta guarigione a Vittorio Emanuele II, gravemente malato. A Napoli accorsero anche molte mopse, cioè massonesse, come la contessa Enrica Caracciolo e altre dame dai fogli clericali irrise quali “femmine libere”. Le spregiava anche Frapolli secondo il  quale  era “utopia il pretendere che la donna possa o voglia emanciparsi di per se stessa al punto di far parte della Massoneria senza il consenso e l'appoggio dell'uomo, che sta a capo della famiglia, sia esso il padre, il fratello, il marito...”.
Ognun per sé...
La terza frangia fu dei laici pensosi, contrari a immischiare il giovane regno sia nel Concilio sia nell'Anticoncilio. L'8 dicembre 1869 parlò per tutti Giambattista Bottero, fondatore e direttore della influente torinese “Gazzetta del Popolo”: “Oggi i delegati del Pontefice a sciogliere e a legare nel mondo cattolico si riuniscono a Roma in Assemblea, dalla quale il clericalismo si aspetta la proclamazione di principii che la ragione dimostra inesistenti...”: l'infallibilità del pontefice quando parla “ex cathedra”, cioè sulla dottrina della Chiesa e ne enuncia i “dogmi”.  I liberi pensatori non dovevano dare alcuna importanza alle decisioni interne delle varie chiese esistenti. Perciò sconsigliavano “ dimostrazioni di qualunque natura”. I cattolici romani erano liberi di decidere se il papa fosse infallibile, anche contro l'opposizione dei “vecchi cattolici” di Germania. Anticlericali e mangiapreti erano liberissimi di riderne, ma senza infastidire i credenti. Libertà per ciascuno, nei limiti della legge. Era la Nuova Italia. Ma nel luglio 1870 avvenne l'imprevedibile. Stolidamente Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia, che non aspettava di meglio, assalì la Francia e sconfisse l'imperatore francese a Sedan. Nel frattempo, sotto un uragano, nel luglio 1870 il Concilio approvò il disputato dogma dell'infallibilità e si sciolse in tutta fretta. Ad assicurare la pax romana arrivò l'Esercito italiano agli ordini di Raffaele Cadorna. Il garibaldino Nino Bixio venne messo in ultima fila. A sparare la prima cannonata contro il Vaticano il 20 settembre 1870 fu un ufficiale di artiglieria, il piemontese Giacomo Segre, dal nome molto allusivo. Dunque la “debellatio” del potere temporale dei papi era tutto frutto di un “complotto” giudaico-massonico? Era la vittoria dell'Anticoncilio?  Molti lo scrissero. Pio IX bollò la Massoneria come “sinagoga di Satana”. Forse il suo successore dovrebbe dire qualcosa...
Aldo A. Mola  
 
TORNA LA “LINEA GOTICA”?
NON CE LO CHIEDE L'EUROPA
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 17 febbraio 2019, pagg. 1 e 11.
    
Centralismo e pluralismo
L'Italia è uno Stato ancora giovane. Dalla sua unificazione (1861-1918) è dilaniata da opposti egoismi, malattia infantile vissuta, ma quasi ovunque superata, da tutti i grandi Paesi non solo d'Europa ma del mondo intero. Non ve n'è uno, dall'Asia alle Americhe, che non abbia alle spalle conflitti tra potere centrale e realtà particolari, emarginate e spinte a incattivirsi sino alla ribellione. Altrettanto avvenne nei tempi andati, segnati dalla contrapposizione spesso violenta tra centralismo tirannico e sudditi. Per dominare i popoli più riottosi i sultani turchi li affidarono a “governatori” usi a spolparli e a immiserirli. Avevano per modello gli onnipotenti satrapi dominanti sulle province dell'impero persiano, multietnico e plurireligioso, felice un'unica volta nella sua lunga storia con Ciro il Grande, elevato dagli Illuministi a campione di tolleranza. Solo i Romani seppero bilanciare la Maestà dell'impero con il pluralismo, concedendo larghe autonomie vegliate da proconsoli e procuratori. Ma anch'essi ebbero il famelico Verre in Sicilia e il discusso Ponzio Pilato a Gerusalemme. Plinio il Giovane, proconsole  in Bitinia ai tempi di Traiano, colto e sensibile anche verso le “minoranze, compresi i cristiani, fu e rimane esempio inarrivabile.  
A conferma di quanto lo Stato italiano sia ancora adolescente, basti dire che solo l'anno venturo verrà festeggiato (o almeno ricordato, speriamo) il 150° dell'annessione di Roma, dieci anni prima proclamata capitale d'Italia per iniziativa di Camillo Cavour (27 marzo 1861). 
Le regioni: da Augusto e Napoleone... 
Se lo Stato d'Italia è giovane le sue Regioni sono invenzione recente e artificiosa. A parte quelle a statuto speciale, varate nella temperie della sconfitta e nel timore di separatismi armati, dalla Sicilia alla Valle d'Aosta, le ordinarie hanno appena mezzo secolo. Furono introdotte nel 1969-1970 contro la strenua opposizione del Partito liberale e del Movimento sociale che vi intravidero la decomposizione dell'unità e la “finanza allegra” moltiplicata per venti, quante ormai erano le regioni d'Italia. Gli studiosi non prevenuti osservano che queste portano molto male i loro cinquanta-settant'anni anni, anche a causa della polverizzazione della giustizia amministrativa che ha generato la babele dei “poteri” con i Tribunali amministrativi regionali, sovrastati dal minossiano TAR del Lazio, e dei particolarismi, in perenne conflitto. In un Paese perennemente bambino, la litigiosità fu e viene esaltata come “orgoglio identitario” o persino “valoriale”, come dicono quelli che parlano difficile e incartano in parole di stagnola rilucente il vuoto del pensiero.  
Poiché in un Paese più incline alle invenzioni linguistiche che capace di costruire strade, ponti e ferrovie tanto si discorrerà (forse invano) di regioni “ad autonomia potenziata”, uno sguardo al passato aiuta a capire di cosa si stia parlando. Alle radici dell'Italia attuale vi sono i sette Stati preunitari, nessuno dei quali coincideva con le regioni odierne. La sua prima suddivisione amministrativa risale al 2 avanti Cristo. Fu Caio Ottaviano Augusto a ripartire l'Italia, finalmente pacificata dalle Alpi al Faro (Reggio Calabria) in undici regioni, dalla I (Lazio e Campania) all' XI, la Transpadana (dalla sinistra del Po all'attuale Svizzera, comprendente Aosta, Torino, Milano e Bergamo, ma non il Piemonte occidentale odierno). La Liguria, IX Regio, si estendeva dalla destra del Po a Nizza e fino al confine con l'Emilia e l'Etruria. Questa arrivava alle porte di Roma. La X Regio andava da Brescia all'Istria. Lasciava fuori il golfo del Carnaro, Fiume e la Dalmazia, con buona pace dei posteri. Corsica, Sicilia e Sardegna (ove i prigionieri erano condannati “ad metalla”) non erano Italia.   
Dopo vicissitudini inenarrabili, dalla fine dell'Impero romano in Occidente alla pace di Cateau Cambrésis (1559) ed ai rivolgimenti del Settecento, l'Italia divenne un mosaico di potentati (signorie, comuni, staterelli...), parte soggetti agli Asburgo di Vienna, titolari del Sacro Romano Impero, parte ai Borbone di Spagna. I Savoia, duchi e poi re di Sardegna, erano giustamente orgogliosi del titolo di Vicari dell'Imperatore in Italia. L'età franco-napoleonica (1798-1814/15) introdusse in Italia innovazioni importanti (codici, ammodernamento amministrativo, opere pubbliche, potenziamento dell'istruzione...) ma rischiò di annientare a tempo indeterminato ogni sogno di unione o unificazione “nazionale”, perché incorporò Piemonte e Liguria direttamente nell'Impero dei francesi (che già possedeva la Corsica), mentre il Regno d'Italia (da Milano e Venezia alle Marche) ebbe per sovrano Napoleone I e un viceré di sua scelta (Eugenio di Beauharnais, suo figlio adottivo). Prima il fratello, poi il cognato di Napoleone regnarono a Napoli, uno Stato nominalmente indipendente, ma di fatto sorvegliato dall'imperatore dei francesi. Altre terre (come la Toscana e lo Stato pontificio dopo la deportazione di Papa Pio VII) finirono direttamente sotto controllo di Parigi. Per chiudere il cerchio e mostrare alla Storia la soggezione dell'Italia alla Francia, Napoleone conferì a suo figlio, Francesco Carlo Napoleone, il titolo di Re di Roma. Sicilia (in mano al Borbone) e Sardegna (estremo fortilizio dei Savoia) rimasero fuori portata. A Napoleone interessava la Terraferma. Anzi, quella propriamente europea, dall'Atlantico agli Urali. Perciò non esitò a vendere la Louisiana agli Stati Uniti d'America.    
Benché dai confini più ampi rispetto a quelli del Settecento, gli Stati italiani in età franco-napoleonica non furono ripartiti in regioni ma in dipartimenti, secondo il modello francese, e presero nome dalla geografia, prevalentemente dai fiumi: Torino divenne Erìdano, Vercelli Sesia, Milano Olona... Fu un modo più drastico per rimuovere il passato, cancellare la memoria, segnare la discontinuità tra la storia “sacra” (il potere viene da Dio) e quella nuova (viene “dal popolo”, dalla “rivoluzione”, da una “piattaforma Rousseau”). Di fatto, dipartimenti, circondari (arrondissements), mandamenti (cantons) e comuni (mairies) ricalcarono suddivisioni precedenti. Passata la tempesta, con la Restaurazione del 1814-1815 gli Stati italiani mutarono i nomi delle ripartizioni, che però rimasero pressoché identiche. Il regno di Sardegna, per esempio, ebbe intendenti e sotto-intendenti, corrispondenti ai prefetti e sottoprefetti di età napoleonica. Altrettanto avvenne nel regno delle Due Sicilie. La realtà di fondo erano e rimasero le “province”. Al Congresso di Vienna (1815) a nessuno passò in mente di riesumare i micro-stati di cent'anni prima. Altrettanto accadde in Germania, passata comunque da quasi 400 “stati” ai soli 39 membri della Confederazione, comprendente l'Austria. Però alcune marchiane dicotomie sopravvissero. Agli occhi di Vienna, Venezia e Milano continuarono a rimanere mondi diversi. Ancor più distanti furono Trento e Trieste. L'Emilia tornò a contare i ducati di Modena e Reggio (asburgico), Parma e Piacenza (a noleggio: prima a Maria Luisa, moglie subito consolabile di Napoleone relegato a Sant'Elena) e le legazioni pontificie, da Bologna alle Romagne. 
... al Regno d'Italia
Quell'assetto resse sino al 1859-1860 quando in pochi mesi avvenne il miracolo: l'avvento del regno d'Italia con Vittorio Emanuele II di Savoia re costituzionale. A differenza della Carta repubblicana vigente, lo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Sardegna nel 1848 e divenuto costituzione del nuovo Stato non conferì alcun potere antagonistico alle amministrazioni locali. L'art. 74 lapidariamente recita: “Le istituzioni comunali e provinciali e la circoscrizione dei comuni e delle province sono regolati dalla legge”. L’organizzazione statuale sarebbe stata disciplinata dal Parlamento. Senza mettere in discussione la “legge fondamentale, perpetua e irrevocabile” dello Stato, a lungo venne proposto un ordinamento per “compartimenti”, più o meno rispondenti alle “regioni” oggi esistenti. A propugnarlo furono Marco Minghetti e altri liberali unitari erroneamente classificati come “federalisti”, mentre erano solo bene intenzionati fautori di un assetto amministrativo attento ad appianare gli squilibri esistenti, non a favorire l'arroccamento su privilegi e a rialzare steccati nello Stato unitario. È singolare che essi affollassero soprattutto la linea gotica, la saldatura/cesura indicata da Giuseppe Galasso in  l'“Italia come problema storiografico”, volume introduttivo alla “Storia d'Italia” edita dalla Utet, contrapposta a quella diretta da Ruggero Romano e Corrado Vivanti per la Einaudi e alla “Storia sociale d'Italia” edita dalla Teti di Milano: grandi opere nate proprio in risposta all'avvento delle regioni. 
Perché l'Italia non ebbe un assetto regionale
Il regionalismo incappò in tre ostacoli assolutamente insormontabili. In primo luogo il regno d'Italia faticò a rendersi credibile dalle grandi potenze. Era preda di spinte sovversive. come la spedizione garibaldina “Roma o Morte” del 1862, e tardò a essere riconosciuto dalla Comunità internazionale. Solo nel 1867 sedette “alla pari” in una conferenza diplomatica. Per anni, e non solo all'estero, in molti avevano diffidato della sua tenuta. Era nato troppo in fretta. In secondo luogo, per sette anni il regno dovette fare i conti con il “grande brigantaggio”, recentemente esaltato da giornalisti spacciantisi per storici quale guerra civile, come “resistenza” del Mezzogiorno contro il genocidio del Sud. Libretti intitolati “Terroni” o “Carnefici” hanno montano grilli per la testa non solo nel Mezzogiorno. In ogni regione una quota di laudatores temporis acti ha “scoperto” i torti subiti dal Potere centrale e si è tuffata nell'elogio del passato remoto (in realtà intriso di arretratezza, sottosviluppo, miseria, malattie, analfabetismo...). 
Anni e anni di menzogne hanno alimentato il rivendicazionismo che nel marzo 2018 si è versato nelle urne, sette anni dopo la “celebrazione” del 150° della nascita del Regno, “sentita” a Torino e a Genova, imbandierate di tricolore, molto più che a Venezia e a sud della linea gotica, in un'Italia culturalmente disarticolata. La terza palla al piede del regno unitario fu la lacerazione tra i cattolici papisti e i cattolici italiani. L'elogio di Pio IX (per ora solo beato) quale campione della fede verace è certo legittimo dal punto della sua religione. Lo è molto meno sotto il profilo storico, perché quel papa approfondì il solco tra la Chiesa universale e i cattolici che si riconobbero nello Stato italiano, nelle sue amministrazioni locali, nel progresso civile di un Paese ancora in tanta parte arcaico, come documentano gli atti dei congressi degli scienziati e le inchieste sui diversi ambiti della società e dell'economia.
Quella Nuova Italia aveva bisogno assoluto di potere centrale per gettare i pilastri portanti dell'unità di un Paese per secoli frantumato in staterelli ripiegati su sé medesimi in politica estera e organizzazione militare. Essa puntò quindi sulla valorizzazione dell'unico istituto rispondente alla storia: le province. Ogni Stato preunitario le aveva e se ne era valso, perché esse rifrangevano la realtà. Erano organiche soprattutto negli Stati meno attrezzati di infrastrutture e di istituti di formazione. Era il caso del regno dei Borbone, che “al di qua del Faro” contava su una sola Università, quella di Napoli.
Perciò il regno ridisegnò e intese le “regioni” solo come “compartimenti”, per meri fini statistici, senza alcun riconoscimento di potere politico-amministrativo. La loro definizione geografica, tuttavia, non fu affatto irrilevante. Lo si vide quando, uscita di minorità, l'Italia poté intraprendere con lena l'unificazione effettiva. Fu la stagione delle “leggi speciali” varate dai governi di primo Novecento, da Giuseppe Zanardelli a Giovanni Giolitti, a beneficio di Basilicata (per molti era ancora Lucania), Calabria, Puglia, Sardegna... All'epoca la miseria, la sottoalimentazione e le pandemie per denutrizione o suoi riflessi (la pellagra o “mal della rosa”, la malaria, il “cretinismo”... ) affliggevano anche vaste plaghe dell'Italia settentrionale, dalle valli alpine al Polesine. La modernizzazione incontrava i maggiori ostacoli nel notabilato locale, arroccato nella difesa di privilegi e di rendite di posizione, indifferente nei confronti del “nuovo”, come deplorarono tanti meridionali (Giustino Fortunato, Antonio Cefaly, Tommaso Senise, Pietro Rosano, Giuseppe Saredo,...) che non avevano bisogno di proclamarsi meridionalisti. Si sentivano ed erano italiani, come il fiore della cultura illuministica del Settecento decapitato e afforcato  nel 1799 dall'ammiraglio inglese Horatio Nelson in combutta con Ferdinando IV di Borbone, ripetutamente spergiuro e sua moglie, Maria Carolina d'Asburgo.
Più senso dello Stato e più Europa 
L'Italia aveva e ha bisogno non di “più Stato” ma di una dirigenza e di cittadini con un più alto “senso dello Stato”: sentimento razionale che conduce a porre l'interesse generale al di sopra del particolare, nella consapevolezza che questo è meglio tutelato nell'ambito dell'altro. Si vince e si perde tutti insieme. Non per caso i Paesi europei il cui assetto economico-sociale risulta oggi più solido e trainante sono quelli che da tempo hanno intrapreso la via della semplificazione amministrativa. Valgono d'esempio Francia e Spagna. Parigi  ha ridotto a 7 le macroregioni (Alsazia, Aquitania, Alvernia, Borgogna, Linguadoca, Nord e Normandia) puntando sui Dipartimenti e su ciò che avvicina anziché su contrapposizioni arcaiche. Altrettanto ha fatto la Spagna, ove le regioni davvero rilevanti sono una manciata (Andalusia, Aragona, Castiglia e Leòn, Castiglia e la Mancha. Estremadura), altre sono retaggio del passato ma territorialmente quasi irrilevanti (Asturie, Cantabria, Murcia, Navarra, Rioja, la stessa Comunidad valenciana ,..). In quel quadro balza evidente l'anomalia dell'indipendentismo repubblicano della Catalogna: non federalismo, ma sovversione dello Stato, inconciliabile con l'Europa del Terzo millennio.
Ed è appunto con il quadro europeo che va misurato ogni ragionamento sulle regioni d'Italia, sia quelle, ormai antistoriche, a statuto speciale, sia quelle aspiranti alla “autonomia potenziata”. Tutto è possibile, ma tenendo sotto gli occhi la classifica del prodotto lordo delle province fornita da Eurostat. Lì si vede che anche le migliori fra le italiane si piazzano dal 200° posto in poi, mentre molte ne affollano il fondo. Qualunque accentuazione del divario tra le diverse aree avrebbe ripercussioni di portata molto prevedibile: la deflagrazione del Paese. Orbene, non è l'Europa a chiederci di rifare la linea gotica, di compromettere l'unità nazionale faticosamente raggiunta dopo quindici secoli di dominio straniero e di forsennate divisioni dell'“itala gente da le molte vite”. Semmai proprio l'“Europa”, che ancora acquista immobili nell'Italia centro-meridionale e imprese in quella settentrionale, ha interesse a relegarla in un passato remoto di cui non si sente alcuna nostalgia. Va comunque esclusa qualsivoglia tentazione di conferire alle regioni una sorta di “politica estera”, camuffata da “relazioni internazionali dirette”. La sovranità è una sola: quella dello Stato d'Italia. Chi la pensa diversamente vada a Redipuglia ad ascoltare la voce che si leva dai centomila caduti lì sepolti, come negli altri Sacrari dei caduti nella Grande guerra: “Presente!”. È l'invocazione che arriva dalla pagina più dolorosa e più alta della storia d'Italia, il sacrificio di giovani di tutte le classi sociali giunti “alla fronte” (come scriveva Luigi Cadorna) da ogni provincia del Paese per coronare l'unità nazionale. A quel mònito anche oggi l'Italia deve rispondere “Presente!”. Non per vuota retorica, ma per rispetto di sé e della “pax in iure gentium”, interna e internazionale, che da lì doveva e deve nascere nella Nuova Europa, simboleggiata anche dal sepolcro di Federico II Staufen a Palermo, dalla statua di Carlo d'Angiò, scolpita da Arnolfo da Cambio, dalla corona ferrea conservata nel Duomo di Monza, dall'Emanuele Filiberto, Testa di ferro” che da Torino veglia non solo su Piazza San Carlo, ma sull'Italia intera e, rivolto alle Alpi, insegna che da lì non si passa più quali nemici. Si transita da fratelli, come Bernardo di Chiaravalle,autore della Regola dei sempre attuali Cavalieri Templari. 
Aldo A. Mola
 
PARADIGMA PER LA MEMORIA
FIUME ITALIANA
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 10 febbraio 2019, pagg. 1 e 11.
    
