"Il
Governo ha due doveri, quello di mantenere l'ordine pubblico a
qualunque costo ed in qualunque occasione, e quello di garantire nel
modo il piu' assoluto la liberta' di lavoro."
Il Municipio di Cavour
"Le
leggi devono tener conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un
paese. Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la
gobba anche all'abito."
Tomba della Famiglia Giolitti
"Nessuno
si puo' illudere di potere impedire che le classi popolari conquistino
la loro parte di influenza economica e di influenza politica. Gli amici
delle istituzioni hanno un dovere soprattutto, quello di persuadere
queste classi, e di persuaderle con i fatti, che dalle istituzioni
attuali esse possono sperare assai piu' che dai sogni dell'avvenire."
Il busto di Giolitti
"Agli
uomini politici che passano dalla critica all'azione, assumendo le
responsabilita' del governo, si muove spesso l'accusa di mutare le loro
idee; ma in verita' cio' che accade, non e' che essi le mutino, ma le
limitano adattandole alla realta' e alle possibilità dell'azione nelle
condizioni in cui si deve svolgere necessariamente."
Cavour, la rocca e le Alpi
"Agli
uomini politici che passano dalla critica all'azione, assumendo le
responsabilita' del governo, si muove spesso l'accusa di mutare le loro
idee; ma in verita' cio' che accade, non e' che essi le mutino, ma le
limitano adattandole alla realta' e alle possibilità dell'azione nelle
condizioni in cui si deve svolgere necessariamente."
Archivio 2019 - Proposte
In questa sezione segnaliamo editoriali, articoli, note, recensioni e saggi brevi di interesse.
2020: SIAMO REALISTICI NON VA BENISSIMO, MA POTREBBE ANDARE PEGGIO Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 29 Dicembre 2019, pagg. 1 e 11.
Venditori di almanacchi fallaci Strappare
l'ultimo foglio dal blocchetto esaurito del calendario (quelli di una
volta, di carta sottilissima, con il numero stampato in rosso fuoco
come i bordi dei quaderni dalla copertina nera) induce a
riflettere sul tempo andato, che non vuol dire perduto, e su quello
venturo, forato da cabalistici punti interrogativi. Molti esitano a
guardare il primo gennaio 2020. Prevalgono previsioni pessimistiche, ma
sono più umorali dei bilanci truccati di tante banche da tanti anni
agonizzanti (come tutti sapevano) e di industrie condannate a morte
dall’evanescenza (altrettanto nota) dei loro prodotti. L'unica certezza
dinnanzi al cambio dei calendari è che, per i singoli come per le
Istituzioni, “fugit irreparabile tempus”. Tutto passa. Anche gli
imperi apparentemente più tetragoni hanno piedi di argilla. Senza
abbandonarsi all'amaro sarcasmo del “Dialogo di un Venditore di
Almanacchi e di un Passeggere” del realistico Giacomo Leopardi, da lì
conviene partire per una riflessione sull'anno, o meglio, sui decenni
che ci attendono. Per farlo lasciamo tra parentesi che tanti oggi
vivono di informazioni “ad horas” dalle quali dipendono fortune
gigantesche. È il caso delle borse finanziarie, sospinte da stime su
beni ancora da produrre, di risorse da estrarre, di “realtà”
baluginanti su orizzonti che danno per scontato ciò che non lo è
affatto: pace per taluni, devastazioni belliche per altri, catastrofi
naturali per i più cinici, perché sempre dal Male nasce il Bene o, più
prosaicamente, senza scomodare Zoroastro, il futuro è degli idraulici,
degli elettricisti e di chi argina la rapina dei conti in banca per
opera di abili intrusi nei sistemi di sicurezza, sempre più fallaci
(aggettivo oggettivamente inquietante). Dove ci conduce il Polo Magnetico? Nel
frattempo il Polo Nord magnetico, altra cosa dal Polo Nord geografico,
sta migrando con rapidità sinora imprevista, senza che nessuno sappia
prevederne le sicuramente grevi ripercussioni sulla vita del pianeta e
quindi sugli uomini, ne siano essi edotti o meno (perché, recita
l'“Ecclesiaste” “come lo stolto, così muore il saggio”). Di sicuro
le ricadute della migrazione del Polo Magnetico sono molto più
incalzanti e incontrollabili rispetto alle variazioni dell'inquinamento
ambientale e di quelle climatiche, “realtà” del tutto diverse e
distinte, con buona pace della signorina Greta che, solcando gli Oceani
in catamarano, le confonde, diffondendo suggestioni abbacinanti per i
più, come fosse la quinta cavaliera dell'Apocalisse. Per recuperare
la necessaria serenità valgano alcune premesse all'“anno che viene”.
Anzitutto va ricordato che esso vige per convenzione solo nella parte
del pianeta che usa il calendario “europeo” (le Americhe ne sono un
“derivato”) risalente alla Roma di Caio Giulio Cesare, con tutti gli
adattamenti e le correzioni introdotte col progresso delle scienze,
protette da papi come Gregorio XIII e migliorate grazie a illuministi e
positivisti, sia deisti sia agnostici. Il trascorrere del tempo assilla
chi teme di vedere nello specchio l'infittirsi delle proprie rughe
anziché osservare le screpolature dello specchio stesso o contemplare
monti, convalli e pianure, cieli ora stellati ora tempestosi e le onde
del mare, che toglie e restituisce sabbia, perché così vive il Pianeta. Quando andava meglio tutto era peggio Contrariamente
a quanto opinano pessimisti e catastrofisti odierni, gonfi di “news” ma
talora ignoranti di storia, appena si confronti il presente con i
secoli andati v'è motivo di conforto. Lasciando tra parentesi il
millennio dalla consunzione dell'Impero romano all'Umanesimo, bastino
alcuni eventi che paiono scandire il Tempo con ritmi secolari.
Trent'anni dopo la morte di Dante Alighieri (1321) e mentre fioriva un
prosatore insuperabile quale Giovanni Boccaccio l'Europa intorno al
1348 fu preda della Peste Nera. Ormai estinti i càtari (parte bruciati
vivi, parte ammazzati in massa assieme ai cattolici secondo il benevolo
suggerimento: “uccideteli tutti, Dio poi distinguerà i suoi”), la sua
popolazione non aveva fatto nulla di particolarmente grave per
meritarsi una sciagura di quella portata. Eppure ne rimase preda.
Proprio mentre fioriva l'urbanesimo molte città persero un terzo e
persino metà degli abitanti. Alcuni ne conclusero che si era meno e si
stava più larghi, come da tempo nelle città deindustrializzate e in
decrescita infelice. D'improvviso, anziché assicurare benessere e
sicurezza, la cerchia murata divenne incubo di contaminazione. Ne
rimane eco nel piemontese “contacc”, come ricorda “El Neuv Gribàud.
Dissionari Piemontèis” (ed. Daniela Piazza). Cent’anni dopo venne
arso vivo Jan Hus per “eresia” (1415). Fallirono gli ultimi tentativi
di conciliazione tra la Chiesa ortodossa d'Oriente e nel 1453 Maometto
II conquistò Costantinopoli. In nome del suo dio clemente e
misericordioso menò stragi spaventose, gettando le basi del
Sultanato-Califfato di Istanbul, che ora si ripropone sull'altra sponda
del Mare Nostrum, nell'imbarazzo di quanti ancora deplorano la
sovranità dell'Italia sulla Quarta Sponda, durata da Giolitti a Italo
Balbo, “uomini del Re”. Nel 1520 la cristianità occidentale fu
sconvolta dalla riforma promossa da Martin Lutero. Abbia o non abbia
affisso le sue tesi sulla porta della chiesa di Ognissanti a
Wittenberg e quali ne siano genesi teologiche, dottrinali e
catechistiche, la sua Riforma ebbe conseguenze catastrofiche sotto il
profilo demografico, della distribuzione dei beni, di divisioni e odi
abissali mai del tutto superati, come si percepisce in Stati
artificiosi, quali il regno dei Belgi, l'Irlanda e la stessa Gran
Bretagna, tuttora divisa tra presbiteriani, anglicani e cattolici (a
parte, s'intende, la vasta presenza di islamici e di
indifferenti). Nel 1620 la battaglia della Montagna Bianca
segnò la sconfitta della Boemia (in prevalenza hussita, altra
confessione cristiana) da parte degli imperiali poi capitanati dal
Albrecht von Wallenstein (dedito a culti solari?) e per tre secoli
scomparve dalla storia. Risorse solo dopo la prima guerra mondiale con
il “fratello” Tomas Masaryk il cui figlio, Jan, nel 1948 venne
“suicidato” dai sovietici quando s’impadronirono del suo Paese col
plauso di Togliatti e dei comunisti nostrani. Intorno al 1720 si
registrò uno dei massimi scandali finanziari della storia: una
maxi-operazione di vendita di titoli azionari senza basi produttive,
antesignana della “grande recessione” del 2008. Nel 1820,
quando da appena cinque anni la Restaurazione aveva messo ordine dopo
il caos dell'età franco-napoleonica, iniziarono le insurrezioni
liberali in tutta Europa. Iniziò un secolo di rivolgimenti culminato
con la Rivoluzione russa, l'avvento dei bolscevichi a Mosca, la Terza
Internazionale, la grande offensiva dell'“Armata a cavallo” verso la
Polonia e la sequenza di insorgenze, inclusa l'occupazione delle
fabbriche nel triangolo industriale italiano (settembre 1920) per
inchiodare le forze armate a tutela dell'ordine interno e impedire che
partecipassero alla difesa dell'Europa centro-occidentale contro
l'avanzata sovietica: un giochino che non sfuggì all'occhio di lince e
al naso aquilino di Giolitti. In sintesi, proprio se si volge lo
sguardo al passato, si scopre che in allora si stava molto peggio che
oggi. Più miseria, più fame, più malattie, più guerre, più efferate
atrocità, meno sicurezza individuale e dei singoli Stati. Al netto
delle motivate critiche di cui furono e rimangono bersaglio, i trattati
di pace del 1919-1920 (Versailles, Saint-Germain, Trianon, Sèvres,
Neuilly) ebbero il merito di confermare i confini degli antichi Stati e
di tracciarne altri, scongiurando o almeno rinviando i conflitti
ripresi nel 1938 e fermati solo nel 1948 con l'equilibrio del terrore
tra la Nato da una parte e il blocco di Varsavia dall'altra. Molti si
domandarono: che cosa è mai la repressione dei dissidenti qui e là
rispetto a una guerra con bombe nucleari? La Spagnola sa far così Il
1919, giusto un secolo addietro, fu l'anno della pandemia che cambiò il
mondo. In “1918. L'influenza spagnola” (ed. Marsilio, finalista al
Premio Acqui Storia) Laura Spinney, collaboratrice di riviste quali
“National Geographic” e “Nature”, ne ha ripercorso la “biografia”,
ancor oggi per molti versi oscura. Di certo, mentre le guerre fecero
stragi in teatri circoscritti e lungo un arco di anni relativamente
ampio (almeno 50 milioni di morti nella “guerra dei trent'anni” dal
1914 al 1945) quella febbre maligna falciò da quaranta a cento milioni
di vite in appena un paio d'anni. A suo modo la “spagnola” (che,
malgrado il nome, invero ebbe il brodo di coltura in Asia) fu il primo
frutto della “globalizzazione”. L'Evangelo e l'Islamismo battono il
passo da millenni. I virus invece si diffondono in un attimo. Nei corpi
come nelle reti informatiche. Tutto cambia e tutto rimane esposto alle
infezioni, al “contacc”. Contro la diffusa credenza, la Spagnola
(maiuscola d'obbligo per la Grande Visitatrice di massa) non si propagò
a causa di guerre in corso ma forse da virus usciti da schifezze varie
come lo spiritello dalla Lampada di Aladino: immondizia, animali da
cortile. Ancor oggi ci si interroga sulla “peste”, sempre incombente.
Di sicuro la debilitazione dei corpi segnati dalle ristrettezze che
colpivano le popolazioni di Cina, India e dell'Europa devastata da
conflitti e rivoluzioni concorse a renderla più letale. Ma essa seminò
strage anche in Paesi non direttamente coinvolti in guerre, come gli
USA da New York all'Alaska, il Brasile, il Venezuela, il Sud Africa e
la Spagna, ove, per esempio, nell’isolata Zamora, crocevia con
l'infetto Portogallo, perse la vita il 3% degli abitanti (pare poco ma
vorrebbe dire 30.000 morti “di influenza” in pochi mesi una città come
Torino). Nessuno poteva però chiudere i porti (illusione ricorrente),
imporre quarantene, fermare il rientro dei militari dai fronti di
guerra. Perciò gli epidemiologi concordano nel ritenere che un'altra
pandemia influenzale fatalmente letale è del tutto probabile e
inevitabile, anche se nessuno sa prevedere se farà dieci o cento
milioni di morti. Molto dipende dalla condotta dei singoli, dei governi
e della loro capacità di pensare alto e di guardare lontano, non solo
nella progettazione di nuovi sempre più raffinati e costosissimi
strumenti di difesa e di offesa, ma anche nella prevenzione delle
pandemie: un “nemico” insidioso, impalpabile, che non si ferma con reti
ad alta tensione né con il Vallo Adriano, le Mura Aureliane o, men che
meno, con fiaccolate e giaculatorie.
Che fare? Che cosa può
fare un italiano alle soglie dell'anno che viene? Forse ognuno dovrebbe
attendersi meno dai governi e dalle amministrazioni pubbliche, sempre
più in affanno e con mezzi insufficienti a provvedere le urgenze di un
corpo nazionale esausto, spremuto al limite della sopportazione da una
moltitudine di tasse e balzelli, pedaggi ed esazioni che spesso sono
mera odiosa estorsione (come le capricciose contravvenzioni per
infrazioni risibili di cangianti norme di circolazione, o non
circolazione, su una rete stradale del tutto inadeguata al volume di
traffico). Di certo non è proprio il caso di attendere un condottiero,
un capitano, un caporale. L'Italia ne ha già avuti in passato, con
esiti devastanti. Nel “Corriere della Sera” Ernesto Galli
della Loggia, politologo di chiara fama, deplora la “girandola del
nulla” dei governi, il buropoliticismo, la dabbenaggine e il
dilettantismo di tanta parte della “classe dirigente” e l'inconsistenza
delle novità salvifiche via via affacciatesi in Italia dopo l'eclissi
dei “partiti” sorti all'indomani del fascismo, spazzato via non dagli
antifascisti ma dal Re, come del resto aveva già ammesso storico
comunista Ernesto Ragionieri e ricorda ora Pier Luigi Vercesi in “La
notte in cui Mussolini perse la testa” (ed. Neri Pozza). Secondo Galli
della Loggia è occorrerebbe, “un grande bagno di verità”,
l'ammissione dei gravissimi errori commessi per decenni nei tre ambiti
chiave: la sanità, la scuola, l'ordinamento regionale. Altri potrebbero
aggiungere a buon diritto la spesso balzana amministrazione della
giustizia e lo sfarinamento dei due pilastri dello Stato: la politica
estera e le Forze Armate. Questi ultimi sono stati coscientemente
corrosi, dal 1946 in poi, dalle maggioranze e dalle opposizioni, divise
in tutto tranne che nella rassegnata constatazione che l'Italia aveva
perso la guerra e che la “festa” poteva continuare solo sotto ombrello
straniero. Per risalire la china bisognerebbe riscoprire e
diffondere il senso dello Stato. In Italia abbiamo una pletora di
benemeriti, dediti alla salvaguardia di specie animali e vegetali in
via d’estinzione. Pochi, invece, si dedicano al “bene comune”, che è
garanzia di ogni altra forma di solidarietà. Il Terzo Settore vien dopo
il secondo e soprattutto il primo: porro unum necessarium. Ma da dove
dovrebbe iniziare il nuovo radicamento del “senso dello Stato”? È
un'impresa difficilissima, al confine dell'impossibile nella
babele delle “lingue politiche” oggi imperversante. La “Gazzetta Ufficiale” non è codice morale Vale
d'esempio la “Gazzetta Ufficiale” del 14 dicembre 2019. In “appendice”
vi è pubblicato lo statuto di un “partito” la cui qualifica di “socio
ordinario” è dichiarata “incompatibile con l'iscrizione o l'adesione a
qualsiasi altro Partito o Movimento Politico o lista civica non
autorizzati, nonché l’adesione ad associazione segreta, occulta o
massonica, o ad enti no profit ricompresi tra quelli preclusi...”. Ogni
associazione privata ha diritto di escludere chi non gli garba.
L'Italia pullula di circoli fondati sulla preclusione. Ciascuno vi fa
gli onesti fatti suoi. Però su tale base nessuna associazione ha
diritto di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica
nazionale” (art. 49 della Costituzione). Un “partito” di quel genere
non può pretendere contributi dello Stato, cioè di tutti i
cittadini, e men che meno aspirare a pieni poteri quale onnipotente
partito unico. Chi bandisce come appestati gli associati a Ordini non
in conflitto con la carta costituzionale, quali sono le Comunità
massoniche, non ha titolo per governare l'Italia. È un pericolo per le
libertà di tutti i cittadini: oggi questi, domani quelli e via
continuando. Non sappiamo (se e) quali “album” abbiano letto da ragazzi
i fautori della massonofobia. Forse “Piccoli martiri”, forse i
romanzacci di Léo Taxil, forse i Protocolli dei Savi Anziani di Sion
(inventati dalla polizia segreta della Russia zarista e oggi lettura
abituale nei Paesi islamici). Sappiamo che sono libri deliranti e ne
conosciamo bene le conseguenze. Bisogna stare ben alla larga dai loro
ammiratori di ieri e di oggi. La pubblicazione di uno statuto
partitico nella “Gazzetta Ufficiale” lascia il tempo che trova nella
vita quotidiana dei cittadini che in larghissima maggioranza ne
ignorano l'esistenza; va però detto a futura memoria (compito dello
storico) che, malgrado i suoi crismi, quel “foglio” non legittima la
liceità, la costituzionalità e men che meno la moralità di quanto vi si
stampa. Pare un'affermazione grave. Ma va fatta. Nella “Gazzetta
Ufficiale” del Regno vennero pubblicate le famigerate leggi razziali
approvate dal Parlamento dell'epoca (1938). E allora? Erano forse
“morali”? E sono accettabili eventuali aberrazioni odierne solo perché
pubblicate col sigillo dello Stato? A cospetto del declino
dell'ordine costituito, il 2020 potrebbe essere un anno di riscoperta
della razionalità, ma solo se ci si ferma a “pensare”, a “discernere”
come insegna il gesuita papa Francesco. Dopo il mite paganesimo
rispettoso della riservatezza personale, l'Italia è passata al culto
dei santi, poi a quello del Lotto, agli oroscopi, ai maghi e ora
inclina ad andare... in fumo con l'autorizzazione a coltivare cannabis
per uso personale. E quella di grappa e di foglie di tabacco? A quando
il loro sdoganamento? La parabola del ministro della pubblica
istruzione Lorenzo Fioramonti che voleva sostituire i crocefissi coi
mappamondi dà la misura dei rischi incombenti nel Paese di Tommaso
d'Aquino. Senza aspirare alla “Verità” auspicata da Galli della
Loggia, per affrontare il difficile cammino dell'anno e dei decenni
venturi l'Italia necessità di un lungo bagno di realismo. L'Italia non
ha bisogno di eroi, santi, navigatori, profeti, imbonitori, eccetera,
ma di persone serie, informate, di buon senso. Essa ha bisogno di “più
luce”, come diceva il “fratello” Wolfgang Goethe, che visitò e apprezzò
“il paese dei limoni” e il meglio dei suoi abitanti.
Aldo A. Mola
BORGHI ANTICHI D'ITALIA UN PRESEPE IN CERCA DI RAPPRESENTANZA POLITICA Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 22 Dicembre 2019, pagg. 1 e 11.
Piccoli borghi antichi. “Dilaga
l'elogio dei piccoli borghi...”. Un dodecasillabo. Misera cosa nel
bicentenario dell' “Ermo colle” dell'inarrivabile Giacomo Leopardi. Non
è un verso di Giovanni Pascoli (1855-1912), latinista, dantista e
poeta, che dalle elementari alla vecchiezza ci ha inflitto i “crì crì”
e l'“ora di Barga” e le tante “turbe” che gli venivano dai luttuosi
ricordi di casa e dall'assillante sorella “Mariù”. Non è neppure un
verso di Guido Gozzano (1883-1916: chi ne ricorda le “buone cose di
pessimo gusto”?) e nemmanco del crepuscolare Sergio Corazzini
(1886-1907). È un dodecasillabo pubblicitario. Invita a investirvi
risparmi e senilità perché lì “la vita l'è bela”. Come anche nei “cuori
antichi”delle “grandi città” (una volta i quartieri storici o “
vecchi”). Ma le città hanno ancora un cuore? O sono solo un
guazzabuglio di “borghi” reciprocamente ostili, di fortilizi trincerati
da accessi a ore e a pedaggi sempre più elevati? La modernità
precipita riporta a un nuovo Medioevo. E bisogna contentarsene. Peggio
sarebbe un passo ancor più all'indietro, nella Roma che Nerone (si
narra) mise a fuoco per farla più bella. Per ora nessuno propone
soluzioni così estreme. Anzi, appunto, statistiche della “vivibilità”
alla mano, nella predilezione degli italiani trionfano i piccoli
borghi: impenetrabili, senza parcheggi, sequenze di piazzette e di
stradine umide, dai saliscendi impraticabili per gli anziani che non
avevano previsto artrosi e fitte gottose. Fughe di lugubri
finestre mai raggiunte da un raggio di luce, da occludere con tende
pesanti per ripararsi dall'indiscrezione dei dirimpettai e per non
doverli osservare né sentirne le voci. Ma oggi non è solo l'Italia a
crogiolarsi nel mito microborghigiano, nella nostalgia della contrada,
nella ricorrente esaltazione onirica del “piccolo è bello”(asserzione
del tutto opinabile secondo i Carmina Burana). Elettori, eletti, istituzioni. La nascita di una grande dirigenza L'Italia
è sintesi di innumerevoli “piccole patrie” anche per Giosue Carducci:
una persona seria che insegnò “eloquenza italiana” all'Università di
Bologna e nel 1879 di punto in bianco dichiarò di preferire gli studi
di statistica alla poesia, perché l'Italia aveva - e ha - bisogno di
“fatti” non di “versi” né di “versacci”. È l'Italia delle “cento
città”, cioè dei quasi altrettanti capoluoghi di province, ciascuna
comprendente circondari e distretti, una miriade di cittadine,
comunelli e, appunto, di borghi sparsi. Un tempo, diciamo quasi due
secoli fa (che poi vuol dire appena sette od otto generazioni, uno
spazio temporale modesto), città, comuni e borghi erano governati da
“intendenti” nominati dal sovrano. Dal 1848 nel regno di Sardegna con
lo Statuto Albertino e dal 1861 in quello d'Italia i cittadini elessero
i loro amministratori comunali, provinciali e i componenti della
Camera dei deputati. Il Re rimase re. Nominò i membri del Senato,
vitalizi: scudo della monarchia. La Camera dei deputati, invece, fu
elettiva. Rappresentava i cittadini, non tutti i regnicoli ma quelli
con diritto di voto, in forza di norme elaborate da tre geni superiori
quali Cesare Balbo, Camillo Cavour e Luigi des Ambrois de Névache. Qual era il senso della legge elettorale? Avvicinare gli elettori alle istituzioni. Era
un esperimento. Eleggere significava conoscere il rappresentante,
accettarlo, rifiutarlo. I candidati si combattevano. Con tutti i mezzi
possibili, perché i bravi volevano primeggiare sui migliori e questi
sugli insuperabili. Era una gara tra “pezzi da novanta”, che in pochi
decenni formò una classe politica di livello eccezionale, un miracolo,
studiato a fondo dai fondatori della “teoria delle élites” che ebbe tra
i suoi campioni Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels. La
classe dirigente della Terza Italia risultò uno straordinario impasto
di aristocratici, grandi, medi e piccoli borghesi e di una folla di
“umili genere nati” ascesi a posizioni eminenti. Per un secolo in
Italia funzionò un ascensore sociali senza precedenti se non
all'interno della Chiesa, che da secoli vedeva l'alternanza di principi
e di plebei accomunati dalla Missione. Ma lì interveniva (allora come
oggi) il Creator Spiritus. Le gare politiche, invece, erano dominate
dall'intreccio di ambizioni personali e di senso della “cosa pubblica”:
un garbuglio apparentemente indistricabile, che di fatto era la linfa
vitale dello Stato nazionale, antico e giovane a un sol tempo. Per
comprendere la straordinaria vitalità della Nuova Italia non vi è nulla
di più istruttivo che ripercorrere gli esiti delle elezioni. Nel
1897-1898, cinquantenario dello Statuto, vennero pubblicati i primi
grandi repertori statistici. Di lì a poco il geniale Leone Caetani -
islamista insigne (ancorché la sua famiglia avesse dato papi al Soglio
di Pietro) e marito di una Colonna - impostò il primo dizionario
biografico degli italiani. Un seggio, un collegio: il sistema uninominale Il
“segreto” dell'unificazione al calor bianco della nazione antica nello
Stato nuovo era uno solo: la libera scelta dei rappresentanti alla
Camera dei deputati. Dal 1866 i seggi in palio erano 508 e tali
rimasero sino alle votazioni del 1913. Si susseguirono tre leggi
elettorali e il corpo dei votanti passò da 600.000 a quasi 8 milioni,
ma il rapporto fra territorio e Aula rimase il medesimo: ogni deputato
era eletto in un collegio uninominale, a doppio turno se nella prima
elezione nessuno raggiungeva il quorum previsto dalla legge.
Semplicissimo. Funzionò benissimo. Rimane non esempio ma modello, da
ripristinare. Gli aspiranti all'elezione non avevano bisogno di
“presentatori”. Inizialmente la legge non prevedeva neppure candidature
da parte degli eligendi. Fu il caso del popolarissimo teologo Vincenzo
Gioberti, trionfatore in parecchi collegi senza essersi proposto in
alcun modo. Per essere eletti a volte bastava una manciata di voti.
Rimane celebre il caso di Giuseppe Garibaldi, eletto deputato alla
prima legislatura della Camera subalpina il 1 ottobre 1848, in seconda
votazione, nel collegio di Cicagna: 18 voti su 63 elettori. Elezioni vergognose, ma libere Naturalmente
il sistema si prestava a contese e a brogli d'ogni genere, ampiamente
attestati dalle cronache e dalla storiografia, perché anche all'epoca
talvolta la prosa aveva la meglio sulla poesia. I seggi erano allestiti
in luoghi controllati dai sindaci e dai notabili. Si votava negli orari
comodi per i presidenti di seggio e i loro assistenti, con tutte le
possibili manipolazioni. Le schede erano foglietti alla mercé degli
scrutatori e le urne non erano invulnerabili. Spesso lo spoglio
avveniva alla chetichella, con esclusione di rappresentanti dei
candidati d'opposizione. La proclamazione del vincitore era
improvvisata, soggetta a contestazione solo se lo sconfitto aveva
l'animo di opporsi. Nel trattato su “Il diritto di voto: storia,
dottrina, funzioni” pubblicato nel 1911, mentre Giolitti varava il
suffragio universale maschile, Antonio Casertano, futuro presidente
della Camera dei deputati, scrisse ruvidamente: “Nessuno che sia in
buona fede può negare che le elezioni da noi procedano in maniera
vergognosa, onde il più delle volte l'eletto diventa l'espressione
della violenza o d'intrigo”. Però le cose non migliorarono affatto
quando i collegi uninominali furono sostituiti con soli 54 collegi e
con il il riparto proporzionale dei seggi sulla base dei voti
ottenutivi dai partiti. Lo ha ricordato Marco Follini nel convegno
organizzato il 14 dicembre all'Accademia dei Concordi di Rovigo da
Gianpaolo Romanato nel centenario della “maledetta proporzionale”:
letto di procuste della dirigenza liberale e, in breve, della
democrazia parlamentare, sostituita da una Camera eletta con un
maggioritario debordante (due terzi dei seggi al partito che ottenesse
almeno il 25% dei voti) e poi con la sostituzione della libera scelta
con l'imposizione di un listone “prendere o lasciare”, confezionato dal
Gran Consiglio del fascismo: uno strappo del regime statutario e un
insulto alla libertà dei cittadini. Il ruolo della Massoneria A
quel punto era venuto meno uno dei volani della democrazia liberale
sorta in Italia con l'unità e sopravvissuta agli sconquassi della
Grande Guerra: la massoneria. Poiché nella narrazione e nelle cronache
odierne questa viene identificata con “logge deviate” ed è considerata
sinonimo di intrallazzo, se non addirittura di malavita, è bene
ricordare che essa diede alla storia della Nuova Italia quattro
presidenti del Consiglio (Agostino Depretis, Francesco Crispi, Giuseppe
Zanardelli e Sandrino Fortis), centinaia di ministri eccellenti,
deputati, senatori e una miriade di docenti, professionisti artisti,
letterati (bastino i nomi di Carducci, Pascoli e Quasimodo), prefetti,
militari (inclusi primi aiutanti di campo del re), scienziati,
magistrati e via continuando: tutti accomunati dal proposito di
accelerare la modernizzazione di un Paese che era rimasto per secoli
sotto dominio straniero ed era ancora condizionato da un clero
impermeabile agli spiriti che avevano innovato la Chiesa in Belgio,
Francia, Germania. L'Italia era un Paese “difficile”, con faglie
enormi. Basti ricordare la scomunica dei “modernisti” da parte di un
pontefice per molti versi innovativo, quale Pio X e i tormenti di
Antonio Fogazzaro (1842-1911: se ne rileggano “Piccolo mondo
antico” e “Il santo”), di don Romolo Murri e di Ernesto Bonaiuti. La
Libera Muratorìa (sinonimo di massoneria) italiana sconcerta lo storico
poiché essa fu fautrice del suffragio universale, nonostante l'avvento
del voto di massa mal si conciliasse con il ruolo di una élite. Eppure
grandi maestri come Ettore Ferrari ed Ernesto Nathan scommisero sul
futuro nel solco di Giuseppe Mazzini, in sintonia con il pragmatico
Giolitti: provare e vedere, coniugando prudenza e sperimentazione. Patrioti col grembiulino La
capacità dei massoni nostrani di guardare al futuro, anche a prezzo
della vita, è documentata dal denso saggio su “La Loggia
Garibaldi-Pisacane di Ponza-Hod” (ed. Pontecorboli), scritta da Carlo
Ricotti, docente alla Luiss Guido Carli di Roma, morto lo scorso 16
maggio, e curata dal venerabile dell'Officina, Alfonso Sestito. È il
racconto dell'impresa avviata da Domizio Torrigiani, gran maestro del
Grande Oriente dal 1919, nel 1927 condannato al confino di Polizia
(prima a Lipari, poi a Ponza), promotore della Loggia clandestina
“Carlo Pisacane”, comprendente liberali, repubblicani, socialisti,
comunisti… un ventaglio di patrioti, molti dei quali furono poi attivi
nella lotta di liberazione (1943-1944), imprigionati, torturati nella
prigione di via Tasso a Roma, assassinati alle Fosse Ardeatine: Placido
Martini, Silvio Campanile, Carlo Zaccagnini. Giovanni Rampulla, Carlo
Avolio, Giuseppe Celani, Fiorino Fiorini. Di quella loggia fece parte
anche il generale Roberto Bencivenga, già tra i principali ufficiali di
Luigi Cadorna, storico militare e comandante del Comitato di
Liberazione Nazionale sino all'arrivo degli anglo-americani in Roma.
Tra i suoi affiliati vi fu anche Domenico Rittà (1874-1944) di Monteu
Roero, condannato al confino a Ponza quale esponente di un gruppo
social-democratico che diffondeva ad Alba, Sinio, Canale un foglio
modesto ma fastidioso per il regime di partito unico: l'“Altoparlante”.
Erano uomini usi a capire che ogni torre è fatta di mattoni, uno
sull'altro e la Piramide poggia sulla base. L'intreccio
fra minoranze colte, dedite agli ideali di Patria e di affratellamento
tra le nazioni, va ricordato mentre si discute di legge elettorale,
senza dimenticare che le riforme devono servire al paese e non alle
fazioni. Ma quanto faticano a capirlo i capi-partito? Eppure questa è
la voce che sale dalle “piazze”: non solo da quelle “piene”, ma
soprattutto da quelle “vuote”, dalla maggioranza di cittadini che non
segue più le cronache dei “Palazzi” e riscopre riti antichi, come il
presepe. Agogna a quiete e raccoglimento. Perciò mai come quest'anno
anche l'Italia ha ansia di un Natale tranquillo. Oltralpe infuria il
caos, dall'Inghilterra, in piena Brexit e deflagrazione del Regno Unito
di Gran Bretagna e Irlanda, alla Francia, dalla Catalogna alla Germania
dilaniata da opposti estremismi. È l'ora della politica grande e di
lungo respiro. L'alternativa è l'implosione della democrazia
parlamentare. Quod non est in votis..., dato il prezzo pagato dagli
italiani per l'unificazione nazionale e per la riconquista delle
libertà garantite dalla Costituzione nel solco dello Statuto Albertino.
Aldo A. Mola
DUE ANNI DOPO VITTORIO EMANUELE III E LA REGINA ELENA A VICOFORTE Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 15 Dicembre 2019, pagg. 1 e 11.
Requiescant in pace... Finalmente
insieme. Finalmente in Italia. Finalmente in pace. Era il 15-17
dicembre del 2017, due anni orsono. Tre governi fa. Presidente del
Consiglio era Paolo Gentiloni, ora l'italiano più rappresentativo nella
Commissione europea. Da quei giorni di due anni fa le salme di Vittorio
Emanuele III e di Elena di Savoia sono congiunte ai lati dell'altare
nella Cappella San Bernardo del Santuario-Basilica di Vicoforte,
diocesi di Mondovì, provincia di Cuneo, cuore del “Vecchio Piemonte” a
loro particolarmente caro. Era la terra incontaminata, quella delle
rare intense “vacanze”, tra Racconigi e Pollenzo, Sant'Anna di Valdieri
e la miriade di “piccoli borghi” che alla Regina ricordavano il suo
originario Montenegro. Una luce nella notte: la Regina da Montpellier a Vicoforte Per
primo arrivò il sarcofago della Regina, quasi il Consorte le avesse
dato la precedenza, con l'eleganza che le usava nella consuetudine di
Casa, quando le recava mazzi di viole campestri da lui stesso raccolte,
al di fuori del protocollo di Stato. Era ormai buio fitto quando il
furgone funerario giunse da Montpellier il 15 dicembre 2017. La sua
estumulazione era iniziata alle 7.30 nel cimitero Saint-Lazare alla
presenza di Luca Fucini, componente della Consulta dei senatori del
Regno, appositamente delegato, e del “maire” Philippe Saurel, che sul
feretro racchiudente la cassa di zinco appose la coccarda francese e la
targa “Reine Elena di Savoia, 1873-1952”. Venne chiesto un minuto di
silenzio “à la mémoire de la Reine”. Fu l'omaggio della città alla
Regina d'Italia che, vedova dal 1947, vi aveva trascorso gli ultimi
tempi della lunga vita dedicata alla beneficenza, agli studi, alle arti
a fianco del Consorte, Vittorio Emanuele (11 novembre 1869-28 dicembre
1947). All'epoca principe di Napoli, il futuro re d'Italia, ottenuto il
placet da Umberto I come da “regie patenti”, nella lontana estate del
1896 l'aveva chiesta in sposa al padre, Nicola Petrovic-Niegos,
principe e poi re del Montenegro, di osservanza ortodossa. Cresciuta a
contatto con la corte dello zar di Russia, nel viaggio dalla terra
nativa a Bari la principessa Elena aveva optato per la confessione
cattolica apostolica romana, “sola religione dello Stato” in forza
dello Statuto promulgato da Carlo Alberto di Sardegna il 4 marzo 1848.
L'estumulazione fu ripresa dalle reti televisive “France 3” e da
“Monpellier Actualité”, presenti cronisti informati dalla “mairie”,
anche in vista di una conferenza stampa indetta dal sindaco,
opportunamente fatta differire alle 18. Quasi otto ore dopo la
partenza, la salma fu accolta a Vicoforte dal conte Federico Radicati
di Primeglio, nell'agosto precedente delegato dalla Famiglia Savoia
“per tutti gli atti necessari a estumulazione, traslazione e
ritumulazione” delle salme di Vittorio Emanuele III e della Regina “in
Italia”: un funerale privato, per motivi comprensibili e condivisi
tutelato dal massimo riserbo. Presenti il sindaco di Vicoforte, Valter
Roattino, l'architetto Claudio Bertano (al quale si deve il disegno
delle arche funerarie, approvato dalla Sovrintendenza competente), uno
storico da anni dedito alla complessa impresa e un Consigliere che non
era osservatore ma tramite di alta volontà, il Rettore del Santuario
monsignor Meo Bessone impartì la benedizione. L'impresa funebre
di Flavio Tallone (che scoprì solo leggendo le lapidi delle arche quali
“personaggi” stessero arrivando) provvide alla laboriosa estrazione del
sarcofago dalla cassa appositamente predisposta, la sua deposizione
nell'avello e la sovrapposizione dell'arca sovrastata dalla Stella
d'Italia. “Libro sacro” alla mano, nel silenzio degli astanti il
Rettore ricordò i motivi profondi dell'accoglienza dovuta alla regina,
ornata dalla Rosa d'Oro della Cristianità conferitale da papa Pio XI.
Altri, di seguito, disse che per essere lieti dell'evento non è
necessario essere monarchici, basta sentirsi italiani, perché il
ricongiungimento delle salme del Re e della Regina in patria alimenta
la consapevolezza del passato e la concordia nazionale nella visione
solenne e pacificante della Storia. “Quod erat in votis” da anni e fu
possibile per congiunzione astrale. “Non nobis, Domine, sed Nomini
tuo...” dicevano i Templari. La Principessa e il Presidente Informata
dell'imminente arrivo della salma della Nonna da Montpellier a
Vicoforte, la Principessa Maria Gabriella di Savoia comunicò all'Ansa
(sede di Parigi): “A nome e per conto dei discendenti dei Sovrani che
vissero cinquantun anni di matrimonio in unione con gli Italiani nella
buona e nella cattiva sorte e mentre ricordo mia zia Mafalda, morta
tragicamente nel campo di concentramento in Germania, ove era stata
deportata dai nazisti, esprimo profonda gratitudine al Presidente della
Repubblica, Sergio Mattarella, che ha propiziato la traslazione delle
Salme dei Nonni in Italia, in prossimità del 70° della morte di
Vittorio Emanuele III avvenuta in Alessandria d'Egitto il 28 dicembre
1947 e nel centenario della Grande Guerra, per la composizione della
memoria nazionale”. Del tutto inattesa, la “notizia” irruppe in
Italia e aprì i telegiornali, a conferma che l' “evento” non era
affatto “marginale”. Era storia. Ma, ... e il Re? Era ancora tumulato
nel retro dell'altare della chiesa di Santa Caterina ad Alessandria
d'Egitto o era già alla volta della patria? I “media” dettero per
scontato che la traslazione della sua salma fosse ormai in corso. Così
avveniva, in effetti, con una lotta contro il tempo perché a
Montpellier era stato rotto il riserbo. La mattina del 17 dicembre sul
sagrato del Santuario-Basilica di Vicoforte, dinnanzi all'immensa
suggestiva Palazzata, si affollarono giornalisti e operatori di reti
radio-televisive nazionali e locali. Molti vi arrivarono per la prima
volta e ne rimasero affascinati. Non trapelò alcuna informazione
precisa (il feretro sarebbe giunto, e a quale ora, a Genova? A Cameri?