Fiume italiana Geografia e storia della sofferenza umana
“Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. È l'epitaffio di Immanuel Kant, il filosofo della Ragione (1724-1804). Al tempo suo la superficie terrestre non era ancora conosciuta nella sua interezza. Assetati di sapere e avidi di possedere, gli europei si stavano reciprocamente annientando in conflitti belluini, le guerre del 1792-1815 che esportarono la Rivoluzione francese, con prodotti e sottoprodotti: non meno di cinque milioni di morti per cause belliche. Ne pronunciò la condanna definitiva Lev Tolstoj in Guerra e Pace. 
Al Grande Architetto dell'Universo dobbiamo la geografia. Gli ominidi, in gran parte tuttora primordiali, ne fanno scempio. È difficile dire se la sorte peggiore tocchi ai popoli dai confini appariscenti (come i Pirenei e le Alpi, il canale della Manica...) o a quelli senza un “limes” fissato nettamente dalla “natura”. Gli uni e gli altri sono stati travolti da scorrerie, invasioni e dominazioni. Chiusi nell'autocontemplazione del presente gli europei deplorano tragedie recenti. Fanno bene, se però comprendono che queste sono l'epifenomeno di millenni.
È bene ricordare. Ma va ricordato tutto, non solo quanto di volta in volta vien comodo.
Forse la sorte peggiore è toccata nel tempo alle genti comunque “di confine”. Con un'avvertenza, però: a segnare i confini non sono solo terre, mari, monti e fiumi. Sono soprattutto gli uomini: gli imperi, gli stati, i potentati, grandi o piccoli, con le loro articolazioni. Sono le religioni ingessate in chiese (con i loro tribunali, le scomuniche, le persecuzioni di eretici e non credenti), i fanatismi, le ideologie, l'anarchia del potere finanziario, il terrorismo dalle “centrali” insondabili e dai tentacoli occulti. Nulla è nuovo sotto il sole. Il sacro romano imperatore affidò al banchiere Fuegger la vendita delle indulgenze che spostò il consenso popolare dal Papato a Martin Lutero. 
Fiume, emblema dell'Adriatico Amaro 
Tristissima è la sorte di lande dai confini apparentemente sin troppo precisi ma al tempo stesso incerti per la conflittualità degli interessi che vi convergono. È il caso dell'Adriatico Amaro. Per esempio di Fiume, oggi rigogliosa città della Croazia. La sua vicenda è emblematica. Va ricordata con quella delle città dalmatiche, dell'Istria e del Goriziano sottratte allo Stato d'Italia dal 1945: una sanguinosa spoliazione, suggellata dal Trattato di pace del 10 febbraio 1947 e resa definitiva dall'intempestivo Trattato di Osimo del 1975, quando ormai l'Unione Sovietica e l'usurpatrice Jugoslavia erano tarlate e condannate dalla storia.
Sappiamo da decenni quali e quante atrocità furono perpetrate ai danni degli italiani, sopraffatti da odio alimentato da “razza”, lingua, classe, ideologia politica e dalla barbarie che impregnò un conflitto enfiato da belluinità codificate con direttive politiche e militari. ordini del giorno, circolari e misure sbrigative. La seconda guerra mondiale registrò nella penisola balcanica alcune tra le sue pagine più allucinanti, con rappresaglie spinte all'esecuzione di cinquanta “nemici” (popolazione civile) per ogni militare abbattuto, spesso martirizzato con efferatezza spietata. Dal maggio 1945 Fiume fu teatro di feroce pulizia etnica ai danni degli italiani. Vennero trucidati fascisti, antifascisti, autonomisti, socialisti e comunisti non graditi a Tito. Furono ammazzati o infoibati talora semivivi anche persone senza alcuna opinione politica, solo perché italiani, solo per il piacere sadico di umiliare e annientare. Previo stupro, nel caso di donne, di qualsiasi età, vittime sacrificali come Norma Cossetto, il cui dramma è finalmente approdato alla televisione pubblica con la proiezione di “Red Land. Rossi Istria” del regista Maxilimiano Hernando Bruno. Era costume ancestrale. Quanto avvenne nel 1943-1948 è orrendo, ma ancora peggiore fu la carneficina scatenata in molte plaghe dell'ex Jugoslavia dopo il suo collasso, con la spettrale “assistenza” dell'Europa occidentale, della Nato, dell'Onu. Le macerie sono ancora lì. Non sempre nei muri, sempre nei cuori. 
Un calvario di secoli 
Fra le tante tragedie vissute nei secoli, forse la peggiore per Fiume fu quella del 1509, quando venne saccheggiata per ordine di Angelo Trevisan, doge di Venezia. La Serenissima non ne tollerava la concorrenza. Più perdeva dominio nel Mediterraneo (Marcantonio Bragadin venne vinto e suppliziato a Famagosta dai turchi sessant'anni dopo) più la Repubblica del Maggior Consiglio si arroccava nell'Adriatico. Non era “Italia”. Era Venezia. Non prestiamo al passato remoto “idee” e “sentimenti” dei secoli successivi. 
Dal 1779 “autonoma” con Maria Teresa d'Asburgo, Fiume conobbe una prima prosperità come porto franco nell'ambito del Sacro Romano Impero, che nel corso di un secolo, tra il 1728 e il 1803 la collegò al retroterra con la strada “carolina” e con la via “ludoviciana”, a conferma di quanto le infrastrutture, ieri come oggi, facciano bene all'umanità. 
Dopo vicissitudini troppo aggrovigliate da poter essere ripercorse in poche righe (l'occupazione napoleonica, la restituzione all'Ungheria, sempre nel contesto dell'impero d'Austria, l'irruzione dei croati nel 1848...), Fiume divenne approdo normale del traffico dall'Europa centrale all'Adriatico. Ne scrisse a lungo Leo Valiani, che vi nacque  e bene ne conosceva la complessità.
Porto fiorente dell'Europa centrale
Dopo il 1866-1870 (guerra italo-prussiana contro l'impero d'Austria e annessione di Roma) l'Italia ebbe motivo di imboccare una politica estera di raccoglimento. Persa l'ingombrante amicizia di Napoleone III, essa aveva poco da attendersi dalla Francia, sia conservatrice (e filoclericale) sia incline a esportare la repubblica per indebolire gli Imperi centrali e i suoi sodali, inclusa l'Italia inclusa dal 20 maggio 1882 alleata con Berlino e Vienna. Nel volgere di un quarantennio, tra apertura del Canale di Suez (il cui 150° è passato inosservato nella miope Italia) e colonizzazione accelerata degli spazi afro-asiatici il commercio ebbe la meglio sulle ideologie politiche. Il benessere normalizzava e univa. I contatti diretti tra ceti dirigenti culturali e imprenditoriali relegò rapidamente ai margini le pulsioni nazionali e gli irredentismi. Dalle relazioni pacifiche e dallo sviluppo all'interno dei singoli Stati si poteva ottenere più che dalle tensioni ideologiche e dai miti tardo romantici. L'incremento demografico ed economico della città di Fiume ne fu esempio lampante. Dopo la costruzione di Porto Baross (dal nome del ministro ungherese che lo volle) in pochi decenni la città liburnica divenne il 10° porto d'Europa per volume e valore di merci che vi transitavano. 
La politica estera italiana: di Stato, non di governo 
Nel 1910 Francesco Guicciardini, ministro degli Esteri dell'ultimo effimero governo presieduto da Sidney Sonnino, dichiarò alla Camera che ormai la politica estera dell'Italia non era solo “di governo” ma “di Stato”: la fedeltà alle alleanze pattuite apriva spazio a iniziative italo-centriche, accolte con benevola comprensione se non mettevano in discussione i grandi equilibri e la pace europea. Fu il caso della guerra del 1911-1912 per la sovranità dell'Italia su Tripolitania e Cirenaica. Purtroppo (a conferma dell'opacità degli studi storici nostrani) la serie dei Documenti diplomatici italiani continua a mancare di volumi sugli anni “nevralgici”: dalla crisi bosniaca all'incontro di Racconigi tra Vittorio Emanuele III e lo zar Nicola II (24 ottobre 1909), osteggiata dai repubblicani. In quegli anni anche nelle file dei nazionalisti italiani l'imperialismo prevalse sull'irredentismo. Esso mirava a un governo più “forte”, all'incremento delle armi, alla repressione dei nemici interni quale premessa indispensabile per audaci ingrandimenti territoriali oltremare se non ai confini. Venne messa la sordina alle rivendicazioni vent'anni prima campeggiate da Lemmi, Crispi e Carducci: Trento, Trieste, Nizza, la Corsica e la perla italiana nel Mediterraneo, Malta. Quel programma che avrebbe comportato tensioni e conflitti non solo contro l'Austria di Francesco Giuseppe, l'“imperatore degli impiccati”, ma anche contro Parigi e Londra. Una follia. Perciò la frangia ideologicamente più attrezzata dei nazionalisti mirò semmai a duplicare in Italia il modello tedesco: somma della casta aristocratico-militare prussiana (o borussica, studiata a fondo da Sergio Pistone) e socialismo nazionale bismarckiano, positivamente volgente dalla rivoluzione alla socialdemocrazia.   
Imperialismo di coccio tra imperialismi di acciaio
Quel realismo nel 1915 ispirò i compensi elencati nel memorandum avanzato dal governo Salandra-Sonnino come contropartita per l'adesione di Roma alla Triplice Intesa anglo-franco-russa. Roma chiese il confine dal Brennero a Monte Nevoso, passando per Trieste e l'Istria, approdi strategici e isole della costa dalmatica, ma non Fiume, assegnata dall'articolo 5 dell'"engagement" di Londra alla Croazia, ai danni dell'Ungheria, ma pur sempre nell'ambito dell'impero austro-ungarico che in quel momento nessuno (men che meno Roma) metteva in discussione. La dissoluzione della monarchia austro-ungarica non fu prospettata né dal Congresso massonico parigino del 28-30 giugno 1917 (che propose l'indipendenza della Polonia e della Boemia e la demarcazione sulla base di plebisciti dei confini nelle zone mistilingue) né dai quattordici punti enunciati dal presidente degli USA Wilson nel gennaio 1918, incardinati sull'“autodeterminazione” dei popoli. Solo nella primavera di quell'anno si aprì la gara fra gli imperialismi ai danni degli ormai probabili vinti. La “liberazione dei popoli oppressi” evocata da Francesco Leoncini in “Alternativa Mazziniana” (Ed. Castelvecchi) fu il paravento ideologico e sentimentale dietro il quale si scatenarono gli appetiti di Parigi sull'Europa orientale e balcanica e della Gran Bretagna nel Mediterraneo orientale profittando del collasso della Russia e dell'impero turco. Da mezzo secolo l'obiettivo vero erano il controllo degli Stretti, il libero accesso al Mar Nero e quella Crimea che nel 1853-56 era stata teatro della guerra anglo-franco-turca con l'aggiunta del regno di Sardegna contro la Russia zarista. 
Nella fase terminale della Grande Guerra mutò anche la prospettiva postbellica dell'Italia, a sua volta abbacinata dalla talassocrazia. Per sostituire l'impero asburgico nel dominio sull'Adriatico (come sin dal 1914-1915 ventilato da propositi riservatamente enunciati da Paolo Thaon di Revel, futuro Duca del Mare) l'Italia doveva però entrare in rotta di collisione con il nascente Stato serbo-croato-sloveno, che non si affacciò affatto improvvisamente nel 1918 ma era in nuce dal patto di Corfù, immediatamente seguente il citato congresso massonico di Parigi: un disegno completato con l'invenzione della Cecoslovacchia, che non nacque per partenogenesi ma fu preparata a tavolino dalla somma tra Grande Oriente di Francia, Gran Loggia di Francia e Quai d'Orsay, con il benestare di Londra. 
Indebitata sino al collo per il costo della guerra, squassata dal crollo del potere d'acquisto della moneta e dal dilagare di movimenti repubblicani (quali furono, all'inizio, i mussoliniani Fasci di combattimento) e dei socialrivoluzionari, infiltrati dai bolscevichi, l'Italia non aveva i mezzi per sorreggere né macro né microimperialismo. Aveva assoluto bisogno di stabilità ai confini e all'interno per passare dalla produzione di guerra a quella di pace e riprendersi dal peso del conflitto. La pretesa di ottenere comunque Fiume, agitata al congresso della pace di Parigi nella primavera del 1919, alla vigilia e anche oltre la firma del Trattato di Pace (28 giugno) fece figurare l'Italia quale capofila del revisionismo mentre erano ancora aperte le trattative poi approdate alle paci di Saint-Germain (con l'Austria), Trianon (Ungheria), Neuilly (Bulgaria) e Sèvres (Turchia). 
Dall'impresa sediziosa di d'Annunzio all'annessione all'Italia
La Marcia di Ronchi e l'irruzione di Gabriele d'Annunzio in Fiume il 12 settembre 1919 palesò quella sedizione nell'Esercito che era sempre stata scongiurata dal 1861 e nelle fasi più drammatiche della Grande Guerra, quando il governo di Roma si spinse a organizzare una sorta di guerra parallela in Albania, ruvidamente deprecata dal Comandante Supremo, Luigi Cadorna, generale del Risorgimento, secondo il quale solo vincendo sul Carso l'Italia avrebbe riconquistato la Libia e affermato ogni altra sua legittima aspirazione.  
La lunga impresa di d'Annunzio a Fiume, inizialmente caldeggiata dal Grande Oriente d''Italia anche tramite Giacomo Treves, fondatore della loggia “Oberdan” di Trieste e fiduciario di Domizio Torrigiani, fu ora osteggiata e ora corteggiata dal presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti. Venne chiusa dal suo successore, Giovanni Giolitti, con i colloqui italo-jugoslavi di Pallanza e di Spa e con il trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, che costituì Fiume in Corpus Separatum, territorialmente collegato con il regno d'Italia. L'8 settembre 1920 “Ariel” d'Annunzio aveva intanto proclamato la Reggenza di Fiume, forte della Carta del Carnaro, frutto dei molti “fraterni” suggerimenti di Alceste De Ambris: una forzatura destinata a risolversi tragicamente, con la proclamazione dello stato di guerra (21 dicembre), il governo provvisorio dell'altalenante Antonio Grossich, il cannoneggiamento del Palazzo della Reggenza, la partenza del Vate e la vittoria dell'“autonomista” Riccardo Zanetta alle elezioni comunali del 21 aprile 1921. 
Le turbolente elezioni politiche del maggio 1921, quasi immediatamente seguite dalle dimissioni di Giolitti a cospetto di una Camera politicamente caotica, riaprirono la partita sulla sorte di Fiume sino al colpo di mano di fascisti, legionari e repubblicani (3 marzo 1922), la rinuncia di Giovanni Giuriati a presiedere un comitato di difesa nazionale, la convenzione di Santa Margherita (23 ottobre 1922: canto del cigno del governo Facta, come documentato da GianPaolo Ferraioli) e, in un quadro completamente diverso, il Patto di Roma che il 27 gennaio 1924 assegnò Fiume all'Italia e Porto Baross alla Jugoslavia.
La tragedia del 1945
Quel caos prolungato giovò poco a Fiume, che nel 1931 contava appena 3.000 abitanti in più rispetto al 1910. Alla sua effettiva ripresa concorse la riapertura ai traffici con l'Europa centrale, dettata dalla ritrovata armonia tra la geografia, la politica e la cultura. 
Tra i suoi maggiori interpreti fu Riccardo Gigante, podestà, senatore, prefetto della provincia di Fiume dal 21 settembre al 29 ottobre 1943, proditoriamente sequestrato dall'Ozna (terroristi comunisti) e assassinato il 4 maggio 1945: una delle tante, troppe nefandezze perpetrate dal IX corpus di Tito, avanzante con il beneplacito degli inglesi e tardivamente fermato dagli Stati Uniti d'America.
Chi contempli dall'alto la tersa avvincente costa liburnica vede un tratto di quella che Dante Alighieri definì l'“aiola che ci fa tanto feroci” e bene comprende che per l'Italia odierna, economicamente fragile, priva di coerente governo politico, sull'orlo di un conflitto istituzionale senza precedenti e dagli sbocchi imprevedibili, l'unica garanzia di progresso è la Pax Europea, contro fatui nazionalismi, salti all'indietro, il ritorno alla “guerra per bande” e al conflitto tra Stati, tutti comunque superatissimi e impotenti dinnanzi alle vere sfide del Terzo Millennio.
Solo in quel contesto potranno essere definitivamente ricucite le “lingue tagliate” e risorgeranno liberamente gli “italiani dimenticati”, meritoriamente studiati e riproposti in opere pionieristiche da Giulio Vignoli, Giuseppe Parlato e da Luciano Monzali, finalista del Premio Acqui Storia che, su iniziativa del suo presidente, Alessandra Terzolo, propone ad Acqui il Giorno del Ricordo (10 febbraio, dalle 10 alle 17) su “d'Annunzio, uomo dai mille volti” e su “Fiume attraverso secoli di occupazioni” con interventi di Marco Cimmino e di Ruggero Bradicich.
Per non dimenticare e per far memoria, ma a tutto tondo.
Aldo A. Mola

ITALIA A TOCCHI?
METODO E MERITO DELLA POLITICA ESTERA
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 3 febbraio 2019, pagg. 1 e 11.
    
Bruegel il Vecchio La parabola dei ciechi 1568, Napoli, Galleria Nazionale di Capodimonte da internet Povera e nuda vai, Filosofia: l'Esecutivo allo sbando.
L'Italia odierna non ha un Governo vero, una filosofia concretata in progetto coerente di lungo periodo. Alcuni suoi esponenti (con convinzione decrescente) assicurano che rimarranno al potere cinque, dieci, trent'anni. Ma  è lo stesso prof. Giuseppe Conte, presidente del Consiglio, a farfugliare nell'orecchio del Cancelliere tedesco, Angela Merkel, che il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, è in polemico conflitto “contro tutti”, compreso l'alleato di governo. Sic stantibus rebus, l'Esecutivo non solo appare ma è allo sbando, corroso “ab origine” dal morbo della contraddizione che, come il “punteruolo rosso” con le palme, lo infetta e contagia lo Stato, svuotandolo rapidamente della sua linfa vitale. Ne rimane solo la scorza. Lo si constata nell'abuso delle “divise” dei corpi dello Stato da parte di un vicepresidente del Consiglio. Che cosa diremmo se il titolare degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, girasse con la feluca di ambasciatore o se Alfonso Bonafede, ministro di grazia e giustizia, indossasse alternativamente il tocco e la stola di alto magistrato o la toga di cassazionista? Indossare i “panni” dei Servizi e farsi scudo dei Simboli della Res Publica significa abusare dello Stato a mero beneficio di chi è nominato ad amministrarne pro tempore i poteri. Vuol dire confiscarne la sacralità a vantaggio di un particulare, “con-fondere” Entità nettamente diverse, quali lo Stato e i partiti, che per la Costituzione vigente sono e debbono rimanere separati, proprio per scongiurare la deriva verso il Regime monopartitico, sciaguratamente sperimentato nel peggior ventennio della nostra storia, quando la Corona, istituzione apicale dello Stato d'Italia, risultò isolata, sotto assedio e depotenziata fino a quando la sconfitta militare mise a nudo la fragilità di chi aveva confuso Nazione e partito. Solo allora, nel luglio 1943, il nazionalista Luigi Federzoni, unico vivente della pattuglia originaria, prese atto della lunga serie di errori commessi e, con Dino Grandi e Giuseppe Bottai, tentò di rimediare chiedendo al Gran Consiglio del fascismo di “pregare la Maestà del Re di assumere la suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono”. 
Si scoprì allora, come anche oggi accade, che le istituzioni supreme non sono una variabile dipendente da una qualunque maggioranza parlamentare: o sono lo Stato, o non sono. Esse coincidono con le persone che di volta in volta le incarnano. L'armonia tra le istituzioni e chi ne riveste le funzioni è un equilibrio delicato. Se si incrina sino a spezzarsi, avviene la catastrofe, come accade alle opere prive di adeguata manutenzione. Reggono non per forza propria ma per inerzia, quasi per scommessa, e infine crollano di schianto quando meno ce lo si aspetta.   
Il governo senza un vero Presidente
La perdurante conflittualità tra i due vicepresidenti del Consiglio, Luigi Di Maio e Matteo Salvini (qui menzionati nell'ordine dei voti e dei seggi ottenuti il 4 marzo 2018), non ha nulla a che vedere con la storia dei governi susseguitisi dal 1943 in poi. Da allora l'Italia ha avuto Esecutivi multicolori, formati anche da esponenti di forze e di blocchi del tutto avversi. La cornice della loro genetica conflittualità  si scioglieva e veniva superata era lo Stato (monarchia prima, Repubblica poi), nel quadro dell'assetto politico-militare soprannazionale scaturito nella fase conclusiva della seconda guerra mondiale, al cui termine nessuno mise seriamente in discussione che l'Italia fosse (come in effetti fu e rimane) “occidentale”, al riparo nell'area d' influenza (o egemonia) degli Stati Uniti d'America e del suo unico vero alleato, la Gran Bretagna. Per sintesi dei decenni fluiti da quella svolta bastano i nomi di Alcide De Gasperi, democristiano, e di Palmiro Togliatti, comunista ed emissario di Stalin; e di presidenti della Repubblica quali Giovanni Leone e Francesco Cossiga, che non esitò far “schierare i missili” per garantire la sicurezza del Paese nell'ambito della Nato.  
Da troppi mesi il governo “recita a soggetto”. Ognuno dei suoi due componenti improvvisa. Non pago di fare la propria parte, parla anche a nome degli altri, spesso a ruota libera, come fosse anche titolare di altri dicasteri o persino capo del governo. Il ministro dell'Interno a volte ha esternato  come fosse degli Esteri, della Difesa e di altro ancora, senza suscitare immediate e doverose rettifiche. Altrettanto ha fatto e fa il tuttologo Di Maio, che non perde mai il filo delle parole pur in  assenza di pensiero. Ora il presidente assicura che il 2019 sarà  bellissimo. Conte(nto)lui...
La ritirata della ministra Trenta dall'Afghanistan   
Lo sfascio dell'Esecutivo ha raggiunto il culmine in pochi giorni con due eventi sconcertanti: la sortita della dottoressa Elisabetta Trenta, ministro della Difesa, sul ritiro della Missione dell'Italia in Afghanistan, e l'astensione al Parlamento europeo degli esponenti giallo-verdi, cui si sono accodati alcuni del Partito democratico, sul riconoscimento di Guaidò quale rappresentante della legalità democratica nel Venezuela. 
Al ministro degli Esteri, Moavero, che ha dichiarato formalmente di non esserne in alcun modo informato della ventilata ritirata dall'Afghanistan la signora Trenta ha risposto con tono risentito e irridente di aver “agito secondo le sue prerogative” e di non essere certo obbligata ad avvisarlo. Ne aveva parlato con “chi di dovere, tra cui (chi altri, dunque?) il presidente del Consiglio ed il capo di Stato Maggiore della Difesa”, “alla luce delle notizie che giungono da oltre Oceano” e quale “atto di responsabilità istituzionale verso il Paese e verso i nostri militari”.
Tra il 17 e il 21 maggio 1915, lo sciagurato governo Salandra-Sonnino precipitò l'Italia nella Grande Guerra, senza alcuna della sua durata e del finanziamento dell'immane sforzo economico al quale il Paese venne chiamato. Non solo. Non informò il Capo di Stato Maggior Luigi Cadorna del contenuto effettivo dell'“engagement” firmato dall'ambasciatore d'Italia a Londra il 26 aprile precedente: “accordo” politico e convenzione militare. Fu un “colpo di governo”, come scrisse Giolitti al suo diadoco calabrese Antonio Cefaly, secondo il quale si trattò di un vero e proprio “colpo di Stato”, un gesto rivoluzionario destinato a compromettere il Re e forse la Corona stessa in caso di sconfitta, come avvenne in Russia, Germania, Austria-Ungheria e a Istanbul. Ora accade l'inverso, ma in modo altrettanto grave. Un ministro della Res Publica “annuncia” come cosa fatta una decisione che va molto oltre le sue accampate “prerogative” e investe lo Stato stesso, vincolato da Trattati internazionali (non meri “accordi”) dai quali dipende la sua sicurezza. Non solo, in base a congetture sulle trattative in corso a Doha tra il governo degli Stati Uniti d'America e i talebani la dottoressa Trenta anticipa una decisione che va invece presentata, discussa e approvata nell'unica sede competente, il Parlamento italiano, in forza dell'articolo 11 della Costituzione. Di più: checché ne pensino gli ambienti coinvolti nelle incaute esternazioni del ministro della Difesa, i primi a valutare l'annunciato ritiro del continente italiano saranno proprio i nemici sul campo, i temuti talebani. Essi potranno fare ”ponti d'oro” o impartire a quello che per loro è un invasore una severa “lezione” per dissuaderlo per sempre dal tornarvi. La Russia ne sa qualche cosa. Aver scoperto le carte con un anno di anticipo non solo interferisce con la responsabilità tecnica dei militari ma costituisce soprattutto una imprudenza e mostra una totale “mancanza di diplomazia”, di cui è depositario il ministro degli Esteri.  
La questione è di tale gravità che è subito scomparsa dai “media”, attratti dalla carta moschicida degli “sbarchi” e dell'ormai scontatissima “recessione”, pudicamente denominata “tecnica”, e dalle annose dispute sulla Tac (linea di treni “ad alta capacità”, non “velocità”). 
L'evanescenza del prof. Giuseppe Conte, presidente silente....
Per quanto possa riuscire sgradevole anche il solo accennarvi, la vicenda Trenta-Moavero esige due chiarimenti inderogabili. In primo luogo l'avvocato Conte dovrebbe precisare al Paese (cioè alle istituzioni competenti e ai cittadini) se, quando e in quali termini sia stato preavvertito dalla ministra non tanto dello “studio” (in sé ovvio) dell'eventuale ritiro quanto del suo annuncio. La questione è centrale: l'attuale presidente del Consiglio esercita o no il potere conferitogli dall'articolo 95 della Carta, in forza del quale “dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene la unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei Ministri”?    
...e il Presidente Mattarella?
Di più. Prima della sua sortita, la dottoressa Trenta ha informato il Presidente della Repubblica che “ha il comando delle Forze Armate, presiede il Consiglio supremo di Difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere”? Sappiamo con quanta partecipe attenzione il Presidente Mattarella segue l'opera delle molte, generose e apprezzate Missioni di pace italiane nelle diverse aree calde del pianeta. E' da ritenere che, insieme con il ministro degli Esteri, non gli tocchi apprendere da agenzie di stampa l'annuncio della loro durata, con tutti i risvolti interni e internazionali che ne discendono, a cominciare dalla credibilità dello Stato d'Italia.
Quale ne sia la affidabilità sul piano economico è noto e non richiede commenti. Per mesi il governo si è incaponito a presentare alla Commissione europea un piano triennale senza speranza di approvazione e ha dovuto frettolosamente ripiegare su una trincea arretrata, salvo trovarsi ora alle prese con l'incubo di una seconda “manovra finanziaria” a breve termine (mentre torna a spirare il vento di una “patrimoniale”). Stanco delle insinuazioni di sue presunte responsabilità il ministro dello Sviluppo economico del precedente governo, Pier Carlo Padoan, non ha esitato a tacciare il governo di ignoranza e di malafede.
Tra diritti umani e dittatura poliziesca l'Italia sta alla finestra
Non meno sconcertante è l'altra vicenda che mette in discussione l'immagine dell'Italia nel mondo: la scelta tra Guaidò e Maduro in Venezuela. Trattasi di un terreno sul quale non vi possono essere esitazioni, come ha ricordato Re Juan Carlos di Borbone nel discorso pronunciato all'Università Comillas di Madrid: una sede particolarmente emblematica perché è l'Università dei Gesuiti, e quindi (vi è motivo di ritenere) non in contrasto con il pensiero della Santa Sede. Da un canto vi è il ritorno del Venezuela alla “normalità” istituzionale con elezioni libere, garantite da osservatori internazionali indipendenti; dall'altra vi è il prevedibile indurimento di un regime non militare ma poliziesco. Dai governi autoritari, a forte presenza militare, i Paesi ibero-americani sono sempre usciti, senza traumi soverchi. Fu il caso del Brasile, dell'Argentina dopo la Giunta militare di Videla e persino del Cile di Augusto Pinochet, sin dall'origine dichiaratamente transeunte quale dolorosa parentesi verso il ritorno alla democrazia parlamentare. Altra cosa sono i regimi polizieschi, nati da imprese rivoluzionarie e fondate sul “partito unico”, dalla Cuba di Fidel Castro al Venezuela di Chavez e del suo erede, Maduro.
L'astensione dei rappresentanti giallo-verdi e di alcuni esponenti del Partito democratico in una votazione qualificante del Parlamento europeo pone l'Italia fuori dal novero dei Paesi “importanti”  dell'Unione Europea proprio per quanto di meglio, pur con tutti i suoi noti limiti, essa ha espresso e può esprimere: l'affermazione interna e universale dei diritti umani. 
La lancetta della storia ormai vicine all' “ora X”: la guerra nucleare  
Questo è il vero terreno di confronto per le ormai imminenti elezioni degli europarlamentari, proprio perché la lancette verso la possibile guerra totale si sta avvicinando pericolosamente all' “ora X”: il conflitto nucleare. La Comunità internazionale è tornata preda dell'anarchia, succuba della gara tra terrorismo e la “trappola di Tucidide”. Non è la prima volta. Accadde un secolo fa, all'indomani della Grande Guerra, quando la Lega delle Nazioni si ridusse a velo sdrucito e stinto degli interessi imperialistici franco-inglesi. Per uscire dalla crisi permanente si contrapposero due visioni globali. Da un canto i piani quinquennali nell'Unione sovietica e il New deal nell'America di Franklin D. Roosevelt, entrambi derivanti dalla filosofia della prassi di origine germanica, più precisamente hegeliana: una concezione “razionale”, propria del capitalismo e dei suoi studiosi, Marx incluso. Dall'altro la visione mistica del pianeta, elaborata tra altri dal massone Giuseppe Cambareri, a contatto con i confratelli  Arturo Reghini, Gino De Sanctis e Domenico Maiocco e con altri personaggi di spicco sino a Pietro Badoglio, Guido Calogero, “filosofo del dialogo”, e Federico Comandini, del partito d'azione. Ne scrisse Silverio Corvisieri  in “Il  mago dei generali” (ed. Odradek). In tale visione cosmologica, anziché che nell'economia la “salvezza” sta nell'esoterismo, nell'uso politico dei suoni e dei colori, come poi predicato con esiti deludenti da José Lopez-Rega, il “brujo” di Juan e Isabelita Peròn.
Non sappiamo quanto le due opzioni (l'hegeliana e la mistica) siano presenti all'Esecutivo attuale. Di certo esso non mostra alcun organica visione e previsione di politica estera e militare, cardini di qualunque Stato, Res Publica o Principato. Tristissimo per la terra di Niccolò Machiavelli.
Aldo A. Mola 

“CORDA FRATRES” PER L'AMICIZIA ITALO-FRANCESE
GOLIARDI CHE VEDEVANO LUNGO
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 27 gennaio 2019, pagg. 1 e 11.
    