In realtà l'aereo atterrò a Levaldigi) sino a quando, verso le 12, in
una luce vivida per il contrasto tra l'azzurro del cielo e la neve e il
verde della cupola di rame della Basilica, giunse il furgone con il
feretro di Vittorio Emanuele III, subito avvolto nella bandiera
sabauda, recata da Maurizio Bettoja, membro della Consulta dei senatori
del regno e cavaliere melitense, che, in vista di un futuro eventuale
regio funerale, era casualmente a Vicoforte con i paramenti
indispensabili per le esequie regali. Seguito dal prefetto vicario
di Cuneo, Maria Antonietta Bambagiotti e dal “consulente”, in pochi
minuti il sarcofago fu recato nella Cappella San Bernardo, adagiato su
manto aureo sormontato da corona posta su cuscino purpureo e vegliato
da quattro Carabinieri, con assistenza del delegato della Famiglia,
conte Radicati, a sua volta in arrivo da Alessandria d'Egitto (ove si
era tempestivamente recato da Vicoforte), presenti due Consiglieri
aulici. Mentre le spoglie del re venivano calate nell'avello alla
destra dell'altare della Cappella, un caporale della Fanfara della
Brigata Alpina “Taurinense” suonò il “Silenzio”: onori militari dovuti
al re d'Italia, capo delle forze di terra e di mare, cittadino italiano
morto all'estero nella pienezza dei suoi diritti civili e politici il
28 dicembre 1947. Un percorso di sette anni La
tumulazione delle salme dei Reali d'Italia fu il punto di arrivo di un
lungo percorso. Il 19 marzo 2011, 150° della proclamazione del regno
d'Italia, il Santuario-Basilica di Vicoforte venne individuato quale
sede idonea ad accoglierle le spoglie dei sovrani nel corso di una
seduta della Consulta nel Palazzo della Provincia di Roma, presente e
annuente la Principessa Maria Gabriella di Savoia, sua componente. Il
22 aprile 2013, sentiti il consiglio di amministrazione del Santuario e
il rettore, mons. Bessone, il vescovo di Mondovi, Luciano Pacomio,
rispose alla proposta di accogliere le salme presentatagli il 10
gennaio precedente dalla Principessa e dal presidente della Consulta.
Ricordato che a volere l'edificazione del Santuario quale mausoleo
della Casa nel 1596 era stato Carlo Emanuele I, duca di Savoia dal 1580
al 1630, e che esso “è un insigne monumento nel panorama artistico del
nostro paese e a livello internazionale, alle cui origini è doveroso
iscrivere l'intervento fattivo e a più riprese manifestato della
famiglia Savoia, il vescovo, teologo e prestigioso storico del
catechismo, accolse l'“aspirazione a riunire le Salme dei Reali,
mantenendo il profilo strettamente privato della traslazione, così come
manifestato nella richiesta citata e in sintonia con le finalità
spirituali della Basilica”. Suggellò l'assenso e avvalorò l'iniziativa
alla luce del Salmo 39,13: “Siamo tuoi ospiti, pellegrinanti, come
tutti i padri nostri”. Nell'aprile 2017, anche a nome delle sorelle,
Vittorio Emanuele di Savoia, principe di Napoli, e la principessa Maria
Gabriella espressero al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella,
il desiderio che le salme dei nonni fossero congiunte “in Italia”. Chi
era stato sovrano di circa 8.000 comuni poteva trovar pace in qualunque
lembo di un Paese che egli aveva perlustrato da un capo all'altro e
conosceva a menadito, con memoria formidabile di ogni suo campanile. La
stessa dedicata al “Corpus nummorum italicorum” e agli studi di storia
e geografia, che lo accreditarono ripetutamente arbitro di complesse
controversie internazionali. I fati vollero che la disponibilità
della Cappella coincidesse con la decisione del Presidente della
Repubblica di propiziare la traslazione nei modi a suo tempo indicati
dal vescovo Luciano Pacomio: un “gesto umanitario” e, al tempo stesso,
un funerale “privato”, dalle procedure complesse e impegnative, sia
perché le spoglie giacevano in due Paesi di due diversi continenti
(Alessandria d'Egitto da tempo era teatro di assalti di fondamentalisti
islamici a chiese di rito copto), sia per le impegnative norme preposte
per la sepoltura di “resti di persone meritevoli di speciali onoranze”
al di fuori dei cimiteri comunali e di cappelle private, sia perché
nulla doveva turbare il funerale “dovuto” e al tempo stesso riservato.
Quanti si adoperarono per il suo buon esito erano consapevoli che il re
era (e rimane) al centro di valutazioni disparate, anche polemiche e
persino di invettive. Di lì l'assoluto riserbo mantenuto nei
preparativi e nell'attuazione. Nulla di “occulto”, nessuna
“cospirazione”, solamente il rispetto che si deve ai defunti. Lo Stellone d'Italia al di là delle prevedibili “reazioni” Come
previsto, l'“evento” suscitò onde polemiche. Alcuni “istituti di
storia” e taluni portavoce di comunità religiose ribadirono la
“damnatio memoriae” del sovrano e deplorarono che le salme fossero
state revocate dall'“esilio” al quale il re e la regina erano stati
condannati. In verità, come già detto, Vittorio Emanuele III morì tre
giorni prima che entrasse in vigore la Costituzione (1° gennaio 1948) e
quindi da cittadino di pieno diritto, inclusi gli onori dovuti a tutti
i militari, ovunque morti. Più acri furono le animadversioni
dichiarate da “monarchici” secondo i quali Vicoforte (“chiesetta di
campagna” a detta di qualcuno che non l'aveva mai veduta neppure in
cartolina) sarebbe una locazione “provvisoria”e le salme dovrebbero
essere tumulate al Pantheon, quasi il Tempio di Menenio Agrippa non sia
esso stesso tomba a suo tempo scelta per ospitare le spoglie di
Vittorio Emanuele II (“Padre della patria”) e di Umberto I (assassinato
a Monza nel 1900) in mancanza in Roma di un Mausoleo dei re, quale poi
fu il Vittoriano, completato nel 1927 ed elevato ad Altare della Patria
dopo la Grande Guerra con la deposizione del Milite Ignoto. Più
incomprensibili risultarono le riserve di chi, con concezione curiosa
della devozione, dichiarò che non si sarebbe mai più recato a pregare a
Vicoforte e di taluni che lamentarono di non essere stati
preventivamente informati della traslazione, invero avvenuta in assenza
di chi, come la Principessa, aveva dedicato anni alla sua
realizzazione. I naviganti andarono nella direzione giusta guardando la
Stella incisa sulle Arche dei sovrani. Come la Polare, a volte appena
si intravvede. Ma è sempre là, per chi ha a cuore la continuità
dell'“Italia”, la sua solennità e le sue tante traversie dalla recente
costituzione: lo “Stato” giovane nel quale prese forma una “nazione”
antica, l'“Itala gente da le molte vite”, come scrisse Giosue Carducci,
che a Vicoforte andò con Umberto I allo scoprimento del monumento di
Carlo Emanuele I. Lì si respira l'aria pulita che da ventiquattro mesi
circonda la cappella di San Bernardo e assicura ai sovrani il silenzio,
il raccoglimento, la serenità che deve circondare chi fu protagonista
della Storia: un Uomo che fu ed è misura di tutte le cose, di quelle
che sono per quello che sono e di quelle che non sono perché non
sono.
Aldo A. Mola
1967-1968 LA LUNGA VIGILIA DEGLI “ANNI DI PIOMBO” Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 8 Dicembre 2019, pagg. 1 e 11.
Quando lo Stato sembrò vacillare. Vigilia
della strage nella Banca dell'Agricoltura a Piazza Fontana nel cuore di
Milano, 12 dicembre 1969. Come di rito, il cinquantenario è sommerso da
rievocazioni, libri, “memorie”. In sintesi, mezzo secolo dopo il
“fatto” abbiamo una verità processuale (approdo di vari e controversi
procedimenti giudiziari), molte e contrastanti interpretazioni
“politiche”, nessuna opinione condivisa né una certezza storiografica.
Come deplora Gianni Oliva in “Anni di piombo e di tritolo. 1969-1980”
(ed. Mondadori), giovani e meno giovani dai “media” vengono
appassionati a Cleopatra, ai Borgia, ai Medici più che alla storia
contemporanea, cioè alla comprensione del loro tempo. Angosciati dalla
quotidianità (come avverte il preoccupante rapporto del Censis), gli
italiani si rifugiano nel passato remoto o nella cura del corpo,
ripiegati tra incertezza e frustrazioni, e coltivano il mito dell'“uomo
forte al comando”, come non ne avessero già avuto uno con conseguenze
catastrofiche. Immergersi in “mondi lontani” rinvia il fastidio di fare
i conti con un passato imbarazzante, di ambiguità, compromessi,
rassegnazione. Ma la strage del 12 dicembre 1969 davvero fu l’inizio
programmato della “strategia della tensione”? Ideata e pilotata da chi?
La sequenza degli eventi è nei fatti, ma non era scritta in alcun libro
del destino, né, meno ancora, è identificabile con un “progetto”. A
distanza di mezzo secolo è giusto ripercorrerli e accostarli, fermo
restando, però, che le congetture non sono prove, né, quindi Storia. Un
lustro dopo quel tragico dicembre 1969 l'Italia imboccò una via
accidentata. Rimane tuttavia da documentare il nesso non solo
logico-cronologico ma anche fattuale tra il prima e il dopo. Dal 1974
seguirono il sequestro del magistrato Mario Sossi (da poco mancato ai
vivi), poi lo stillicidio delle Brigate Rosse, via via sino al
sequestro e all'assassinio di Aldo Moro (1978), e poi altri cinque anni
di delitti eccellenti, da Mino Pecorelli, che in grembiulino e guanti
bianchi scriveva troppo, a Carlo Alberto Dalla Chiesa, che aveva
dedicato la vita a servire lo Stato. Un quindicennio. Una lunga guerra
oggi dimenticata ma viva nella carne di chi la combatté, come Antonio
Brunetti, che ne ha scritto in “I 31 uomini del Generale” (ed.
Luni). La Storia non è profezia del passato: una narrazione
che parte da una data e pretende di allineare i fatti risalendo
all'indietro come se una Volontà unica planetaria abbia deciso e
governato ogni passo di ogni paese. Questa è una visione mistica, con
un piede nel Provvidenzialismo, un altro nel Complottismo, che poi sono
due facce di una stessa medaglia, cioè la convinzione che il Mondo sia
negli artigli di un Grande Vecchio, nei tentacoli di una Piovra.
È la fiaba dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, che tuttora fanno
testo in Iran e in tanti paesi islamici, come nelle fantasie di borghi
europei e pur anco nostrani. Il Sessantasette e le sue radici In
Italia il “Sessantotto” iniziò nel 1967. Il Bel Paese è sempre stato
all'avanguardia. Anche nell'oblio di sé. Schiacciata sul presente,
ancor oggi ha il chiodo fisso del “fascismo”, un “oggetto” misterioso
per i “fascisti” stessi e comunque morto e sepolto, e ignora la storia
di ieri e dell'altro ieri. Ma che cosa fu il Sessantotto in Italia e
che cosa furono gli anni seguenti? Nella narrazione usuale il
Sessantotto è la fotografia di ragazze più spigliate di prima (come in
Italia non lo fossero mai state sin dagli Etruschi o nella Firenze del
Rinascimento) e di capigliature maschili disordinate, unte e un po'
ributtanti. In Italia quel 1967 iniziò quasi in sordina con
assalti e “okkupazioni” di siti inviolabili e quindi impreparati
all'assalto. Tutto cominciò con l'Università di Trento, bacino di
coltura del contagio. Vi si laureò anche un futuro gran maestro
massonico. Intimiditi, tanti “colti” rimase afoni e poi si divisero.
Aleggiava lo spettro di Giovanni Gentile...Persero di autorevolezza.
Pochissimi intuirono quanto stava avvenendo. Non accadeva per
endogenesi ma per eterogenesi. Il bacillo arrivava da lontano. La
“protesta” nostrana riecheggiava quella intrapresa negli Stati Uniti
d'America da parte di giovani decisi a non farsi intruppare nella
guerra che da anni Washington conduceva (senza dichiarazione) contro il
Vietnam con metodi brutali e senza un obiettivo strategico condiviso.
Dinnanzi alle immagini di quanto avveniva molti giovani, anzitutto
studenti, si sottrassero alla “missione” imposta: uccidere anche a
sangue freddo, bombardare senza domandarsi chi fossero le vittime. A
cose fatte “Apocalypse now” ha narrato i molti volti dell'“orrore”.
Dagli USA la rivolta contro la “stupidità militare” passò in Italia, un
Paese che cinque anni prima aveva imboccato con modesti esiti la via
del centro-sinistra con i governi Moro-Nenni. L'Europa era imbalsamata. Se
non si ricordano per fila e per segno “fatti” e protagonisti, “voci” e
“miti” non si capisce quanto accadde. Nel 1965 Renato Panzieri pubblicò
i “Quaderni Rossi”. Raymond Aron prese le distanze da Jean-Paul Sartre.
Ceausescu s'impose alla guida della Romania, subito vezzeggiato
dall'“Occidente”. Da Cuba “El Che” Guevara, non proprio un'“anima
bella”, andò in Bolivia per incendiare l'America meridionale. Nel 1966
il Tribunale internazionale Russell (Stoccolma) condannò gli USA per i
crimini in Vietnam. Nasser (Egitto), Tito (Jugoslavia) e Indira Gandhi
lanciarono la carta dei “neutrali” (ognuno dei tre attuava politiche
repressive nel proprio paese, ma veniva elogiato quale campione di
pacifismo). Nel marzo 1967 in Francia uno sciopero generale travolse
il governo Pompidou, costretto alle dimissioni. Un mese dopo i militari
assunsero il potere in Grecia. Con la guerra dei sei giorni Israele
annientò le forze dei paesi confinanti. Il 21 ottobre sfilò a
Washington un’imponente “marcia per la pace”. Il 27 novembre a
Torino decine di studenti occuparono Palazzo Campana, sede delle
facoltà umanistiche, le più vulnerabili e, in prospettiva, meno
rilevanti rispetto a Politecnico e ad Economia e Commercio. Fu la
svolta, anche perché tra i “militanti” vi erano figli di “ottimati”
della borghesia antifascista e democratica. Il paradosso è che (a
differenza di quanto era accaduto nel 1917-1922) i nuovi rivoluzionari
non volevano fare “come in Russia” ma “come negli USA”. Volevano “più
Occidente”. Ma quale? Il verbo novello era diffuso da Régis Debray, dai
“Cantos” di Ezra Pound e da Blow-up di Antonioni. Parola d'ordine:
“trasgredire”. Acuto e lungimirante il giovane giornalista Walter
Tobagi un anno dopo pubblicò la storia del movimento studentesco e dei
marxisti-leninisti in Italia (SugarCo). Si domandava se esso fosse
espressione dei ceti medi proletarizzati o ala sinistra degli
operai. Diffuso a macchia di leopardo, il “movimento” dapprima
si propose quasi timidamente come “contestazione”, formula equivoca,
dagli obiettivi minimali: assemblee autogestite, con intervento di
“oratori” estranei al corpo docente, retrocesso ad anticaglia.
Psicologicamente impreparati, di rado i “professori” reagirono e
rivendicarono il loro ruolo. Poiché non ottenne risposte alle
loro fatue richieste, il movimento passò ai fatti. Le okkupazioni e la
voglia di scontri con le forze dell'ordine. Dal pensiero (quale?)
all'azione. L'importante era “stare in piazza”. Esserci. Protestare:
“Crear dos, tres muchos Vietnam” come predicato da Guevara (passato per
le armi l'8 ottobre 1967). La crisi della Repubblica nel “Diario” di Adolfo Sarti Nel
1968 le agitazioni giovanili esplosero in Giappone, Germania, ancora
Francia e quindi Italia. I loro capifila (come Dutschke) pareva
dovessero guidare il mondo per decenni. Oggi sono dimenticati, come la
generalità dei loro emuli nostrani. In Francia De Gaulle represse
duramente la rivolta studentesca esplosa alla Sorbona e a Nanterre,
dalla quale prese nettamente le distanze lo storico Ruggiero Romano,
all'epoca direttore della Maison d'Italie e “proche compagnon” del
Maestro della storiografia europea Fernand Braudel. Benché fallito,
il “movimento” si erse a “potere studentesco”, arido isolotto
dell'arcipelago di “potere operaio” e di quanto poi ne nacque per vasi
comunicanti. In un liceo di provincia un docente non si oppose affatto
alla protesta degli studenti, ma ne chiese la severa punizione:
una lezione di educazione civica. Dovevano capire che le norme
sono norme e che se le si vuole abbattere occorre avere un progetto
sostitutivo. Diversamente si genera solo il caos, a tutto vantaggio
dell'anti-politica. Le piazze sono solo uno spazio: per condottieri,
capipopolo, teatro dei pupi. Ma la dirigenza era all'altezza del
compito storico? Nel “Diario” ancora in massima parte inedito il
quarantunenne Adolfo Sarti, democristiano e sottosegretario all'Interno
dalla carriera folgorante sino al 1981, quando risultò affiliato alla
P2, all'inizio del 1969 annotò: “Mi sento sempre più reazionario”. Il 9
novembre aggiunse: “C'è un morto a Milano, ma nella polizia, insieme a
decine di feriti. Questo è il primo bilancio dello sciopero generale.
Però ci sono cose anche più gravi. Un reparto della polizia (…) a
Milano si è ammutinato, protestando contro le autorità che impongono di
esporsi a pericoli gravi senza difendersi (oltre a negare retribuzioni
più eque)”. Due giorni dopo scrisse: “Taviani ritiene inevitabile
la guerra civile. Personalmente ho provveduto a tutto...”, come si
legge in “Adolfo Sarti e la crisi della Repubblica” di Paolo Acanfora
(il Mulino). Era ovvio che il peggio dovesse venire. Non per la
tracotanza di studenti senza meta, ma per disorientamento della
dirigenza. Ci vollero anni prima che lo Stato riaffermasse la propria
identità di suprema salute dei cittadini. Il Sessantotto: ombra di un sogno fuggente... Come
tutti i sommovimenti planetari, anche il “Sessantotto” ebbe radici,
versioni, durate e ripercussioni diverse da Paese a Paese. In breve
sintesi, Giovanni XXIII indisse il Concilio ecumenico Vaticano II,
tuttora da delibare nelle conseguenze ultime, come da opposte sponde
ripetono Roberto De Mattei e i postconciliari, in attesa che papa
Francesco tragga la sintesi. Alle spalle il Sessantotto aveva altri due
desaparecidos di rango mondiale: Nikita Kruscev nell'URSS, defenestrato
nel 1964, e John F. Kennedy, assassinato a Dallas in circostanze
tuttora oscure. Negli USA la “rivolta” giovanile (mai “rivoluzione”) fu
la risposta alla guerra del Vietnam e agli scandali politici in corso.
Lo si vide di lì a poco con le forzate dimissioni di Richard Nixon. In
Francia e Belgio il Sessantotto fu il contraccolpo della
decolonizzazione (gli orrori delle guerre in Algeria e nel
Congo). L'Italia, rovinosamente sconfitta nella seconda guerra
mondiale e lacerata sia dalla guerra civile sia dalla pluridecennale
contrapposizione muro contro muro tra Democrazia Cristiana e Fronte
popolare socialcomunista, viveva tra l'incudine del clericalismo
tardo-ottocentesco, completo di riti più superstiziosi che religiosi
(alcuni perdurano), e alla ancora mitica attesa dell'Armata Rossa
(plaudita anche da una parte dei socialisti per quanto i carri armati
sovietici fecero in Ungheria nel 1956). Ci vollero quasi dieci anni per
passare dal centrismo corretto con dosi ematiche di liberali,
repubblicani e socialdemocratici (De Gasperi-Pella) al Centro-sinistra
organico (Moro-Nenni, dal 1963 al 1968), che perciò nacque con la
palpebra abbassata dalla nascita. La parola d'ordine era: rinviare per
svuotare. Come mostrò la mancata fusione tra PSI e PSDI, con la
fuoriuscita del PSIUP proprio quando l'unità socialista avrebbe potuto
voltar pagina nella storia d'Italia. Ci provò ancora Bettino Craxi, la
cui memoria nel ventennale della morte stenta a farsi spazio. Né una
via né una piazza. Forse una targa ricordo? O una “grazia” post mortem?
È l'Italia di Scipione l'Africano, morto in esilio, e di Marco Tullio
Cicerone che offrì il collo ai suoi assassini mormorando: “Moriar in
patria saepe servata”. Il Sessantotto fu lo scossone impresso a un
sistema istituzionale e politico-partitico esausto, svigorito, incapace
di rinnovamento culturale-religioso dal proprio interno, col freno a
mano sempre tirato: Paolo VI, Aldo Moro, Enrico Berlinguer..., i
governi Rumor e Andreotti. Sopravvisse a se stesso perché non aveva
alcun vero progetto. Non c'era. Era un mito, la chiacchiera di chi
aveva creduto di essere in trincea, ma in realtà passava dalla panchina
al prato. La sua leggenda serviva per richiamare a coorte gli sbandati
di una “borghesia” frastornata, inconsapevole di sé, avvolta in un
benessere la cui faticata matrice sfuggiva ai più. Molti pensavano
fosse merito proprio anziché dell'inquadramento dalla parte meno
scomoda della grande storia. Dieci anni dopo, nel 1978-1979 la
spinta verso l'ammodernamento che, faute de mieux, passò sotto il nome
di Sessantotto svanì tra attentati mortali, morti naturali e la
richiesta di Ugo La Malfa di introdurre la pena di morte contro i
terroristi politici e con l'avvento del “grande centro” (dal PLI al
PSI): l'immobilismo e, in risposta all'inerzia pubblica, il rifugio nel
“privato”, che oggi, dopo altri decenni di inconcludenza, si esprime
con la allarmante diserzione dalle urne: un sessantottismo capovolto,
reso più “adulto” (o più cinico) dalla delusione nei confronti
del sistema istituzionale, ancora indulgente verso movimenti, gruppi
e/o il “poetare” in libertà: insetto preferito le cicale. Il
Sessantotto espresse il sogno ingenuo che per migliorare il mondo,
tutto e subito, basti scrollare l'albero. Nel tempo si constatò che le
grandi promesse (ONU, “Europa”, la Cuba di Castro e Guevara, la Cina di
Mao, gli USA...) erano un elenco di problemi, la cui soluzione avrebbe
richiesto “più politica” e “più scienza”, ma libere da fatue attese di
Miracoli e lontane dal ricatto del potere: una scommessa oggi perdente. Nell'attesa della Cometa ... Infine,
la matrice profonda del Sessantotto fu il superamento dell'“equilibro
del Terrore”, l'esorcizzazione della guerra nucleare incombente. Ma ora
che la proliferazione della “Bomba” è una realtà scontata (ed è causa
di maggior incubo, perché ne è meno possibile il controllo) e la guerra
è passata da quegli arsenali alla cibernetica, ci si rassegna a un
super-potere mondiale in cambio di un po' di sicurezza per la mera
“durata in vita”. Perciò in un Paese a noleggio, qual è l'Italia (che
sta all'Europa odierna come il ducato di Parma e Piacenza stava
all'Italia di metà Ottocento, politicamente e militarmente
irrilevante), il Sessantotto è il trapassato remoto... Per dirla col
Jaufrè Rudel di Giosue Carducci, “è l'ombra di un sogno fuggente”. Come
tutti i sogni svaniti, non suscita più alcuna passione e neppure
nostalgie. Semmai è un antidoto dinnanzi ai nuovi baluginanti
sessantottismi di chi marcia salmodiando con lo sguardo incattivito
contro la Scienza e il Progresso e invita ad andare a vento anziché a
vapore. Tra le nuvole. In Cielo si annuncia il passaggio imminente di
una Cometa in arrivo da una costellazione remota. Per alcuni è
annuncio di gioia; per chi sa quei Corpi vaganti sono sempre stati
presagio di sventure. Ma che cosa di peggio può ancora riservarci la Storia?
Aldo A. Mola
L'ANONIMO “UOMO DELLA A6” E LO STELLONE D'ITALIA Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 1 Dicembre 2019, pagg. 1 e 11.
Sic transit..., se va bene: sino a quando? È
passata una settimana. Tutto, o quasi, sembra tornato nella “norma”,
cioè nella precarietà permanente delle nostre infrastrutture. La
memoria, tuttavia, torna alle 14 di domenica scorsa, 24 novembre 2019. Un
Uomo spalanca e agita le braccia. Fermi tutti. Alle spalle ha il
baratro che si è aperto sul tratto dell'“autostrada” Savona-Altare, la
A6, poco oltre l'imbocco verso il Piemonte. Il ponte “Madonna del
Monte”, quasi una giaculatoria, non c'è più. Una frana ne ha abbattuto
il pilone centrale e spezzati altri quattro, tutti sommersi nel fango.
Per via del giorno festivo, dell'ora prandiale e del tempaccio, il
traffico è poco. Ma chi viaggia in quelle condizioni lo fa per filare
più svelto, malgrado la pioggia battente. Meno del diluvio dei due
giorni precedenti, ma ancora tanta. L'uomo ha frenato un
attimo prima di precipitare nella voragine di trenta metri, dove sino a
poco prima c'era il viadotto della Madonna. Appena sfiorato dalla
Grande Visitatrice in un attimo ha deciso. Non ha badato a se stesso ma
agli altri, a quanti correvano il rischio al quale era appena scampato.
Lì, a braccia tese come l'Uomo di Leonardo da Vinci inciso nella moneta
da un euro, è entrato nelle cronache. Da anonimo, però. Alcuni salvi
grazie a lui hanno rilasciato scarne dichiarazioni, poche parole
gravide di emozioni e di tensione. Al casello di Savona il bigliettaio,
ancora ignaro, riscuoteva il pedaggio di chi da poco aveva lasciato
alle spalle il baratro. Sul lato opposto la distribuzione di ticket
d'accesso procedeva come nulla fosse. Spalle al vuoto, l'uomo
della Ragione, incarna l'“altra Italia”, non quella di istituzioni
ingrigite, assenti e afone, di maggioranze, opposizioni, movimenti,
marciatori salmodianti, eccetera eccetera. È uno che si faceva i fatti
suoi, non viaggiava certo per il piacere di sentir tamburellare la
pioggia di fine novembre sulla capotte. Nel momento decisivo ha agito
per il prossimo. Non si è domandato il colore o l'opinione politica
delle persone al volante sotto l'acqua come lui e perché mai stessero
facendo la sua stessa strada, ormai condannati a precipitare nel vuoto.
Ha fatto la sua parte. Ha salvato vite. Senza nulla chiedere. Senza
“apparire”. È il “campione” di un'Italia poco nota, ma è l'Italia vera.
Quella che “fa”, giorno dopo giorno. “Tira la carretta”. Si è avvolto
nel riserbo in un Paese di esibizionisti che si contendono il
palcoscenico e si picchiano come nel teatrino dei pupi: un paladino
contro l'altro, fra pretendenti a numinosi troni o a redditizie
poltrone, in un’interminabile giostra che lascia indifferenti gli
abitanti del Paese Italia, piccola provincia d'Europa, a sua volta un
mezzo continente ormai marginale nel quadro planetario per la sua
inconsistenza politica, militare, imprenditoriale e di capacità di
costruire il futuro. Difficile stabilire se l'Italia vada davvero male
o semplicemente non vada bene. Di sicuro condivide il proprio declino
con gli altri Stati che hanno perso due guerre europee divenute
mondiali e fuse in un'unica guerra dei trent'anni fra il 1914 e il 1945. “Protezione fai da te” dei neopelagiani Però,
come nelle oasi del Vicino e Medio Oriente o, a est del grande caos
dominante dalla Mesopotamia al Pakistan, nel Triangolo d'Oro del
subcontinente indiano non tutto va davvero male come si dice. Anzi. Va
peggio per molti versi, ma meglio per altri. Se li si distoglie dal
ridurre la vita a una sorta di lotta belluina come in “Troni di spade”,
se li si lascia fare, gli italiani sono ancora bravi; e sono persino
buoni. Troppo spesso però si dipingono e, a strascico, vengono
“narrati” all'estero come arraffoni, cinici, voltagabbana, truffatori.
Decenni addietro l'ambasciatore e storico Sergio Romano spiegò perché
parecchi italiani si disprezzino: tentano di giustificare il loro
servilismo. Ma i servili non sono tutti. Sono la parte emergente,
striata di lordure e maleodorante, dell'immenso iceberg di persone
perbene che stanno sott'acqua, puliti, e vedono anche senza
“occhialini” o “maschere”. Malgrado la leggenda, la generalità degli
italiani è di “buoni samaritani”. Hanno un cuore grande così.
Il punto è che l'altruismo non nasce né per legge, né per
circolare. È innato negli uomini e, tra i tanti, lo sono pure gli
italiani. I quali, anzi, ne hanno dato e ne danno prove continue. Anche
se non lo hanno mai sentito nominare, la pensano come Emanuele
Kant: “La legge morale dentro di me, il cielo stellato sopra di
me”. Come insegnò Pelagio, se non è obnubilato da pregiudizi e da
fanatismi, ogni uomo sa distinguere il bene dal male. Sa che cosa fare
nell'emergenza. Se non ce la fa da solo, chiede aiuto. E se può, aiuta.
Non ha bisogno di essere raggiunto dalla “Grazia” per capire come deve
agire. Tanto più nelle emergenze. La Morale è connaturata alla
Razionalità. I codici arrivano dopo, cambiano con i regimi che, lo
vediamo, sono come pilastri corrosi. Reggono per inerzia, ma poi
crollano di schianto. Più durano, peggio fanno. L'Uomo della
A6 in un Paese vagamente normale, quale in fondo è l'Italia, dovrebbe
essere assunto a icona della “Protezione fai da te”, versione
“autoreggente” e quindi un po' fantasiosa e ammiccante della
“Protezione civile”. È su questa che oggi regge il Paese. L'Italia
odierna non sta in piedi né sul governo né sull'opposizione, entrambi
lontanissimi dalla vita quotidiana. Si fonda sulla “catena di unione”
tra i cittadini che si soccorrono e confortano a vicenda. È l'Italia
dei “buoni samaritani”, quella del San Matteo che cessa di fare
l'esattore delle tasse e diventa l'Apostolo. Non è solo un “quadro” di
Caravaggio. È un Vangelo. Il più sobrio dei quattro, come si conviene a
un “contabile”. Chi si è trovato al volante la domenica
del crollo del Madonna del Monte ha ancora una volta constatato la
fragilità dei servizi pubblici e, al tempo stesso, la fratellanza tra i
cittadini. All'intersezione tra A6 e A10 nei pressi di Savona, l'uscita
obbligatoria per Savona era annunciata dal solito segnale di “incidente
stradale”, che lasciava immaginare una coda ma non un abisso. Agenti
dell'ordine, inzuppati dall'acqua implacabile, parchi di parole e
probabilmente ancora poco aggiornati, indirizzavano verso Genova
(autostrada intasata da code chilometriche per varie interruzioni) o a
tentare la statale Savona-Altare. Lì si è testato quanto sia
retorico e infondato l'elogio di regioni, province (ormai ridotte a
fantasmi) e comuni, dei “poteri locali” risultati del tutto assenti.
Eppure “qualcuno” si era premurato di transennare l'accesso alla
statale, come le poche provinciali e vicinali. Ma poi si era dileguato.
Dove? Perché? Va bene. Era domenica. Era l'ora di pranzo. Era in corso
un'emergenza. Ma, appunto, l'efficienza dei servizi pubblici si valuta
proprio nel bisogno. Invece in Savona si formò un serpentone di vetture
vaganti a caso da un capo all'altro della città in cerca di una via di
fuga verso l'agognato entroterra. Ogni rotonda crocchio di macchine,
camper, moto possenti, qualche raro camion autorizzato al trasporto di
merci deperibili. Domande, consultazione febbrile di mappe sui
cellulari. Imprecazioni, sorrisi e pacche sulle spalle tra persone che
non si erano mai conosciute ma vivevano lo stesso impiccio. E qualche
“indigeno” di buona volontà pronto a suggerire sentieri forse ancora
praticabili, ma senza garanzia di sorta. La rete autostradale liguro-piemontese è “poesia”: sospesa. La
confusione sperimentata la domenica del crollo per la circolazione su
ruota in Liguria non è l'eccezione. È la norma per le autostrade del
territorio ligure che di “autostrada” hanno il nome e il
costosissimo pedaggio, ma poco altro. Sono un apostrofo rosa (o verde,
o azzurro o arcobaleno: ognuno scelga il colore preferito) tra due
regioni contigue e lontane. Non ha corsie di emergenza, ha poche
strette e brevi piazzole, dalle quali si esce a rischio d'esser
travolti, e gallerie da incubo. Il martedì precedente, 18 novembre, un
autotreno prese fuoco nella galleria tra Savona e Spotorno. Dopo ore di
blocco, il traffico venne fatto tornare su Savona e dirottato sulla
“Aurelia”, ordinariamente intasata di suo. Pattuglie della Stradale e
qualche carabiniere indomito fronteggiarono l'emergenza, anche quel
giorno sotto pioggia insistente. E la “polizia locale” o i loro
“sostituti” sempre così solleciti a elevare contravvenzioni,
soprattutto d'estate, per una sosta con la ruota appena fuori le
strisce? Manco l'ombra, proprio quando era necessario che qualche “uomo
in divisa” incanalasse il flusso dove i semafori risultavano del tutto
inutili, anzi intralcianti, a fronte di migliaia di automobilisti e
conducenti di autobus e di “tir” in coda per ore , con la mente fissa
agli impegni indifferibili. Evviva il potere centrale, se funziona Non
mancano i cittadini. Manca la presenza dei “servizi”, a cominciare,
appunto, da quelli locali, quelli che dovrebbero essere più presenti e
solleciti nelle emergenze. Lì si misura la vacuità dell'Italia odierna.
I presidenti delle giunte regionali si ammantano nella gualdrappa
fantasiosa e vanesia di “governatori”. Per senso di responsabilità e
dignità i presidenti delle province meglio farebbero a “restituire le
chiavi” di cariche alle quali corrisponde un “potere” del tutto
evanescente. Chi rappresentano? Quali risorse hanno a fronte delle loro
incombenze? Ha senso fare il cerotto a tempo indeterminato? Per coprire
che cosa? Cui prodest? Certo hanno il potere di lamentarsi, di emanare
appelli e persino di organizzare drappelli e presidi per sollecitare
interventi dell'Esecutivo centrale e dello Stato. Ma anche i governi
ormai sono precari. All'avvento il nuovo Esecutivo oscura o addirittura
cancella il precedente, con furia proporzionata alle proprie
corresponsabilità. È il caso di quello ora in carica, per metà (la metà
più grossa, anzi) al potere nel governo precedente. Non è ancora chiaro
se voglia farsi dimenticare o voglia fare qualche cosa. Di sicuro è
l'ombra di sé. Pelle tirata, senza muscoli né ossa. Ma non è l'unico
“fregoli” del paesaggio partitico-parlamentare, contagiato da “febbre
maltese”, come un tempo si diceva di malattie strane. L'asse culturale dell'Italia odierna... Questa
nostra Italia è giovane. Solo l'anno venturo verranno ricordati i 150
anni dell'annessione di Roma al regno. Quando completò secoli di
riconquista cristiana e di lotta contro i “mori”, la Spagna si dette la
capitale che non aveva: Madrid. All'epoca l'attuale Comunidad di Madrid
era una spianata pressoché deserta. Nulla a che vedere rispetto alle
città storiche e alle tante capitali dei regni precedenti: da Toledo a
Granada. Ma Madrid divenne Madrid. E lo è: perno di un Paese
madridcentrico. Lo stesso vale per Parigi (assurta definitivamente a
capitale dopo le feroci guerre di religione e la Fronda contro il
sovrano legittimo) e Berlino, che nel Cinquecento non era nulla, ma
dalla Prussia fu imposta capitale dell'impero di Germania, eclissando
quelle dei regni, granducati, ducati, principati preesistenti e le
gloriose città anseatiche, come Amburgo. L'Italia nacque dal patto
di ferro tra il Vecchio Piemonte e la Toscana: due storie
complementari, destinate a fare da volano della Nuova Italia. Sommarono
la grande cultura letteraria e il senso dello Stato. Non che altre
terre fossero incolte o prive di tradizioni alte, ma retrocessero in
seconda fila proprio negli anni decisivi, seguiti all'età
franco-napoleonica. Nel regno di Napoli (reinventato come Due
Sicilie dallo spergiuro e infame Ferdinando di Borbone) il meglio della
classe colta era stato sterminato nel 1799 o costretto a riparare in
esilio senza ritorno, come si legge lungo lo scalone di Palazzo Serra
di Cassano in via Monte di Dio a Napoli, sede dell'Istituto Italiano
per gli Studi Filosofici. Dal suo portone uscì il ventenne Gaetano,
verso piazza Martiri ove fu decapitato. Eleonora Pimentel de Fonseca vi
venne afforcata. Dopo il moto costituzionale del 1820-1821, al netto
del supplizio e del carcere inflitto a molti suoi esponenti, seguì la
seconda ondata di esuli. E così, una terza volta, nel 1848-49. Bastino,
tra i molti, i nomi di Pietro Colletta e di Francesco De Sanctis, già
docente alla Nunziatella. Il meglio della cultura meridionale trovò
riparo in Toscana o in Piemonte. Nel Lombardo-Veneto avrebbero subito
la sorte dei patrioti, come Silvio Pellico, Pietro Maroncelli,
Alessandro Andryane, Giorgio Pallavicino Trivulzio, Federico
Confalonieri: condanna a morte, commutata in decenni di carcere
durissimo e infine l'esilio persino fuori Europa. All'origine,
nel 1861-1863, il regno d'Italia non escluse di organizzarsi in forma
confederale o federale. Lo propose il coltissimo bolognese Marco
Minghetti, capofila di una “regione” formata da staterelli (ducati di
Parma e Piacenza, da secoli a noleggio, e di Modena e Reggio,
asburgico) e dalle legazioni pontificie. Una regione plurima:
Emilia-Romagna. Il Piemonte invece è uno, come la Toscana, ove la
Firenze medicea ha oscurato la Repubblica di Siena, gli Stati dei
Presìdi e altro ancora. La forma unitaria, che non significa né
uniformante né coattiva, venne adottata perché era la più propizia
all'unificazione vera, che non poteva ridursi all'adozione di simboli e
di emblemi (la denominazione accettata dalla comunità internazionale,
la bandiera, una marcia reale...) ma doveva tradursi nella realtà
fattuale: ferrovie, strade, porti, opere di difesa, scuole,
ospedali..., nella logica imposta dal territorio e dalla scarsa
simpatia riservata dagli Stati ai conati del nuovo regno. Lo hanno
ricordato Nerio Nesi, presidente della Fondazione Camillo Cavour, e
Cosimo Ceccuti, della Fondazione Giovanni Spadolini-Nuova Antologia con
la convenzione collaborativa sottoscritta il 26 novembre nel Castello
Cavour a Santena, a mezza strada fra Torino e il cuore del Vecchio
Piemonte: le Langhe da una parte (ove il giovane Cavour fu sindaco di
Grinzane) e dall'altra il Cuneese che all'Italia dette Giovanni
Giolitti, Luigi Einaudi, Marcello Soleri... Nella sobria cerimonia i
due presidenti hanno ricordato il rispettivo presidente onorario, Carlo
Azeglio Ciampi, “europeo nato in Italia”, e i valori civici fondativi
del Paese Italia, della società civile: il “senso dello Stato”, che non
ha bisogno di essere risvegliato al suono della “generala” ma è
inculcato di generazione in generazione attraverso la memoria
domestica, la solidarietà civica, dalla quale scaturisce la “Protezione
fai da te” che quotidianamente anima i cittadini e li fa sentire
nazione senza bisogno di nazionalismi, italiani senza animosità verso
gli altri popoli d'Europa e degli altri continenti, di un Mondo che è
divenuto unitario anche grazie ai “poeti, santi, navigatori” nostrani,
curiosamente evocati da chi voleva farsene scudo per la miope
“autarchia”. All'opposto, l'Italia vera è umanesimo, rinascimento,
illuminismo, pensieri e princìpi che affondano radici nella cultura
classica, greco-latina, ancor oggi miglior antidoto contro il ritorno
della barbarie, dell'isolamento e della vana ambizione di primazie.