�CORDA FRATRES� PER L'AMICIZIA ITALO-FRANCESEDalle incomprensioni...
Italia e Francia. A fine Ottocento, a parte le guerre dei secoli andati, le loro relazioni calarono a picco. Dopo il linciaggio a colpi di vanga di deci ne di migranti nostrani ad Aigues-Mortes nell'agosto 1893 (ne ha scritto Gérard Noiriel in “Il massacro degli italiani. Quando il lavoro lo  rubavamo noi”, ed. Tropea) e la “caccia all'italiano” a Lione nel 1894, Roma e Parigi si scontrarono indirettamente nella “prima guerra d'Africa”, chiusa con la sconfitta degli italiani ad Adua (1° marzo 1896). Il negus Menelik ebbe assistenza militare diretta e indiretta di Francia e Russia. A sostegno di Parigi nel 1892 papa Leone XIII dichiarò che la chiesa non fa preferenze tra monarchia e repubblica ma solo sulla base della condotta dei governi. La Francia era alle prese con l'affaire Dreyfus, l'ebreo asceso a ufficiale di stato maggiore ma condannato per alto tradimento a favore dell'odiata Germania, e sparò a zero i romanzacci di Léo Taxil contro l'Italia dei “Tre puntini” Crispi, Lemmi e Carducci, massoni in combutta col diavolo. Sin dalla guerra doganale italo-francese del 1886 gli italiani migranti in Francia in cerca di lavoro se la passavano malissimo. Lo sfruttamento anche sessuale dei bambini italiani in vario modo attratti in Francia raggiunse livelli preoccupanti. Traspare dal saggio di Romain H. Rainero “Les Piémontais en Provence. Aspetcs d'une émigration oubliée” (Ed. Serre. 2000).  
Le insurrezioni eterodirette in Lombardia e Toscana in coincidenza con le feste (soprattutto torinesi) per il cinquantenario dello Statuto (1898) e l'assassinio di Umberto I a Monza (29 luglio 1900) dettero la misura dell'isolamento dell'Italia. Per uscirne bisognava salire faticosamente la china: trattative diplomatiche sommesse, approdate agli accordi segreti Prinetti-Barrère del dicembre 1900. Da sola, però, la diplomazia non bastava. Occorreva moltiplicare le relazioni dirette in ambienti capaci di fare opinione. 
...Alle relazioni dirette: la Federazione  Internazionale Studentesca 
Vi si impegnò assiduamente il geniale Efisio Giglio-Tos (Chiaverano, 1870 – Torino, 1941). Autodidatta e plurilaureato, già impiegato al Club Alpino italiano e all'Associazione universitaria torinese, il 9 aprile 1897 propose l'organizzazione di una “associazione universale” degli studenti, varata nell'autunno 1898, quando 3.000 studenti universitari affluirono da tutto il mondo a Torino e a Roma per fondare la Federazione internazionale studentesca “Corda Fratres”. Due anni dopo, il gran passo avanti: il 2° convegno dei “Cuori Fratelli” si svolse a Parigi. Sull'esempio delle antiche università e per impulso del presidente fondatore e del francese Jean Reveillaud furono istituite sezioni sia degli Stati esistenti (Italia, Francia, Belgio, Spagna, Germania, Gran Bretagna...) sia delle “nazioni senza Stato”: Polonia, Boemia, Norvegia (all'epoca unita alla Svezia), Finlandia. La sezione romena incluse gli studenti della Transilvania, rivendicata da Bucarest, più volte visitata da Giglio-Tos quando Roma donò ai romeni la Lupa Capitolina, a suggello del legame tra “sorelle latine”.  Ancora più emblematica fu la costituzione della “sezione speciale”, presieduta da Léon  Fildermann e comprendente gli ebrei dei diversi Paesi in un corpus unitario. Da molti fu sospettata di sionismo, anche se molti suoi iscritti non ritenevano affatto indispensabile il ritorno di tutti gli israeliti in Palestina. Molto prima della diaspora avevano abitato il mondo: potevano conciliare Stato ebraico e Alleanza universale. 
Nel quinquennio seguente Giglio-Tos infittì le relazioni italo-francesi, fondamentali in vista del Cinquantesimo del regno, la cui regia venne affidata al senatore Tommaso Villa e a Teofilo Rossi di Montelera, che vi si dedicò corpo e anima come documentano Rosanna Roccia e altri nel denso volume collettaneo curato da Tomaso Ricardi di Netro per il Centro Studi Piemontesi. 
Più ferrovie, più strade, più vita...: Emile Loubet a Roma
Come emerge dai documentati studi di Giulio Vignoli e di Maurice Mauviel, anche allora la normalizzazione dei rapporti italo-francesi passava attraverso il potenziamento delle infrastrutture: meno sperperi per corrucciate opere difensive a futura memoria e più investimenti in strade e ferrovie, a cominciare dalla Cuneo-Ventimiglia-Nizza, avviata quarant'anni prima ma sempre al palo nella decisiva tratta transalpina (mezzo secolo dopo la riapertura è nuovamente in affanno).   
Giglio-Tos ebbe chiaro che l'“amicizia” italo-francese era fatta anche di lunghi silenzi. L'Italia doveva mettere la sordina a qualunque rivendicazione non solo della Savoia (francofona) e della Corsica, ma anche di Nizza. Al contrario, occorrevano discorsi, come quelli pronunciati il 17 agosto 1902 a Besançon nel centenario della nascita di Victor Hugo, il romanziere caro a Garibaldi e vessillo dei democratici nella Terza Repubblica. Ricevette le Palme d'argento. L'anno seguente plaudì al viaggio di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena a Parigi, preceduto dal conferimento del Collare della Santissima Annunziata al presidente Emile Loubet. Nel frattempo organizzò a Nizza un festoso incontro di studenti e studentesse: comunione e liberazione, anzitutto dall'oscurantismo e dal farisaismo. Ne trasse lezione il giovane Orazio Raimondo, socialista, massone, sindaco di Sanremo, profeta del Casinò municipale. Quando nell'aprile 1904 il presidente francese ricambiò la visita a Roma “senza vedere il papa”, Giglio-Tos allestì di fretta una “Inchiesta italo-francese”, pubblicata tempestivamente nell'“Italia moderna”. Vi raccolse le risposte di illustri personalità dei due Paesi, come Achille Loria e Charles Beauquier, presidente della lega franco-italiana, alla domanda sulla necessità di “alleanza fraterna e indissolubile” tra le due “nazioni sorelle per razza e tradizione”, nell'ambito delle Nazioni latine, anche a sostegno dei “popoli oppressi” da giogo straniero, per assicurare “un'era di pace e di fratellanza internazionale”. Come nulla fosse, mise in discussione la carta politica d'Europa, risalente al Sei-Settecento e ribadita dal Congresso di Vienna del 1815: i quattro imperi di Russia, Germania, Austria-Ungheria e turco-ottomano si fondavano sulla spartizione di Polonia, Boemia, penisola balcanica e su confini artificiosi degli Stati sorti nell'Ottocento. Non solo Grecia, Bulgaria e Romania “fratelli separati”; anche l'Italia aveva il suo irredentismo: Trento (ove nel 1896 venne scoperto il monumento di Dante Alighieri) e Trieste, col sottinteso della contea di Gorizia e dell'Istria. La Grande Guerra era già tutta lì. Dopo le Palme d'Oro (1904) nel 1926 Giglio-Tos ebbe la Legion d'Onore...
Cuori Fratelli e...Sorelle 
  Lo statuto della “Corda Fratres” prescriveva che i suoi iscritti, come fossero in logge massoniche, non dovevano discutere di questioni politiche e religiose, ma la libertà dei popoli e la loro fratellanza erano principi filosofici, giuridici, morali e quindi avevano libero campo. Organizzata in sezioni nazionali, a loro volta ripartite in consolati, la Federazione ebbe il merito di dare ampio spazio alle studentesse in un Paese ancora misogino. Solo nel 1892 per la prima volta una donna venne ammessa alla Facoltà di medicina di Roma: Maria Montessori, rompighiaccio della storia d'Italia, “rivoluzionaria” a voce bassa, come Maria Teresa Bargis, prima ragazza vent'anni prima ammessa in un liceo classico del regno, a Cuneo (poi fu la prima laureata in lettere a Torino). Nell'età della Corda Fratres anche in Italia cresceva la rivendicazione del diritto di voto alle donne e si svolse a Roma il primo congresso femminile, con la partecipazione di Enrichetta Giolitti, figlia del presidente del Consiglio e moglie di Mario Chiaraviglio, “tre puntini” di Rito simbolico e deputato radicale.
Nazionalità senza nazionalisti:liberare i “popoli oppressi”
 Il 20 settembre 1907 Giglio-Tos rievocò Garibaldi a Caprera e vi annunciò la nascita della “Terza Italia”, associazione votata a coronare il Risorgimento. L'inno della Corda Fratres era stato scritto dal “fratello” Giovanni Pascoli, pacifista ma al tempo stesso patriota, come il suo grande maestro Carducci. Ora bisognava guardare oltre. Dovevano essere i Nuovi Goliardi, ardimentosi emuli di Golia, a varcare il Rubicone della storia. Gli antichi “clerici vagantes” avevano salmodiato sulla precarietà della vita: “Gaudeamus igitur, juvenes dum sumus...”, precorrendo il Lorenzo Magnifico di “Quant'è bella giovinezza/ che sen fugge tuttavia// chi vuol essere lieto sia/del doman non v'è certezza...”. Altri universitari vivevano gli studi e l'attesa della laurea come investimento per poi chiudersi in lucrose professioni in mediocri città di provincia, con qualche scappatella nei bordelli che all'epoca placavano i bollenti spiriti. Ben altra fu la sfida dei Nuovi Goliardi, politicamente consapevoli. La espresse l'inno degli studenti italiani, scritto da Giovanni Gizzi:“Di canti di gioia, di canti d'amore/ risuoni la vita, ma spenta nel core/ non cala per essi la nostra virtù”. //Dai lacci sciogliemmo l'avvinto pensiero/ch'or libero spazia nei campi del vero;/e sparsa la luce sui popoli fu.//Ribelli ai tiranni, di sangue bagnammo/ le zolle d'Italia; fra l'armi sposammo/ il sacro connubio la patria al saper.// Ed essa [l'Italia] faremo col core e coll'armi/ l'Italia dei padri sognata nei carmi/ l'Italia redenta dal giogo stranier”.
Reduce da un lungo ciclo di conferenze a sostegno dell'intervento dell'Italia in guerra a fianco dell'Intesa per la redenzione di Trento e Trieste, il 21 aprile 1915 Giglio-Tos si spinse a telegrafare al Re: “Per l'onore dei Savoia, per l'amore dei fratelli che soffrono e vi anelano, scongiurate la guerra civile, dichiarate guerra all'Austria e salvate la Patria”.
I Goliardi d'antant: “Ifigonia” e impegno civile   
Quel mondo complesso, gonfio di utopie e a volte contraddittorio è ampiamente illustrato da Marco Albera e da Manlio Collino in “Saecularia Sexta Album”, sontuoso volume sui sei secoli di studenti universitari di Torino, al centro del gran pomeriggio di festa e di cultura in programma alle 16.30 di martedì 29 gennaio 2019 al Casinò di Sanremo con la regia di Marzia Taruffi, direttrice dell'Ufficio Cultura. La città di Mario e Italo Calvino, sede del lungimirante Istituto Internazionale di Diritto Umanitario, paradiso di profezie, invenzioni e serenità, dette i natali al goliardo Antonio Rubino (1880-1964), poeta, illustratore, tra i fondatori del “Corriere dei Piccoli”. A Bordighera, due passi da Sanremo, Cesare Perfetto, ideatore del Salone Internazionale dell'Umorismo apprezzato da Giulio Andreotti, nel 1975 conferì la Rama di Palma d'Oro all'ormai anziano ma sempre arzillo urologo Hertz De Benedetti (1904-1989), autore del celebre poemetto “Ifigonia”, scritto nel 1928, presentato furtivamente sotto i portici di Piazza Carlo Felice a Torino lo stesso anno e nel 1939 messo fugacemente in scena per soli maschi adulti e vaccinati al Teatro Alfieri di Torino dalla Compagnia Teatrale Goliardica Camasio e Oxilia, animata da Ovidio Borgondo (detto Cavùr): un riconoscimento che sarebbe piaciuto a due super-goliardi come Angelo Nizza e Riccardo Morbelli, uniti fraternamente non solo dalle feluche. Strana sorte quella dell'“Ifigonia”. Passato di mano in mano clandestinamente per generazioni, vide le stampe solo nel 1969, un anno dopo il fatidico Sessantotto. Stava per essere pubblicato nel centenario del regno (1961) ma Roberto Vittucci Righini, all'epoca sovrano del Maximus Ordo Victoriae Augusta Taurinorum, lo sconsigliò: in quell'Italia bigotta gli editori rischiavano traversie giudiziarie per offesa alla “pubblica decenza”. Poi uscì in edizione critica a cura di  Roberto Brivio e di Alfredo Castelli nei “Canti Goliardici” e persino come album a fumetti.
Liberi dal Sessantotto!
Il Sessantotto, completo di Potere studentesco, okkupazioni e la deriva verso la babele delle lingue e l'ideologia elevata a regime, soffocò la goliardia, che era l'humus della classe dirigente, come documentano imponenti volumi sulla “Formazione della classe politica in Europa, 1945-1956" a cura di Giovanni Orsina e Gaetano Quagliariello, con eccellenti capitoli sull'Unuri, sull'Unione Goliardica e su miti, feste e simboli dell'associazionismo studentesco. Da lì arrivarono Marco Pannella, figlio del cordafratrino Leonardo, Paolino Ungari e tanti dirigenti dei partiti di area laica. Dopo il Sessantotto prevalsero nuove forme di bigottismo: i clerici non vagarono più. Vennero inquadrati e giurarono fedeltà a scuole di partito e di chiese anziché alla libertà. Finì un mondo. A Sanremo ne parla l'architetto e collezionista Marco Albera, già Presidente dell'Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino, accompagnato dai canti goliardici eseguiti dal chitarrista Gabriele Danesin, anima musicale del Summus Taroccorum Ordo Taurinensis, e dal fisarmonicista Ferdinando Rosso.  
La Goliardia culla delle élites
Ma perché mai occuparsi oggi di goliardi? Non è forse un tema “politicamente scorretto” e persino scurrile? In realtà, nel dibattito finalmente in corso anche in Italia sulle “élites” entra a pieno titolo la storia dell'Università e degli studenti. In Europa la Scuola degli Studi  nacque come istituzione universale, protetta dai “Sovrani” ma libera e inviolabile, con regole precise su riti d'iniziazione e sui rapporti tra docenti e discepoli in arrivo da tutti i Paesi e studenti di varie “lingue”. 
Qual era la sua “missione”? Formare “umanisti”, “dottori” dagli orizzonti culturali aperti, pronti a conquistare il mondo per migliorarlo. Nell'ambito dell'ecumene cristiana gli studenti erano leali verso il loro Principe ma accomunati nella ricerca al di sopra di ogni confine. In secoli di guerre politiche e religiose l'Università rivendicò libertà, unità e progresso del sapere.
Il Sette-Ottocento fu l'epoca di tante “internazionali” (Santa Alleanza, carboneria, massoneria, liberali, socialisti, cattolici, persino anarchici e alta finanza...), ciascuna con programmi politici o con obiettivi di dominio economico, inclini a metodi bellicosi, rivoluzionari, spesso spietati. La ricerca scientifica venne subordinata al Potere.
Per chi sapeva leggere la storia, dopo la guerra franco-prussiana del 1870-1871 fu chiaro che l'Europa, lanciata nella seconda tumultuosa colonizzazione del pianeta, era al bivio: affratellare le classi dirigenti o precipitare in conflitti devastanti e disumani.
Alla anarchia della Forza bisognava rispondere con l'internazionale del Diritto. La Federazione studentesca ideata da Efisio Giglio-Tos con l'adesione di ministri, politici, rettori, docenti e studenti universitari anno dopo anno raccolse migliaia di giovani nei congressi di Parigi, Venezia, Liegi, Marsiglia, Bordeaux, L'Aja, Roma e negli Stati Uniti d'America (1913). Lì vennero accolti dal presidente Woodrow Wilson. Volevano fermare la corsa verso l'abisso della guerra generale, per non trovarsi di lì a poco al comando di reparti armati, con le divise dei rispettivi Stati, anziché con mantelli e feluche, e condannati ad annientarsi a vicenda dopo anni di affratellamento nelle aule universitarie e nei congressi scientifici. Era solo un'ingenua utopia o la meditata anticipazione della Società delle Nazioni, dell'ONU, dell'Unione Europea, di una umanità finalmente pacifica e progredita?
Mentre il mondo è sempre sull'orlo dell'abisso giova riflettere sulle grandi illusioni di un secolo addietro: fermare la guerra, che è il colpo di coda dei vecchi, una sorta di vendetta contro la vita che sfugge dalle loro mani. L'utopia dei cordafratrini, giovani di spirito anche in tarda età, insegna che il nazionalismo è la tomba delle nazioni e il sovranismo è la caricatura degli Stati. Come tra Otto e Novecento, oggi tocca ancora ai giovani riprendere il testimone della Storia, forti delle divise d'un tempo: “i Goliardi hanno sempre vent'anni...”. “Quel che era torna, e tornerà per sempre”: fratellanza, umanesimo, la Comunità internazionale, comprendente Stati e Nazioni, l'immensa varietà degli uomini, col loro millenario fardello di errori e di progresso, la lenta marcia sul pavimento a scacchi bianchi e neri.
Aldo A. Mola

Il  “PARTITO DEI CATTOLICI” GIOVO' ALL'ITALIA?
Il Partito popolare italiano intralciò il Concordato (1919-1929)
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 20 gennaio 2019, pagg. 1 e 11.
    
Partito Popolare dal sito http://www.mussolinibenito.it/Anche se “prigioniero” il papa era sovrano...
“Un re, anche prigioniero, è sempre un re, e se un giorno o l'altro avrà modo di liberarsi, voi lo ritroverete a capo del suo esercito. E il papa è ancora un re: ve lo afferma la legge delle famose guarentigie; che ne fa sacra e inviolabile la persona, che gli dà diritto agli onori sovrani nel territorio del regno, che dà ai suoi agenti dipl omatici le stesse prerogative che il diritto internazionale stabilisce per gli agenti degli altri governi; che gli consente un corpo armato, che assicura l'immunità del territorio apostolico e le comunicazioni dirette e incensurabili con tutto il mondo. In forza di questa legge non si può ammettere che il regno pontificio sia proprio scomparso: esso è ridotto semplicemente, sia pure ai minimi termini, ma esiste. L'Italia entrando in Roma dalla Breccia di Porta Pia avrebbe dovuto issare sul Campidoglio la fiaccola del libero pensiero; vi entrò invece facendo il segno della croce e baciò il piede al papa”.  Il 30 novembre 1915 il massone Carlo Feder (che non figura nella matricola del Grande Oriente d'Italia, nel quale “militava”) gettò il sasso nello stagno con questo articoletto, pubblicato dalla “Rivista massonica”, organo ufficioso della massoneria “di Palazzo Giustiniani”, diretta dal suo proprietario, Ulisse Bacci. In poche righe pose un ventaglio di problemi: qual era, in effetti, la posizione di papa Benedetto XV dinnanzi al regno d'Italia e nel quadro della Comunità internazionale squassata  da quindici messi di guerra generale europea? Non era solo il Vicario di Cristo, il vescovo di Roma, il capo spirituale della chiesa cattolica apostolica romana. Era anche Capo di Stato, tanto silente quanto effettivo. Feder non sapeva che l'accordo di adesione dell'Italia all'Intesa firmato a Londra il 26 aprile 1915 impegnava gli alleati a escludere la Santa Sede dal futuro Congresso di pace (art. XV dell' arrangement): riconoscimento implicito della sua sovranità.  Il presidente del Consiglio, Antonio Salandra, conservatore, e il ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, si erano premurati a quel modo di calare la saracinesca su ogni possibile riapertura della “questione romana”. Al corrente dell'accordo erano esclusivamente il re, Vittorio Emanuele III, i sovrani dell'Intesa, i loro plenipotenziari e l'ambasciatore dell'Italia a Londra, marchese Guglielmo Imperiali, che alle tre del pomeriggio del fatidico 26 aprile, “invocato il santo nome di Iddio” sottoscrisse lo “strumento”, suggellato dall'art. XVI, in forza del quale esso doveva rimanere assolutamente segreto. E così fu (caso quasi unico nella storia: fu tra le ragioni della permanenza di Sonnino al governo con tre diversi presidenti del Consiglio) sino al giugno 1919) sino a quando i bolscevichi di Lenin irruppero nel palazzo d'Inverno, s'impadronirono delle carte segrete dello zar e dal 23 novembre 1917, un mese dopo la ritirata dell'esercito italiano da Caporetto al Piave, iniziarono a pubblicarli (con strategia selettiva, nell'interesse esclusivo della “Rivoluzione”: era la loro “verità”, la Pradva), suscitando profondo imbarazzo e sgomento all'interno dei singoli Stati. 
Il lungo armistizio tra Italia e Santa Sede  
Il 20 settembre 1870 i reparti dell'esercito italiano irrompenti in Roma agli ordini di Raffaele Cadorna si fermarono sulla soglia della “Città Leonina” e non profanarono le Basiliche e gli altri siti poi elencati nella legge per le guarentigie, “possesso” del pontefice. Il governo italiano considerò debellato il potere temporale del pontefice ma, come ricordò polemicamente Feder, rispettò molte sue prerogative, proprie di un Capo di Stato, quali l'accredito di rappresentanze estere presso il Sacro Soglio e di suoi nunzi e amministratori apostolici (paragonabili ad ambasciatori, ministri di stato e consoli generali) presso capitali “amiche”. Il regno riconobbe al papato (e quindi ai cardinali, principi della chiesa)  l'inviolabilità della corrispondenza e a un ampio ventaglio di privilegi propri di uno Stato sovrano, a cominciare, appunto, dalla Guardia Svizzera e dall'invalicabilità dei Sacri Palazzi, di cui, anzi, il governo italiano si fece garante. In passato le potenze straniere avevano usato lo Stato Pontificio per reciproci ricatti. Vienna aveva occupato Ferrara, suscitando la risposta della Francia. Spazzata via la gloriosa quanto militarmente effimera Repubblica romana, proposta da Carlo Luciano Bonaparte principe di Canino prima che vi arrivasse Giuseppe Mazzini e strenuamente difesa da Giuseppe Garibaldi (1849), Napoleone III aveva “protetto” il Papa non per devozione ma contro le ingerenze degli altri Stati europei, a cominciare dalla cattolicissima Austria, e, dal 1861, contro il regno d'Italia che sin dal 27 marzo, su impulso di Camillo Cavour aveva proclamato Roma capitale d'Italia. Dopo l'annessione e il plebiscito confermativo del 2 ottobre 1870, recatogli da Michelangelo Caetani duca di Sermoneta, poi membro della loggia “Universo”, i governi di Vittorio Emanuele II e dei suoi successori difesero la libertà del papa (il “possesso” temporale; la libertà della suo potere interno, come subito si vide con il conclave che elesse Leone XIII; il magistero spirituale) per difendere l'Italia stessa. Contro le proposte di tanti teologi ed ecclesiastici favorevoli all'immediato riconoscimento del regno d'Italia da parte della chiesa, Pio IX vietò ai cattolici di partecipare alle elezioni dei deputati (“non expedit”). La realtà fu tutt'altra: la stragrande maggioranza degli elettori (mediamente il 60-6% degli aventi diritto al voto) era di cattolici e gli eletti pure. Non lo ostentavano perché la fede era (come dovrebbe essere in un paese moderno) affare personale. Non solo: cattolici praticanti erano la quasi totalità dei consiglieri comunali e provinciali, dei sindaci e dei presidenti di provincia. Il “non expedit” ingessò un equivoco polemico a tutto vantaggio degli estremisti: clericali fanatici e  una minoranza chiassosa di mangiapreti.
Alla ricerca di parallele convergenti
Per quell'eterogenesi dei fini che serpeggia nel flusso della storia, con apparente paradosso proprio i politici più anticlericali ripetutamente cercarono “intese” con l'altra riva del Tevere. Vi si prodigarono i presidenti del Consiglio della Sinistra storica e massoni attivi Agostino Depretis e Francesco Crispi, mentre i conservatori Antonio Rudinì e Luigi Pelloux si arroccarono sulla lezione di Cavour: distinzione (non separazione) tra lo Stato e la Chiesa. Su questa linea si attestò Giovanni Giolitti, che enunciò la “incompetenza” dello Stato in materia di fede. Stato e chiesa erano e dovevano rimanere due parallele, ciascuna con la propria identità e i propri compiti, nell'ambito dell'ordinamento statutario che dal 4 marzo 1848 enunciò l'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi. Al tempo stesso nel 1908 proprio Giolitti, contro socialisti, repubblicani, una parte dei radicali e alcuni massoni  propugnò la libertà dell'insegnamento della religione nella scuola elementare (obbligatoria e gratuita) se richiesto dalle famiglie. Non era opportunismo ma pratica della libertà, che non è mai astratta ma misurata sulla realtà storica, sociale e culturale dei Paesi nei quali prende corpo.  In una lettera alla figlia Enrichetta, Giolitti ricordò che quando taglia il vestito il sarto deve tener conto del corpo che lo indosserà, incluse le imperfezioni. Si dichiarò anche aspramente avverso all'avvento di un “partito dei cattolici”. Sarebbe stato una sciagura perché avrebbe rinchiuso il magistero spirituale in una gabbia fatalmente destinata a moltiplicare le sbarre di interessi estranei al magistero cristiano e avrebbe cozzato contro le libertà di cui lo Stato era e doveva essere usbergo. Proprio durante il suo primo governo (1892-1893) era albeggiata la prima Democrazia cristiana, su impulso di sacerdoti quali Davide Albertario e Romolo Murri e di giovani militanti fautori di roventi polemiche contro l'Italia nata dal Risorgimento, frutto, a loro detta, di un complotto ebraico-massonico. Erano asserzioni inammissibili per Giolitti, che nei suoi governi ebbe illustri massoni alla Giustizia (Lorenzo Eula, Scipione  Ronchetti, Camillo Finocchiaro Aprile e Luigi Rava: tutti di straordinario equilibrio) e agli Esteri. Proprio il massone Antonino di San Giuliano, a differenza di Sonnino, mai iniziato al formativo dialogo di loggia, nella bozza dell'accordo con l'Intesa non fece alcun cenno all'esclusione della Santa Sede dal congresso di pace. 
In tacita sintonia con Giolitti, dal 1904 papa Pio X sospese il “non expedit” che vietava ai cattolici il voto politico. In pochi anni i deputati eletti esplicitamente con il loro concorso passarono dai 3 del 1904 ai quasi 30 del 1909 ai 228 del 1913, senza che lo Stato venisse messo in discussione. Nei suoi aspetti più laceranti la “questione romana” si stava esaurendo da sé, tra conciliazione silenziosa e laicizzazione altrettanto silenziosa, senza interferenze reciproche. 
I vani “sondaggi” del dopoguerra (1918-1920)  
Nel dopoguerra la drastica opposizione governativa alla partecipazione della chiesa al Congresso di pace fu il velo dietro il quale alcuni primi ministri cercarono di aprire una trattativa con la Santa Sede per riconoscerne la sovranità temporale. Come dal 1976 documentò il giurista Giovanni Battista Varnier sulla traccia di Arturo Carlo Jemolo e di Francesco Margiotta Broglio, furono Vittorio Emanuele Orlando e il suo successore, Francesco Saverio Nitti, a tastare il terreno, con esiti desolanti anche per la rigida contrarietà di Vittorio Emanuele III, pronto a imbracciare il fucile per difendere l'assoluta integrità territoriale del regno. D'altronde l'emissario della Santa Sede, monsignor Bonaventura Cerretti, aveva proposto il riconoscimento di uno Stato della Chiesa esteso dal Vaticano a Ostia: una sorta di “corridoio” che da un canto avrebbe consentito via mare e lungo il Tevere il passaggio diretto di uomini e merci (non venne valutata l'importanza dell'aviazione),  dall'altro avrebbe reciso la continuità del Paese proprio in un tratto nevralgico della sua costa. Sarebbe stato il ritorno alla Roma di Pio IX e di Napoleone III, improponibile per l'Italia che nel 1872 si era opposta alla partecipazione di un delegato della Santa Sede alla conferenza internazionale sul “metro”, riaperta a Parigi dopo la sospensione causata dalla guerra franco-germanica del 1870-1871.
Il Partito “dei cattolici” ignorò la “questione romana”
In quel già tesissimo clima irruppe la fondazione del Partito popolare italiano. Dopo alcune riunioni di esponenti del variegato mondo cattolico (23-24 novembre e 16-17 dicembre 1918), don Luigi Sturzo, suo promotore, il 18 gennaio 1919 ne enunciò il programma in dodici articoli, appellandosi “a tutti gli uomini liberi e forti”. Con sorpresa generale esso non fece alcun cenno alla “questione romana”. Propose invece l'elezione del Senato, l'abolizione della coscrizione obbligatoria (mai gradita nel Mezzogiorno, nell'ex Stato pontificio e in Toscana) e contrappose allo Stato gli enti locali: comuni, province e regioni (che all'epoca non esistevano e, quando sorsero, dapprima a statuto speciale poi con vesti ordinarie, costituirono poi la causa principale del declino del Paese). Alle elezioni del 16 novembre 1919 il PPI ottenne il 20,5% dei suffragi e 100 deputati. Come aveva previsto il socialista Claudio Treves, i voti erano soprattutto di contadini; gli eletti erano invece “notabili” (avvocati, docenti universitari, ingegneri...). Nulla di veramente nuovo e diverso rispetto a liberali, democratici, radicali... Nelle elezioni del maggio 1921 i suffragi scesero di poco (20,4); i seggi crebbero a 108. Ma il loro “investimento politico” rimase opaco. Padre Agostino  Gemelli e Francesco Olgiati scrissero un opuscolo dal titolo chiarissimo (“Il programma del PPI non è come dovrebbe essere”), proprio perché ignorava il vero nodo storico, la soluzione della questione romana, fondamentale per la Santa Sede. Perciò sia Benedetto XV sia il suo successore Pio XI guardarono senza entusiasmo all'attivismo del “prete intrigante” (come Sturzo venne bollato da Giolitti) e al suo programma e non lo difesero affatto quando nell'aprile 1923 Benito Mussolini cacciò dal governo i due ministri  (Cavazzoni e Tangorra) e i sei sottosegretari che ne facevano parte dal 31 ottobre 1922. Sturzo si dimise e si trasferì negli Stati Uniti d'America. Il suo successore, Alcide De Gasperi, capeggiò un partito ormai sfiduciato dalla Santa Sede. Alle elezioni del 6 aprile 1924 ottenne appena 39 deputati, quasi tutti al Nord. In Puglia il PPI racimolò appena lo 0,6% dei consensi. Erano tutti lì i cattolici italiani?  
La soluzione della questione romana passò alle trattative dirette tra il capo del governo, Mussolini, e il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Gasparri,
Il centenario della nascita del PPI (non ne rimane traccia se non nei libri, come ormai della Democrazia cristiana postbellica) quasi coincide con il 90° del molto più importante Concordato dell'11 febbraio 1929, meritevole di molta più  attenzione.
Il governo italiano era consapevole di dover trattare con il rappresentante di un Capo di Stato che era anche Sommo Pontefice, eletto dal collegio cardinalizio, depositario permanente del potere di elezione su ispirazione dello Spirito Santo. Stato e Chiesa dovevano trovare soluzione all'antico conflitto temporale ma, ancor più, segnare con chiarezza il “limes” delle loro rispettive giurisdizioni. Un partito “dei cattolici”, coll'inevitabile gravame di miserie (tessere, bilanci, ambizioni personali, compromessi d'ogni genere, spinti sino a pavide doppiezze...) sarebbe stato come il meno sta nel più e quindi d'intralcio per il Sacro Soglio non meno che per lo Stato, tanto più nell'Europa inquieta uscita a fatica dalla catastrofe della Grande Guerra.   
Aldo A. Mola
 

IL “DICIANNOVISMO”:TUTTI CONTRO TUTTI
LA SCIAGURA DELL'ITALIA
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 13 gennaio 2019, pagg. 1 e 11.
   
Thomas Woodrow Wilson da WikipediaLe “ingerenze straniere” di cent'anni fa. Il presidente USA Wilson 
Il 23 aprile 1919 il presidente degli Stati Uniti d'America, Thomas Woodrow Wilson, si rivolse direttamente agli italiani sulla questione che stava avvelenando il Congresso per la pace in corso a Parigi: la sorte di Fiume. Pubblicata in un quotidiano francese e subito rimbalzata in Italia, la dichiarazione passò alla storia come “messaggio” e/o persino “appello”. Wilson arrivava da una famiglia di predicatori. Combattuta la dislessia con la stenografia e afflitto da gravi problemi di salute, come Franklin D. Roosevelt e altri presidenti degli USA (e non solo), appartenne alla serie dei “malati che governarono il mondo”. Profeta all'estero più che in patria, ove venne sconfitto e sconfessato. In preda a un  raptus imperialistico, il governo italiano pretendeva la città di Fiume in aggiunta all'applicazione integrale dell'accordo di Londra del 26 aprile 1915, cioè il confine dal Brennero al Quarnaro. Ma anche il neonato Stato serbo-croato-sloveno voleva Fiune con la Dalmazia e il confine a ovest di Trieste e di Gorizia. A suo avviso l'Italia non meritava niente. Belgrado contava sul sostegno della Francia: non solo l'irruento Georges Clemenceau, “il tigre”, ma anche il gran maestro onorario della Gran Loggia Paul Peigné, un generale che propugnò le “Revendications nationales” serbe, in linea con la autodeterminazione delle nazionalità “frantumate o oppresse” dagli Imperi Centrali (Germania e Austria-Ungheria) ormai sconfitti. Il Messaggio di Wilson fu una ingerenza clamorosa negli affari interni dell'Italia, che aveva visitato suscitandovi l'entusiasmo delle solitamente stupide folle, orchestrate da giornali e da élite  che si credevano furbe. Ma egli era abituato a ben altre “interferenze”. Con le tempie circonfuse del Premio Nobel per la pace (Enrico Tiozzo documenta quante altre sciocchezze vennero deliberate tra Oslo e Stoccolma) aveva alle spalle micidiali missioni militari nel Messico e nell'America Centrale, mentre gli europei erano intenti ad annientarsi a vicenda. Per protesta contro il missionario d'oltre Atlantico la delegazione italiana abbandonò Parigi. Il 25 aprile l'anglofilo e anglofono Ernesto Nathan, gran maestro del Grande Oriente d'Italia e già sindaco di Roma, esecrò Wilson in un Manifesto agli italiani perché negava “il ricongiungimento all'Italia di Fiume e di quei territori sulla costa orientale dell'Adriatico (la Dalmazia) che le spettano per antiche imprescrittibili ragioni di diritto nazionale riconsacrato dal recente sacrificio di innumerevoli suoi figli e dalla inflessibile volontà di quelle popolazioni”. Retorica arcaica. Per certificarne la veridicità vi era un solo modo: indirvi referendum tra gli abitanti, ma a Roma non sarebbe convenuto affatto, perché le sue pretese sarebbero state sconfessate alle urne dalla popolazione delle terre pretese. Infatti anche l'annessione del Trentino e della Venezia Giulia avvenne per effetto del Trattato di pace di Saint-Germain, senza alcun plebiscito.
Wilson, invero, invocò l'amicizia tra statunitensi e italiani e persino la loro consanguineità, ma ribadì che, assegnata Trieste all'Italia, Fiume era e rimaneva il porto degli Stati gravitanti verso l'Adriatico: Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia. Alcuni chiacchieroni usi a confondere la Storia con le macchie sulle lenzuola, insinuarono che a convincersene fosse stato aiutato da fascinose dame jugoslave: argomento riecheggiante la fiaba secondo la quale a promuovere l'alleanza tra Napoleone III e Vittorio Emanuele II contro l'impero d'Austria nel 1858-1859 sarebbe stata la usurata contessa di Castiglione anziché, come di fatto fu, la decisione dell'imperatore di mostrare all'Europa che la Francia non era più quella costretta all'armistizio di Fontainebleau e poi sconfitta a Waterloo nel 1814-1815 ma una grande potenza che, mentre vinceva gli asburgici a Magenta e a Solferino, entrava in Hanoi e protendeva le sue mire verso il Siam (non per caso oggi si chiede con forza la traslazione della sua salma dall'abbazia di Farnborough, vicino a Londra, agli Invalidi o nella chiesa di Sant'Agostino, a Parigi).
Malgrado l'assenza dell'Italia, i congressisti proseguirono i lavori con l'approvazione dello statuto della Lega delle Nazioni (18 aprile), la spartizione dell'impero ottomano e la convocazione coatta dei tedeschi “ad audiendum verbum”. Il 7 maggio Orlando e Sonnino tornarono silenti sulle rive della Senna. Il 2 maggio nel lacunoso “Diario” Sonnino ammise: “non resta che rassegnarsi alle imposizioni di Wilson, attenuate in parte, se possibile, dalle proposte degli alleati”: i quali, invece, erano d'accordo con il presidente degli USA, perché avevano sì accettato l'Italia come “associata” nella guerra ma non ne erano affatto amici. 
Il gioco dei quattro cantoni in assenza di Europa    
Quel precedente di cent'anni addietro aiuta a valutare la pochezza delle odierne scorribande di “capi” e “capitani” italiani in cerca di “alleati” in partiti e movimenti di altri Stati dell'Unione Europea. E' il gioco dei quattro cantoni. Ti cerco, ti tocco... E poi?  Oltralpe incontrano accoglienze gelide e talvolta (è il caso dei Gilè gialli francesi a Luigi Di Maio) vengono considerate inammissibili interferenze in affari interni, perché il livello di integrazione politica rimane molto basso. Per molti aspetti, invero, gli affannosi Guerin Meschini  d'oggi giorno non costituiscono nulla di nuovo rispetto a quanto praticato molto prima dell'assetto faticosamente raggiunto dall'Unione con il Trattato di Lisbona. Al tempo del bipolarismo planetario, vale a dire dalla Guerra Fredda al crollo dell'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (1946-1990), era scontato che i partiti dei singoli Paesi cercassero legittimazione da parte dei rispettivi alleati preponderanti. Ma quelli erano partiti dalla lunga storia: anzi, come nel caso del Partito comunista italiano, a lungo erano stati sezione italiana della Terza Internazionale, un tentacolo di un polipo con la testa a Mosca. Anche dopo lo scioglimento del Komintern, i partiti comunisti “occidentali” partecipavano ai congressi della Magna Mater Frugorum, il Partito comunista dell'Unione Sovietica (PCUS). I loro delegati vi pronunciavano discorsi, condividevano propositi e ne tornavano con direttive. Accanto al fiancheggiamento “alla luce del sole” ve n'era un altro, occulto, talvolta con un piede e mezzo nell'illegalità, a copertura di reati continuazione degli schieramenti operanti nella seconda guerra mondiale. Gli Alleati (USA e Gran Bretagna) e URSS avevano lottato insieme contro Germania, Italia, Giappone e loro satelliti, ma con obiettivi ultimi del tutto divaricati. Il “sistema” sovietico aveva mutato l'abito ma non il il fine.  
Negli stessi decenni postbellici i partiti “occidentali” non comunisti dei Paesi europei non furono altrettanto intrinseci dell'unico vero garante della loro libertà, cioè gli Stati Uniti d'America, perché gli USA non erano (come non sono) un regime di partito unico, volto  all'asservimento ideologico e pratico delle dirigenze dei paesi amici o vassalli. Per rimanere al caso dell'Italia, socialdemocratici, repubblicani ispirati da Randolfo Pacciardi, liberali e democristiani non ebbero referenti diretti nei congressi dei Democratici e dei Repubblicani d'oltre Atlantico, le cui dinamiche spesso rimasero impenetrabili per chi le osservava con gli occhiali italocentrici. Il vero discrimine era costituito dall'invito ad assistere all'insediamento dei Presidenti che via via si susseguirono alla Casa Bianca. Rimane emblematico il caso di Licio Gelli, invitato alla Casa Bianca sia da Carter che da Reagan. 
Il caos istituzionale: capiparito o ministri? Lo Stato dov'è?
Lo sconcerto della caccia al partito amico Oltralpe da parte di quelli italiani sta nella asimmetria fra le loro aspirazioni e la configurazione dei poteri istituzionali. È paradossale che un vicepresidente del consiglio (Salvini) visiti un Capo di Stato, quasi ne fosse egli stesso presidente, a caccia di un'alleanza elettorale e che un altro vicepresidente (Di Maio) offra aiuto a un movimento che da mesi organizza manifestazioni caotiche contro il presidente di un Paese amico senza valutare le motivate ritorsioni non contro il suo movimento ma contro lo stesso Stato italiano e i suoi cittadini. La condotta di Luigi Di Maio, del suo socio Davide Casaleggio e del ministro Toninelli al Quai d'Orsay offre occasione per rinfacciarci la pugnalata alle spalle del 10 giugno 1940. Oltralpe ancora una volta gli italiani si mostrano inaffidabili, voltagabbana e persino aizzatori di rivolte di piazza, il cui retroterra molti italioti disconoscono per colpevole ignoranza. I Gilè gialli sono i discendenti diretti dei francesi che ad Aigues Mortes ammazzarono a colpi di vanga decine di terrazzani italiani che lavoravano per un magro salario e che negli Anni Sessanta sabotavano l'esportazione di vini e agrumi dall'Italia. E' la “Francia profonda” simile all'”Italia profonda” vogliosa di sprofondare nel baratro della decrescita felice: l'autoerotismo di un Paese per secoli succubo di dominazioni straniere. 
L'Europa che ancora non c'è
Questo accade perché l'Europa odierna non si è ancora ripresa dalla fine della Guerra Fredda in cui si cullò per decenni. Ha assistito da spettatrice allo spostamento verso est del sistema difensivo verso la Federazione russa e non ha varato alcuna politica davvero unitaria di Stato: estera, militare, economica, nei confronti della decolonizzazione e delle guerre condotte di cui è stata essa stessa protagonista diretta o indiretta nel Vicino, nel Medio Oriente e nell'Africa settentrionale, con la promozione sconsiderata delle immaginarie “primavere arabe”, nell'illusione  che a cambiare il mondo bastassero un po' di messaggi sui cellulari. Al momento l'Europa ancora non c'è. È nelle sue smagliature che certi capitani di ventura paiono condottieri e persino statisti...
Quando l'integrazione effettiva dei Paesi dell'Unione farà seri progressi sarà normale che tornino a esistere partiti continentali, al momento assenti: un grosso guaio proprio alla vigilia del rinnovo del Parlamento europeo con quell'elezione diretta che dovrebbe dargli forza decisoria ma potrebbe invece condannarlo alla paralisi.   
 Siamo a un  nuovo “diciannovismo”. Cent'anni dopo, non esiste una accezione condivisa del termine. Per alcuni esso indica la fase aurorale del movimento fascista, che si propose come un nuovo “sol dell'avvenire”. Per altri esprime l'inquietudine dominante l'Europa in cerca di pace. A distanza di un secolo esso sintetizza l'incapacità delle Potenze vincitrici di voltar pagina con gli spiriti bellicosi dominanti sino al tardo autunno dell'anno precedente. Più che di vittorie militari gli armistizi del novembre 1918 erano stati frutto del collasso degli Imperi Centrali. La dissoluzione dell'Austria-Ungheria e la deflagrazione dell'Impero di Germania sconvolsero tutti i piani di vittoria coltivati per anni dall'Intesa. Con l'uscita di scena dell'impero russo, risultò evidente l'assenza di un progetto politico-militare condiviso almeno da Francia e Gran Bretagna, le uniche due potenze dell'Intesa ancora in lotta, ed emerse la divaricazione tre queste e l'Italia, che non era propriamente “alleata”, ma “associata”. Perciò il governo di Roma non venne messo al corrente degli accordi via via elaborati da Parigi e da Londra sulle future sorti future dell'impero turco-ottomano.
Secondo il congresso massonico di Parigi del 28-30 giugno 1917 la pace andava fondata su quattro pilastri: la restituzione dell'Alsazia e della Lorena alla Francia, la ricostituzione della Boemia (scomparsa nel 1620 con la vittoria del Sacro romano imperatore sui Boemi nella battaglia della Montagna Bianca: una guerra politica e religiosa), la rinascita della Polonia (ove anche i tedeschi aveva ventilato la nascita di un “regno” vassallo) e i plebisciti delle popolazioni per definire i confini delle terre mistilingue. Non accadde allora, non esiste oggi. Né in Europa né altrove. Di lì la crema catalana...
E in Italia il caos
Mentre a Parigi le aspirazioni italiane al dominio sull'Adriatico cozzavano con ostacoli crescenti, il Paese era squassato da crisi sempre più gravi e incalzanti: anzitutto le ripercussioni dell’enorme indebitamento dello Stato (schizzato a 14 miliardi di lire dell'epoca), la svalutazione della moneta, il divario tra costo della vita e stagnazione di salari e stipendi, la carenza di rifornimenti alimentari mentre l'epidemia detta “spagnola” divampava, favorita anche dalla denutrizione, la conversione della produzione bellica in civile, la smobilitazione dell'esercito, a danno soprattutto di ufficiali, sottufficiali e corpi di élite, come gli Arditi, meno facili da restituire alla vita ordinaria...
Il governo Orlando venne messo in minoranza e si dimise pochi giorni prima della firma del Trattato di pace a Versailles (28 giugno). Il nuovo ministero fu presieduto da Francesco Saverio Nitti che, inviso a Inghilterra e Francia, annaspò. Mentre i giornali badavano ossessivamente al Congresso di Parigi, lo scenario politico interno mutò profondamente. Il 18 gennaio don Luigi Sturzo fondò il Partito popolare italiano, primo partito “dei cattolici”. Esso segnò la svolta. Dopo quindici anni di collaborazione tra moderati, i cattolici vennero schierati contro i liberali. In gran parte erano contro la monarchia, contro lo Stato sorto dal Risorgimento. 
Egemonizzati da Giacinto Menotti Serrati, al congresso di Bologna i socialisti si schierarono a favore della Terza internazionale varata a Mosca da Lenin, Trotzky e Stalin. A loro volta erano contro lo Stato, contro la monarchia. Su quanto avveniva in Russia i socialisti avevano sempre avuto informazioni approssimative. Nel gustoso saggio “I fantastici 4 vs Lenin. Una missione della massoneria italiana nella Russia del 1917” (ed. Odoya) Riccardo Mandelli ha narrato le comiche vicissitudini di Innocenzo Cappa, Arturo Labriola, Giovanni Lerda e Orazio Raimondo mandati dal governo Boselli-Sonnino in Russia, con la benedizione del ministro dell'Interno, Orlando, per accattivare  all'Italia le simpatie dei rivoluzionari. Nessuno dei quattro capiva il russo. Tennero fluenti discorsi e furono  applauditi come eseguissero romanze di opere liriche. Raimondo venne soprannominato Titta Ruffo, il celebre cantante cognato di Giacomo Matteotti. Il massone Ferdinando Martini nel Diario annotò: “In che lingua hanno parlato al popolo? In italiano? E chi li ha capiti? E come, senza capire, applaudirono? Che se han parlato alla colonia italiana, tanto valeva che rimanessero a Roma...”.
Nitti inconcludente e Mussolini inesistente 
Il 23 marzo Mussolini fondò a Milano i Fasci di combattimento. Nulla a che vedere con il fascismo del 1921, del 1922, del 1929… eccetera. Era un punto su una lavagna della storia. Nitti mise a segno due catastrofi in pochi mesi. In agosto pubblicò il 2° volume dell'“Inchiesta su Caporetto”, l'opera più distruttiva dell'immagine dell'esercito mai pubblicata in Italia. I militari che avevano fermato l'avanzata austro-germanica nell'ottobre-dicembre del 1917 e avevano sconfitto l'Impero asburgico a Vittorio Veneto ne uscirono malissimo. Poi varò la nuova legge che ripartì i seggi alla Camera in proporzione ai voti ottenuti dai partiti nelle circoscrizioni elettorali, a tutto vantaggio dei partiti “di massa”, popolari e socialisti e ai danni di costituzionali e democratici. Dalle lettere confidenziali consta che neppure Giolitti previde appieno le conseguenze nefaste di quella riforma. Il 12 ottobre pronunziò a Dronero il discorso che nel 1950 Palmiro Togliatti valutò come il più avanzato della borghesia, ma dalle elezioni uscì battuto. 
E il Re? All'inaugurazione della legislatura i socialisti uscirono dall'Aula di Montecitorio, appena restaurata, cantando l'Internazionale e irridendo al sovrano. 
Era il diciannovismo. Il primo dei quattro anni di caos che il 31 ottobre 1922 vennero chiusi con il governo di unità costituzionale presieduto da Benito Mussolini. Il quale nelle elezioni del 16 novembre 1919 capeggiò una lista comprendente il protonazionalista Filippo Tommaso Marinetti, il libero pensatore Guido Podrecca e Arturo Toscanini, maestro di musica (sic!) e ottenne un risultato miserabile: nessun seggio alla Camera. La Storia, però, era ancora tutta da scrivere. Anzi, da fare. Con la ricerca di alleanze all'estero e pesanti ingerenze straniere, come sempre accade quando i governi sono deboli. In quel momento Mussolini era solo un puntino sulla lavagna…
Aldo A. Mola

1919: LA PACE PUNITIVA
FORIERA DI GUERRA
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 6 gennaio 2019, pagg. 1 e 11.
   
Europa da internetIn cerca di Europa
Europa invertebrata? Europa all'ultima spiaggia? Di sicuro, se l'Unione nelle elezioni del Parlamento europeo affondasse trascinerebbe tutti nel gorgo. Tutti. Da Berlino a Seborga. È già accaduto. Per l'Europa (e non solo per l'Unione, anche per quella che va sino agli Urali, o a Vladivostok) l'elezione diretta del parlamento europeo è la prova d'appello. Ogni suo cittadino ha il diritto-dovere di deciderne le sorti. Libero di affondare o di dare un colpo di pinne per risalire alla superficie della Storia. Non è tempo di propaganda. È l'ora di scegliere “ex informata conscientia” sulla base, indispensabile, della Memoria. Mai dimenticare che, con tutti i suoi limiti e difetti, questa Europa, cresciuta lentamente dalla CECA al MEC e via progredendo, per la prima volta dopo millenni ha garantito settantacinque anni di pace almeno al suo interno. 
Sonnambuli e giocatori d'azzardo nel 1914...
Il centenario del Congresso per la pace (Parigi, 1919) dovrebbe aprire gli occhi sui pericoli oggi incombenti: o più Europa oppure il caos, con danni imprevedibili per ogni cittadino. La sicurezza si basa sui sistemi informatici integrati di livello supremo. Lo spiegò bene, a futura memoria, il Generale Claudio Graziano alla vigilia di congedarsi dal Comando dello Stato Maggiore delle Forze Armate. Sembra un secolo fa, se si esaminano le chiacchiere dilaganti sulla “sovranità”, ignare che l'Italia perse la seconda guerra mondiale e non ha alcuna difesa “autonoma”, né in cielo né in terra né in mare.     
Riflettiamo. Cinque anni di studi sulla Grande Guerra (1914-1918) hanno riportato il giudizio storiografico al punto di partenza. La conflagrazione esplose come conflitto inizialmente circoscritto in un'Europa governata da sonnambuli e da giocatori d'azzardo. Imperatori, re, presidenti di repubbliche, diplomatici, militari, banchieri, grandi industriali, filosofi, storici, artisti, dame più o meno virtuose..., tutti i protagonisti di quell'immane convulsione a distanza di tempo risultano accomunati dall'incapacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni, a breve e a lungo termine. Si condussero da irresponsabili, con alto tasso di infantilismo, senza un progetto né una via alternativa al tunnel della guerra. 
Dall'estate 1914 le proposte di armistizi e le trattative sottobanco furono più numerose delle sempre più sanguinose battaglie (a volte di dieci mesi con un milione di morti l'una), ma fallirono sempre. La guerra si alimentò da sé. La pace fu messa all'angolo. Da quando la conflagrazione divenne Grande Guerra mancò un vero piano per uscirne prima che degenerasse in catastrofe generale, per vinti e vincitori. Anche Carlo I d'Asburgo (1887-1922,  nel 2004 proclamato beato da papa Giovanni Paolo II e bene biografato da Roberto Coaloa) fu del tutto al di sotto della difficile missione storica. Non avrebbe concesso all'Italia un metro di terra dei suoi avi, in linea con Francesco Giuseppe “l'ottuso”. A svuotare l'irredentismo italiano (talora facinoroso) sarebbe bastato concedere una Università al di qua delle Alpi o almeno corsi in lingua italiana Oltralpe e qualche autonomia: piccole cose, oggi ovvie. Invece niente di niente. Il “No”, figlio dell'aridità di spirito, genera astio e e provoca la rivolta. Ne profittarono tanti occhiuti mestatori. 
All'origine di tre guerre mondiali striscianti 
Nell'ottobre-novembre 1918, dopo la caduta dell'impero turco e della Bulgaria, anche Germania e Austria-Ungheria collassarono. A quel punto, però, erano iniziate altre tre guerre mondiali. La prima era quella dei bolscevichi di Lenin, Trotsky e Stalin, giunti al potere in Russia e decisi a scatenare la rivoluzione planetaria. In caso diverso, il “comunismo in un solo paese” (come poi il bolscevismo si ridusse) era condannato all'involuzione economica, militare, poliziesca e alla sconfitta politica: poteva durare cinque o cinquant'anni ma era comunque destinato a divorare i propri figli, come Saturno, e se stesso, sino all'estinzione. La seconda grande guerra era l'imposizione all'Europa della pax americana. Suo regista fu il presidente degli USA, Woodrow Wilson. Inizialmente venerato  quale profeta di sublimi ideali (venne persino creduto massone, mentre era privo di dubbi e di spirito critico), nel cilindro nascondeva il suo vero disegno: l'applicazione all'intero pianeta della dottrina Monroe (l'America agli Americani, cioè agli USA), poi insinuata come articolo 21 nei trattati di pace imposti non solo ai vinti ma anche ai vincitori. I Quattordici punti enunciati da Wilson l'8 gennaio 1918 quale manifesto della pace nascondevano il progetto vero di Washington: spacciare l'immane conflitto come “guerra di religione”, epilogo di una lotta “di civiltà” dei buoni contro il militarismo teutonico, la brutalità tedesca, la barbarie germanica. Tutti luoghi comuni predicati dal 1914 in Europa per giustificare la guerra “sino alla vittoria finale” e  sollecitare l'intervento dei paesi che via via entrarono nella biblica “fornace ardente” (fu il caso dell'Italia, nel maggio 1915). La terza guerra planetaria iniziò tra il 1917 e il 1918, dalla “rivolta araba”, intuita nella sua vera identità dal colonnello Thomas Edward Lawrence (è salutare rileggerne le opere, a cominciare dai “Sette pilastri della saggezza”), a quella in India, dall'Egitto, ove Allenby faticò a trovare un punto di equilibrio, al sanguinosissimo conflitto nippo-cinese, con l'avanzata dei giapponesi in Manciuria e in Mongolia condotta con i metodi arcaici: violenze inenarrabili e stragi spaventose (ne scrisse Mario Appelius, a torto demonizzato e dimenticato).
La delegazione italiana allo sbando
Quello scenario apocalittico non venne affatto compreso dalle delegazioni raccolte al Castello di Versailles il 18 gennaio 1919 per l'inaugurazione del Congresso di pace. Eppure esso doveva risultare chiaro ai rappresentanti delle Grandi Potenze (USA, Gran Bretagna, Francia e Italia, che vi partecipò col presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, e il ministro degli esteri, Sidney Sonnino) come ai loro alleati di seconda e terza fila. La precipua attenzione dei congressisti andava invece alla fungaia di conflitti piccoli e grandi in corso dappertutto. Mentre in Russia le armate bianche tentavano la riscossa contro i bolscevichi dall'Ucraina all'Estremo Oriente (anche con soccorsi di “occidentali”), truppe anglo-francesi erano, ma inerti, a Murmansk: attaccare o non attaccare i “rossi”? o continuare a usarli come minaccia verso la Germania o quali spaventapasseri per dividere i  socialisti “occidentali” tra riformisti, massimalisti e filobolscevichi? 
La Germania e l'ex impero asburgico erano nel caos, preda di insorgenze rivoluzionarie (gli spartachisti di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht ne costituivano solo uno spicchio) e di corpi franchi nazional-reazionari. Le armi abbondavano, il sangue scorreva, molto prima che Hitler sintetizzasse il tutto nello “Svastika”. Altrettanto accadeva nell'ex impero austroungarico, collassato per la fame e per l'epifania dei nazionalismi eterodiretti dal Grande Oriente di Francia, proteso a “repubblicanizzare l'Europa”, come spiegato da François Fejto, presidente dei Comitates pro libertatibus, in “Requiem per un impero defunto”. 
Nell'intervallo tra l'armistizio italo-asburgico (3 novembre, con efficacia il 4: lo ricorda Giuseppe Novero nella succosa biografia del generale Gazzera, ed. Rubbettino) e quello tra Germania e Intesa (11 seguente), il 7 novembre venne proclamato il regno di Jugoslavia, assegnato al “fratello” Pietro Karageorgevic di Serbia, con Alessandro per reggente. Esso coronò il patto di Corfù tra serbi, croati e sloveni, siglato all'indomani del Congresso di Parigi delle massonerie dell'Intesa (in realtà solo la francese e, in parte, la italiana: fraternamente litigiose) e dei paesi neutrali (28-30 giugno 1917). La nascita del nuovo stato non comportò affatto la stabilità dei Balcani, per le fatali ripercussioni della revisione di tutti i confini a vantaggio dei vincitori (Romania) e dei Paesi di nuovo conio (Cecoslovacchia) ai danni dei vinti (Bulgaria, Ungheria, a tacere dell'Austria ridotta a una grande testa, Vienna, con un corpicino gracile). 
“Fiume o morte...”
Lo Stato jugoslavo fece anche da bastione contro le aspirazioni dell'Italia ad aumentare il già pingue bottino di guerra garantitogli dall'applicazione dell'accordo di Londra del 26 aprile 1915. Con l'intervento l'Italia poteva ripromettersi tre scopi: l'annessione delle terre italofone (quasi tutti identificavano la lingua con la razza: termine, questo, oggi “politicamente scorretto” ma all'epoca usuale in diplomazia e nel giornalismo); il conseguimento del confine naturale (il crinale alpino dal Trentino a Monte Nevoso); il dominio sull'Adriatico, fatalmente in contrasto con l'Austria-Ungheria (quali fossero gli Stati successori dell'impero asburgico) e gli slavi del sud. Le prime due opzioni erano in armonia con la visione “risorgimentale” della guerra (sia mazziniano-garibaldina, sia liberal-liberistica: gli Stati Uniti, o Federazione, d'Europa, propugnata da Luigi Einaudi Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati). Era anche quella di Luigi Cadorna, uno stratega dalla visione politica del conflitto. La terza aveva invece ispirazione e valenza imperialistica: comportava di rimanere in tensione permanente nei confronti dei vinti e degli alleati, anglo-francesi e “americani”, contrari ad accettare che l'Adriatico divenisse un lago italiano.
A Parigi la delegazione italiana (ampliata con ideologi, quale Salvatore Barzilai, e   “tecnici” come Silvio Crespi e Aldrovando Marescotti) si arroccò sulla rivendicazione di Fiume in aggiunta al già corposo bottino previsto dall'accordo di Londra e ne fece la posta irrinunciabile per l'adesione di Roma al trattato di pace. All'inizio del Congresso Wilson aveva proposto e imposto lo statuto della Lega delle Nazioni, del tutto diversa rispetto alla Società delle Nazioni a suo tempo configurata nel congresso massonico di Parigi del giugno 1917 e molto più esplicita sull’autodeterminazione dei popoli: una vera e propria confutazione degli obiettivi bellici delle Potenze europee vincitrici. La delegazione italiana non trovò di meglio che abbandonare Parigi (24 aprile), ove gli altri congressisti, sollevati da intralci, decisero in sua assenza i termini della pace “contro” la Germania e l'Austria. Orlando e Sonnino dovettero quindi tornarvi di corsa (5 maggio) per non sfigurare e  compartecipare alle conclusioni dei lavori. 
L'esito di quella serie di errori mise a nudo la pochezza politica del governo italiano, fatta di piazzate e di grida unilaterali. Orlando (poi ricordato quale “presidente della vittoria”) venne messo in minoranza e costretto alle dimissioni. Il 23 giugno si insediò il primo governo presieduto da Francesco Saverio Nitti, con i giolittiani Tommaso Tittoni agli Esteri, Francesco Tedesco alle Finanze, i massoni Carlo Schanzer al Tesoro e Alfredo Baccelli all'Istruzione, Achille Visocchi all'Agricoltura, Dante Ferraris all'Industria e Cesare Nava alle Terre Liberate. 
Il diktat di pace venne imposto alla delegazione germanica cinque giorni dopo, il 28 giugno 1919: esattamente sei anni dopo il mortale attentato all'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo, assassinato a Sarajevo con la moglie, Sofia Chotec: la scintilla che aveva incendiato l'Europa e il mondo.
Motivo in più per domandarsi chi avesse armato la “Mano Nera”...
La pace cartaginese
Come noto la “pace” ebbe una premessa ideologica del tutto estranea alla tradizione millenaria dei conflitti tra Stati: l'addebito ai tedeschi della “responsabilità della guerra”, un giudizio metastorico, moralistico, “religioso”. Su quella base la Germania (che non era più l'Impero di Guglielmo II Hohenzollern ma la speranzosa e vacillante repubblica di Weimar) fu condannata a pagare le “riparazioni”: 269 miliardi di marchi oro, da saldare in 42 annualità. Essa venne privata dell'Alsazia e della Lorena (restituite alla Francia cui erano state sottratte a conclusione della guerra del 1870-1871), di Posnania, Prussia orientale e Alta Slesia, assegnate alla Polonia, dello Schleswig (che andò alla Danimarca) e di un territorio meridionale assegnato alla Cecoslovacchia. Dovette cedere quanto rimaneva della flotta, compresa gran parte di quella commerciale, macchinari e materiali, nonché, particolarmente bruciante, la sovranità sulle vie d'acqua continentali e sull'aria, mentre la sinistra del Reno fu cautelativamente occupata dagli alleati per quindici anni. Si comprende perché Goering, cresciuto nella pattuglia del Barone Rosso, non abbia nutrito gratitudine per i vincitori. Francia e Gran Bretagna si spartirono le più vaste colonie tedesche in Africa, come poi l'impero turco-ottomano. Il Ruanda-Urundi andò al Belgio, che vi si condusse in maniera miserabile, come in Congo. L'Australia ebbe le ex colonie germaniche nella Nuova Guinea e le isole Bismarck; la Nuova Zelanda ottenne le Samoa occidentali; il Giappone incorporò Marshall, Caroline, Palau e le Marianne, che la Spagna aveva venduto a Berlino per smacco contro gli USA che nel 1898 avevano alimentato la rivolta di Cuba e delle Filippine contro Madrid.
Rissa continua
Il Trattato di Versailles, una “pace cartaginese”, nutrita da spirito di vendetta, fu alla base dei successivi vent'anni di “revisionismo” e della seconda guerra europea destinata a divenire a sua volta mondiale (1939-1945). Nel 1918-1919 alcuni riuscirono a non perdere la guerra; tutti, però, persero la pace e continuarono a battersi come gli energumeni dipinti da Francisco Goya in “La rissa a bastonate” (1819-1823): con i piedi e le gambe affondate nel fango (quasi fossero in una trincea), spossati, sanguinanti, con gli occhi sbarrati e tuttavia incapaci di fermarsi. Belluini. 
Dopo essersele date “di santa ir-ragione” nel maggio prossimo i cittadini dell'Unione Europea sono chiamati a ragionare, lontani da neonazionalismi devastanti, in quello spirito di progresso civile e di fratellanza tra i popoli che caratterizzò il primo Novecento. Irridere la Belle Epoque come età di ingenui “buoni sentimenti”, di fatuo pacifismo umanitaristico (lo fece persino Benedetto Croce) vuol anche dire chiudere gli occhi dinnanzi a quanto poi avvenne davvero: due guerre mondiali (con almeno 70 milioni di morti tra militari e civili, malati a parte), i totalitarismi e i loro campi di sterminio: olocausto non di un solo popolo ma di una civiltà, come intravvide Oswald Spengler in “Il Tramonto dell'Occidente”.
Un'ultima considerazione s'impone: con l' “arrangement” del 1915 il governo Salandra-Sonnino aveva ottenuto dall'Intesa l'esclusione della Santa Sede dal Congresso della pace. Era convinto di aver fatto il colpo grosso. A quel modo, invece, fece sì che papa Benedetto XV, non rimase immischiato in trattati che avvelenarono le acque e generarono i disastri dei decenni seguenti. Eterogenesi dei fini. Metastoria: là dove regna lo Spirito. 
Aldo A. Mola

LOTTA PER IL PRIMATO:
DEGLI ITALIANI O SUGLI ITALIANI
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 30 Dicembre 2018, pagg. 1 e 11.
   