Paradossalmente il fondatore di una rivista che ebbe per titolo
“Primato” quasi per contrappasso alla caduta del regime di cui era
stato gerarca visse qualche tempo nella Legione Straniera francese. La Stella d'Italia sulle Tombe dei Reali È
ancora Sergio Romano a indicare la rotta nelle acute pagine di
“L'epidemia sovranista: origini, fondamenti, pericoli” (ed. Longanesi).
Per andare oltre l'attuale “enorme pachiderma” dell'euro-burocrazia,
“tanto più lento e inefficace quanto più cresce il numero dei
passeggeri che porta sulle sue spalle”, occorre un raggio di
luce: “È ora che all'inverno del nostro sovranismo succeda il glorioso
sole dell'Europa”. Lo Stellone d'Italia può concorrere al nuovo
Illuminismo. È la stessa Stella incisa sulle arche delle Tombe di
Vittorio Emanuele III e della Regina Elena nel santuario di Vicoforte:
ricalca quella posta sul capo di Cavour, di Garibaldi, di Vittorio
Emanuele II e del papa nella ritrattistica patriottica
dell'Ottocento. Ed è la Stella dell'uomo che una settimana fa
sulla A6 ha messo in salvo tante vite senza retorica, né in cerca di
compensi o di plausi. Un neopelagiano di passaggio.
Aldo A. Mola
LA CATENA DI COMANDO NELLA GRANDE GUERRA IL TRIANGOLO SCALENO RE, GOVERNO, COMANDANTE SUPREMO Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 24 Novembre 2019, pagg. 1 e 11.
Le fonti per una storia “a parti intere” Chi
nell'aprile-maggio 1915 decise l'intervento dell'Italia nella Grande
Guerra e chi esercitò il comando effettivo della sua macchina militare?
Il re, il governo, il ministro della guerra, il comandante supremo? A
distanza di un secolo molti interrogativi rimangono in attesa di
risposte esaustive, anche per il silenzio di protagonisti e istituzioni
di primaria importanza. Molto si è discusso sulle “Memorie” di Vittorio
Emanuele III (furono davvero scritte? come e perché sarebbero andate
perdute?) e del suo ruolo. Come noto, ma ancora poco “valutato” in sede
storiografica, dal 25 maggio 1915 al 6 luglio 1919 il Re affidò
la “gestione” di poteri “amministrativi”allo zio Tommaso di
Savoia-Genova quale Luogotenente generale del regno e si trasferì in
prossimità del fronte di guerra per seguirne da vicino l'andamento, con
massima discrezione ma piena influenza. Ne ha scritto Andrea Ungari in
“La guerra del Re. Monarchia, Sistema politico e Forze armate nella
Grande Guerra” (ed. Luni) sulla scorta dei “ricordi” di alti ufficiali
prossimi al sovrano, che però fanno rimpiangere la mancanza di quelli
del re. Sarebbero altrettanto interessanti le “memorie” di Emanuele
Filiberto, Duca d'Aosta, cugino primo del sovrano, comandante della III
Armata, anche perché da alcuni (compresi “storici” riecheggianti
insinuazioni di seconda mano) venne considerato un'alternativa al
sovrano in caso di sua abdicazione: ipotesi tanto suggestiva quanto
inconsistente, perché il principe ereditario, Umberto di Piemonte, era
nella pienezza di diritti e doveri, nell'ambito dello Statuto e delle
“leggi” regolanti la Casa”, di cui neppure suo padre poteva privarlo.
Se disponiamo dei Documenti diplomatici italiani, selezione ragionata
dell'immensa mole dei carteggi corsi tra il governo e la rete dei
rappresentanti “del Re” con i governi stranieri, non abbiamo i verbali
dei consigli dei ministri presieduti da Salandra, Boselli e Orlando
(1914-1919). Il loro vero andamento non sempre veniva annotato proprio
per non lasciare traccia dei contrasti, talora aspri, che li
caratterizzavano. In effetti in molti casi essi non riproducono
quanto vi avveniva. Tra i casi più clamorosi vale d'esempio il verbale
del Consiglio tenutosi il 28 settembre 1917 (un mese prima di
“Caporetto”). Il comandante supremo Luigi Cadorna per due ore illustrò
le urgenze dell'esercito e la necessità che il governo rintuzzasse il
disfattismo ed evitasse che l'Italia fosse contagiata dalla rivoluzione
bolscevica in corso in Russia, ma cozzò con il ministro dell'Interno,
Vittorio Emanuele Orlando, secondo il quale la crisi dell'esercito
aveva solo cause militari. Quel Consiglio fu sintetizzato in
poche insipide righe, nelle quali la partecipazione di Cadorna non
viene neppure citata. Una Vittoria ancor poco “sentita” L'intervento
e la partecipazione dell'Italia alla Grande Guerra sono stati più volte
narrati anche sulla scorta di copiosi inediti. Il “Centenario” è stato
scandito da convegni, mostre, ristampe e da molte novità. Va
constatato, nondimeno, che in Francia e Gran Bretagna esso è stato
vissuto con orgoglio di gran lunga più partecipe rispetto a quanto è
accaduto in Italia. Il distacco emotivo e, di riflesso, storiografico,
nei confronti di “quella guerra” ha radici antiche e profonde.
Perdurano le riserve nei confronti di tempi e modi dell'intervento a
suo tempo avanzate da “neutralisti condizionati” (come Giolitti),
socialisti (sino all'autunno 1917 arroccati sulla formula “né aderire,
né sabotare”) e dei cattolici che in Italia, in linea con papa
Benedetto XV, considerarono una terribile sciagura il “guerrone”
presentito e temuto da Pio X, come ha scritto il suo miglior biografo,
Gianpaolo Romanato. Un'altra e più complessa ragione ha a
lungo frenato la condivisione postuma dell'ingresso in guerra e della
conduzione del conflitto. Anche dopo la bella “Storia politica della
Grande Guerra” di Piero Melograni, il confronto sull'“evento”, da tutti
comunque considerato centrale per le ripercussioni di lungo periodo sul
Paese, la valutazione ultima si arrestò sulla soglia dell'accertamento
e della valutazione critica della decisione suprema e delle
responsabilità conseguenti. In un libello del 1946, pubblicato per
propugnare il passaggio dalla monarchia alla repubblica, Luigi
Salvatorelli imputò a Vittorio Emanuele III tre “colpi di Stato”: il 24
maggio 1915, ovvero l'intervento nella Grande Guerra, il 28 ottobre
1922 (cioè l'incarico a Mussolini di formare il governo) e il 25 luglio
1943 (quando proprio il Re revocò il capo del governo). A sua volta
Antonino Repaci addebitò al Re il cedimento del maggio 1915 a chi
minacciava “Guerra o rivoluzione”, alla “ piazza” popolata di
interventisti in poca parte monarchici e prevalentemente repubblicani,
social-rivoluzionari, come Mussolini, anarco-sindacalisti,
venturieri. Il primo a sostenere che l'intervento in guerra,
strappato il 20-21 maggio 1915 da Salandra a un Parlamento riluttante,
sia stato un “colpo di Stato” fu Antonio Cefaly, vicepresidente del
Senato e già gran maestro aggiunto del Grande Oriente d'Italia. Lo
scrisse nella traccia di un discorso mai pronunciato ma inviato a
Giolitti che, monarchico attento anche alle sfumature lessicali,
preferì parlare di “colpo di Governo”, addebitandolo dunque non al
sovrano ma a Salandra, non alla Corona ma all'Esecutivo, benché questo
fosse appunto il “governo del Re” e nulla potesse senza la sua
controfirma (come tardivamente comprese Luigi Facta la mattina del 28
ottobre 1922 quando dovette revocare la proclamazione dello stato
d'assedio incautamente diramata alle prefetture senza l'approvazione
del sovrano). La disputa rimase ed è dunque rovente, sia per silenzi,sia per grida altisonanti. Governo, militari e Re Un
fondamentale passo avanti nella documentazione e nella spiegazione
dello sforzo compiuto dall'Italia per conseguire la vittoria finale
sull'Austria-Ungheria e i suoi alleati è ora offerto dall'opera,
decisamente innovativa, del generale Basilio Di Martino, direttore
della Direzione armamenti aeronautici e aeronavigabilità e capo del
Corpo del genio aeronautica, e del colonnello Filippo Cappellano, Capo
dell'Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito (US-SME), già
autori di molti e rigorosi volumi e saggi. Sin dal titolo, “La catena
di comando nella Grande Guerra, Procedure e strumenti per il comando e
controllo nell'esperienza del Regio Esercito, 1915-1918”, il volume
pubblicato nella collana storica di Itinera Progetti
(www.itineraprogetti.com) va al cuore della “guerra alla fronte
italiana”. Scandito in quattro parti (Il Comando Supremo, I livelli
operativo e tattico, I mezzi di comunicazione, Gli ufficiali di
collegamento del Comando Supremo) e arricchito da due Appendici
sull'impiego dei colombi e sul servizio intercettazione telefonica,
questo “trattato” pone al centro dell'attenzione l'“informazione” quale
perno della guerra. Implicitamente esso richiama la
riflessione sul triangolo scaleno Corona, Governo (comprendente i
ministri della Guerra e della Marina: l'Aeronautica, “proiezione” della
Cavalleria, era compresa nell'Esercito) e comandante effettivo
dell'esercito. La questione era antica quanto lo Statuto del 4 marzo
1848, come ricordato dal generale Oreste Bovio nella sua insostituibile
“Storia dell'Esercito Italiano” pubblicata dall'US-SME, di cui fu a
lungo valoroso capo. Nelle guerre del Regno di Sardegna (1848-1849 e
1859 contro l'impero d'Austria, 1860 contro lo Stato pontificio) e di
quelle del regno d'Italia (1866 ancora contro Vienna e 1870 contro Pio
IX) la gerarchia del comando non aveva affatto trovato soluzione se non
nella prassi, con gravi ripercussioni sulla conduzione delle
operazioni, in specie nel 1849 e nel 1866. Quelle guerre, però, erano
sempre state di breve durata e si erano risolte in poche decisive
battaglie: Custoza e Novara nel 1848-1849, San Martino nel 1859,
Castelfidardo nel 1860, mentre l'“invasione” del Regno delle due
Sicilie non fu neppure formalizzata con esplicita dichiarazione di
guerra e sopraggiunse dopo i brillanti successi di Garibaldi a
Calatafimi, Palermo, Milazzo (maggio-luglio 1860) e la sua vittoria sui
borbonici nella battaglia del Volturno (1-2 ottobre).
L'opera del generale Di Martino e
del colonnello Cappellano evidenzia che alla conflagrazione europea
dell'estate 1914 il Regno d'Italia non era preparato per affrontare una
guerra “grossa” e “lunga”, non solo perché aveva appena concluso il
conflitto con l'impero turco per la sovranità sulla “Libia”, molto più
impegnativo e oneroso del previsto e perché quindi i “magazzini fossero
disorganizzati” (come poi lamentò Cadorna), ma anche perché
l'equilibrio tra i poteri (Corona e Governo da un canto, “uffici”
dipendenti, incluse le Forze Armate, dall'altro, e infine il
Parlamento) era ancora in bilico e proprio nell'anno intercorso tra la
Conflagrazione europea e l'intervento dell'Italia esso subì strappi
destinati a riverberarsi sul lungo periodo. L'opera sulla “Catena di
comando” ricorda che nel 1908, l'anno dell'annessione di Bosnia ed
Erzegovina da parte di Vienna, dell'insorgere dei nazionalisti e della
nomina del nuovo capo di stato maggiore dell'esercito, si registrò
l'acme della tensione tra potere politico e “uffici” militari. Se ne
ebbe un esempio nelle forzate dimissioni del valoroso generale Vittorio
Asinari di Bernezzo, mutilato nella guerra del 1866, imposte dal
presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, che gli rimproverava
accenti irredentistici stridenti con la linea del governo, e accolte a
malincuore da parte del Re, animato da antica e profonda avversione nei
confronti di Vienna: sentimenti che risalivano all'insegnamento del
nonno e del bisnonno, Carlo Alberto il Magnanimo. Se solo nel 1882,
ovvero 21 anni dopo la proclamazione dell'Unità, era stata istituita la
carica di Capo di Stato Maggiore dell'Esercito (conferita al
garibaldino Enrico Cosenz, ex allievo della Nunziatella di Napoli), un
altro ventennio dopo, con il Regio Decreto del 14 novembre 1901, il
potere di nomina alle cariche apicali dello Stato, incluse quelle
militari, fu conferito al governo, il cui presidente (se già non fosse
stato chiaro nella prassi) ebbe formalmente la titolarità dell'unità
dell'indirizzo politico dell’esecutivo. Tuttavia il profilo del capo di
Stato maggiore rimase all'attenzione primaria del Re, comandante delle
forze di terra e di mare, riluttante ad accettare chi avesse in animo
di non subire interferenze nelle decisioni strategiche e di esercitare
l'unicità del comando, come aveva lasciato intendere Luigi Cadorna, al
quale pertanto nel 1908 venne preferito Alberto Pollio, di due anni più
giovane e a sua volta ex allievo della Nunziatella. L'asimmetria
dei poteri prospettò la dualità tra governo e Comando supremo che, bene
si evince dalla robusta opera del gen. Di Martino e del col.
Cappellano, contrassegnò il corso degli eventi soprattutto dall'avvento
del secondo governo Salandra, con Sidney Sonnino agli Esteri (ottobre
1914). L'Esecutivo si mosse a passi felpati verso il passaggio dalla
Triplice Alleanza (in vigore dal 1882) alla Triplice Intesa, senza
informare di tempi e modi dell'intervento chi ne avrebbe retto le
sorti. Il 16 marzo 1915 Salandra stesso si rese conto di essersi spinto
troppo oltre senza l'esplicito assenso del Re e della Camera, senza la
certezza della preparazione dell'esercito (“i militari”, scrisse il
presidente del Consiglio con una punta di acredine verso Cadorna) e,
infine, “senza aver avuto alcun affidamento, o cenno di affidamento, da
parte della triplice Intesa”, tanto da concludere che occorreva dunque
“a qualunque costo rallentare, non precipitare, il corso degli eventi”.
Eppure si era a un mese dalla firma dell'accordo (non “patto”) del 26
aprile 1915 (che a giudizio di Giolitti impegnava il governo, non già
lo Stato) e a due mesi dall'intervento contro “tutti i nemici”
dell'Intesa anziché contro il solo impero austro-ungarico, come invece
fece Roma, con delusione dei nuovi e motivatamente sospettosi alleati.
Il capo di stato maggiore fu tenuto all'oscuro dei contenuti
dell'arrangement, quasi fossero irrilevanti sotto il profilo militare,
anziché del tutto vincolanti come invece erano. Va aggiunto del resto
che a sua volta il governo italiano non fu affatto informato dei patti
stretti tra le potenze dell'Intesa, neppure con riferimento alle aree
di diretto interesse dell'Italia, a cominciare dall'impero
turco-ottomano. La mobilitazione occulta (1914-1915)
non fu adeguatamente sorretta con finanziamenti adeguati. Il capo di
stato maggiore dovette pianificare una guerra i cui “confini” non
conosceva e con un assetto strutturale e organico adatto a un conflitto
“grosso” ma di breve durata, su un solo fronte, contro un unico nemico
e con la benevola astensione del Parlamento da ingerenze nella sua
conduzione. Dal canto suo, in pieno dissenso col comandante supremo il
governo “inventò” una sfortunata “campagna” in Albania assumendosene
direttamente la conduzione. La concezione “napoleonica” del
comando, propria di Luigi Cadorna e più volte evidenziata dall'opera
sulla “Catena di comando”, a ben vedere rispondeva alla visione
dell'intervento fatta propria da Sonnino e Salandra, miranti a una
vittoria in tempi rapidi per spazzar via Giolitti (completo di
“Patto Gentiloni”) e prima che gli interventisti (nazionalisti,
socialisti rivoluzionari, futuristi, anarco-sindacalisti, gli stessi
irredentisti, gli “interventisti democratici”...) da mere comparse
(quali erano considerate anche da Salandra, che le sorvegliava con gli
strumenti del ministero dell'Interno) acquisissero spazio e rilevanza
politica. Di Martino e Cappellano molto opportunamente annotano che
anche il deputato repubblicano (e massone) Eugenio Chiesa riconobbe la
fondatezza della concezione “napoleonica” cadorniana, ma solo in caso
di conflitto di breve durata. Anziché pochi mesi, come illusoriamente
immaginato dal governo, esso ne durò 41, non però per imperizia del
comandante supremo ma per la documentata e indiscutibile insufficienza
delle risorse messegli a disposizione e per le poderose difese del
nemico, che (a differenza di quanto viene ancor oggi ripetuto da
libelli tardivamente anticadorniani, come quello di Breccia) non solo
era pronto a rintuzzarlo da posizioni vantaggiose ma da tempo aveva
messo a punto un piano di “guerra preventiva” contro l'Italia. Come
giustamente ammoniscono gli Autori, “la guerra è il regno
dell'incertezza e dell'imprevisto”. Prevedibile fu il “différend” tra
il governo e il Comando Supremo, che è l'asse portante del volume del
gen. Di Martino e del col. Cappellano. Cadorna fece il possibile per
adeguare l'assetto del Comando a una guerra fatalmente onerosa di vite
e di risorse, ma non trovò comprensione e risposte da parte
dell'esecutivo, preoccupato soprattutto degli umori serpeggianti
in Parlamento, in specie nella Camera per la prima volta eletta a
suffragio universale maschile quasi universale (1913), e meno ancora da
parte dei ministri della Guerra susseguitisi tra il 1915 e la
dodicesima battaglia dell'Isonzo (generali non sempre di eccelse
qualità belliche, come invece fu Alfredo Dallolio, stratega della
produzione di armi e munizioni e della promozione dell'Aeronautica).