Contratto da L'EspressoUn “Contratto di govern o” senza capo né coda     
Dopo due anni di tarantola elettorale e mentre incombono sei mesi di lotte accanite per le “Europee”, l'Italia ha ancora un Arbitro vero: il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che quotidianamente garantisce l'unità di un Paese dalle crepe sempre più profonde. Il suo ruolo è fondamentale perché per la prima volta da 160 anni il paese ha un governo privo di un “Progetto”. Lo  si sapeva dal maggio scorso; ma ora è chiaro anche a chi finse di non vedere. Il governo dice e disdice sulla portata generale della “manovra”, cioè la prevedibile legge annuale di bilancio, e su tanti suoi aspetti, dal raddoppio dell'Ires a carico delle associazioni “no profit” alle mance maleodoranti celate nei suoi articoli e commi, come documentato dall'inchiesta condotta dal “Sole-24 Ore”. Nessuna sorpresa. Basta rileggere la premessa del famoso Contratto per il Cambiamento e confrontarla con la realtà. I “contraenti” vi affermarono: “Intendiamo incrementare il processo decisionale in Parlamento e la sua cooperazione con il Governo”. Si è visto come è finita. È accaduto l'opposto, sino alla paradossale richiesta di voti di fiducia per approvare il nulla; e poi su una legge di bilancio che nessun parlamentare ha potuto leggere né meno ancora discutere e approvare “articolo per articolo e con votazione finale”, come richiesto dall'articolo 72 della Costituzione. Il Legislativo è stato ripetutamente umiliato. I parlamentari conniventi ne porteranno la responsabilità dinnanzi alla Storia. Sono divisi su tutto tranne che nell'occupazione del potere e nell'assalto a ogni possibile fonte di prebende per amici, parenti e benefattori. 
Vigilia di “regime”? C'era una volta il “Partito unico”
Recentemente alcuni si sono domandati se la crisi politica in corso abbia affinità con quella che nel 1924-1925 segnò l'eclissi del liberalismo. Le differenze tra l'oggi e quel passato sono molte e profonde. La principale difformità è il terreno di confronto/scontro odierno tra maggioranza di governo e opposizione. Anzitutto, nel 1925 l'esecutivo era sorretto da un partito unico, nato con le elezioni del 6 marzo 1924, quando la Lista Nazionale (nota come “listone”, comprendente fascionazionalisti, liberali, cattolici, democratici ed ex socialisti in libera uscita) ottenne circa il 66% dei voti validi e due terzi dei seggi. Il governo attuale, invece, è sorretto da due partiti diversi per origini e programmi, aspramente contrapposti nella campagna elettorale conclusa con le votazioni del 4 marzo 2018 e rimasti in perpetuo dissenso proprio sull'attuazione del programma frettolosamente abborracciato nel poco radioso maggio 2018: flat tax, reddito di cittadinanza, pensione di cittadinanza, “migranti”...
In secondo luogo nel 1925 il governo aveva un Progetto enunciato in forma chiara. Si basava su una “idea dell'Italia”, coltivata dai nazionalisti e da questi innestata sul tronco del fascismo (movimento prima, partito poi), radicalmente opposta a liberalismo, socialismo e democrazia. Quel governo propugnò un programma discutibile e per molti versi persino repellente ma coerente e organico: la restaurazione dello Stato dopo anni di guerra civile strisciante e l'attuazione di un disegno pedagogico, incardinato sul ripristino del “dovere”. Anche quel “regime” risultò spesso un sepolcro imbiancato (parecchi gerarchi di varia levatura predicavano bene e razzolavano male) e condusse infine alla disfatta militare del Paese, da taluni vissuta come “morte della Patria”: formula, invero, storicamente errata perché nel settembre 1943, sia pure “divisa in due”, l'Italia sopravvisse e imboccò la via della ricostruzione).   
Ora i “contrattisti” sono due, divisi su tutto
A differenza di quanto è avvenuto in passato, i capisaldi del Contratto per il governo del cambiamento non investono le Istituzioni configurate dalla Costituzione. Essi sono di natura meramente economicistica e sindacale. Si sintetizzano in trattamenti pensionistici, elemosine di sopravvivenza e altre piccole partite. Il Contratto dà per scontata la contrapposizione tra i due firmatari. Perciò prevede il famigerato Comitato di conciliazione “per giungere ad un dialogo in caso di conflitti”, mai formalmente istituito ma praticato nei fatti con le ripetute riunioni di emergenza di presidente del Consiglio (sempre più patetico), capo politico del M5S, segretario federale della Lega, taluni ministri ed eventuali “uditori”, a imitazione del Gran Consiglio del Fascismo, che a metà febbraio del 1923 (quando ancora non era “costituzionalizzato”) “una tantum” convocò un “esperto di massoneria”, famoso come menagramo.  
Proprio per la sua inconsistenza progettuale, all'origine il Contratto non ha costituito motivo di allarme in chi (industriali, banche, sindacati... spesso tardigradi) ha ritenuto che prima o poi la retorica giallo-verde avrebbe fatto i conti con la realtà, come appunto è avvenuto dopo mesi di logoranti polemiche contro l'“Europa”. Altrettanto era accaduto quando, a regime fascista ormai ben saldo e dinnanzi all'involuzione dalle libertà statutarie al regime di partito unico lento pede Luigi Einaudi arrivò a deplorare “il silenzio degli industriali”. 
La contesa economicistica contiene però, sia pure sottotraccia, il progetto di modifica radicale dei rapporti tra esecutivo e legislativo, a tutto vantaggio del primo: quindi un disegno politico, di quando in quando enunciato e subito celato, tipico di chi allunga il braccio e nasconde la mano. L'obiettivo è il discredito del Parlamento con la violazione sistematica di procedure che non sono affatto formalità ma sostanza della repubblica parlamentare. 
Perciò dovrebbero suscitare allarme la retorica giallo-verde contro la pluralità dell'informazione e la drastica riduzione del sostegno finanziario italiano alla vita dell'ONU, passata sotto completo silenzio nella comunicazione (per disinformazione colpevole o sottovalutazione del suo implicito messaggio: due volti di una stessa medaglia). Quel taglio, però, non è affatto un dettaglio. Per l'Italia, infatti, l'ammissione nell'Organizzazione delle Nazioni Unite nel 1955 significò la certificazione della svolta politico-culturale del Paese, grazie alla de-fascistizzazione (altra cosa dalla “epurazione”, ispirata da faziosità e attuata con storture e iniquità). L'ingresso nell'ONU conclamò il suo ritorno a un ruolo protagonistico nella promozione dei diritti dell'uomo, a una missione civile dopo gli anni del nazionalismo più bellicoso, completo di motti ottusi (“Noi tireremo diritto”, “chi se ne frega” e simili: rivelativi della dissociazione dalla realtà che l'11 dicembre 1941 condusse Mussolini a dichiarare guerra agli Stati Uniti d'America). 
La seconda profonda differenza tra l'Italia odierna rispetto a quanto avvenne nel 1924-1925 sta nella mancata risposta culturale alla pochezza del Contratto giallo-verde e al suo insanabile contrasto con i diritti sanciti dalla Costituzione. Vale d'esempio il curioso “codice etico dei membri del Governo” in forza del quale non possono far parte dell'Esecutivo  quanti “appartengano alla massoneria”, senz'alcuna spiegazione di merito e in violazione della Carta costituzionale. Il “silenzio degli intellettuali” forse è stato ispirato dalla previsione della precarietà del governo per le sue contraddizioni interne e dal calcolo che non valga la pena discutere questioni troppo alte (come la violazione dei diritti di libertà associativa) dinnanzi a chi, dopotutto, mostra quotidianamente la sua pochezza culturale. Però questa indulgenza o compiacenza è un errore o più probabilmente la rinuncia all'antico “Primato morale e civile”.    
Gli intellettuali fascisti
Perciò merita riflettere sul 1925, un anno di profonda cesura nella storia d'Italia. Il 3 gennaio lo aprì Mussolini alla Camera. Il duce rivendicò il ruolo politico del fascismo (una “rivoluzione”), sfidò il Parlamento e incriminarlo per attentato e, contrariamente a quanto scrivono tanti biografi di Vittorio Emanuele III (come Frédéric Le Moal), respinse sdegnosamente ogni responsabilità nella morte di Giacomo Matteotti, il cui elogio anzi pronunciò. 
La vittoria politica doveva però assumere forma storico-filosofica. Occorreva segnare netto il solco tra il prima e il poi, tra il fascismo e i suoi avversari, veri o presunti. 
Aprì il fuoco il “Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le Nazioni”, scritto da Giovanni Gentile quale sintesi del primo Convegno degli istituti fascisti di cultura, organizzato a Bologna (29-30 marzo) da Franco Ciarlantini, ex sindacalista rivoluzionario, interventista, iscritto al PNF appena dal 1° febbraio 1923. 
Il filosofo rivendicò al fascismo, “movimento recente ed antico dello spirito italiano”, il ruolo di depositario dell'“idea di Italia” e di profeta per tutte le altre nazioni. “Politico e morale”, il fascismo aveva carattere “religioso”, intransigente, opposto al “liberalismo agnostico e adbicatorio” (sic). Era il partito dei giovani, nel solco di Giuseppe Mazzini, “fede energica, violenta”, volta a “instaurare una nuova legge”. Gentile liquidò sprezzantemente con formulette paleo-hegeliane la “piccola opposizione al Fascismo, formata dai detriti del vecchio politicantismo italiano: democratico, razionalistico, radicale, massonico”, destinata a soccombere per la “legge storica che non ammette eccezioni”: il trionfo del principio superiore sull'inferiore, del totale sul parziale. 
Il Manifesto degli intellettuali fascisti venne pubblicato il 21 aprile, sacro alla fondazione di Roma, una data laica, anzi neopagana, scippata alla Terza Italia massonica, come il XX settembre (ma solo fino al 1929). Il fascismo di Gentile non era ancora quello del Concordato con la Chiesa. Perciò il suo “Manifesto” ebbe l'adesione di personalità molto lontane dalle successive involuzioni  dell'ideologia fascista: Gabriele d'Annunzio, Salvatore Di Giacomo, Curzio Malaparte, Filippo Tommaso Marinetti, Ferdinando Marini, Salvatore Pincherle, Luigi Pirandello, Margherita Sarfatti, Ardengo Soffici, Ugo Spirito, Giuseppe Ungaretti, Guido da Verona, Giulio Aristide Sartorio: massoni, liberi pensatori e persino perseguitati dal regime.
E quelli antifascisti
Pochi giorni dopo Benedetto Croce accolse l'invito rivoltogli dal teosofo, massone e leader liberaldemocratico Giovanni Amendola a “parlare” e a “rispondere”. Promise un testo breve “per non fare dell'accademia e non annoiare la gente”. In realtà, letto a distanza di tempo, il manifesto degli intellettuali antifascisti pubblicato il 1° maggio seguente, risulta prolisso e spesso involuto. Croce respinse l'insinuazione che gli antifascisti rifiutassero “la doverosa sottomissione degli individui al tutto”, ma rivendicò la “sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni innalzamento”, il “possesso di una tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale o morale”. Non nascose “il favore col quale venne accolto da molti liberali, nei primi tempi, il movimento fascista” foriero di nuove e fresche energie entrate nella vita politica, “forze di rinnovamento e (perché no?) anche forze conservatrici”. In Senato egli aveva votato a favore del governo anche dopo l' “affare Matteotti”. Il manifesto crociano fu sottoscritto da Sibilla Aleramo, Piero Calamandrei, Guido De Ruggiero, Gaetano De Sanctis, Luigi Einaudi, Guglielmo Ferrero, Arturo Labriola, Giorgio Levi Della Vida, Eugenio Montale, Giuseppe Rensi, Gaetano Salvemini, Adriano Tilgher e tanti esponenti del pluralismo “liberale”, nelle sue diverse radici e tendenze. 
 Il Capo di uno Stato in confusione
E il Re? Quale fu la sua posizione dinnanzi a quella lotta per il primato culturale e civile in Italia? Sovrano di tutti gli i cittadini, Vittorio Emanuele III non manifestò mai alcuna propensione per l'“ideologia” del regime e le sue molteplici enunciazioni, sino a quella “canonica” consegnata all' “Enciclopedia italiana”, ove ne venne ribadita la concezione spiritualistica, etica, religiosa, ecc., l'avversione per il liberalismo, il socialismo, la democrazia, il culto della “schiatta (non razza) storicamente perpetuantesi”. Era consapevole che il fascismo non aveva avuto all'origine alcun progetto culturale. La sua dottrina (come scrisse lo stesso Mussolini) era stata l' “azione”, scaturita dalla “ganga delle contingenze”. Il sovrano non si erse dunque ad arbitro della tenzone tra intellettuali (dalle differenze spesso assai labili), né del contrasto tra la maggioranza di governo e le opposizioni che disertarono l'Aula arroccandosi sull'“Aventino”. A chi gli chiese di intervenire, e quindi di esercitare poteri non riconosciutigli dallo Statuto, si limitò a ricordare che i suoi occhi e le sue orecchie erano i due rami del Parlamento. E furono questi ad approvare nel corso dell'anno leggi sempre più liberticide: con clamori assordanti a Montecitorio, nel silenzio o con poche astensioni al Senato, ancora in massima parte a-fascista e persino potenzialmente anti-fascista, ma ormai prono. Lo si vide con l'approvazione della legge sull'appartenenza dei pubblici impiegati ad associazioni. Seguirono il 24 dicembre 1925 l'elevazione del presidente del Consiglio a “Capo del governo”; il 31 dicembre l'assoggettamento dei giornali al controllo governativo e, infine, il conferimento al governo della facoltà di emanare decreti con valore di legge (31 gennaio 1926).
Furono le Camere a creare il regime, ad abdicare giorno dopo giorno alla rappresentazione del Paese. 
E oggi? Il “silenzio degli intellettuali”
In quell'Italia neppure gli antimussoliniani più intransigenti ritennero di addebitare al Re un alto tradimento dello Stato, a differenza di quanto avvenne nel maggio 2018 quando due capipartito da sponde contrarie minacciarono l'incriminazione del Presidente della Repubblica per attentato alla Costituzione perché colpevole, a loro giudizio, di intralciare l'avvento del governo di loro predilezione. Ne derivò uno sconcerto che però non prese corpo in alcun “Manifesto” né di “intellettuali” né di costituzionalisti: segno dell'opacità dell'anno che si chiude e cattivo presagio per quello venturo. 
Amare sorprese potrebbero attendere il Paese, stremato dall'aumento delle tasse, dalla contrazione dei redditi, dall'impoverimento dei risparmi e dalla riduzione del potere d'acquisto di stipendi e salari, quando, in coincidenza con l'elezione del Parlamento europeo, si svolgerà la fase agonica della lotta tra i “contraenti” dello scorso maggio per il primato sugli italiani anziché per quello dell'Italia nel quadro  dell'Unione Europea e delle democrazie parlamentari. 
È giocoforza prepararsi a un anno difficile.
Aldo A. Mola

GRANDI UOMINI PER GRANDI OPERE
L'ITALIA DEI GOVERNI MENABREA (1868-1870)
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 23 Dicembre 2018, pagg. 1 e 11.
   
Luigi Federico Menabrea da WikipediaIntuire i secoli dei secoli
Il costo e i benefici delle Grandi Opere, quelle che scandiscono la storia dell'umanità, non sono soggetti a calcoli spiccioli. Le Egregie Cose nascono dall'utopia, da intuizioni profetiche, dalla metastoria. Sono l'unica vera alternativa all'altra Grande Opera dello spirito universale: le guerre lunghe, devastanti, apocalittiche, di cui l'umanità fu e sempre sarà capace. Le due opposte Grandi Opere, la Costruzione e la Distruzione, non si computano con le miopi lenti di possibili profitti e perdite per qualche anno o per un paio di decenni, ma in termini di libertà e progresso civile nei secoli dei secoli: il contrario di stasi e arretramento, della “decrescita”, ideale mortificante e avvilente ma niente affatto nuovo sotto la volta del Cielo. L'alternativa Luce/Tenebre va ricordata in tempi, come gli attuali, di piccoli uomini chiusi alle grandi idee. Va evocata mentre si avvicina il 150° dell'inaugurazione del Canale di Suez, aperto ufficialmente il 17 novembre 1869, ma solcato la prima volta il 17 febbraio 1867: un Segnale passato sotto silenzio in un Paese sempre più “provinciale” qual è l'Italia odierna. 
La Vera Luce arriva da Oriente, ma è l'Occidente che la riceve e la riflette. Ne è esempio la Natività. L'“Evento” avvenne all'incontro tra Asia, Mediterraneo e Africa: un Triangolo perfetto. E dall'Estremo Oriente dell'epoca si misero in cammino i Magi, alla ricerca della Rivelazione, che poi migrò ad Atene e a Roma e solo lì, al centro del mondo, nell'Urbe dei Consoli e dei Cesari (oggi in piena decadenza), divenne Istituzione perpetua.
Quell“Evento” è mònito per la grigia vicenda di genti inconsapevoli delle loro fortune. La quotidianità sopraffà lo Spirito, che (insegna Giovanni Evangelista, al quale è sacro il 27 dicembre) “soffia dove vuole”. Nel Paese Italia oggi  prevalgono foschie e confusione. Domina il chiasso. Si divarica come non mai l'abisso tra cittadini e loro rappresentanti “pro tempore”, parlamentari “per caso”, mentre il Parlamento viene espropriato dei suoi diritti e doveri, enunciati dalla Carta costituzionale. Che cosa si vuole? L'azzeramento delle Camere come vaticinato da Casaleggio e &. La Lega è d'accordo? E' l'ora della verità.   
Per meglio comprendere la torsione della storia d'Italia oggi in atto giova il raffronto con l'Italia di 150 orsono. Con una premessa: nel 2011 venne festeggiata l'Unità d'Italia. Storicamente non era esatto, perché l'Italia del 1861 mancava di Venezia, Roma, Trento, Trieste e di tante altre terre, solo in parte rivendicate e recuperate. Però era necessario far quadrato attorno all'Idea d'Italia mentre troppi scalmanati e grulli rinnegavano il tricolore, chiedevano la “secessione” e sognavano alleanze con chissà quali feudi medievali. Scatenavano contro l'Europa la guerriglia della Mucca Carolina e investivano in diamanti. Accadeva anche in Francia, molti decenni prima dei gilè gialli. L'Europa era ancora in gran parte da fare. Lo è tuttora. Ma non la si costruisce tenendo un piede nelle Istituzioni e uno nell’incitazione contro tutto, “a prescindere”.
I quadrupedi di lotta e di governo
Se poi i piedi divengono quattro e chi dovrebbe guidarli non sa più se averli a destra o a sinistra il cammino diviene davvero difficile: il quadrumane degrada a quadrupede. Mentre però i quadrupedi per natura sanno bene come usare le loro articolazioni, tanti ministri odierni stanno ancora apprendendo le regole elementari della democrazia parlamentare. Nell'attesa, usano la legge della giungla: balzano da uno all'altro ramo lanciando grida contro la Commissione Europea e i suoi organi, la Bce, il Fondo monetario internazionale e i leggendari “Poteri Forti”, o magari persino “Poteri Occulti”,  che poi sono sotto gli occhi di tutti 24 ore su 24: sono gli “Affari”. Non sono Logge, men che meno Segrete; non sono la Trilaterale, Bildenberg et similia. Gli Affari sono potenti perché sono anche pulviscolari, come il danaro, le proprietà, le confessioni religiose. Hanno alcuni registi (che viene da Rex), ma soprattutto una moltitudini di seguaci. Più vasta è la loro platea, più vi affluiscono seguaci e fedeli. Un tempo accadeva con la “chiamata alle armi” da parte dei Feudatari. Poi avvenne con gli Stati sovrani. Ora sono i “social” a suonare la “generala”; e sempre più lo saranno in futuro. A confronto della loro forza suasoria non c'è sovranismo che tenga. Non certo in un Paese frammentato, nel quale troppi “politici” esibiscono impudicamente memorie domestiche e acrimonie partitiche, vera e propria “profanazione”. 
Bruno Vespa e la costruzione dello Stato: sacrifici, si, ma per tutti
Perciò può consolare il raffronto tra questa e l'Italia di 150 anni orsono. Come detto, non era l'Italia sognata da due generazioni di patrioti morti sui patiboli, condannati a decenni di carcere, costretti all'esilio e a vita in condizioni estreme. Però era un Regno, anzi “il” Regno d'Italia, con tutti i suoi affanni e i divari secolari. Lo documenta con ritmo incalzante Bruno Vespa in “Rivoluzione” (RaiLibri-Mondadori), che insegna molto più di quanto lasci trasparire il sottotitolo. Infatti vi ricorre costante il raffronto tra la (supposta) Terza Repubblica odierna e il retroterra (molto meglio che “retroscena”) del Risorgimento, dell'unificazione, del difficile esordio dell’Italia nella Comunità internazionale, con la partecipazione alla conferenza diplomatica di Londra nell'aprile 1867, ben sei anni dopo l'annuncio della sua esistenza.     
Dalle “leggi Siccardi” varate nel regno di Sardegna nel 1849 e dalla “legge Sella” 21 agosto 1862, n. 794 la confisca dei beni ecclesiastici costituì uno dei due pilastri portanti dell'assetto finanziario dello Stato. L'altro fu la fiscalità tanto spietata quanto necessaria per dar carne allo scheletro della Nuova Italia. L'hanno documentato storici liberali quali Guido Pescosolido e Gianni Marongiu. A sua volta Gianpaolo Romanato, membro della Pontificia commissione di scienze storiche, ha ripercorso il cammino concluso con la legge 7 luglio 1866, n. 3036 varata dal governo prima che fosse esaminata dal Senato, in virtù dei poteri speciali derivanti dallo stato di guerra contro l'Impero d'Austria (che all'Italia fruttò Venezia). Essa determinò il gigantesco trasferimento di beni immobili, mobili e artistici (archivi, libri...) dai loro proprietari alla “mano pubblica”. Dalla requisizione furono esenti solo le abbazie di Montecassino, Cava dei Tirreni, San Martino della Scala, Monreale e la Certosa di Pavia, “distinte per monumentale importanza”. La legge 15 agosto 1867, n. 3848 applicò un'imposta straordinaria del 30% a tutte le proprietà ecclesiastiche, mettendo alle corde una quantità impressionante di opere di carità, condannate a morte senza alcun riguardo per quanti ne traevano sussistenza. Non stupisce che nel dicembre 1868, giusto 150 anni addietro, un parroco abbia pubblicamente predicato che gli acquirenti dei beni ex ecclesiastici erano ipso facto scomunicati e condannati alle fiamme dell'Inferno.
Due anni prima della “debellatio” dello Stato Pontificio (20 settembre 1870) il conflitto Stato-Chiesa era ormai irreversibile. Il Parlamento si limitava a “registrare” le decisioni del governo. Quando si radunò per vagliarne gli ultimi provvedimenti dell'anno, il regio Senato (la cui storia rimane ancora da scrivere) contò appena 15 presenti, ma la seduta fu valida.  
Dal generale Menabrea alla lesina di Quintino Sella  
Dal 27 ottobre presidente del Consiglio era il generale Luigi Federico Menabrea (Chambéry, 1809-1896), un savoiardo d'acciaio, che aveva seguito il “suo” Re, come fecero i Pelloux. All'Interno ebbe ministri il cavouriano Carlo Cadorna e il trentenne Antonio Starrabba di Rudimì, che nel 1866 da sindaco di Palermo aveva duramente represso un'insurrezione repubblicana proprio mentre l'Italia era in guerra contro l'Austria. Di lui si disse che era un “infant prodige”, ma poi il prodigio passò e rimase l'infante. 
I governi Menabrea, oggi dimenticati, tolsero le castagne dal fuoco a quello, subito seguente, di Giovanni Lanza con Quintino Sella alle Finanze, Visconti Venosta agli esteri e alla Guerra l'astigiano Giuseppe Govone (1825-1872), impazzito “a servizio dello Stato” (come ricorda Franco Contaretti nella bella biografia scritta per il Centro Studi Piemontesi) e sostituito il 7 settembre 1870 da Cesare Ricotti, uno dei grandi artefici dell'Esercito italiano. Quei governi imposero la tassa sulla macinazione delle farine, strenuamente propugnata da Quintino Sella e sorretta dall'imposizione ai mugnai dei contatori meccanici, volti a impedire che favorissero l'evasione fiscale, e l'aumento di quella sul sale. Tasse “sulla fame”, in un Paese, però, fondato su una classe dirigente impegnata nella politica della lesina, con tagli severissimi di ogni spreco e persino sulla riduzione della lista civile del Re, proprio nell'anno delle nozze di Umberto, principe ereditario con la cugina germana, Margherita di Savoia (grazie a speciale dispensa papale) celebrate solennemente nel Duomo di Torino.     
Circolò una caricatura di onorificenza sabauda, una sorta di croce càtara, sui cui bracci erano scritte le quattro piaghe del giovane Regno d'Italia: “Imposte, Debiti, Brigantaggio, Questione Romana”.
Suez. Il “Canale dell'Avvenir...”
Però quell'Italia non era ripiegata su se stessa. Aveva antenne dritte sulla svolta in atto nel commercio mondiale con l'apertura del Canale di Suez, ispirato da Prosper Enfantin, discepolo dal socialista utopista Saint-Simon, “disegnato” dal trentino Luigi Negrelli e condotto in buon porto da Ferdinand de Lesseps, il cui padre  (come ricorda Yves Hivert-Messeca) era stato venerabile di una loggia “ellenica”, quasi un ponte gettato tra l'Europa dei Lumi e il mondo islamico, senza il cui consenso il “taglio” dell'istmo” non sarebbe stato possibile. L'impresa (ne riparleremo debitamente) fu possibile grazie alla genialità di Pietro Paleocapa, stratega della rete ferroviaria del regno di Sardegna e capofila della splendida trama degli ingegneri ferroviari presenti in entrambi i rami del Parlamento, grazie ai quali il “Piemonte” si candidò a guidare l'unificazione nazionale. Tra i suoi cardini ne va ricordata l'ispirazione metastorica: al Canale non fu assicurata la “neutralità”, che è sempre revocabile, ma la assoluta libertà di navigazione per tutti i Paesi e sempre, anche se contingentemente in guerra tra loro. Quello di Suez fu il vero “Sol dell'Avvenir”: un canale navigabile che accorciò le distanze tra i continenti, le merci, le Idee.
A volerlo fu l'Utopia o, se si preferisce una visione meno profetica (quella dei costi-benefici...), il patto lungimirante dell'Europa continentale, dalla Francia all'Austria di Metternich (personalmente favorevole alla sua realizzazione), passando per il regno  sabaudo, detto di Sardegna ma di fatto liguro-piemontese. Fu un disegno acremente avversato dalla Gran Bretagna dell'epoca, giunta persino ad asserire che il Canale avrebbe addirittura diffuso la malaria... Da quell'Italia, da quell'Europa di grandi uomini per Grandi Opere, molto vi è da apprendere anche oggi.
Aldo A. Mola 

VITTORIO EMANUELE III
UN ENIGMA
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 16 Dicembre 2018, pagg. 1 e 11.
   