Drammatiche furono le tensioni tra Comando e Governo nell'estate 1917,
quando Cadorna non ebbe alcuna risposta alle reiterate sollecitazioni
di interventi contro disfattisti e sovversivi inviate al presidente del
Consiglio Paolo Boselli, mentre i portavoce dei soviet bolscevichi
furono accolti a Torino, teatro dei tumulti di quell'agosto. La continuità Cadorna-Diaz Dall'opera
sulla “Catena di comando” si evince che il rapporto sostanziale tra
Comando Supremo e governo non mutò affatto dopo l'avvento di Armando
Diaz in successione a Cadorna (9 novembre 1917), la cui defenestrazione
venne posta da Orlando al Re sin dal 28 ottobre quale condizione per
succedere a Boselli, sfiduciato il 25 ottobre da una Camera ancora
ignara di Caporetto. Orlando non solo volle la costituzione di un
pletorico “comitato ministeriale di guerra” ma si spinse ad asserire
che Diaz ne ascoltava i suggerimenti persino “in materia puramente
strategica”, di cui invero egli era affatto digiuno, come prova il
telegramma con il quale, secondo la testimonianza del generale Gaetano
Giardino, si spinse a intimare a Diaz di muovere a battaglia perché
(parole sue) “preferisco una sconfitta all'inazione”, quasi l'Italia
potesse permettersi un secondo disastro, che (anche nelle previsioni
degli “alleati”) ne avrebbe determinato il collasso e probabilmente
l'unità stessa. Alla luce di queste considerazioni emerge a luce
meridiana il valore dell'opera gigantesca allestita e via via
ammodernata dal Comando Supremo, come documentato dagli autori della
meritoria opera sulla “Catena di comando nella Grande Guerra”: un
“trattato” che fa riflettere su quanto avvenne vent'anni dopo, quando
un “politico”, Benito Mussolini, pretese di ergersi a stratega con le
conseguenze ben note, sino a quando lo stesso Gran Consiglio del
fascismo il 25 luglio 1943 chiese al Re di esercitare tutti i poteri
che gli erano riconosciuti dallo Statuto e questi, di propria
iniziativa, revocò Mussolini da capo del governo e voltò pagina nella
storia d'Italia.
Aldo A. Mola
BUIO IN FONDO AL TUNNEL IL REGRESSO DELLA “QUESTIONE FEMMINILE” (1919-1925) Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 17 Novembre 2019, pagg. 1 e 11.
1919: abolizione dell' “autorizzazione maritale” Cent'anni
fa, il 17 luglio 1919, con la legge n. 1176 il Parlamento abolì la
“autorizzazione maritale” che sino a quel momento aveva subordinato al
benestare dei mariti l'esercizio di attività economiche e di gestione
del patrimonio da parte delle mogli. Se il matrimonio oltre che un
sacramento era un contratto per le donne esso comportava una vera e
propria sottomissione alla volontà degli sposi e una
retrocessione nell'esercizio dei loro diritti civili. Strideva il
confronto delle loro condizioni con quelle delle nubili e delle vedove:
un tema largamente sondato nell'Ottocento dalla copiosa letteratura
“femminista”, i cui autori non erano solo maschi, nell'Italia di
Salvatore Morelli e di tanti altri campioni dell'emancipazione
femminile. La stessa legge, narra Marco Severini nel documentato
saggio “In favore delle italiane” (ed. Marsilio), proclamò il diritto
delle mogli d’intraprendere un'attività commerciale anche senza (e
magari persino contro) la volontà del marito, nonché di accedere, a
parità dei maschi, a tutte le professioni e pubblici impieghi, tranne
che agli “uffici” implicanti poteri giurisdizionali (cioè la
magistratura in tutti i suoi ordini), alla difesa militare dello Stato
e all'esercizio di “diritti o potestà politiche. “Parità” di accesso
agli impieghi pubblici e privati non significava però uguaglianza di
trattamento economico. Stipendi e salari maschili continuarono a essere
molto superiori a quelli delle donne, pur a parità di mansioni. Diversa
rimase anche la misura delle ore di lavoro in fabbrica o nei campi,
negli uffici contabili o nell'amministrazione pubblica, in cui le donne
da decenni lavoravano senza adeguate tutele formali. Una vasta
saggistica denunciava la disparità di trattamento delle maestre
rispetto agli insegnanti maschi e le umiliazioni alle quali in molti
casi esse erano esposte, con veri e propri ricatti da parte di
amministratori locali e specialmente da sindaci assai dispotici e
invadenti, forti del fatto che l'assunzione e il “compenso”
dipendevano dalla loro personale decisione. Anche nel 1919,
all'indomani della Grande Guerra che aveva veduto le donne in prima
linea nella vita economica del Paese (anche nelle “industrie
ausiliarie”, nei campi, come documentato dal generale Antonio Zerrillo
in un saggio d’imminente pubblicazione), il legislatore con una mano
concedeva, con l'altra limitava: un'avarizia che affondava radici in
secoli di discriminazione motivata da argomenti e atteggiamenti
“religiosi”, politici, costumali. Perdurava un vero e proprio orrore
della parità perfetta tra generi. Il femminismo in Italia tra Otto e Novecento Eppure
anche in Italia non mancava un robusto movimento per l'emancipazione
femminile. Tra i suoi militanti primeggiò Ernesto Nathan, già gran
maestro del Grande Oriente d'Italia e sindaco di Roma, tuttora citato
quale modello di lungimiranza, correttezza e concretezza. Di formazione
era un “inglese”, discepolo di Giuseppe Mazzini, l'edizione nazionale
dei cui scritti comparve proprio a inizio Novecento per volontà del
presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, d'intesa con i ministri
della Pubblica istruzione, il trapanese Nunzio Nasi e il palermitano
Vittorio Emanuele Orlando. Proprio mentre Nathan era sindaco della
Città Eterna fra il 23 e il 30 aprile 1908 si svolse a Roma il primo
Congresso delle donne italiane. Alla sua inaugurazione presenziò la
Regina Elena di Savoia, a conferma che la monarchia non costituiva
affatto un ostacolo all'emancipazione femminile. Anzi, l'ultimo quarto
dell'Ottocento aveva visto pullulare riviste, convegni, circoli
culturali che presero per insegna il nome della Regina Margherita, la
sovrana che teneva nettamente separata la vita privata da quella
“ufficiale” e ben distinta la politica interna da quella sociale. La
prima assicurava l'ordine. La seconda doveva profittare della
tranquillità pubblica per propiziare il progresso civile. La sintesi
venne tratta da Giosue Carducci in “Eterno femminino regale”. Fra
i temi trattati nel Congresso spiccò la “condizione morale e giuridica
della donna”, con due obiettivi: l'abolizione della “autorizzazione
maritale” all'esercizio di professioni da parte delle donne sposate e
il riconoscimento del diritto di voto femminile, attivo e passivo. Due
anni prima aveva fatto scalpore la sentenza della Corte di appello di
Ancona che il 26 luglio 1906 riconobbe il diritto di voto a dieci
intrepide maestre (nove di Senigallia, una di Montemarciano), la cui
vicenda è stata ricostruita da Lidia Pupilli in “Storia delle prime
elettrici italiane” (ed. 2012). “Esempio di audace interpretazione e di
un'audacissima ispirazione” la sentenza, pronunciata da Ludovico
Mortara, poi ministro e senatore del Regno, venne lestamente annullata
dalla Corte di Cassazione il 4 dicembre e dalla Corte di Appello di
Roma l'8 maggio 1907. Malgrado la fervida campagna da decenni condotta
da Anna Maria Mozzoni (informata ma “un poco arida” secondo Giuseppe
Mazzini) e da altre “suffragette” italiane, prevaleva l'opinione che il
voto femminile potesse cagionare “gravi perturbamenti e dolorosi nel
seno stesso della famiglia”. Nel cinquantenario del regno (1911) un
Congresso nazionale per il suffragio femminile, organizzato a Torino
anche per impulso di Emilia Mariani, non ottenne alcun risultato
pratico. Contrario al riconoscimento del diritto di voto alle donne,
non per principio ma per opportunità, era il presidente del Consiglio,
l'onnipotente Giolitti. Se sua figlia Enrichetta, mente politica
raffinata e moglie del deputato radicale e massone Mario Chiaraviglio,
ingegnere di grande talento, partecipava ai convegni di matrice
femminista, lo Statista aveva un'altra priorità: conferire il diritto
di voto ai maschi maggiorenni, anche se analfabeti, per ampliare la
partecipazione dei cittadini alla vita delle istituzioni: una decisione
lungimirante. Vi è infatti da domandarsi quanto l'esercizio del diritto
di voto pesò sull'impegno messo dagli italiani nel corso della Grande
Guerra, così esoso di sacrifici e di vite. La precedenza al suffragio universale maschile In
privato Giolitti era convinto che le donne avessero diritto di voto.
Glielo ripeteva la moglie, Rosa Sobrero (“Gina”, “Ginotta”), dal 1904
Collaressa della Santissima Annunziata e quindi “cugina del Re”, dalle
cui lettere traspare un certo fastidio per le convenzioni cortigiane.
Ma al governo e nelle Aule parlamentari lo Statista dichiarava che il
Paese non era affatto pronto per un passo di quel genere. Gli elettori
erano ancora meno di tre milioni. Con l'estensione del diritto di voto
a tutti i maschi, essi sarebbero cresciuti a sette milioni e mezzo. Le
donne potenzialmente aspiranti al voto erano altri sei milioni.
Chiamarle alle urne tutto d'un tratto, senza adeguata preparazione
civica e in presenza dell'ancora vastissimo analfabetismo (soprattutto
nelle regioni centro-meridionali, come del resto in vaste plaghe
montane del Settentrione) sarebbe stato “un salto nel buio”. Chi controllava il voto femminile? Nel
1848 il conte Clemente Solaro della Margarita, capofila dei clericali,
aveva sfidato i liberali (Cesare Balbo, Massimo d'Azeglio, Camillo
Cavour e i democratici Urbano Rattazzi, Lorenzo Brofferio, Lorenzo
Valerio...) a concedere subito il diritto di voto universale. Era
sicuro che i cattolici avrebbero ottenuto la stragrande maggioranza dei
consensi. Aveva ragione. Lo sapeva anche il blocco dirigente che aveva
premuto per la concessione dello Statuto e aveva stilato la legge
elettorale, che attribuì il diritto di voto a una esigua minoranza e
istituì i collegi elettorali uninominali a doppio turno: il filtro
migliore per plasmare una classe politica di veri patrioti, in vigore
dalla proclamazione del Regno d'Italia sino al 1882 e poi dal 1892 al
1919. Ma i liberali non erano i soli a tirare il freno. Nei
giornali, nei meeting, nei salotti tanti “democratici”, garibaldini,
protoradicali con venature socialisteggianti si proclamavano fautori
dell'“emancipazione femminile” ma solo sul piano dottrinario, nelle
conversazioni serali. L'indomani la vita riprendeva il suo corso. La
“partita doppia” valeva anche per la maggior parte dei radicali e per i
socialisti, che predicavano persino il “libero amore” (a senso unico)
ma temevano che, se chiamata alle urne, la maggior parte delle donne
avrebbe votato secondo i consigli dei parroci. Nel 1905 un ampio
articolo della “Rivista massonica” affermò che concedere il voto alle
donne equivaleva ad armare gli schiavi. Avrebbero spazzato via i
padroni. Retorica a parte, la pensavano allo stesso modo persino molti
repubblicani “storici”. Anche i cattolici risultavano profondamente
divisi. Erano sicuri di controllare il voto femminile nel breve
periodo, ma poi? Diritto di voto significava “politicizzazione”,
comportava anche libertà quotidiana di pensiero e di parola, non solo
alle urne ma anche in casa, nel “foro domestico”, che è molto più
importante di una croce una tantum su una “scheda”. Anche per loro la
questione era prematura: meglio attendere. L'Italia, d'altronde, era
ancora un mosaico di realtà molto diverse, da regione a regione,
dall'una all'altra provincia, tra zone urbane ripartite a loro volta in
centri e periferie, campagne, colline, valli appenniniche e alpine.
C'erano molte Italie. Non esisteva una lingua comune. Questa arrivò
solo con la radio e poi con la televisione, ma in tempi assai
ravvicinati, appena mezzo secolo addietro ed è ancora un traguardo
baluginante. La svolta venne con la Grande Guerra, quando le
donne furono coinvolte in tutti i modi nel conflitto. Il 7 ottobre 1917
fu inaugurato a Roma il congresso dell’Associazione per la donna. Il
radicale Ettore Sacchi vi ripeté che ormai le donne avevano superato
gli uomini “nell'elevatezza del sentimento e nell'abnegazione del
sacrificio”: madri, vedove, sorelle di caduti, crocerossine al fronte,
infermiere negli ospedali territoriali (celebre quello allestito dalla
Regina Elena al Quirinale), nelle cascine, nelle fabbriche, in Italia
come in tutti i Paesi di un'Europa uscita di senno. Come negarne ancora
la perfetta parità rispetto ai maschi? Il 7 marzo 1919 iniziò alla
Camera la discussione della proposta di legge che avrebbe ammesso le
donne a esercitare tutte le professioni e a ricoprire i pubblici
impieghi, tranne la magistratura, le forze armate e i poteri politici,
dalle amministrazioni locali al Parlamento. Le sinistre non brillarono
affatto per presenza, né in Aula né nei carteggi. Secondo alcuni
estremisti (Amadeo Bordiga, Costantino Lazzari, Giacinto Menotti
Serrati...) la parola d'ordine era astensione dalle urne e rivoluzione
come in Russia o almeno scioperi generali espropriatori. L' “Avanti!”,
quotidiano del Partito socialista non dedicò una riga al dibattito
sulla legge, ignorata come “roba borghese”. Anche Anna Kuliscioff
espresse giudici sferzanti sulle femministe, a cominciare da
Abigaille Zanetta e Rosa Zenoni, valorose esponenti del femminismo in
Italia, perlustrato da Marco Severini con dovizia di particolari. Finalmente
la legge fu approvata a Montecitorio e dal Senato il 15 luglio 1919.
Sui quasi quattrocento patres al voto parteciparono appena in 75: i sì
furono 58, i no 17. Ma ormai la legislatura era agli sgoccioli. La
Camera dei deputati, eletta nell'ottobre 1913, era sopravvissuta a se
stessa. Il 4 gennaio 1920 il decreto applicativo escluse le donne dagli
uffici per i quali erano giuridicamente capaci ma non idonee “in
relazione alle esigenze dei servizi”. L'abolizione
dell'“autorizzazione maritale” fu dunque un timido e tardivo passo
avanti, subito frenato da norme discriminatorie e retrograde. Come
ricorda Severini dalla tribuna riservata al pubblico durante il
dibattito sulla legge si affacciò anche la più prestigiosa femminista
italiana, Anna Maria Mozzoni, ormai stanca, isolata e malata. Morì il 4
giugno 1920 senza aver coronato il sogno della sua vita: la conquista
del diritto di voto femminile. La Camera dette la precedenza al
suffragio universale maschile e al riparto proporzionale dei seggi, che
decretò la straripante vittoria di socialisti e cattolici del partito
popolare su liberali e “radicali” e repubblicani, ridotti ai minimi
termini. La beffa del diritto di voto per consigli comunali e provinciali aboliti.... Le
conquiste femminili procedevano a rilento. Solo il 28 agosto la
“dottoressa” Elisa Comani, moglie dell'avvocato Francesco Orsi, prestò
giuramento per l'iscrizione all'albo dei procuratori. Era la prima
applicazione della capacità giuridica della donna. E il
diritto di voto? Il 27-28 aprile 1919 si svolse a Milano il congresso
per il suffragio femminile, col supporto dell'effimero settimanale
“Voce nuova. Giornale delle donne italiane”, diretto da Sofia
Ravasi (1896-1977), futura moglie dell'editore Aldo Garzanti, e da
Paolina Tarugi, laureata in giurisprudenza a Pavia nel 1912. La
prima Camera postbellica (novembre 1919-maggio 1921) durò poco e fu
inconcludente. Il governo Nitti fu travolto dall'“impresa di Fiume”
(1919). Il V e ultimo ministero Giolitti affrontò crisi
extraparlamentari di enorme peso (eliminazione del prezzo politico del
pane, occupazione delle fabbriche, trattato di Rapallo con la
Jugoslavia, rinnovo dei consigli comunali e provinciali con blocchi
nazionali...). Non v'era spazio per il voto femminile, che però ormai
s’imponeva. Se ne accennò agli albori della legislatura seguente, ma
dopo le dimissioni di Giolitti, i governi Bonomi e Facta ebbero ben
altre priorità. Durante il suo secondo ministero, Facta non convocò mai
la Camera, che venne poi “radunata” da Mussolini a metà novembre del
1922. Solo nel 1923 fu dibattuta la proposta di riconoscere il
diritti di voto amministrativo per alcune categorie di donne che ne
avessero fatto richiesta e si prospettò la loro eleggibilità a
consigliere comunale. La fine prematura della legislatura fece decadere
la proposta. La legge n. 2125 del 22 novembre 1925 introdusse infine il
diritto di voto femminile per le elezioni amministrative. Lo stesso
giorno fu approvata la legge sull'appartenenza dei pubblici impiegati
ad associazioni, nota come “legge contro la massoneria”. Era l'inizio
del regime. Poco dopo il governo Mussolini-Federzoni abolì l'elettività
dei consigli provinciali e comunali (sostituiti con “prèsidi”e
podestà). Perciò la graziosa concessione del diritto di voto alle donne
rimase una farsa. La introdusse un Decreto legge
luogotenenziale firmato da Umberto principe di Piemonte in vista delle
elezioni comunali del marzo-aprile 1946, le prime con le donne
finalmente elettrici ed eleggibili, come subito dopo avvenne per il
referendum sulla forma dello Stato e la formazione dell'Assemblea
Costituente. Era la svolta vera, ma il cammino verso la parità
effettiva rimase ancora in salita. Motivo in più per ricordare, un
secolo dopo, l'abolizione dell'“autorizzazione maritale” e la conquista
della capacità giuridica femminile. Ad maiora...
Aldo A. Mola
ALDO MOLA E GIANNI OLICA MARTEDI' 19 AI MARTEDI' LETTERARI DI SANREMO Enrichetta
Giolitti, moglie dell'ingegnere Mario Chiaraviglio, deputato del
partito radicale e massone, fu confidente “politica” del padre,
Giovanni Giolitti, cinque volte presidente del Consiglio dei ministri
fra il 1892 e il 1921. Proprio a lei lo Statista scrisse la famosa
frase: “il sarto che deve fare il vestito per un gobbo per farlo bene
deve tener conto della malformazione”. Così doveva fare il Governo per
un Paese giunto tardi e non benissimo all'unità nazionale. Alle h.
16 di martedì 19 ne parlano al Martedì letterario del Casinò di Sanremo
Marzia Taruffi, Gianni Oliva e Aldo A. Mola, autore di “Giolitti. Il
senso dello Stato” (ed. RusconiLibri).
Un Due Novembre sconcertante. RIMOZIONE DI FRANCO: DAL SEPOLCRO O DALLA STORIA? PARCE SEPULTO Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 3 Novembre 2019, pagg. 1 e 11.
L'unico “successo” del socialista Sánchez: la rimozione di Franco Francisco
Franco y Bahamonde conterà meno dopo la deportazione della sua salma
dal Valle de los Caídos, dopo quasi mezzo secolo di eterno riposo, e
l'inumazione nella cappella del cimitero del Pardo a Mingorrubio,
accanto alla moglie Carmen Polo? Varrebbe di più se fosse stato
traslato nella cattedrale de la Almudena, nel cuore di Madrid, come
chiesero i suoi famigliari? Ovunque siano le sue spoglie mortali,
“Generalísimo de los Ejércitos” nazionalisti insorti il 18 luglio 1936
contro il governo repubblicano, “Caudillo de España” e “Jefe del
Estado”, comunque Franco è entrato nella storia e rimane memorabile,
come tutti i personaggi che hanno segnato un'epoca. Piaccia o meno,
egli è stato tra i protagonisti della storia della Spagna dalla lunga
guerra civile (1931-1939), nella seconda guerra mondiale (1939-1945: si
conta non solo quando si fa la guerra, ma anche quando se ne sa star
fuori) e dell'Europa nei decenni successivi, sino alle soglie
dell'ingresso nell'“Europa dei diciotto”. Lo storico non giudica:
documenta i fatti e lascia a ciascuno di valutare. Mentre imperversa la
pretesa di pronunciare condanne “morali” del passato, lo storico cerca
di capire perché e come siano accaduti i “fatti”. Tutti. Non parteggia.
Contempla. Sunt lacrimae rerum... Altre seguiranno. L'attuale
presidente del Consiglio spagnolo, il socialista Pedro Sánchez, molto
appagato dell'esteriorità, ha orchestrato l'esumazione delle spoglie di
Franco per alimentare uno psicodramma nazionale alla vigilia delle
imminenti elezioni del 10 novembre. A conti fatti, l'evento ha
suscitato più curiosità che appassionamento. Confidando in
manifestazioni che giustificassero chissà quali misure eccezionali,
qualcuno si attendeva dimostrazioni di nostalgici e di antifranchisti,
rigurgiti di arcaici conflitti. Invece, i cronisti, sempre pronti a
planare come corvi sui “grandi scontri di piazza”, risultarono più
numerosi dei presenti e in specie dei 22 nipoti e pronipoti
dell'estinto, avvolto nella “sua” bandiera e confortato dalla messa
funebre celebrata da padre Ramon Tejero, figlio del colonnello Antonio,
autore del fantasioso “golpe” che ormai si perde nella notte dei secoli
e rincalzò il trono di Juan Carlos I. La Spagna di Felipe VI è così
democratica che da anni ha un governo tanto minoritario quanto
inconcludente. L'espunzione di Franco dal Valle era una antica
pretesa dei socialisti (Rubalcaba, poi Zapatero) e fatta propria da
Sánchez perché il Caudillo non è un “caído”, non morì nella tragica
guerra civile tra i due “bandos”, i repubblicani e i nazionalisti, i
rossi e gli azzurri. Morì di morte naturale, persino “ritardata” per
dare tempo all'assestamento della macchina statuale in un paese ormai
“normale”. Non solo, secondo alcuni antifranchisti il suo nome suscita
ancora nostalgia del regime dittatoriale, tanto da rendere sospetto
l'afflusso dei visitatori al monumentale complesso funebre al cui
centro sino al 24 ottobre 2019 la sua lapide tombale recava scritto
semplicemente “Francisco Franco”, come si conviene a chi ha fatto la
storia e lascia ai posteri l'ardua sentenza sulla sua opera. Sánchez
potrà ora dire di avercela fatta. Capo di un governo di minoranza,
costretto a tornare a terze elezioni senza aver risolto nessuno dei
problemi che assillano il Paese, dalla Catalogna alla “Spagna profonda”
dal cui humus escono i consensi per “Vox”, il partito neo-nazionalista
con profonde radici nel franchismo o più correttamente nella storia
millenaria del Paese iberico, con residuo senso dell'opportunità
Sánchez prova qualche imbarazzo a sventolare la traslazione del feretro
del Caudillo come successo storico. È un “successo” solo nel
significato spagnolo del termine: un accadimento, non un trionfo. Sarà
giustizia? Sarà saggezza? Di sicuro, esso è divisivo. È un tardivo
“regolamento dei conti” all'interno di un Paese che da decenni ha
metabolizzato la guerra civile, ha faticosamente messo alle spalle
persino i delitti perpetrati dagli “etarras” e oggi deve fare i conti
con l'altra artificiosa piaga: il fanatismo indipendentistico di una
metà degli abitanti della Catalogna in libera uscita dalla storia: un
separatismo che non ha motivi etnici, religiosi, civili ma solo
linguistici in un Paese, come la Spagna, che riconosce le più ampie
garanzie al bilinguismo (catalano e gallego, a tacere ovviamente del
basco) e alle “nuances” del catalano, come il valenciano (del quale
nessuno sente vera necessità). Il ruolo attuale della Spagna per l'Europa nel mondo In
pochi giorni dalla macabra sceneggiata, la deportazione della salma di
Franco è uscita dalle prime pagine dei quotidiani. Los Reyes partono da
Madrid alla volta di Cuba, un viaggio di Stato voluto dal governo, non
senza imbarazzo per chi osservi che il regime castrista sta tornando
rapidamente all'indietro, verso la repressione delle opposizioni e
delle poche ventilate aperture all'Occidente, mentre l'intera America
latina è sconvolta da insorgenze e conflitti, tensioni crescenti fra i
discendenti dei nativi sopravvissuti alla tabula rasa perpetrata dai
conquistatori, creoli e discendenti delle ondate migratorie
dell'Otto-Novecento. Il “caso” del Messico è il più emblematico:
civilissimo in circoscritte plaghe, del tutto succubo della produzione
e spaccio di droghe in vaste zone, e sempre più indotto a forzare il
limes con gli USA, i cui Stati meridionali sono più ispanofoni che
anglofoni. In quella vastissima area la Spagna odierna, quella di
Felipe VI e della dirigenza “di Stato” che ha alle spalle la
Spagna “una, grande y libre” della Transizione, svolge un ruolo di
prim'ordine, di gran lunga superiore ai timidi passi del governo
italiano che per ministro degli Esteri ha Luigi Di Maio. La Spagna è
lì, oltre Atlantico, come anche nel mondo arabo, dal Marocco all'Arabia
Saudita, e non da oggi. In una famosa conferenza pan-americana Juan
Carlos di Borbone azzittì ruvidamente il petulante presidente
venezuelano Chávez, predecessore del nefasto Maduro: “Cállate”,
“Taci!”. Per queste ragioni gli italiani consapevoli della debolezza
dal proprio governo e attenti al ruolo planetario ancora possibile per
il protagonismo dell'Europa franco-germanica e anglo-iberica hanno
motivo di guardare al di là delle cronache del monocolore socialista
ancora per qualche giorno imperante a Madrid e di sentirsi
rappresentati anche dagli eredi di Carlo V e di Filippo II di Asburgo,
come poi di Filippo V di Borbone e dei suoi successori sino, appunto, a
Filippo VI e alla Principessa delle Asturie, Leonor.
Carriera e fortuna di un generale prudente Ma
chi fu Francisco Franco, le cui spoglie sono state al centro di una
disputa ventennale? Non irruppe nel suo paese come un meteorite da
chissà quale cielo. Duramente sconfitta nel 1898 con la rivolta di Cuba
e delle Filippine, alimentata dagli Stati Uniti d'America che gliele
sottrassero accampando di volerle liberare dal giogo coloniale al quale
sostituirono il proprio, la Spagna precipitò in crisi d'identità.
Ancora ottant'anni prima dominava un impero che andava dal Messico alla
Terra del fuoco. Malgrado statisti di valore, come Sagasta e Cánovas
del Castillo, era l'ombra di se stessa. Lo sintetizzò Ángel Ganivet,
suicida nelle acque della Dwina, in “Ideario spagnolo”. Mentre Francia,
Gran Bretagna e Germania espandevano i loro imperi coloniali e persino
il neonato regno d'Italia annetteva Eritrea (1890), Somalia (1907) e
Libia (1912), la Spagna era umiliata, “invertebrata”. Rimasta
saggiamente estranea alla Grande Guerra, superò meglio di altri paesi
l'estremismo anarchico di primo Novecento - culminato nella “settimana
tragica” e nella fucilazione pedagogica del pedagogista Francisco
Ferrer y Guardia, come ha documentato Fernando García Sanz in opere
magistrali - e le procelle postbelliche. Nato a El Ferrol
(Galizia) il 4 dicembre 1892, secondo dei cinque figli di Nicolás
Franco, ufficiale di marina, e della piissima María del Pilar
Bahamonde, dal padre (che più tardi, si trasferì solingo a Madrid e,
senza divorziare, si unì ad Agustina Aldana) Francisco si sentì sempre
posposto al primogenito Nicolás e al minore, Ramón, massone,
repubblicano, rivoluzionario, aviatore provetto, caduto in circostanze
tuttora arcane, mentre suo cugino primo, Ricardo de la Puente
Bahamonde, nel 1936 venne fucilato tra gli ufficiali che rifiutarono di
accodarsi a Francisco, “generale ribelle”. Formato nella Scuola
militare di Toledo, Franco si mise in luce nella guerra di conquista
del Marocco e a soli 33 anni venne nominato generale: il più giovane in
Europa. Pietro Badoglio lo divenne a 46 anni. Ugo Cavallero, a sua
volta, raggiunse quel grado quando ne aveva 39. Ma il grado non basta a
comandare gli eventi. Occorre la fortuna. Che spesso (contrariamente a
quanto recita il motto famoso) non aiuta gli audaci bensì i prudenti. Nel
1934 Franco impiegò sbrigative maniere per reprimere l'insorgenza
operaia nelle Asturie. Tre anni prima Alfonso XIII aveva lasciato la
Spagna, che subito registrò un'onda di anticlericalismo violento, con
incendi di chiese e altri eccessi documentati da Mario Arturo
Iannaccone in “Persecuzione. La repressione della Chiesa in Spagna fra
seconda repubblica e guerra civile, 1931-1939” (ed. Lindau). Nominato
dal governo di Madrid capo della Legione spagnola in Africa e
comandante di tutte le forze armate (gennaio-maggio 1935), Franco fu
inizialmente riluttante ad aderire al golpe progettato dal generale
Emilio Mola y Vidal, laicista, niente affatto massone, capo dei
“requetés”, noto per doti di stratega e meticolosità. “Jefe” dello
Stato dell'alzamiento contro il governo di Madrid fu Jorge Sanjurjo,
morto per la caduta dell'areo che lo riportava dal Portogallo, ove era
esule dopo un fallito golpe. Dopo l'insurrezione, anche Mola morì in un
incidente aereo. Gli altri due generali, Queipo de Llano e Miguel
Cabanellas Ferrer, erano chiassosi ma politicamente irrilevanti. Capo
della Giunta di difesa nazionale, Franco ebbe il sostegno delle Giunte
dei “falangisti” capitanati da José Antonio Primo de Rivera (un
movimento nazionalista con venature progressiste), dei “requetés” e di
altre forze nettamente contrarie ai sovversivi, nonché (importanti ma
non decisivi) di Mussolini e di Hitler. Egli inoltre contò soprattutto
sull'appoggio fervido e pressoché unanime del clero cattolico, interno
e internazionale. Fallito (forse intenzionalmente ) l'assalto a Madrid
(preferì la più spettacolare e propagandistica “liberazione” di
Toledo), Franco non ebbe fretta di vincere. Gli storici sono ancora
perplessi: incapacità strategica militare o strategia politica? Col
passare dei mesi e degli anni in Spagna all'interno dei due fronti in
lotta presero corpo due opposti piani. A sinistra i comunisti,
eterodiretti dall'URSS di Stalin, eliminarono via via i “dissidenti”:
borghesi, democratici, semplici repubblicani, anarchici e massoni. A
destra Franco fece altrettanto. Mentre (come tardivamente ha ammesso lo
storico britannico Paul Preston) nel 1936 vi erano tre Spagne (rossi,
reazionari e democratici), dal 1938 ne rimasero due sole: i rossi e i
nazionalisti. Franco operò una metodica eliminazione fisica degli
oppositori della Spagna che aveva in mente: cattolica, concentrata nel
culto della propria identità. Scomparve quella europeista vaticinata da
Miguel de Unamuno, da massoni, liberali, socialisti democratici. Sin
dal 1938, molto prima che entrasse in Madrid (1 aprile 1939) e vi
celebrasse la vittoria, Franco fu riconosciuto da Parigi e da Londra.
Al potere annientò quanto rimaneva delle opposizioni con
misure durissime. Con lo pseudonimo “J. Boor” scrisse articoli
fanaticamente antimassonici e nel 1940 pubblicò la legge per la
repressione del comunismo e della massoneria, studiata da Juan José
Morales Ruiz, autore del saggio esemplare “Palabras asesinas” (ed.
Masonica.Es). Però rifiutò di entrare in guerra a fianco di Hitler (che
invano lo “tentò” in un lungo inutile colloquio a Endaye) e di
Mussolini (che incontrò a Bordighera) e, passo dopo passo, si spostò
tacitamente a fianco della Gran Bretagna. Dieci anni dopo
Franco aprì la svolta: dal falangismo ai tecnocrati dell'Opus Dei. La
Spagna lentamente si riprese. Sotto la cappa dell'ipocrisia
normativa i costumi dei suoi abitanti erano quelli di sempre,
come scoprivano i turisti: “los toros” e “el baile toda la noche”.
D'altra parte dal 1953 essa ebbe il placet del presidente degli USA,
Eisenhower, e nel 1955 entrò nelle Nazioni Unite. Seguì un ventennio di
progresso. Franco finse di non sapere che le basi militari americane
avevano anche logge massoniche e che molti uomini del regime, come il
suo conterraneo Fraga Iribarne, frequentavano all'estero ambienti
“illuminati”. Il “dopo Franco” fu opera sua Alla
morte, il 20 novembre 1975, la Spagna non aveva più nulla a che vedere
con quella della guerra civile. Erano anche cacciate nel passato remoto
le pretese dei “carlisti” e di altre frange. Sin dal 1969, dopo aver
ipotizzato l'instaurazione di Ottone d'Asburgo-Lorena per superare il
conflitto tra le fazioni borboniche, Franco proclamò re Juan Carlos di
Borbone, anteponendolo al padre, Juan, conte di Barcellona. Il 19
giugno 1974, gravemente malato, da Reggente l'antico Caudillo gli
conferì l'esercizio del potere, salvo riprenderlo appena ristabilito.
Il “tirocinio” dette prova positiva. La Spagna era pronta al cambio,
malgrado l'assassinio del presidente del governo, Luis Carrero Blanco,
l'ETA e l'ostilità di chi ne avversava l'ingresso in “Europa”,
spacciando per difesa della democrazia l'esclusione dei prodotti
spagnoli ormai competitivi (e non solo agrumi, olio, formaggi,
salumi...). Per questi motivi la valutazione storica di Franco non
si può ridurre alla sua azione di Caudillo durante e subito dopo la
guerra civile e prescinde comunque dall'ubicazione delle sue spoglie.
Vale altrettanto per Vittorio Emanuele III, re d'Italia per mezzo
secolo. Anziché disputare sulla tomba che 70 anni dopo la morte gli è
stata assicurata in uno degli 8.000 Comuni di cui fu sovrano, è meglio
studiarne l'opera e capirne la grandezza, la buona e la cattiva sorte,
tutt'una con quella d'Italia. Ma lo spirito di fazione e le
conventicole spesso ancora prevalgono, perché, ricorda Giovanni
Evangelista, “gli uomini preferiscono le tenebre alla luce”. Parce sepultis: Franco e José Antonio Primo de Rivera E
ora? “Parce sepulto...”? Il brocardo non significa affatto “perdona chi
è morto”. Questa versione, benché usuale, è errata e deviante rispetto
a quanto volle dire Publio Virgilio Marone. È una traduzione, più
partenopea che italiana, riecheggiante il cinico motto: “Chi ha avuto
ha avuto, chi ha dato ha dato. Scordiamoci il passato, non pensiamoci
più”. Certo, quando la scrisse nell'Eneide il sommo poeta latino aveva
alle spalle mezzo secolo di guerre civili, da Mario e Silla, a Cesare e
Pompeo, a Ottaviano e Antonio, e quindi esortava alla pace interna
affinché Roma potesse assolvere la sua missione: “rispettare” (parcere)
gli assoggettati e annientare (debellare) gli irriducibili. Però con la
formula “parce sepulto” non invitò affatto a “perdonare i morti” (non
ne hanno più bisogno) né a… dimenticarli (vanno invece ricordati, anche
se le loro ceneri sono disperse e magari gettate in mare). “Parce
sepulto” significa “rispetta chi è sepolto”. Esprime appieno il
pensiero del Virgilio da Dante elevato a precursore del Cristianesimo,
di una pietas che affonda radici nell'omaggio ai defunti. Tutti. Anche
gli avversari caduti in battaglia in nome dell'onore alle armi.
Rispettare il sepolto è quanto, a prescindere da ogni giudizio di
merito, non ha fatto Pedro Sánchez. E questo rimarrà a ricordo della
sua per ora modesta prova politica. Ma v'è di peggio. Ora vorrebbe
spostare anche la salma di José Antonio Primo de Rivera, capo della
Falange, perché, egli argomenta cavillosamente, non è un “caduto” nella
guerra civile ma una “vittima” della guerra civile. Non morì in
combattimento. E' vero. In effetti fu ammazzato brutalmente dai “rossi”
il 20 novembre 1936 nella piccola cella ove era detenuto ad Alicante.
In quel carcere non venne dunque consumato uno dei tanti delitti della
guerra civile? E José Antonio non è dunque un caduto di quel tragico
conflitto? Adesso che gli han tolto il “vicin suo grande” il pavimento
de los Caidos è disarmonico? E così la sua salma va spostata per la
quinta o sesta volta? La storia non è una schermaglia
linguistica. Gronda sangue. Non va neppure sottoposta a commissioni
parlamentari. Lasciamola agli studiosi e alla coscienza degli uomini
liberi da pregiudizi. Una valutazione sintetica di Franco fu anticipata
da papa Pio XII quando gli conferì l'Ordine supremo di Cristo (1953):
un onore impegnativo sia per chi lo decretò, sia per chi ne beneficiò.
Un “successo” dal quale non può prescindere il giudizio complessivo sul
Caudillo e sulla sua epoca: in Spagna camminò nel solco del “rey
prudente”, Filippo II, quello della “limpieza de sangre”. Se durò
quarant'anni al potere vuol dire che non fece tutto da solo. Ovunque
giaccia la sua salma, va studiato. Al di là delle “emozioni”, è Storia.
Aldo Mola
COME IL PARTITO COMUNISTA SOTTOMISE SOCIALISTI E “TERZA POSIZIONE” Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 27 Ottobre 2019, pagg. 1 e 11.
Su 11 presidenti della Repubblica
effettivi dal 1948 al 2015 (ci ricorda Tito Lucrezio Rizzo in “I Capi
dello Stato”, ed. Gangemi) metà provennero dall'antico Regno di
Sardegna (Einaudi, Segni, Saragat, Pertini, Cossiga e Scalfaro),
lo stesso humus politico e culturale dei protagonisti storici del
socialismo democratico e del comunismo in Italia: più De Amicis e
Morgari che “rivoluzionari” per arrivare a Togliatti, Saragat,
Berlinguer e Alessandro Natta. Perciò, mentre torna in edicola “Il
Riformista”, merita ripercorrere alcune stagioni della dialettica
comunisti/socialisti, con occhio speciale all'area liguro-piemontese. 1973: “compromesso storico” o “mitra”? Estate
1973. L'11 settembre un colpo di stato militare guidato dal generale
Augusto Pinochet abbatte in Cile il governo “socialista”
presieduto da Salvador Allende, che viene ucciso. In Italia Enrico
Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano, propone il
“compromesso” con la DC (e i suoi alleati minori). Dopo anni di muro
contro muro nel 1973 la sinistra “storica” torna all'aprile 1944
quando, al suo rientro in Italia dall'URSS via Algeri, su precisa
direttiva di Stalin Togliatti annunciò la “svolta partecipazionistica”:
fronte comune contro la Germania di Hitler e i suoi alleati “interni”.
La questione monarchica fu rinviata a fine guerra. Tanti monarchici,
del resto, lottavano per la liberazione. Tra i loro esponenti di spicco
(a cominciare da Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo) molti erano
stati assassinati dai nazisti (come decine di militanti di “Bandiera
Rossa”) alle Fosse Ardeatine il 24 marzo nella rappresaglia contro
l'attentato in via Rasella, messo a segno da quadri del PCI. Per dare
“un segnale”? A “imbrigliare” il Re, d'altronde, non furono né
Togliatti né Stalin ma gli anglo-americani che imposero ruvidamente a
Vittorio Emanuele III di passare tutti i poteri al figlio, Umberto
principe di Piemonte, in veste di Luogotenente del Regno, carica non
prevista dallo Statuto. Da lì iniziò la lunga marcia del PCI per la
conquista del potere, un piede nella legalità e uno nella rivoluzione.