Vittorio Emanuele IIILa sacralità della Corona Ferrea
La monarc hia in Italia è antichissima. Numa Pompilio, secondo Re di Roma, al potere politico-militare, incarnato e affermato da Romolo, sul modello dei lucumoni etruschi aggiunse il “sacerdozio”, che non è complemento secondario e variabile ma sostanza stessa della regalità, rappresentata da una simbologia sempre più elaborata e arcana. 
Dalle macerie dell'Impero romano, i cui titolari non cinsero il capo con corone metalliche ma semmai con l'infula sacerdotale, in Italia la regalità prese corpo nella Corona Ferrea, forma definitiva di sacralità. Essa indicò che non vi può essere “imperium” senza riferimento alla Rivelazione e allo “scandalo della Croce”, dalla quale, secondo la leggenda consolidata, proviene il chiodo che ne salda le piastre (otto all'origine, numero sacro, ridotte a sei dopo un furto, tenute insieme da un anello d'argento).
Per secoli l'Italia non ebbe un “suo” re, perché essa era la terra giustificativa dell'Impero universale, fondato sulla delega del potere temporale da parte del successore di Pietro e Vicario di Cristo. Per entrare nella pienezza delle funzioni gli eredi di Carlo Magno dovevano ottenere l'incoronazione pontificia, a Roma, che suggellava le due precedenti: l'assunzione della  corona di Germania e di quella d'Italia. Per rivendicare la propria effimera sovranità l'episcopicida Arduino, marchese di Ivrea, calcò sul capo la Corona Ferrea. Sulla sua scia fecero altrettanto Corrado II, Corrado III, Federico Barbarossa e suo figlio, Enrico VI, quando sposò la normanna Costanza d'Altavilla, saldando insieme l'Italia settentrionale e il Mezzogiorno, antico sogno del sassone Ottone III, che mirò al ricongiungimento tra la prima e la seconda Roma, bastione contro la sempre devastante avanzata islamica nel Mediterraneo e nell'Italia stessa.
La frattura con la Riforma luterana  
Con la Riforma luterana d'inizio Cinquecento l'unitarietà dell'Impero, ribadita nei secoli anche da avversari strenui dei papi, quali il Barbarossa e suo nipote, Federico II, “stupor mundi”, fu infranta sul terreno religioso, prima che su quello politico-militare. A differenza dei principi luterani, proprio per la loro peculiarità teologica gli evangelici (valdesi prima, metodisti poi e loro molteplici varianti) non assunsero peso temporale rilevante. Da metà Cinquecento, invece, la lacerazione dell'unità cristiana (già segnata dal grande scisma tra Papato di Roma e chiesa d'Oriente, da Costantinopoli traslata a Mosca, Terza Roma) fu codificata nel principio “cujus regio, eius et religio”: rifiuto categorico di riconoscere il primato universale del Pontefice di Roma. È paradossale, e al tempo stesso evoca la metastoria, che la perdurante frattura si sia verificata proprio quando l'Europa stava unificando il pianeta con le grandi esplorazioni e quasi in coincidenza con la prima circumnavigazione del globo, gloria indiscutibile della cristianità occidentale, propriamente della Chiesa cattolica, come conferma l'impegno di papa Alessandro VI Borgia nella composizione  della contesa tra Madrid e Lisbona sull'America meridionale, con lo spostamento della “raya”, conciliante i due imperi coloniali. 
L'esclusione del primato universale del pontefice romano fu definitivamente evidenziata nel corso della guerra dei Trent'anni: un conflitto tra potenze, regolato infine da calcoli puramente politico-militari nella laboriosa pace di Westfalia (1648). Il Sacro romano impero sopravvisse ancora ma solo nominalmente, come un tronco ridotto a mera scorza, privo di linfa vitale. Esso si protrasse da una all'altra mediazione sino alla Guerra dei Sette anni (1756-1763), che assunse i caratteri di guerra mondiale, quanto meno per il coinvolgimento e la nuova spartizione degli spazi extraeuropei tra Francia e Gran Bretagna, dall'India alle colonie nell'America settentrionale. Da quel conflitto emerse il ruolo del regno di Prussia, antitetico all'Impero. Destabilizzante sotto il profilo politico-militare, Federico II il Grande, iniziato all'Arte Reale, fu invece costruttore sul piano culturale. 
A differenza di quanto era accaduto nella prima metà del Settecento, quando le tre guerre di successione ne sconvolsero ripetutamente l'assetto politico con una ridda di assegnazioni delle sue terre ora agli Asburgo, ora ai Borbone, l'Italia rimase estranea a quella guerra. I “sovrani” dei suoi Stati  di terraferma continuavano a derivare il loro potere direttamente o indirettamente dall'imperatore. Valeva per la Casa di Savoia, “re di Sardegna”, e per il Borbone, re di Sicilia e di Napoli, in funzione vicaria del sovrano di Spagna. Vale d'esempio Carlo, il migliore tra i Borbone del Mezzogiorno, che fu Carlo VII di Napoli sino al 1759, poi III di Spagna. 
Napoleone Re d'Italia... 
In Italia la regalità tornò nelle forme compiute con l'incoronazione di Napoleone I, imperatore dei Francesi, a Milano il 26 maggio 1805. La Francia aveva annesso il Piemonte, XXVII Divisione dell'Impero, e continuò ad inglobarne la “terraferma”. Lasciò la Sicilia a Ferdinando IV, sotto tutela inglese, e la Sardegna a Vittorio Emanuele I (dopo l'abdicazione di Carlo Emanuele IV, che optò per la pratica devozionale, professata in Roma ove è sepolto). Napoleone si incoronò sovrano del regno d'Italia (il Lombardo-Veneto e l'Emilia-Romagna), affidato al figlio adottivo Eugenio di Beauharnais quale viceré. Nel cingere simbolicamente la Corona Ferrea, recata da quello di Monza al Duomo di Milano, presente l'arcivescovo Caprara, disse precisamente: “Dio me l'ha data, guai a chi la tocca”, mònito non verso chi insidiasse la sua persona ma la Corona stessa. La sontuosissima cerimonia, studiata nei minimi dettagli, si sostanziò nella consacrazione della nuova entità statuale. Nessun altro potentato italiano dell'età napoleonica poté vantare altrettanto. L'istituzione del regno d'Italia (sussunto nell'Impero) fu la risposta al triennio repubblicano (o “giacobino”) di fine Settecento e, al tempo stesso, l’estrinsecazione del rapporto di subordinazione temporale del pontefice, già evidenziata nel “sacre” di Notre Dame. L'Uomo Nuovo,  rappresentato nella statua di Napoleone plasmata da Antonio Canova, era anche il nuovo l'Ordine, la risposta dei Codici alla sovversione. Il progetto filosofico si completò con la “debellatio” del Sacro Romano Impero: Francesco II retrocesse a imperatore d'Austria. La guerra dei simboli sormonta quella delle armi. In Europa non potevano esistere due imperi, tanto più che da Oriente s'affacciava la Terza Roma, incarnata da Alessandro I Romanov, Cesare di Russia. 
… e il passaggio del “testimone” da Carlo Alberto a Vittorio Emanuele II
Il retaggio ultimo di quella breve convulsa stagione fu il dono della spada di Napoleone a Vittorio Emanuele, duca di Savoia, da parte di Alessandro Saluzzo di Monesiglio, l'autore della Histoire militaire du Piémont, apologia del ruolo delle Armi quali caposaldo del Paese e dei suoi “popoli”: destino o fortuna, cioè sfida storica perpetua. La spada napoleonica lampeggiò nei cieli della Storia come risposta all'incoronazione di Ferdinando d'Asburgo, che a sua volta volle cingere la Corona Ferrea, rivendicandosi successore di Carlo V che l'aveva calcata a Bologna nel 1530, officiante papa Clemente VII de Medici.
Nel 1861, dopo due guerre per l'indipendenza dall'Austria e per l'unificazione nazionale, nacque il Regno d'Italia: autocefalico. Non ebbe alcuna “investitura” imperiale, nessun viatico dall'esterno. Come a suo tempo indicato dal pensoso Carlo Alberto, l'Italia fece da sé. La sua sacralità fu sintetizzata dalla legge (votata il 14 marzo e pubblicata il 17, domenica, nel n. 1 della “Gazzetta ufficiale” del regno), in forza della quale Vittorio Emanuele II assunse il titolo di Re d'Italia, e dalla proclamazione di Roma capitale d'Italia (27 marzo). Come da Statuto, il re tale era “per grazia di Dio”. In forza della legge del 17 aprile avrebbe intestato gli Atti di governo con la formula “Re per grazia di Dio e volontà della nazione”: conciliazione fra Legittimità e Rivoluzione, Ordine Nuovo. Nel 1848-1849 in Italia non esisteva alcun regno autenticamente e pienamente sovrano se non quello sabaudo. Per scrollarsi di dosso ogni ipoteca del passato, Carlo Alberto (già conte dell'Impero napoleonico e tormentato dalla riflessione sul proprio Destino) aveva motu proprio abdicato al rango di vicario dell'Impero (vanto plurisecolare della Casa) anche perché quell'Impero non esisteva più. Il vicariato era ormai un orpello. Fu la premessa per la candidatura alla sovranità nazionale, implicita nella scelta del tricolore italiano (marzo 1848) al posto della bandiera azzurra (indicata dallo Statuto) e di altri gesti tanto sommessi quando lungimiranti.
Negli anni seguenti il neonato Regno d'Italia fu troppo impegnato fra insorgenze interne (il grande brigantaggio nel Mezzogiorno, la malavita dilagante nelle Romagne, la criminalità diffusa in tutte le regioni...) e guerre generali (1866, 1870-71) per dedicarsi a esplicitare la sua missione. Occorreva anzitutto “amministrare”, unificare i codici (1865), allestire esercito e marina, avviare un sistema fiscale in armonia con le urgenze di uno Stato costretto al corso forzoso della moneta cartacea e all'imposta sulle farine, tassa sulla fame, indispensabile per dotare lo Stato del minimo necessario per fronteggiare le urgenze di un Paese dalle profonde disuguaglianze: dalla rete ferro-stradale alle aule scolastiche, dalle caserme agli ospedali.
Occorreva provvedere anzitutto ai “corpi”, senza però dimenticare l'“anima” del nuovo Stato: la convalida dell'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi.
Umberto I (1878-1900) fu a sua volta troppo assorbito dai venti di guerra, dalle tempeste rivoluzionarie e dagli attentati “anarchici” (orchestrati da un'unica regia) serpeggianti in Europa per potersi dedicare a fondo alla costruzione dell'Idea di Italia. Nondimeno i Palazzi del potere edificati a Roma dopo il 1870 come nelle principali città del Regno parlarono un'unica lingua, quella della Terza Italia.
Vittorio Emanuele III: autocefalia del Re d'Italia
Col regicidio del 29 luglio 1900 venne l'ora di Vittorio Emanuele, principe di Napoli, nato da Umberto I e la cugina prima Margherita: quasi endogamia sacra, segno dell'isolamento del regno e al tempo stesso sua massima capacità di autorappresentazione. Come già per il funerale di Vittorio Emanuele II, anche per quello di Umberto I venne recata in corteggio la Corona Ferrea. Anzi, ne venne forgiata la copia in bronzo per il monumento funebre nel Pantheon, dirimpetto a quello del Padre della Patria. 
Il trentunenne terzo Re d'Italia comprese in un corpo minuto, persino infelice, un patrimonio filosofico, storico e morale immenso. Forse era proprio necessario il suo strazio fisico per sublimare la Monarchia in Italia. Taciturno, refrattario a ogni gesto superfluo, fu un enigma nell'enigma. Se la Corona era autocefalica, egli sommò le spinte disparate dei due secoli, sintetizzati nella formula “Viva l'Italia! Ora più che poi!!” ricorrente nell'“Itinerario generale  dopo il 1° giugno 1896” manoscritto nel raccoglimento di Alessandria d'Egitto.
Lo aveva capito bene Giosue Carducci. Erano stati mazziniani e garibaldini a sospingere i Savoia da Torino a Roma. Perciò proprio a loro, più che ad altri, toccava far quadrato attorno alla Corona. Se Carlo Alberto (scrisse poi Giovanni Pascoli) era stato il “Re dei Carbonari”, il nuovo sovrano era di tutti gli italiani. Senza più bisogno di “sette segrete”. Lo dichiarò Vittorio Emanuele stesso nel discorso della Corona (ripubblicato da Tito Lucrezio Rizzo in “Parla il Capo dello Stato”, ed. Gangemi), quando giurò fedeltà allo Statuto: l'Atto previsto dall'art. 22 del “patto irrevocabile” tra il sovrano e i regnicoli, promulgato motu proprio dal Re. Lo sentì appieno il “buzzurro” Giovanni Giolitti che nelle pause del lavoro al ministero delle Finanze (con Marco Minghetti e Quintino Sella) andava a passeggiare nel Foro romano, con in tasca la Divina commedia di Dante, per avvolgersi nel senso profondo dello Stato nuovo.
Vittorio Emanuele III assecondò i corpi e cementò gli spiriti. Leggeva e annotava tutte le novità storico-politiche e letterarie, in specie quelle estere per cogliere i venti nuovi. Non gli sfuggirono l'“Inchiesta sulla monarchia” di Charles Maurras, né i saggi di Enrico Corradini (sottolineati e annotati a margine) e di Luigi Federzoni, figlio di un carducciano.
Il suo apparente grigiore era la luce possibile in un Paese che solo nel 1911 festeggiò il primo cinquantenario di storia unitaria e aveva nemici implacabili all'interno e all'estero.
Dalle sue prime apparizioni in pubblico il sovrano parve enigmatico. Ascoltava. Parlava di rado. Comunicava con i fatti: la presenza alle grandi manovre, al varo di navi, all'inaugurazione di congressi di storia e di mostre d'arte e una miriade di gesti come il dono della lastra di alabastro per il mausoleo di Galla Placidia a Ravenna.
Da un anno, poco prima del 70° della sua morte (28 dicembre 1947), la salma di Vittorio Emanuele III è stata traslata dalla chiesa di Santa Caterina in Alessandria d'Egitto nel solenne Santuario-Basilica di Vicoforte. Vi arrivò due giorni dopo quella della Consorte, la Regina Elena, giuntavi da Montpellier, ove era sepolta dalla morte (28 novembre 1952). Le due arche sovrastanti gli avelli recano incisa la Stella d''Italia: quale luce irradia? Dopo le molte e a volte pregevoli sue biografie (Bertoldi, Bracalini, Argenteri  e altri) forse tempo è venuto di auscultarne la filosofia politica, di sondarne il messaggio complessivo, di andare oltre le cronache e cogliere la sua lunga opera di affermazione dell'Idea di Italia lungo mezzo secolo di regno, sintetizzato nello Scudo sabaudo, la “bianca croce di Savoia” cantata da Giosue Carducci.
Aldo A. Mola

70 ANNI DI “DIRITTI UMANI”
(IN ATTESA DEI “DOVERI FUTURI”)
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 9 Dicembre 2018, pagg. 1 e 11.
   
Diritti Umani  I Diritti umani: settantenni di belle speranze
Appena settantenne la Dichiarazione universale dei diritti umani da molti è considerata decrepita. Da scordare. Perciò il suo compleanno scivola via senza eco soverchia. Eppure non è affatto “anziana”. “Diversamente giovane”, essa ha generato molteplici Carte e Convenzioni e ha ispirato e anima una miriade di “rivendicazioni” che ancora attendono riconoscimenti da parte dell'Assemblea delle Nazioni Unite o almeno da Unioni di Stati, a cominciare da quella europea, ferma al Trattato di Lisbona. A quanti (sempre più numerosi, purtroppo) sbuffano appena sentono accennare a “diritti umani” va rivolta una domanda semplice: senza di essi l'umanità starebbe forse meglio? Tra altri, la Dichiarazione include anche il diritto al dissenso e a sbuffare, di dire e di far prevalere la propria opinione, ma nel confronto razionale, senza urla né insulti. Con il libero voto, perché senza il loro esercizio i diritti rimarrebbero parole al vento, retorica. La seconda domanda è: ma chi propiziò l'avvento dei “diritti umani”, quale “cultura” ne generò l'avvento? Al di fuori di ogni apologia, essi albeggiarono con la Massoneria moderna, catena fraterna di uomini liberi e di buoni costumi. Per millenni l'umanità visse di doveri, di obblighi, precetti..., succuba di poteri politici e religiosi. I pochi dissenzienti dell'età greco-romana (Epicuro e Lucrezio) ebbero e ancora hanno pessima fama. Furono liquidati come predicatori di un naturalismo bollato  come degrado bestiale. All'opposto, essi proposero di fondare la libertà personale sulla ragione, al di fuori di incubi artificiosi, della manipolazione delle coscienze. In punta di piedi Marco Tullio Cicerone, che traghettò a Roma il pensiero greco, riconobbe che la legge è “ratio summa, insita in natura”. Non ebbe fortuna. Fu assassinato per motivi politici. La sua testa, mozzata dal busto, venne recata lugubre trofeo alla moglie di Marco Antonio, che gli conficcò uno spillone nella lingua finalmente inerte. 
Diritti rivoluzionari ed equilibratori 
La Dichiarazione dei diritti umani  fu solennemente approvata dall'Assemblea dell'Onu che in via eccezionale si radunò non a New York, sua sede dalla fondazione (25 giugno 1945), ma a Parigi, ove nel 1789 era stata proclamata quella dei Diritti dell'uomo e del cittadino, sulla scia della Dichiarazione d'indipendenza della Nuova dalla Vecchia Inghilterra. Il 4 luglio 1776 (tutt'oggi festa degli Stati Uniti d'America) quest'ultima enunciò che “tutti gli uomini sono creati uguali” e “sono dotati dal Creatore di diritti inalienabili”, quali “la vita, la libertà e la ricerca della felicità”. Aggiunse che il popolo ha diritto di mutare il governo, se questo conculca i diritti irrinunciabili dei suoi cittadini.
A perfezionamento dell'entusiastica Dichiarazione del 1789, la Costituzione francese del 3 settembre 1791 precisò che “gli uomini nascono liberi e rimangono uguali nei diritti: (...) la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione”. La Convenzione repubblicana francese il 24 giugno 1793 legittimò la rivoluzione permanente: “Quando il governo viola i diritti del popolo, l'insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri”: “lotta continua”, con tutte le conseguenze prevedibili, quali il Terrore, la legge sui sospetti, le esecuzioni sommarie..., il caos. La Costituzione francese del 1795 ripristinò l'ordine morale: “la libertà consiste nel poter fare ciò che non nuoce ai diritti degli altri (…) Quanto non è vietato dalla legge non può essere impedito (…) Nessun individuo, nessuna riunione parziale di cittadini può avocare la sovranità”. L'ordine sociale, aggiunse, fonda sul mantenimento delle proprietà.
Quei principi vennero ribaditi dagli articoli basilari delle numerose Carte costituzionali dell'Ottocento. La loro enunciazione non significò affatto che divenissero realtà effettuale. Però essi rimasero, quasi luci di fari intermittenti per la lunga navigazione dal buio dei secoli andati verso un futuro luminoso, di fratellanza tra i popoli e di pace all'interno sei singoli Stati. 
Malgrado quei buoni propositi, la storia imboccò tutt'altro corso. Da una parte gli Stati, con le loro “logiche” interne e le loro ambizioni di potenza, di dominio assoluto sui loro cittadini, retrocessi a sudditi non di un monarca in carne e ossa ma di una Idea (ovviamente sussunta dal titolare del Potere e imposta attraverso la macchina formativa). Dall'altra parte il Manifesto nel 1797 scritto da Sylvain Maréchal su impulso di “Gracco” Babeuf: “La Rivoluzione francese non è che l'avanguardia di un'altra rivoluzione più grande, più solenne, l'ultima rivoluzione”, la Repubblica degli uguali, basata sull'abolizione della proprietà privata quale premessa della “abolizione della povertà”, sull'obbligo universale del lavoro e sulla perfetta uguaglianza fra governanti e governati. Un sogno paradisiaco: spazzati via i “piaceri solitari e degli agi personali” era l'ora dell'“uguaglianza di fatto”. Uno vale uno...
Le nuove frontiere dei diritti: la riservatezza
La Conflagrazione europea dell'agosto 1914, precipitata in Grande guerra e poi in Guerra mondiale, suscitò per antitesi molteplici propositi di rifondazione della pace. L'antico regime della Santa Alleanza e dei Trattati fra le potenze era sepolto per sempre. Dal seggio di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo, unico “pulpito” rimastogli, il 13 agosto 1917 lo statista liberale Giovanni Giolitti affermò che era chiuso per sempre “l'andamento della politica estera a base di trattati segreti”. Dai fronti di guerra “milioni di lavoratori delle città e della campagna, la parte più virile della nazione” sarebbero tornati “con la coscienza dei loro diritti” e avrebbero reclamato “ordinamenti improntati a maggiore giustizia sociale”.
L'8 gennaio 1918 il primo dei Quattordici punti enunciati dal presidente degli USA, Woodrow Wilson, quale programma mondiale fu: “Pubblici trattati di pace, conclusi apertamente, dopo i quali non vi saranno più accordi internazionali privati di qualsivoglia natura; la diplomazia procederà sempre francamente e pubblicamente”. Era l'azzeramento della diplomazia segreta, altra cosa dal segreto diplomatico. La prima è la palude popolata da serpenti; la seconda è il riserbo generale che deve circondare cognizioni particolari, a garanzia di interessi superiori quali, per esempio, il controllo delle armi distruttive di massa, la lotta contro terrorismo politico, fanatismo religioso e criminalità organizzata. Il “segreto” è l'esile diaframma tra il progresso scientifico e il suo uso “contro” anziché “per” l'umanità. Per funzionare davvero, gli accordi tra gli stati debbono evitare l'utilizzo improprio del progresso in tutti i campi. La nuova frontiera è l'informatica: uno spazio ancora in gran parte incognito, denso di rischi. Basti domandarsi se e quanto essa sia garantita la segretezza della corrispondenza, che costituisce un antico pilastro delle libertà personali. 
Il diritto della proprietà è un delitto? 
La seconda Guerra mondiale fu segnata da un crescendo di orrori causati dalla subordinazione della scienza al potere, sino alla costruzione e all'impiego della bomba atomica, spartiacque della storia. Dopo Wilson, un altro presidente degli USA, Franklin Delano Roosevelt, il 6 gennaio 1941 enunciò i principi della pace futura: libertà di parola (non solo pensata nel foro interiore ma esposta pubblicamente), di religione, dal bisogno e dalla paura della guerra, poi fondamento della Carta Atlantica (14 agosto 1941).Quattro anni dopo il Preambolo dello Statuto dell'Organizzazione delle Nazioni Unite riaffermò “la fede nei fondamentali diritti dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole”. A guerra ancora in corso (la Germania si arrese l'8 maggio, ma il Giappone ancora resisteva all'offensiva presto concentrica per l'intervento dell'URSS: né va dimenticato che anche il governo italiano presieduto da Ferruccio Parri nel luglio 1945 dichiarò guerra al Giappone) lo Statuto dell'ONU rispose ad accadimenti storici circostanziati ma rimase vago sui capisaldi dei diritti. Per esempio ignorò quello di proprietà. Incombeva ancora Jean Jacques
Rousseau, utopista velenoso. 
Fu invece la Dichiarazione dei diritti umani del 10 dicembre 1948 a definire  i “diritti, uguali e inalienabili, fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”, la libertà di parola e di credo, dal timore e dal bisogno, “senza distinzione alcuna per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”. A firmare la Dichiarazione furono i rappresentanti di Stati componenti delle Nazioni Unite, consapevoli che  il cammino della sua applicazione effettiva sarebbe stato lungo. Richiedeva l'impegno a imprimere una svolta effettiva dell'umanità dopo due guerre mondiali, i totalitarismi e le sanguinose guerre civili che avevano devastato tanti paesi. Per dare corpo ai propositi, in specie all'uguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna, occorrevano “l'insegnamento e l'educazione”: una “missione” quotidiana  come intuito nel Sette-Ottocento dai grandi pedagogisti (quasi tutti massoni) fautori dell'istruzione elementare obbligatoria e gratuita, della scolarizzazione universale, della libertà della ricerca scientifica e dell'investimento delle sue conquiste a beneficio dell'umanità anziché di potentati politico-militari o finanziari.
La Dichiarazione Universale fu sottoscritta da Stati che ancora non erano né poi divennero modelli di libertà e civismo: Afghanistan, Birmania, Cina, Cuba, Iran, Pakistan, Siria e Turchia. Che la Dichiarazione fosse molto più coraggiosa del Preambolo e dello Statuto dell'Onu fu confermato dalla polemica astensione di otto Paesi di grande peso quali l'URSS e i suoi satelliti (Ucraina, Bielorussia, Cecoslovacchia, Polonia e Jugoslavia; Bulgaria e Germania orientale erano tra i vinti, come l'Italia, e quindi escluse dall'ONU), contrari al riconoscimento del diritto alla proprietà privata quale libertà, il Sudafrica (ove dominava l'apartheid) e, per tutt'altri motivi, l'Arabia Saudita.
L'Italia all'avanguardia nei diritti umani...
L'Italia non vi ebbe alcuna parte diretta, ma la sua Carta costituzionale, in vigore dal 1° gennaio 1948, aveva già enunciato i suoi capisaldi, sia nei Principi fondamentali (articoli 1-12) sia nei Diritti e doveri dei cittadini. Tra altro l'articolo 10 sancisce che “lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”: un principio di civiltà che non può certo essere messo in discussione. 
...molto avanti ai Diritti islamici
L'astensione dell'Arabia Saudita fu la premessa della lunga elaborazione della Dichiarazione islamica dei diritti dell'uomo in 23 articoli. I suoi principi vennero anticipati dall'iranico Said Khorasani. Ripetutamente rielaborata essa prende le distanze da quella dell'ONU, considerata di ispirazione giudaico-cristiana, mentre è di matrice greco-romana-illuministica. Secondo la Dichiarazione islamica i diritti sono indicati dal Creatore, sono quindi “legge divina”. L'articolo 12 stabilisce che “ogni persona ha il diritto di pensare e di credere e di esprimere quello che pensa e crede, senza intromissione alcuna da parte di chicchessia” ma solo “fino a che rimane nel quadro dei limitI generali che la legge islamica prevede a questo proposito”.
Tale caposaldo evidenzia la distanza secolare tra la concezione “occidentale” dei diritti umani e quella musulmana: un divario spesso non percepito nello stesso Occidente perché questo ha da secoli affermato e poi via via attuato la separazione tra Stato e Chiesa, proprio in nome della libertà di religione e quindi della spiritualità stessa, che si può manifestare nei modi e nei riti più disparati o non prendere affatto corpo in “organizzazioni” e rimanere “foro interiore”.
Gli “onusiani”: Utopisti benefici
In Italia la promozione dei diritti umani e dei principi enunciati nella Costituzione faticò molto ad affermarsi. Occorreva liberarsi dalla camicia di Nesso della concezione dello Stato etico, portata all'acme da Giovanni Gentile e da Alfredo Rocco, e recuperare nelle coscienze e nella legislazione il liberalismo di quel Benedetto Croce che aveva votato contro il Concordato Stato-Chiesa in nome di chi ritiene che “Parigi non vale una messa”: la libertà di coscienza, cioè, è un valore non negoziabile.
Nel settantesimo della Dichiarazione dei diritti umani va dunque tributato il doveroso omaggio a quanti in Italia si prodigarono per creare il clima nuovo attraverso la Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI, promotrice degli ideali dell'ONU), che ebbe tra i suoi alfieri giuristi e storici insigni, in specie all'Università di Torino, quali Alessandro Passerin d'Entreves e Giorgio Cansacchi. Ne ha scritto anni addietro il sempre entusiasta Alfonso Bellando in “Quei ragazzi del Caffè Florio” e lo ricorda uno dei loro discepoli, Gianfranco Gribaudo, in “Dal borgh al BIT. Tra Torino e Nazioni Unite: fatti e pensieri di un piemontese internazionale” (Chieri, Gaidano & Matta), a conferma che sono le minoranze a dare impulso alla storia. Piantano alberi che serviranno alle generazioni future. Queste hanno il dovere di ricordare e di inculcare nel tempo il senso dei doveri nell'età delle nuove libertà. Ne scrissero due italiani di fama universale (fore più all'estero che in patria), antichi e sempre attuali: Silvio Pellico e Giuseppe Mazzini. Da evocare nel 70 della Dichiarazione di Parigi.
Aldo A. Mola
 

OTTO MILIONI DI GREMBIULINI?
LA MASSONERIA TRA “SOSPETTO” E ACCUSA DI “COMPLOTTO”
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 2 Dicembre 2018, pagg. 1 e 11.
   La “massoneria” in Italia non è mai stata in odore di santità. Anzitutto per la “scomunica” comminatale per ragioni politiche e senza spiegazioni dottrinali da papa Clemente XII sin dal 28 aprile 1738. Questa, però, fu un'aggravante solo negli Stati che le conferirono efficacia penale. La condanna pontificia ebbe peso modesto in quelli prevalentemente evangelici e riformati (come la Prussia nel massone Federico II il Grande) e venne accolta con indifferenza Oltralpe sia da sovrani “cristianissimi” (come i Borbone di Francia, ove non fu mai “registrata”), sia da quelli “cattolicissimi” (come gli Asburgo d'Austria: Francesco Stefano di Lorena, marito di Maria Teresa, era massone; suo figlio Giuseppe II legittimò la rete di logge nell'ambito del Sacro romano impero). Ma nel Settecento anche in molti Stati italiani le logge vissero con discrezione in prossimità del Potere. Fu il caso del regno di Sardegna e, a fasi alterne, di quello di Napoli, ove aristocratici, militari, scienziati e qualche ecclesiastico convissero nello “spazio bianco/nero massonico”, accampamento di una milizia a servizio del progresso civile e della coesistenza pacifica dopo secoli di atroci guerre di religione e laboratorio dei diritti dell'uomo e del cittadino, oggi condivisi da tutti gli Stati aderenti all'ONU e dalle ONG riconosciute. In quel secolo tra i “fratelli italiani” più famosi a livello europeo spiccarono il savoiardo Joseph de Maistre, autore dell'acuto saggio sulla massoneria in vista del Convento (o conferenza internazionale) di Wilhelmsbad che avrebbe dovuto certificare le origini templari della Libera Muratoria (o quanto meno la sua discendenza dai crociati), e lo scienziato pinerolese Sebastiano Giraud. Nel Mezzogiorno furono altrettanto celebri il principe Raimondo Sangro di San Severo (la Cappella del suo palazzo gentilizio è un corso accelerato di simbologia massonica) e l'“abate” Antonio Jerocades, che raccolse le sue poesie muratorie in “La lira focese” (1783, ripubblicate a cura di Antonio Piromalli per la Bastogi nel 1986),  purtroppo ignorato dall'Encyclopédie de la Franc-Maçonnerie diretta da Eric Saunier, a dimostrazione di quanto lavoro occorra per far meglio conoscere all'estero la storia dei massoni italiani.
Con la Rivoluzione francese l'immagine della massoneria, un Ordine iniziatico, venne completamente stravolta e falsata, specialmente per opera del gesuita Agostino Barruel (1741-1820), secondo il quale il “giacobinismo” fu orchestrato dalle “arrières loges” (logge segrete) contro i troni e l'altare per vendicare lo sterminio dei Templari da parte di Filippo IV il Bello in combutta con papa Clemente VI, l'annientamento dei càtari (o albigesi) e per decretare la vittoria del Dualismo manicheo: l'eterno conflitto tra la Luce e le Tenebre, tra il Male e il Bene. Per dare credito alla sua narrazione, Barruel affermò di essere stato egli stesso iniziato. Parlava dunque con cognizione di causa. Trascurò di ricordare che proprio i massoni furono le prime e principali vittime del Terrore (la gran maestra principessa di Lamballe fu linciata e decapitata dal “populace” ingordo di sangue) e che la Rivoluzione venne deplorata da “fratelli” insigni, quali Vittorio Alfieri e Edmund Burke. 
Quel marchio però rimase e, dopo il crollo dell'impero napoleonico (1814-1815), fu ripetuto per un secolo. Massone fece rima con rivoluzione. In realtà, sia nelle Americhe dei “fratelli” Washington e Simon Bolivar sia in Europa, la Libera Muratoria promosse l'avvento di libertà costituzionali, avversando così l'assolutismo, ma, per quanto possibile, essa operò “dall'interno” dei regimi, diffondendo il concetto e la pratica delle riforme civili: istruzione ed elettività alle cariche. In Italia la manifestazione più efficace di tale strategia furono i pacifici Congressi degli scienziati che tra il 1838 e il 1847 gettarono le basi di una possibile Lega italica capace di conciliare corone e libertà dei popoli. Un reazionario come Clemente Solaro della Margarita, ministro degli Esteri di Carlo Alberto di Sardegna, però non ebbe dubbi: quei conciliaboli erano l'anticamera della rivoluzione. Dal canto suo, appena eletto e quando era celebrato come papa “liberale”, Pio IX non esitò a ribadire la scomunica dei massoni nell'enciclica “Qui pluribus”. Poi li denunciò quali artefici della distruzione dello Stato pontificio e li liquidò come “sinagoga di Satana”. Scomunicò Vittorio Emanuele II, i suoi ministri (Cavour, Rattazzi, La Marmora..., nessuno dei quali era massone) e i parlamentari che ne approvarono l'azione. La lacerazione tra Chiesa e “mondo moderno” divenne irrimediabile. Sempre in omaggio alla verità dei fatti, va detto che, se non avevano fatto nulla per meritarsi le scomuniche di Clemente XII e Benedetto XIV (1751) e dei loro successori, parecchi massoni fecero di tutto per farsela ribadire, assumendo toni duramente polemici non solo contro il papa-re ma contro la chiesa di Roma e la religione stessa. Il 9 dicembre 1869 venne aperto a Napoli il Concilio anticlericale contrapposto al Concilio ecumenico vaticano inaugurato da Pio IX il giorno precedente, festa dell'Immacolata Concezione. Il Grande Oriente d'Italia non aderì affatto all'Anticoncilio (che durò appena un paio di giorni e fu sciolto da un commissario di polizia quando assunse toni repubblicani); esso, tuttavia, contò sul sostegno del “fratello” Giuseppe Garibaldi, del romanziere Victor Hugo (figlio di massone, ma non iniziato) e di molte logge, presenti con labari e dignitari.
Nell'enciclica Humanum genus (1884) papa Leone XIII ammise che tra i massoni vi erano anche persone perbene, “moderate”, ma, in linea con Barruel, ritenne che esse erano irretite dagli estremisti. Altri aggiunsero che a ordire la trama massonica erano gli ebrei. In “Note storiche contemporanee d'un italiano: massoneria, socialismo, ebraismo” (Chiasso, 1888) il gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Adriano Lemmi, venne marchiato quale “spudorato giudeo e settario”. Se nel Syllabus (1864) l'origine di tutti i mali (socialismo, comunismo, ecc.) era stata individuata nel liberalismo, ora la cospirazione era addebitata all'internazionale ebraica, che usava le logge come “utili idiote”. Ne scrissero ripetutamente Léo Taxil (1854-1907), ex segretario della Lega anticlericale e verosimilmente strumento dei “servizi” francesi, anche a giudizio del dottissimo massonologo Massimo Introvigne, e Domenico Margiotta, autore di “Ricordi di un 33.'.” e di “Il Palladismo: culto di Satana Lucifero nei triangoli massonici” (1895). Ottenuto straripante successo con “I fratelli tre puntini” (1885)  e con le sconce “Memorie di una ex palladista perfetta iniziata”, attribuite all'inesistente Diana Vaughan, messo alle strette dai molti dubbi sollevati sulle sue chiacchiere, nel 1897 Taxil dichiarò che per dieci anni si era divertito alle spalle dei clericali e uscì dalla scena. Ormai i veri nemici suoi (cioè della Francia) erano stati sconfitti: Lemmi  era stato costretto alle dimissioni su pressione dell'ala repubblicana del Grande Oriente, Francesco Crispi era stato travolto dalla sconfitta di Adua, Giosue Carducci, malato, era ormai isolato. La maggior parte dei suoi lettori rimase però convinta che Taxil avesse detto la verità. Del resto era stato ricevuto in udienza dal papa.
L'identificazione massoneria-rivoluzione assunse nuove forme, sino alle opere di Léon de Poncins e di Emmanuel Malynski, che in “La guerra occulta” spiegò che Lenin e i capi della rivoluzione bolscevica (1917 e seguenti) erano il punto di arrivo della cospirazione ebraico-massonica, le “forze occulte”, orchestrate da uomini come il Grande Parvus e soprattutto Jacob Schiff, banchiere potentissimo e regista del fronte occulto della sovversione mondiale.
Dopo due secoli di identificazione della massoneria universale con il Male assoluto la Libera Muratoria italiana è ora bersaglio di una nuova accusa: aver tenuto a balia il regime fascista sin dalla sua genesi, cioè l'intervento dell'Italia nella Grande Guerra. Lo afferma Gerardo Padulo in “L'ingrata progenie. Grande guerra, Massoneria e origini del fascismo, 1914-1923” (ed. Nuova immagine). Dottore di ricerca dal 1987, già consulente di Commissioni parlamentari e per le Procure di Roma, Brescia e Napoli, dopo ricerche archivistiche iniziate nel 1980 e saggi brevi  (tra i quali I finanziatori del fascismo, 2010), sulla scorta di migliaia di “schede” accumulate nel tempo, Padulo propone la sua interpretazione: proprio il Grande Oriente d'Italia (a lui meglio noto rispetto alla Gran Loggia d'Italia, nata nel 1908-1910) sarebbe il “filo nero” che unì l'intervento dell'Italia in guerra (24 maggio 1915), la fondazione dei Fasci di combattimento (Milano, 23 marzo 1919) e la “marcia su Roma” (fine ottobre 1922) dalla quale nacque il regime fascista. Secondo lui sin da prima della conflagrazione europea “a Palazzo Giustiniani (sede del Grande Oriente d'Italia, NdA) aveva sede l'apparato centrale di un partito sui generis, radicato nella società civile e che, in larga misura, occupava e controllava lo Stato”. Esso aveva l'“aspetto di un tronco di cono”: immagine che richiama la “clessidra” insinuata dall'on. Tina Anselmi nella Relazione (di maggioranza) della Commissione parlamentare d'Inchiesta sulla loggia Propaganda massonica n. 2 (1984). La massoneria, ripete Padulo riecheggiando l'intervento di Antonio Gramsci alla Camera il 16 maggio 1925, era il “partito della borghesia” e, in quanto tale, intrinsecamente conservatrice, reazionaria, pronta ad affidarsi ai fasci di Benito Musoslini. 
Poco conta se poi le due Comunità massoniche italiane (Grande Oriente e Gran Loggia), pesantemente vessate e perseguitate, nel 1925 furono costrette a sciogliersi proprio dalla prima “legge fascistissima” del governo mussolinano. Esse avevano esaurito la loro funzione di battistrada della dittatura antidemocratica e liberticida. La tesi, sorretta da innumerevoli riscontri ai quali possono essere contrapposti molti altri documenti, non meno convincenti, è alimentata da un pregiudizio che Padulo stesso confida al lettore. Mentre, senza conforto di prove documentarie o sulla base di indimostrate asserzioni di terzi, ascrive alla massoneria vari politici eminenti (inclusi Paolo Boselli e Vittorio Emanuele Orlando), con apprezzabile onestà, egli scrive che se l'associazione massonica “tende a schiudere la via al regresso, a fortiori la sua attività deve essere sottomessa in itinere all'opinione pubblica” (p. 12). Il saggio costituisce un “atto di accusa” e al tempo stesso una “sentenza” nei confronti della massoneria, genesi del fascismo e di tutti i mali conseguenti. Mentre sottovaluta le profonde divergenze tra le due Obbedienze e le tendenze all'interno di ciascuna di esse (in specie il Grande Oriente) e su significativi massoni dell'epoca (Arturo Rocco Armentano, Arturo Reghini, Edoardo Frosini, Michele Chiarappa...) e sui legami internazionali delle massonerie italiane, il libro è stato accolto con entusiasmo da quanti se ne valgono per oscurare il peso esercitato sul governo Mussolini dai nazionalisti e  soprattutto dai cattolici, indispensabili al duce non solo nel 1922-1923 ma proprio dopo la svolta autoritaria, suggellata con il Concordato del 1929. D'altronde anche Michele Scurati  in “M. Il figlio del secolo” (Bompiani) zeppo di omissioni (che a volte sono peggio degli errori) tace l'insanabile conflitto tra logge e fasci culminata nella fiorentina “notte di San Bartolomeo” del 1925, adombrata da Vasco Pratolini in “Cronache di poveri amanti”.
Il libro non poteva giungere in un momento più “caldo”: l'insediamento della ennesima Commissione parlamentare d'inchiesta “sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali anche straniere”. Ancor prima di essere eletto alla sua presidenza, l'on. Nicola Morra, deputato del Movimento 5 Stelle, ha rilasciato dichiarazioni poco lusinghiere nei confronti della massoneria. Tutto lascia ritenere che coglierà il testimone da Rosy Bindi, secondo la quale “la massoneria” (invero un nome comune di cosa) è “sostanzialmente segreta”, e quindi in conflitto con la Costituzione, ed esiste una “zona grigia” tra logge e criminalità organizzata. La Relazione finale della Commissione Bindi, incredibilmente approvata all'unanimità, rimpiange la legge antimassonica del 1925 e auspica maggior rigore nei confronti dei massoni. Lo farà anche la Commissione ora in carica? O qualcuno finalmente denuncerà il conflitto tra l'antimassonismo dilagante e la Costituzione vigente?
Additare la massoneria quale responsabile del regime di partito unico (il “fascismo”) ricalca   lo specchio deformante di Barruel e di Taxil e dell'innominabile spretato che nel febbraio 1923 propugnò l'incompatibilità tra logge e Partito, decretata dal Gran Consiglio del Fascismo per suggellare la confluenza dei catto-nazionalisti nel PNF capitanato dall'antico  autore del romanzaccio “Laura Particella. L'amante del cardinale”. 
A confutazione dei luoghi comuni ricorrenti basterebbe ricordare quanti e quali massoni hanno invece concorso a rendere l'Italia un Paese meno incivile di quanto era prima dell'Illuminismo, del Risorgimento, dell'unificazione nazionale, dell'apogeo del liberalismo e della crisi postbellica. Va anche detto che nell'ottobre 1922 in Italia non nacque affatto “il regime” ma un governo comprendente tutti i partiti costituzionali (cattolici inclusi), mentre il Partito comunista d'Italia, sezione della Terza Internazionale di Mosca, voleva a gran voce la rivoluzione bolscevica.
Oggi però in Italia non interessa solo o non soltanto la disputa storiografica sulle diverse e segmentate Comunità massoniche locali, in varia misura collegate con la Massoneria universale: più o meno otto milioni di “fratelli” che seguono con sgomento quanto accade nella terra di Tommaso Crudeli, protomartire della massonofobia. È in discussione, invero, la libertà di associazione, garantita dalla Costituzione: un caposaldo della civiltà “occidentale”, ora messa in discussione dal “Contratto di governo per il cambiamento”, che stride con secoli di sofferte conquiste liberali, e dalla legge della Assembla regionale siciliana che esige dai suoi membri la pubblica dichiarazione di appartenenza a logge massoniche e ad “associazioni similari” (Rotary, Lions, terz'ordini religiosi..., tutti fondati su promesse vincolanti, gerarchie statutariamente costituite, disciplina). Quando organi dello Stato passeranno la misura, prima o poi anche il Colle dovrà dire la sua, come a suo tempo seppe fare il sempre rimpianto Francesco Cossiga, cattolico adamantino, sì, ma strenuo difensore della grande storia dell'“Italia europea”, oggi rimessa in forse.  
Aldo A. Mola
 
SCARICABARILE TRA “POLITICI” E “TECNICI”
L'AFFONDAMENTO DELL'AMMIRAGLIO PERSANO  (1866)
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 18 novembre 2018, pagg. 1 e 11.
   
Carlo Pellion di Persano     L'attuale confusione dei poteri                             
  Il regime vigente versa in grande confusione. Alla radice della sua insolubile crisi vi è anzitutto il suo presunto punto di forza: il famigerato “contratto di governo per il cambiamento”. Anziché (o molto più che) sulla convergenza nella realizzazione di progetti, esso si fonda sull'elusione dei motivi radicali di divergenza. In secondo luogo vi è la contrapposizione originaria e via via più esasperata verso un fantasma, l'“Europa”, additato quale oscura minaccia nei confronti del Paese: “narrazione” che evidenzia scarsa consapevolezza dei veri  rapporti istituzionali (storici, politici, economici...) tra l'Italia e l'Unione Europea, da tempo depositaria di poteri ceduti da tutti gli Stati che ne fanno parte, anche perché al riparo del suo unico effettivo punto di forza: l'ombrello della NATO, tutt'altra cosa dal fantomatico “esercito europeo” ventilato da Emmanuel Macron, ora sull'orlo della disperazione per il crollo verticale di credibilità e di consensi nel suo Paese. Le parti contraenti dell'attuale scricchiolante maggioranza di governo si confortano con gli esiti di sondaggi invece di interrogarsi sulla veridicità degli stessi: intenzioni di voto saggiate non sulla base degli aventi diritto ma di quanti hanno votato e ancora sperano di ricevere corresponsione con atti concreti (reddito di cittadinanza, riforma del sistema pensionistico, indurimento della valenza punitiva del sistema giudiziario, specie nei confronti della corruzione nella pubblica amministrazione, molto vezzeggiato dai 5S ma assai meno da chi, come la Lega, conta esponenti colpiti da imbarazzanti sentenze). 
  Vi è infine un quarto terreno di tensione tra i partner di governo: la qualità dell'occupazione del potere, le nuove nomine al vertice della “macchina” dello Stato e dell'amministrazione pubblica. I pentastellati puntano su fedelissimi anche se privi di competenze certificate; i leghisti, invece, mirano a coniugare allineamento (sul quale non si discute) a carriere sperimentate. Entrambi tendono a escludere l'indipendenza  dello Stato dai partiti o, più concretamente (anche se meno correttamente), dal governo, a cancellare la terzietà dell'apparato amministrativo, che fu e tuttora rimane l'ancora di salvezza del declinante “senso dello Stato”.  

  Due guerre mondiali, la proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (10 dicembre 1948) e la maggiore consapevolezza dei limiti tra etica e diritto positivo informano i rapporti tra cittadino e potere politico. Le “norme” non sono più accettate a occhi bendati. Al tempo stesso lo Stato (o quel che ne resta, dopo la cessione pattizia di  fondamentali poteri) ha piena potestà di esigere il rispetto delle leggi, che però, a differenza di quanto oggi accade, debbono essere poche e chiare. Se pretende dall' “amministrazione” prestazioni abnormi, il potere politico entra in conflitto con lo Stato, cioè con sé stesso. È quanto sta accadendo oggi, con la confusione crescente e dilagante tra Esecutivo e Legislativo. In un regime bene ordinato i tre poteri (Capo dello Stato, governo e parlamento) si bilanciano. Lo possono fare tanto più in un sistema arricchito e potenziato da ordini come la Magistratura e da organi quali la Corte costituzionale e le “Autorità” volute indipendenti proprio perché, a differenza dei governi, sono garanti della continuità degli interessi generali permanenti dei cittadini.

E i suoi precedenti storici 
   Dall'avvento del regime statutario la storia d'Italia è punteggiata da prevaricazione del Potere Esecutivo nei confronti dell'“amministrazione”, anche in campi vitali, quali la politica estera e la difesa. In tempi ordinari tale divaricazione si concretò in revoca e deplorazione dei titolari di funzioni apicali. In caso di guerra si verificarono invece tensioni e conflitti che meritano attenzione proprio meglio comprendere la condizione odierna del Paese e le sue prevedibili prospettive. 
  Il terreno sul quale la frizione tra politici e tecnici divenne ripetutamente conflitto aperto fu il rapporto tra Parlamento ed Esecutivo, da un lato, e Forze Armate, dell’altro. Lo si vide dalla prima guerra per l'indipendenza (1848-1849), quando a Torino la Camera dei deputati del Regno di Sardegna si mostrò del tutto evanescente rispetto alle responsabilità gravanti sull'Armata sarda condotta al campo da Re Carlo Alberto, accompagnato dai figli, Vittorio Emanuele e Ferdinando, mentre il principe Eugenio reggeva la somma dei poteri regi in veste di Luogotenente. La partita fu chiusa quando il Re si appellò al buon senso degli elettori con il Proclama di Moncalieri (scritto dal suo primo ministro, Massimo d'Azeglio) e questi espressero una maggioranza leale verso la Corona. Nella guerra dell'aprile-luglio 1859 la contrapposizione fra politici e militari (il cui vertice era Vittorio Emanuele II in persona) non deflagrò solo perché Napoleone III accettò a Villafranca la proposta di armistizio avanzata dall'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe, suscitando l'ira del presidente del Consiglio Camillo Cavour, che rassegnò tempestosamente le dimissioni e fu sostituito dal generale Alfonso La Marmora, con Urbano Rattazzi all'Interno e Gabrio Casati all'Istruzione. Benché di breve durata fu quel governo, manifestamente transitorio, a gettare le basi del nascente regno d'Italia, poiché chiamò a raccolta il meglio della classe dirigente nazionale.  
  Tornato a capo dell'Esecutivo, Cavour ne proseguì l'azione in piena intesa con il sovrano, adottando misure via via più spregiudicate perché era ormai impossibile fermare il processo in corso. Con la primavera del 1860 il Regno di Sardegna era ormai lo Stato più popoloso, ricco e promettente d'Italia: non rimaneva che forzare i tempi, con l'annessione di Umbria e Marche, sottratte al Papa-re, e l'irruzione nelle Due Sicilie, senza dichiarazione di guerra, per imbrigliare il Mezzogiorno e liberarlo dall’instabilità generata dal crollo della monarchia borbonica e dalla ormai palese incapacità di Garibaldi di governare lo Stato.

Persano, agente segreto di Camillo Cavour  
   Molto prima che Garibaldi dalla Sicilia sbarcasse in Calabria e iniziasse la corsa verso Napoli (ove poi entrò in carrozza ferroviaria senza colpo ferire il 7 settembre 1860), da Torino Cavour dettò quotidianamente istruzioni ai suoi emissari più fidati. Fu il caso conte del contrammiraglio Carlo Pellion di Persano (Vercelli, 11 marzo 1806- Torino, 28 luglio 1883). Ne ha scritto ripetutamente lo storico Nico Perrone in L'agente segreto di Cavour. Giuseppe Massari e il mistero del diario mutilato (Palomar, 2011) e in Arrestate Garibaldi. L'ordine impossibile di Cavour (Ed. Salerno, 2016). In Il processo all'agente segreto di Cavour. L'ammiraglio Persano e la disfatta di Lissa  (Rubbettino, 2018, vincitore del Premio Basilicata con una motivazione lusinghiera), Perrone ricorda le istruzioni chiave inviate dal Gran Conte sia a Persano (a capo di una squadra per vegliare sul Tirreno meridionale e soprattutto su Napoli, col proposito di ottenere il passaggio “spintaneo”, ovvero anche prezzolato, della flotta borbonica a fianco di quella Sarda) sia ad altri confidenti e fiduciari, quali Pes di Villamarina, incitato a promuovere  un “movimento” insurrezionale in Napoli tramite la rete orchestrata dal ministro dell'Interno di Francesco II di Borbone, Liborio Romano, gli “chasseurs” di Nunziante e gli ufficiali borbonici in relazione con Persano. Cavour scrisse: “Occorrerà organizzare subito un governo provvisorio, mettendo alla sua testa Romano, che mi sembra essere la migliore testa del regno”. Chi davvero fosse Liborio Romano è stato ampiamente  documentato dallo stesso Perrone nel saggio L'inventore del trasformismo. Liborio Romano. Strumento di Cavour per la conquista di Napoli (Rubbettino, 2009, meritoriamente finalista del Premio Acqui Storia). Massone, cospiratore, esule, richiamato dal Borbone al vertice del regno, “don Liborio” aveva i contatti giusti all'interno e all'estero per traghettare le Due Sicilie nell'alveo dell'Italia unita. Fu anche tra i critici più equilibrati del caleidoscopico “grande brigantaggio” che a lungo rischiò di affossare il gracile Stato unitario sommandosi alle incaute imprese di Garibaldi, come la spedizione del luglio-agosto 1862 con l'insegna “Roma o morte”: una mina contro la credibilità del regno sabaudo, che proprio allora stava ottenendo fondamentali riconoscimenti da parte di Stati europei, dall'impero russo alla regno di Prussia.
  Cavour puntava a ottenere la solidarietà della miglior classe dirigente meridionale a sostegno del “nuovo ordine”. Altrettanto fece il primo governo presieduto da Urbano Rattazzi (1862), che si proclamava né di destra né di sinistra, ma “uomo dello Stato”. Mentre tenne per sé  Esteri e Interno, Rattazzi fece nominare alla Guerra il luogotenente generale Agostino Petitti di Roreto, alla Giustizia il siciliano Filippo Cordova (gran maestro del Grande Oriente d'Italia), alle Finanze Quintino Sella, all'Istruzione Pasquale Stanislao Mancini (da tempo esule in Piemonte, docente di Giovanni Giolitti all'Università di Torino), ai Lavori Pubblici il “fratello” Agostino Depretis, all'Agricoltura  Gioacchino Napoleone Pepoli e alla Marina Persano. Come Petitti, anche Persano era deputato alla Camera. I militari parlamentari (alla Camera o in Senato) erano molte decine e tutti in posizioni eminenti. Persano era stato eletto deputato alla VII Legislatura nel collegio di La Spezia il 29 marzo 1860, in ballottaggio con il marchese Filippo Ollandini, colonnello dei Reali carabinieri. Confermato al primo turno il 27 gennaio 1861 per l'VIII Legislatura del Parlamento subalpino, che fu anche la I del regno d'Italia), dopo la nomina a ministro il 23 marzo 1862 Persano fu trionfalmente rieletto (467 voti a favore contro 5 “dispersi”). Decadde il 1° dicembre 1862 per la promozione ad ammiraglio: pochi giorni prima che le dimissioni del governo Rattazzi ne comportassero l'uscita di scena. Per lui seguirono anni di grigi. Il successore di Rattazzi, Alfonso La Marmora, tenne per sé la Marina. A La Spezia si affermò il conte Angelo Benedetti. Dopo la cessione di Nizza alla Francia e mentre fervevano i lavori del Canale di Suez, che avrebbe trasformato il quadro europeo dei grandi commerci e modificato la posizione dell'Italia nel Mediterraneo (se ne riparlerà l'anno venturo, nel suo 150°), La Spezia era ascesa a porto militare strategico. Non per caso vi si susseguirono come deputati il viceammiraglio Simone Pacoret di Saint-Bon, il capitano di vascello Augusto Albini e il contrammiraglio Costantino Morin, futuro ministro degli Esteri con Giolitti.

Adriatico amaro: condanna di Persano 
  Persano ebbe un alto momento di gloria, presto mutato in catastrofe: il comando della flotta durante la guerra italo-prussiana contro l'Austria nella primavera-estate del 1866. La vicenda è notissima, ma Nico Perrone scava sul suo punto nevralgico. Dopo la battaglia nel mare di Lissa (20 luglio), la flotta asburgica comandata da Wilhelm von Teghettoff si ritirò. Altrettanto fece l'italiana, che però perse in battaglia la nave ammiraglia “Re d'Italia” e il “Palestro”, che nel nome ricordava una vittoria del 1848. Nelle ore immediatamente seguenti lo scontro, il ministro della Marina, Depretis diffuse la voce di un successo italiano. Ancora il 26 luglio la governativa Gazzetta Ufficiale asserì che “la polemica dei giornali sulla battaglia di Lissa è in gran parte fondata sopra notizie inesatte, e non è informata a quel principio di non condannare chi ancora non è giudicato”. A placare le polemiche non bastò certo il conferimento di medaglie d'oro agli ufficiali caduti (Faà di Bruno, Alfredo Cappellini) o di speciale merito (Pacoret di Saint-Bon), né la celebrazione del deputato Carlo Boggio (rappresentante del collegio di Cuneo), sparito nei flutti con la “Re d'Italia”.
 Per rispetto della sua condizione di senatore dall'8 ottobre 1865, Persano venne giudicato dal Senato che si radunò in Alta Corte di Giustizia. Dopo giorni di udienze tempestose, il 15 aprile 1867 fu “convinto” dei reati ascrittigli e condannato alle dimissioni, alla perdita del grado di ammiraglio e alle spese di giudizio. Rimase nondimeno senatore, anche se appartato. Scrisse due opere sulla propria condotta, a futura memoria, ma non capovolse il giudizio negativo nel quale a lungo rimase avvolto. La sua vera colpa era consistita nel muovere contro la flotta avversaria senza adeguata preparazione, su impulso del ministro Depretis che pretendeva una vittoria smagliante per cancellare l'onta di Custoza, ove il 24 giugno precedente nessuno aveva vinto davvero, ma le armi italiane furono autolesionisticamente descritte come perdenti. 
   
Pubblici impiegati parafulmini?
   La storia dei decenni seguenti è fitta di situazioni analoghe. Nel 1896 il presidente del consiglio Francesco Crispi incalzò il generale Oreste Baratieri, già segretamente sostituito con Antonio Baldissera, a muovere contro le orde di Menelik, negus d'Etiopia: “Codesta è tisi militare” gli telegrafò sferzante. Baratieri si avventurò e incappò nel disastro ad Abba Garima (o Adua, 1° marzo). Nell'estate 1918 il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, siciliano come Crispi, si spinse ad ammonire il Comandante Supremo Armando Diaz: a suo avviso era meglio una seconda Caporetto che la stasi. Per fortuna d'Italia, Diaz non abboccò. Sapeva che una nuova  sconfitta avrebbe determinato il crollo dello Stato. Tenne fermo e poi vinse a Vittorio Veneto. Nella drammatica seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 24/-25 luglio 1943 anche Mussolini cercò di scaricare sulle spalle dei militari la responsabilità delle sconfitte via via subite su vari fronti in tre anni di guerra. Ma era stato egli stesso a concentrare nelle proprie mani tutti i poteri, convinto che il conferimento del grado di Primo maresciallo dell'Impero gli avesse anche infuso superiori qualità di stratega.
  Il punto è proprio questo: il grado effettivo di competenza dei politici che s'impancano a dettare la condotta alla “amministrazione”, senza conoscere la realtà dei fatti. La lezione della storia sembra non scalfire la supponenza di quanti si avvolgono nel sudario di formule mistiche, quali “tanti nemici, tanto onore” e facezie del genere, dimenticando la regola aurea del ministro degli Esteri della Destra storica, l'ex mazziniano Visconti Venosta: “Indipendenti sempre, isolati mai”. L'opposto di quanto oggi accade. Sic stantibus rebus potrebbe diffondersi la latitanza dell' “amministrazione”, i cui responsabili rifiuteranno di farsi parafulmini dell'arbitrio dei “politici”, con conseguenze devastanti per lo Stato. 
Aldo A. Mola

IL GENERALE PIETRO GAZZERA
UN PATRIOTA MINISTRO DELLA GUERRA (1929-1933)
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 18 novembre 2018, pagg. 1 e 11.
   
Il Generale Pietro Gazzera    Solo nei regimi totalitari e fatalmente destinati alla rovina propria e dei “sudditi” i dittatori cambiano a capriccio i dirigenti dei comparti apicali di pubblico rilievo. La competenza, infatti, non è figlia di improvvisazione, di “convinzioni politiche”, ma di studio e di esperienza. Il “governo”, quali ne siano il “colore” e le ambizioni, non può prescindere dallo Stato: una piramide gerarchica costruita non a difesa di privilegi ma a tutela dei diritti e degli interessi generali permanenti dei cittadini. Si può certo obiettare che da tempo al vertice delle responsabilità si trovano talora persone inadeguate. Se però se ne cerca la cagione, si scopre che gli inetti si trovano dove sono “per nomina  ad nutum principis” anziché per concorso pubblico non manipolato, proprio perché sono frutto della degenerazione che lentamente ha corroso lo Stato liberale, fondato sulla uguaglianza dei diritti dinnanzi alle leggi e sulla certificazione delle carriere.
In “La macchina imperfetta: immagine e realtà dello Stato fascista “ (ed. il Mulino, meritatissimo Premio Acqui Storia 2018) Guido Melis dedica un capitolo importante alle Forze Armate nel ventennio mussoliniano, dal titolo suggestivo: “Fascio e stellette”. Le sue non sono “rivelazioni” sensazionali, ma ricapitolazione di fatti con spirito obiettivo e sereno, quale deve essere lo storico. Ricorda che tra il 1925 e il 1943 i Capi di stato maggiore generale furono tre in tutto e tutti e tre piemontesi: l'astigiano Pietro Badoglio (1925-1940), il casalese Ugo Cavallero (1940-1943) e il torinese Vittorio Ambrosio (1943). Nessuno dei tre può essere etichettato come “fascista”. Affiliato sia al Grande Oriente sia alla Gran Loggia, Cavallero, da molti studiosi settari definito filogermanico, venne “suicidato” il 14 settembre 1943 da Albert Kesselring, sia perché accusato di aver ordito con il senatore monarchico Luigi Burgo il rovesciamento di Mussolini (sospetto alimentato dal fascicolo distrattamente “dimenticato” sulla scrivania da Badoglio alla sua partenza dal ministero della Guerra alla volta di Pescara-Brindisi), sia perché rifiutò di assumere la guida di un esercito italiano vassallo dei tedeschi: compito poi assunto da Rodolfo Graziani, che però tenne a rivendicare la separatezza tra Forze Armate dello Stato repubblicano e Partito fascista repubblicano. Già Renzo De Felice aveva ricordato che nel 1930 appena 1.211 ufficiali su 21.522 risultavano iscritti al Partito nazionale fascista: il 5%, una minoranza esigua. Esercito e Marina rimasero insomma nicchie al riparo dal regime. Mussolini ne fu consapevole, tanto che il 18 marzo 1930 il Gran Consiglio del fascismo escluse successivi tesseramenti di ufficiali sia individuali, sia collettivi e chiese che la partecipazione alla vita politica degli ufficiali già iscritti fosse “aperta e nota”: non da “quinta colonna” o come una sorta di società segreta militare all'interno del regime.
A distanza di decenni, in un bilancio storico complessivo, si può aggiungere che l'istituzione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (regio decreto 14 gennaio 1923, n. 31), con i suoi gerarchi, statuti, regolamenti e rituali finì per essere un fattore di debolezza estrema del fascismo, proprio perché tenne nettamente divise le Camicie Nere dalle Sciarpe Azzurre, con tutte le conseguenze del caso. A conferma basti ricordare la sequenza dei suoi comandanti generali: Emilio De Bono, Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Asclepia Gandolfo e Maurizio Gonzaga - tutti “uomini del Re” - e, viceversa, dei suoi capi di stato maggiore: Francesco Sacco, Enrico Bazan, Attilio Teruzzi, Luigi Russo, Achille Starace ed Enzo Galbiati. Quest'ultimo il 25 luglio 1943 votò contro l'ordine del giorno Grandi-Federzoni-Bottai, aderì alla RSI e divenne generale della Guardia nazionale repubblicana, mentre De Bono venne fucilato a Verona per “alto tradimento”.     
Il complesso rapporto tra Forze Armate e regime è bene evidenziato dalla figura di Pietro Gazzera (Bene Vagienna, 1879-Ciriè, 1953),  il generale che da ministro della Guerra si oppose a Mussolini sventandone alcuni clamorosi colpi di testa che avrebbero potuto causare la catastrofe del Paese. Ne ha scritto una scrupolosa biografia Giuseppe Novero (Mussolini e il Generale: Pietro Gazzera ministro della Guerra lungo le tragedie del Novecento, ed. Rubbettino): opera documentata ed equilibrata, come prefazione di Antonio Spinosa, storico e giornalista. Novero non fa sconti a veri e presunti responsabili di pagine buie della storia militare italiana. Va però ricordato che nel 1861 l’Esercito era tutto da fare con pezzi e bocconi degli antichi Stati e che l’organizzazione del Paese (ferrovie, strade, porti, scuole, ospedali...) ebbe priorità rispetto alla macchina bellica, pur necessaria per la sopravvivenza dello Stato. Lo Stato Nuovo ebbe la saggezza di valorizzare il patrimonio di quelli pre-unitari, dalla “Nunziatella” di Napoli all'Accademia di Modena. E ne fu largamente ripagato.
Dalle pagine di Novero emerge uno spaccato significativo della storia d'Italia. Pietro Gazze è un paradigma della Nuova Italia. Suo padre, modesto lattoniere di Bene Vagienna, nel Cuneese, e la madre, casalinga, ebbero undici figli. Uno di loro, Costanzo, divenne prefetto; l’altro, Pietro, percorse la carriera militare con impegno e onore. Il successo della “Terza Italia” fu assicurato anche dall'ottimo funzionamento dell'“ascensore sociale”, grazie al quale cittadini di modeste condizioni originarie salirono a posizioni eminenti: un processo propiziato dallo Stato sabaudo con i convitti militari (celebre, tra altri, quello di Asti, dal quale uscì Giuseppe Galliano, originario di Vicoforte, futuro eroe di Macallé e caduto ad Abba Garima il 1° marzo 1896) e con il torinese Collegio delle antiche province, che assicurò gli studi universitari ai “capaci e meritevoli”. Al riguardo la Costituzione del 1948 non ha inventato nulla. 
Di grado in grado Gazzera raggiunse posizioni eminenti. Presa in moglie Bianca Maria Gerardi, di affermata famiglia borghese, ne ebbe Giovanni (Nino), Romano (futuro celebre pittore), Luisa e Linda. Ufficiale di artiglieria (come Badoglio), volontario in Libia (ove meritò la Medaglia d'Argento al Valor Militare), durante la Grande Guerra esercitò comandi via via più impegnativi, sino alla segreteria di capo di stato maggiore, meritandosi sempre stima, tanto che nell'ottobre 1918 fu designato tra i plenipotenziari italiani nella trattativa armistiziale con l'Austria-Ungheria. Novero documenta bene il suo ruolo a Villa Giusti ove gli austriaci firmarono l’armistizio il 3 novembre 1918 con efficacia dalle 15 dell'indomani. Per i suoi meriti nella delicatissima missione venne promosso generale di brigata. 
Dieci anni dopo Gazzera fu nominato sottosegretario alla Guerra, il cui titolare era Mussolini stesso. Il generale Sergio Pelagalli, acuto studioso di Gazzera, ricorda che il “duce” negava al suo sottosegretario quanto questi chiedeva nell’interesse del ministro, cioè del presidente stesso: una delle tante contraddizioni del capo del fascismo. Ma all’epoca vi fu in Italia un “regime assoluto”? In realtà, come detto sopra, le Forze Armate rimasero fedeli alla Corona. Il 31 ottobre 1922 Mussolini in persona aveva scritto di suo pugno che i militari non dovevano osannare pubblicamente la sua ascesa al governo. Se, come alcuni ritengono, in realtà voleva sollecitarle a farlo davvero, ottenne il risultato opposto.  
Il 12 settembre 1929 Gazzera venne nominato ministro della Guerra. Lo stesso anno il fossanese Balbino Giuliano divenne ministro della Educazione Nazionale. Il Vecchio Piemonte “pesava”, perché sapeva tenere a freno le intemperanze del “duce”. Come appunto fece Gazzera ripetutamente. Novero ricorda che talvolta Mussolini abbozzò precipitosi propositi aggressivi contro la Jugoslavia e contro la Francia. Accadde, per esempio, in coincidenza con le Grandi Manovre in un’area del Piemonte che ne era teatro da decenni. Gazzera non esitò a mettere il duce dinnanzi alla realtà. Deplorò la sproporzione tra le fantasie e i fatti. L'Italia rischiava una sconfitta pesantissima, dalle conseguenze catastrofiche e durevoli.  
Consapevole che la storia non si fa con le parole, fu proprio lui a portare l’Esercito al massimo di efficienza, come ha evidenziato Oreste Bovio nell’insuperata “Storia dell'esercito italiano” (ed.US-SME): 34 divisioni di fanteria ternarie (non binarie, come poi divennero per aumentarne nominalmente il numero ma non la forza), oltre a due divisioni celeri, alpini, bersaglieri, camicie nere. Negò fucili alla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, cioè al “para-esercito” di partito. I suoi comandanti se ne lamentarono con Mussolini. Gazzera rifilava loro solo vecchi arnesi indecorosi per le loro parate: “tanto varrebbe dare dei bastoni da passeggio o dei ceri da chiesa”.  Gazzera replicò che altrimenti l’Esercito non sarebbe stato pronto in caso di mobilitazione. Sospinto da molti venti di tempesta e dalla propria ambizione egocentrica, il 21 luglio 1933 Mussolini gli comunicò che entro 24 ore lo avrebbe sostituito assumendo di persona il ministero della Guerra. Creato senatore del regno (il 30 ottobre di quello stesso anno), dopo un lungo periodo di emarginazione nell'estate 1938 Gazzera venne nominato governatore e comandante delle truppe del Galla e Sidama, nell'Africa Orientale Italiana: 50.000 uomini, 10.000 dei quali “nazionali”, poco e male armati. In un saggio esemplare pubblicato dall'Ufficio Storico dello SME, Federica Saini Fasanotti ha brillantemente ripercorso le vicende successive. Comandante superiore e reggente il governo dell'Africa Orientale Italiana dopo la resa del viceré Amedeo di Savoia, duca di Aosta, Gazzera continuò a combattere sino a quando, accerchiato e con forze ridotte a soli 4.000 uomini, ottenne gli onori delle armi. Prigioniero in Kenya, India e infine in un campo nel Tennessee (USA), il generale venne liberato su richiesta del governo italiano, tornò in patria il 20 dicembre 1943 e concorse alla riorganizzazione del Regio Esercito a fianco di Giovanni Messe, massone. Il 13 aprile 1944 fu nominato alto commissario per i prigionieri di guerra. Monarchico, nel giugno 1945 fu dichiarato decaduto dal Senato e collocato a riposo. Il 1° marzo il fascio di Roma gli aveva mandato una tessera “ad honorem”, d’ufficio, ma Gazzera, patriota e ministro nel lungo governo Mussolini, come tanti a-fascisti ascesi al governo del Paese, non fu mai “fascista”, se per tale s'intenda uno squadrista o una persona indulgente al “movimentismo”. Ricorse contro il provvedimento. L'ordinanza a suo carico fu revocata, ma rimase emarginato. Nel 1952 pubblicò Guerra senza speranza: Galla e Sidama. 
La sua vicenda è esemplare per capire la complessità della nostra storia. 
Quasi dieci anni dopo averne scritto la pregevole biografia, Giuseppe Novero ne riscatta definitivamente la memoria con una Mostra documentaria su “La Grande Guerra. Immagini e memorie” in programma da metà dicembre a Palazzo Lucerna di Rorà in Bene Vagienna, su impulso della Fondazione Romano Gazzera.  
E' un implicito monito a chi pensa che la dirigenza dello Stato può essere “inventata”, improvvisata, per fedeltà di tessera anziché per lealtà verso la Patria. La sua figura insegna che “uno non vale uno”. L'uguaglianza dei diritti comporta anche quella nei doveri: studio, altruismo, senso civico e dello Stato.
Aldo A. Mola

1918-1919
QUANDO IL GOVERNO NON VALORIZZO' LA VITTORIA
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 11 novembre 2018, pagg. 1 e 11.
   
    Oggi l'Italia ris chia il disastro perché il governo va in rotta di collisione con l'Unione Europea. Cioè contro se stessa, perché al di fuori dell'Europa e della Nato l'Italia sprofonda. I risparmi dei cittadini e i loro vulnerabili beni ambientali, monumentali e artistici valgono solo se tutelati da politica estera e, conseguentemente, militare. Diversamente sono aleatori, come quelli di tutti i paesi del pianeta. Per capirlo non è necessario ricordare le bombe degli Alleati su Roma nel luglio 1943 e la tragica sorte dell'Abbazia di Montecassino. Basta constatare la enorme distanza tra i “fondamentali” dell'economia, complessivamente ancora robusti come ricordato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e la sempre più declinante credibilità internazionale del governo, destinata a ripercuotersi su quella dello Stato. Il mondo è zeppo di Paesi dalle enormi ricchezze naturali precipitati nel disastro per irresponsabile prolungata miopia dei loro dominatori: dal Venezuela all'Iran...
Nulla è nuovo sotto il sole. L'Italia attuale rispecchia quanto avvenne giusto un secolo addietro: l'incapacità dell'Esecutivo di ottenere al Congresso di pace di Parigi (19 gennaio-28 giugno 1919)  il meritato riconoscimento dei sacrifici dei suoi cittadini nella Grande Guerra.
Oggi la Francia “celebra” la “sua”  vittoria. “Celebrare” non significa “esaltare” per ripetere gli errori del tempo che fu: vuol dire ricordare con solennità. Meditare sul passato, capirlo, spiegarlo. Esattamente quanto, purtroppo, non è accaduto in Italia se solo il 4 ottobre 2018 la Camera ha approvato una “mozione” che ha proposto di studiare e a far conoscere la partecipazione dell'Italia alla prima guerra mondiale. Una “mozione” (approvata da 367 deputati contro 107, accampanti argomenti penosi) non è né una legge né un disegno di legge. È una speranza... o auspicio che dir si voglia. Nulla a che vedere con quanto oggi avviene a Londra e a Parigi, ove la Vittoria del 1918 è ricordata come parte del patrimonio storico plurisecolare, irrinunciabile e condiviso nei suoi aspetti principali. Il pur discusso presidente Emmanuel Macron non ha esitato a tributare il doveroso omaggio alla memoria del generale e poi maresciallo Philippe Pétain, come l'Italia dovrebbe fare, in forma altrettanto solenne, nei confronti dei comandanti che nella Grande Guerra ebbero responsabilità apicali: Luigi Cadorna, Luigi Capello (massone, poi condannato a trent'anni di carcere senza alcuna prova convincente), Emanuele Filiberto di Savoia, Duca di Aosta… sino ad Armando Diaz e ai suoi due vice-comandanti, Pietro Badoglio e Gaetano Giardino, sui quali gravò la somma della responsabilità. E dovrebbe ricordare specialmente Vittorio Emanuele III, Capo dello Stato, comandante delle Forze Armate e unico interlocutore supremo e attendibile degli Alleati, come bene si vide nel convegno di Peschiera l'8 novembre 1917, quando per gli osservatori esteri (e non solo) tutto sembrava perduto ma il Re ribadì che, invece, l'Italia avrebbe retto. 
Il 3-4 novembre 1918 l'Italia sconfisse l'Impero austro-ungarico. Vinse per sé e per gli alleati, sospettosi e ingenerosi, a cominciare dalla Francia che teneva a balia il nascente stato serbo-croato-sloveno, al quale il “santo” Carlo I d'Asburgo cedette la corazzata “Viribus Unitis”, mandata a picco dal massone Luigi Rizzo prima che divenisse una minaccia contro l'Italia. Quando l'aeronautica era ancora albeggiante, le navi erano la Politica Estera, la proiezione dello Stato. Lo si constatò quando le corazzate tedesche vennero autoaffondate a Scapa Flow per impedire che esse venissero spartite tra i vincitori e potessero divenire strumento contro la Germania. In  guerra anche il suicidio è un'arma gloriosa. 
L'Italia vinse l'impero austro-ungarico. Il comandante supremo Armando Diaz, degno continuatore di Luigi Cadorna, impose che l'Austria, ormai in piena crisi per le pur tardive insorgenze nazionali a Praga, Budapest, Zagabria,  accettasse di essere attraversata dall'Esercito italiano ancora in guerra contro la Germania. Tra quanti curarono i dettagli dello strumento armistiziale va ricordato il rupestre generale Pietro Gazzera, nativo di Bene Vagienna, futuro ministro della Guerra (come ricordano i suoi biografi, Oreste Bovio e Giuseppe Novero), apprezzato dal gigantesco Ilarione Petitti di Roreto, che il 3 novembre mise piede a Trieste per proclamarla parte del regno d'Italia.
Con quella minaccia da sud, due giorni dopo la proclamazione della repubblica e il “passaggio” di Guglielmo II in Olanda (nessuno parlò di “fuga”: era condizione preliminare imposta per le trattative) al governo tedesco non rimase che chiedere la resa, sottoscritta l'11 novembre in un vagone ferroviario a Compiègne: lo stesso usato dai tedeschi quando imposero alla Francia la resa nel giugno 1940. Sconfitta a confini inviolati, la Germania venne dilaniata da sospetti di tradimenti, di mene occulte, l'invenzione di un nemico interno (la finanza straniera, gli ebrei, i massoni...), da anni intento a corrodere il tronco sano della pura razza tedesca. Mentre la Germania, completa di “spartachisti” insufflati dalla Russia di Lenin e di milizie reazionarie, galoppava verso la guerra civile, Hitler cominciò a scrivere Mein Kampf. Non bastasse, vennero pubblicati i Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Gli armistizi, le occupazioni, la miriade di microconflitti dilaganti dall'Asia al Medio e Vicino Oriente e nei Balcani si sommarono alla guerra civile in corso in Russia accelerando la catastrofe suicida dell'Europa, il caos sociale, il crollo dei più elementari valori civili che avevano sorretto un secolo di pace affannosa (1815-1914). 
Malgrado l'apparente unità d'intenti in breve emerse la contrapposizione tra gli Stati Uniti d'America e quel poco che rimaneva dell'Intesa, tra la Società delle Nazioni proposta a Parigi sin dal giugno 1917 e la Lega delle Nazioni prospettata dal presidente degli USA, Woodrow Wilson, in linea con i Quattordici punti enunciati l'8 gennaio 1918 quale palafitta della pace futura: libertà dei mari (ovvero dei commerci), autodeterminazione dei popoli (cioè plebisciti nelle zone mistilingue)  e disarmo. Quando entrarono in guerra contro gli Imperi Centrali gli USA lo fecero “in proprio”, senza condividere i trattati stipulati dall'Intesa anglo-franco-russa (lo zar, del resto, era ormai stato deposto) né l'engagement con il quale il 26 aprile 1915 l'Italia aveva aderito all'Intesa senza per divenirne componente : alleanza asimmetrica nei contenuti e negli obiettivi.
Alla conferenza per la pace, aperta a Parigi il 12 gennaio 1919, il governo italiano (il presidente del Consiglio,Vittorio Emanuele Orlando, e il ministro degli Esteri, Sidney Sonnino) andò convinto di rappresentare una grande potenza e di ottenervi non solo quanto previsto dall'accordo di Londra ma anche Fiume, che però era strategica per l'accesso al mare non solo dell'Austria ma anche dell'Ungheria e delle terre retrostanti. La grande guerra non aveva insegnato molto a chi, come il ministro degli Esteri dell'Italia, Sidney Sonnino, aveva una visione arcaica degli scenari aperti dal crollo di quattro Imperi (Russia, Germania, Austria-Ungheria e Turco-ottomano) e ancora si affannava sulla carta geografica come quando puntava il dito su Argirocastro. Il presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, non era da meno. Il loro “accompagnatore”, Salvatore Barzilai, ebreo, massone, patriota integerrimo e spirito universale, scoprì presto che avrebbe fatto meglio a rimanere a Roma. Al tavolo della pace la delegazione italiana si presentò e si condusse ignorando la propria rete di sicurezza, la diplomazia, che non è esibizione di muscoli ma un'arte dai riti antichi. Pretese di imporsi, accampando i propri caduti. Sennonché francesi e inglesi ne contavano molti ma molti di più. E gli Stati Uniti per la vittoria sugli Imperi Centrali non solo avevano speso di proprio ma avevano concesso giganteschi prestiti, anche all'Italia. Le scarne comunicazioni alla stampa nascosero il vero andamento dei lavori, fatto di trame sottili, accordi sottobanco e influenze inconfessabili esercitate anche vellicando tanti delegati inclini ai sette peccati capitali.  
Il governo di Roma compì l'errore politico di oscurare il ruolo svolto dai militari. Sin dal gennaio 1918, quando l'Esercito aveva appena vinto la battaglia di arresto contro l'offensiva austro-germanica, fu istituita la Commissione d'Inchiesta sugli avvenimenti dal 24 ottobre all'8 novembre 1917, cioè su “Caporetto”. Essa si risolse nel discredito generalizzato degli alti comandi. Mentre la Francia elesse una Camera “bleu horizont”, con la nascita del Partito popolare italiano, orchestrato da don Luigi Sturzo, e l'estremismo rivoluzionario dei socialisti che volevano “fare come in Russia”, in Italia si prospettò il crollo della dirigenza che aveva voluto l'intervento e ancora era al governo.
Alla base della debolezza del confronto tra Roma e gli Alleati non vi fu la supposta protervia di Wilson, Clemenceau e Lloyd George ma la divisione tra gli italiani. Orlando e Sonnino rimasero succubi dell'oltranzismo nazional-imperialistico. Il 23 aprile il presidente degli USA si rivolse direttamente agli italiani, chiedendo che condividessero il “suo” progetto di pace. Per protesta i rappresentanti dell'Italia abbandonarono la Conferenza: una “captatio benevolentiae” per partiti e movimenti di esagitati all'interno del Paese, un fiasco clamoroso nei rapporti internazionali. Il 29 aprile, infatti, venne approvato lo Statuto della Società delle Nazioni, la cui importanza, proprio per gli interessi dei Paesi meno forti, qual era l'Italia, non venne compresa da Roma, come bene ha documentato Italo Garzia in “L'Italia e le origini della Società delle Nazioni”. A Orlando non rimase che tornare a Parigi e sottoscrivere quanto ormai deciso in sua assenza. 
La politica estera non è una variabile indipendente dal peso effettivo politico, militare ed economico degli Stati. Non si regge su “annunci”, pretese unilaterali, ventilate minacce e vanterie (“otto milioni di baionette”), ma sui “fatti”, sulla machiavelliana “realtà effettuale”, a cominciare dalla solidità del bilancio dello Stato.
È quanto avvenne nel 1919. E ancora vale nel 2018. Certo anche la memoria della propria storia è fondamentale, perché corrobora l'unità nazionale e la consapevolezza del passato. È fondamentale, anzi, in un Paese quale l'Italia: regno unitario dal 1861, ma unificato davvero solo nel 1918: una ricorrenza, quest’ultima, scivolata via sommessamente, come scrivono Pierluigi Romeo di Colloredo-Mels e Marco Cimmino nel numero di “Storia in Rete” ora in edicola: “1918: l'anno della Vittoria”. Quest'ultima fu un traguardo dal costo drammatico, da valorizzare sull'esempio di quanto all'estero fanno alleati ed ex nemici di un tempo, ora uniti nella concorde discorde anima euro-occidentale.
Aldo A. Mola