Per conseguire la vittoria finale doveva screditare e sottomettere le
altre forze non fasciste e le antifasciste, proclamare la superiorità
morale di chi si era sempre battuto all'estero e all'interno contro
Mussolini e i suoi complici: monarchici, cattolici, borghesi. All'epoca
il PCI aveva un numero modesto di militanti. Ma gli altri partiti ne
avevano ancora meno. Il Pci aveva una strategia. Gli altri no. I
comunisti avevano alle spalle non solo una grande potenza, ma il
Komintern, poi Kominform, l'Internazionale comunista. Gli altri brancolavano. Nello
stesso anno del colpo di stato in Cile, in Italia molte voci si levano
contro il “regime” identificato con il presidente della Repubblica
Giovanni Leone (eletto a stretta maggioranza) e il governo, un
centro-sinistra perfetto formato da Democrazia Cristiana, socialisti,
socialdemocratici e repubblicani con Mariano Rumor presidente, Aldo
Moro agli Esteri, Paolo Emilio Taviani all'Interno, Mario Tanassi
alla Difesa, Ugo La Malfa al Tesoro, Emilio Colombo alle Finanze e
Antonio Giolitti al Bilancio. Lo stesso 1973, “trentennale
della Resistenza” viene ripubblicato il saggio “Guerra partigiana” di
Dante Livio Bianco (1909-1953), antico commissario politico e poi
comandante delle formazioni “Giustizia e Libertà” in Piemonte.
Nell’introduzione Nuto Revelli, che aveva combattuto al suo fianco
nella Brigata Rosselli (1944), scrive che nel maggio 1958 la vedova di
Bianco, Pinella, era stata “in prima linea (a Cuneo) per gridare 'no'
al fascismo: contro la polizia, contro l'Italia dei benpensanti, dei
furbi, dei servi, dei mafiosi. Era questa la 'rivoluzione democratica'
sognata da Livio. Ma non fuori tempo. E con i mitra, non con le
pietre”. A chi si rivolgeva? Che cosa suggeriva? Berlinguer
viene scavalcato a sinistra prima ancora che la sua proposta di “via
italiana al socialismo” ottenga risposta. Iniziano anni difficili. Il
sequestro del magistrato Mario Sossi (1974) apre una nuova pagina della
storia d'Italia: la lotta settaria contro lo Stato, marchiato quale
nemico, intrinsecamente e inguaribilmente “fascista”. Anni dopo anche
persone di buona cultura si arroccheranno sull'ambigua formula: “Né con
lo Stato, né con le Brigate Rossa”. Con chi allora? Tra i capitoli
della lunga serie di doppiezze e di una vicenda a strappi e a segmenti
discontinui dell'Italia del dopoguerra uno è documentato da Giuseppe
Pardini in “Prove tecniche di rivoluzione. L'attentato a Togliatti,
luglio 1948” (ed. Luni), Premio Acqui Storia 2019 ex aequo con
“La guerra tedesca. Una nazione sotto le armi, 1939-1945” di
Nicholas Stargardt (ed. Neri Pozza). Sulla scorta di ampia esplorazione
archivistica (ma giustamente l'autore lamenta che tuttora rimangono
ermeticamente vietate alla consultazione carte di primaria importanza),
Pardini documenta che all'indomani dell'attentato al segretario del Pci
(14 luglio, curiosamente festa della Bastiglia) una parte significativa
dell'organizzazione paramilitare clandestina del partito fu sul punto
di scatenare il caos, per prendere il potere armi alla mano. Di fatto
essa poteva contare su poche forze, concentrate quasi esclusivamente
nel “triangolo industriale”, con una punta più “preparata”e determinata
a Genova. L'insorgenza durò un paio di giorni. Messi da parte i
propositi rivoluzionari, il Pci tornò alla strategia del 1944: la “via
democratica” all'interno del quadro costituzionale, appena varato con
la Carta del 1° gennaio 1948 e con le elezioni del 18-19 aprile. Queste
avevano, sì, segnato lo straripante successo della Democrazia cristiana
di Alcide De Gasperi, però avevano anche capovolto i rapporti di forza
tra Partito comunista e Partito socialista, uniti nel Fronte popolare,
sorretto anche da ex militanti del Partito d'azione. Il PCI aveva ormai
l'egemonia sull'intera opposizione di sinistra. Nel giugno 1948
nell'elezione del primo presidente della Repubblica a Luigi Einaudi
contrappose Vittorio Emanuele Orlando, monarchico, liberale e nel 1924
candidato nel Listone Nazione “fascista”. Quella (né pietre, né mitra)
era la strada maestra in un mondo bipolare, segnato dalla cortina di
ferro scesa a tempo indeterminato da Stettino a Trieste. L'Italia
aveva già vissuto una lunga serie di “esagerazioni”. Fu il caso del
raduno sedizioso partigiano a Santa Libera, al confine tra Cuneese e
Astigiano, nell'agosto 1946: un episodio che mise a confronto alcuni
utopisti e il realismo dello Stato. Anni dopo il prefatore della
“Guerra partigiana”, Revelli, ricordò con una punta di sarcasmo che il
prefetto di Cuneo consigliò a lui e a Ettore Rosa di richiamare
all'ordine gli “scalmanati” per scongiurare l'intervento delle forze
dell'ordine. La lunga guerra dei comunisti per l'egemonia sulle “sinistre” La
“scissione di Livorno” dalla quale il 21 gennaio 1921 nacque il Partito
comunista d'Italia fu il primo atto di guerra della Terza
Internazionale di Mosca contro i socialisti italiani, una babele di
tendenze e di sigle. I comunisti contavano sulla nascente Unione delle
repubbliche socialiste sovietiche e su un'armata pronta a scatenare la
rivoluzione in tutta l'Europa (e non solo). I socialisti invece erano
una scheggia della Seconda Internazionale, morta con la conflagrazione
europea, quando i partiti socialisti dei diversi Stati (con l'eccezione
degli italiani) si schierarono a fianco dei rispettivi governi. I
sindacati (che dei partiti erano cinghia di trasmissione) avevano fatto
altrettanto, a cominciare dalla Gran Bretagna, ove dichiararono che
avrebbero combattuto fino alla vittoria finale la Germania, che a modo
suo era la culla del socialismo, sia cosiddetto “scientifico”, sia
rivoluzionario, sia riformistico. Rinuncia dopo rinuncia, dal novembre
1917 il gruppo parlamentare socialista italiano (altra cosa dal partito
e dal sindacato, o più correttamente dai sindacati di ispirazione
socialista) aderì alla “guerra patriottica”. Messa da parte la minaccia
di Claudio Treves (“non più un inverno in trincea”), Filippo Turati
dichiarò che anche per i socialisti la patria era sul Piave. Lo diceva
da tempo Leonida Bissolati. Fu la presa di distanza dal bolscevismo che
stava dilagando in Russia e poco dopo ascese al potere con Lenin. Che
cosa ne sapessero, pensassero e volessero dire ai loro compagni i
maggiorenti dei socialisti all'italiana è narrato da Riccardo Mandelli
in “I fantastici 4 vs Lenin. Una missione della massoneria italiana
nella Russia del 1917” (Odoya): documentato, forbito e suggestivo, ma
accuratamente eluso dalla “critica” forse perché scomodo. Il saggio
narra il grande viaggio di Giovanni Lerda, Arturo Labriola, Innocenzo
Cappa e Orazio Raimondo (l'anno prossimo cade il centenario della sua
morte: chissà se ne ricorderà Sanremo, che gli deve tutto, Casinò
compreso?) andati in esplorazione nel caos della Rivoluzione russa. I
quattro, asserisce Mandelli, erano massoni. Di sicuro lo sappiamo di
Lerda e Raimondo. Labriola non figura nella matricola del Grande
Oriente ma per breve tempo fu addirittura gran maestro del Grande
oriente nell'esilio (1930-1932), salvo rientrare in Italia “previe
intese” con Mussolini in persona, sempre comprensivo verso i vecchi
compagni d'anteguerra, come il repubblicano e poi socialista Pietro
Nenni, con il quale aveva condiviso la burrascosa battaglia contro
l'“impresa di Libia”, quando entrambi furono arrestati. Manca la prova
che Innocenzo Cappa sia stato massone. Un massone vero, Ferdinando
Martini (biografato da Guglielmo Adilardi), annotò nel “Diario” che i
delegati italiani esordirono il 4 giugno con un comizio agli operai di
Pietrogrado. Parlarono ovviamente in italiano, lingua ignota al
pubblico, che però applaudì freneticamente. In cambio i soviet
mandarono in Italia una loro delegazione che il 13 agosto seguente
incantò 40.000 militanti di sinistra raccolti alla Casa del Popolo di
Torino, ove Giacinto Menotti Serrati tradusse a modo suo il Verbo
“soviettista”, incitando alla rivoluzione, con quel che ne seguì. Moti
di piazza, trentacinque morti il 28 agosto, un migliaio di arresti e la
rottura tra riformisti e rivoluzionari, tra socialisti e comunisti
d'Italia. Il libro memoriale di Andrea Viglongo, “Gramsci a Torino”
(ristampato nelle Edizioni Viglongo di Torino), ricostruisce fedelmente
il clima di quegli anni. Ancora unite alle elezioni del novembre 1919,
le due anime divennero corpi separati col congresso di Livorno. La
Terza internazionale dominata da Lenin nacque col congresso di Mosca
del 2-6 marzo 1919, convocato come primo congresso dell'Internazionale
comunista (IC). Assente a Mosca, il partito socialista italiano il 19
marzo dichiarò la sua adesione. Nel giugno 1920 Lenin pubblicò
“L'estremismo, malattia infantile del comunismo”. I socialisti italiani
erano vivaio di estremisti. Mosca non aveva fretta di annetterli. Aveva
bisogno delle sue “quinte colonne rivoluzionarie” nei Paesi
occidentali. In agosto Lenin aggredì la Polonia. In settembre
l'occupazione delle fabbriche fece intendere che i “rossi” in Italia
volevano proprio “fare come in Russia”,ma dovettero fare i conti col
settantottenne presidente del Consiglio Giovanni Giolitti. Ministro del
Lavoro era Arturo Labriola (massone), che mediò tra “rivoluzionari” e
industriali tramite “confratelli” come Gino Olivetti. Alle elezioni
del novembre 1919 i socialisti ottennero 156 seggi. In quelle del 16
maggio 1921 ne ebbero 124; i comunisti ne conquistarono 15. La lotta
tra socialisti e comunisti si svolse al di fuori della Camera.
Nell'ottobre 1922, mentre Mussolini era alle porte, i socialisti
consumarono l'ennesima scissione con la nascita del partito guidato da
Filippo Turati con Giacomo Matteotti segretario (ne ha scritto Enrico
Tiozzo). Per Mosca il “caso Italia” era secondario rispetto alla
diffusione in Asia, nelle Americhe e in Gran Bretagna, teatro del lungo
e duro sciopero dei minatori, appoggiato dall'URSS. Contro gli appena
24 seggi dei socialisti di Turati e Matteotti, alle elezioni del 6
aprile 1924 i comunisti ne spuntarono 19: destinati a un ruolo di
“testimonianza” alla Camera e di passaggio alla clandestinità, con
l'avvento di un governo della borghesia emendato da frange
idealistiche, come spiegato da Antonio Gramsci alla Camera nel discorso
di opposizione alla legge sulle associazioni (maggio 1925), nel quale
profetizzò che la legge “contro la massoneria” (da lui niente affatto
difesa) preludeva allo scioglimento coatto dei partiti di opposizione.
Da quell'anno i comunisti italiani, in linea con l'IC,
minarono a screditare gli antifascisti come servi sciocchi del
capitalismo. I socialisti furono liquidati come socialfascisti. La
concentrazione antifascista fondata in Francia da socialisti,
repubblicani, democratici e lega dei diritti dell'uomo, con forte
componente massonica, fu combattuta come nemico, colluso con la
borghesia. Stessa sorte toccò a “Giustizia e Libertà”, il “movimento”
fondato a Parigi da Carlo Rosselli dopo l'evasione dal confino a Lipari
con Emilio Lussu e con il massone Francesco Fausto Nitti, nipote di
Francesco Saverio, già presidente del Consiglio, da tempo migrato in
Francia. In realtà, malgrado la Grande Depressione del 1929, la
borghesia non solo resse, ma in molti Paesi optò per governi
ideologicamente reazionari e persino razzisti ma con “politiche
sociali” capaci di captare il consenso di masse popolari. Fu il caso
del nazionalsocialismo in Germania. Fronti popolari e unità d'azione socialcomunista Dinnanzi
all'avvento di Hitler, nella previsione che una nuova guerra fosse solo
questione di tempo e che la Russia dovesse mirare anzitutto alla
propria salvezza, Stalin sterzò dal “comunismo in un solo Paese” e
dalla lotta contro i “socialfascisti” ai fronti popolari, coinvolgenti
socialisti, democratici e borghesi riformatori. Ilcambio di strategia
passò agevolmente perché da tempo l'IC aveva imposto l'obbedienza più
rigida ai partiti che ne facevano parte. Fu il caso di quello d'Italia,
che espulse suoi dirigenti di spicco, come Angelo Tasca, bollati quali
revisionisti. Banco di prova e al tempo stesso terreno di crisi dei
Fronti popolari fu la guerra di Spagna. L'IC mirò ad assumere
l'egemonia delle forze repubblicane contro i nazionalisti di Sanjurjo,
Mola, Franco e Queipo de Llano, sia con le brigate internazionali (nel
cui ambito i commissari politici avevano la meglio sui militari,
secondo le regole rivoluzionarie che risalivano alla stagione giacobina
della rivoluzione francese, 1792-1794), sia con l'ingerenza nel governo
di Madrid. In quella guerra furono scritte alcune tra le pagine più
cupe dello stalinismo, che in Spagna ebbe quali “agenti” Palmiro
Togliatti, Luigi Longo e Vittorio Vidali. Gli anarchici catalani furono
sterminati. Repubblicani di orientamento liberale, democratico,
riformista e socialriformista vennero metodicamente screditati ed
esautorati. Carlo Rosselli, già alla testa di una “colonna” di
volontari a sostegno della repubblica (tra i quali Aldo Garosci, che ne
scrisse in un saggio poco apprezzato a sinistra), rientrò in Francia,
ove fu assassinato con il fratello Nello il 9 giugno 1937 da una
organizzazione, la “Cagoule”, che si segnalò per delitti esclusivamente
ai danni di antifascisti non filosovietici. Tra quanti compresero il
corso degli eventi fu Randolfo Pacciardi. Già al comando del
Battaglione “Garibaldi”, previa seconda iniziazione alla massoneria,
dalla Spagna passò negli Stati Uniti d'America. Era la dimostrazione
che si poteva essere antifascisti senza essere succubi né di Stalin, né
dei partiti satelliti di Mosca né dei fronti popolari. La libertà aveva
altre e più ampie e solide basi. Ne era testimone Alberto
Tarchiani, futuro ambasciatore d'Italia a Washington. Nel 1938 i
partiti antifascisti italiani in esilio erano ridotti a dimensioni poco
più che simboliche. Con la morte di Rosselli “Giustizia e Libertà”
cessò di esistere. Sarebbe rinata come componente del Partito d'Azione
sorto in Italia nel 1942 per iniziativa di Ugo La Malfa e pochi altri
di orientamento repubblicano-liberale, in cerca di sostegno
dall'estero. A loro volta i repubblicani (Cipriano Facchinetti
a Parigi, Giuseppe Chiostergi a Ginevra...) erano esigue pattuglie,
divise nell'interpretazione e attualizzazione del pensiero di Mazzini. Alla
vigilia della catastrofe il socialista Pietro Nenni siglò il “patto di
unità d'azione” con i comunisti. In Italia il socialismo umanitario
continuava ad avere ampio seguito nel Paese, come si vide alle elezioni
della Costituente il 2-3 giugno 1946 quando ottennero 115 seggi contro
i 104 dei comunisti. Ma, si disse, non avevano fatto abbastanza la
guerra partigiana (le brigate “Matteotti” furono in numero nettamente
inferiore alle “Garibaldi” del Pci). Il disastro venne con le elezioni
del 18 aprile 1948, quando il Psi confluì nel Fronte popolare e ottenne
appena 52 seggi contro i 131 del Pci. Il quale alle spalle aveva
l'URSS, mentre i socialisti e i fautori della “terza posizione” il
nulla. Nenni si meritò il “Premio Stalin per la Pace”. Impiegò quasi
dieci anni a imboccare la strada del centro-sinistra. A salvare il
futuro del riformismo in Italia nel 1947 fu Giuseppe Saragat, fondatore
del Partito socialista italiano dei lavoratori, che ottenne 33 seggi:
pochi, ma sufficienti per liberare i socialdemocratici dall'ipoteca del
comunismo sovietico. Oggi quasi nessuno si proclama stalinista. Non
esiste alcun partito “cattolico”. Molti invece si dichiarano
liberalsocialisti, con tutte le possibili varianti. Il diciannovismo è
il passato remoto. Il 1922 ancor di più. L'egemonia del comunismo è un
poster sbiadito e nessuno (o quasi?) pensa di usare pietre o mitra per
affrontare le urgenze del Paese, il secondo per il debito pubblico più
alto in Europa, il più bisognoso di cultura, senza la quale la politica
è solo abuso di potere.
Aldo A. Mola
ACQUI STORIA 2019 RISORGIMENTO E CULTURA ALTA DELLA NUOVA ITALIA Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 13 Ottobre 2019, pagg. 1 e 11.
Alla ricerca dell'eternità L'Italia
è romanità, dal latino di Virgilio al “volgare” di Dante,
dall'Umanesimo al Rinascimento di Lorenzo il Magnifico. Ha svolto,
serba e propone una missione universale. L'Apostolo Pietro e San Paolo
non rimasero in Palestina. Anche il Cristianesimo andava annunciato da
Roma. Solo da lì sarebbe divenuto la Buona Novella per tutte le Genti.
Anche a quel modo Roma, “caput mundi”, divenne la Città Eterna,
di re, consoli, dittatori, cesari, pontefici... sintesi della Storia.
Come narrarla? Attraverso i simboli, al di sopra di tempeste, guerre
intestine e sconfitte, perché Roma fu sempre un’Idea, un Faro, al pari
della Colonna di Foca svettante al di sopra della polvere che nei
secoli seppellì mercati, templi, archi di trionfo e l'Aula senatoria...
Le Idee sopravvivono a tutte le temperie. Fu ed è la sorte del
Risorgimento italiano e della “Nuova Antologia”, due volti di una
medesima realtà, fondamenta e futuro dell'Italia odierna. Dall' “Antologia” (1821)... Fu
Maggiorino Ferraris (Acqui, 1856-Roma, 1929) a salvare e rilanciare nel
1897 la “Nuova Antologia”, la rivista più prestigiosa della Terza
Italia. Dal 1821 al 1833 Gino Capponi e Gian Pietro Viesseux avevano
dato vita in Firenze alla “Antologia”, rivista di lettere e arti, per
ricollegare la loro età all'Umanesimo, fucina di pensiero politico
attento alla sacralità del potere nel senso più alto: libertà di
pensiero, diritti civili, uguaglianza dinnanzi alle leggi. Da secoli
aristocratici e borghesi di cospicua fortuna gareggiavano
nell'esercizio della filantropia. Ma dopo le guerre franco-napoleoniche
la beneficenza non bastava più. Occorreva valersi dei pubblici poteri
quali acceleratori dell'incivilimento. Già nei decenni d'oro
dell'Illuminismo lo “Stato” (i “sovrani”, se bene consigliati e
sensibili ai suggerimenti dei colti) aveva propiziato il progresso.
Grazie all'incremento del “sapere”, malgrado la Restaurazione retriva
del 1815, si poteva fare di più, di meglio e più rapidamente. Cinque
anni dopo l'eclissi dell'“Antologia”, nel 1838 iniziò il decennio dei
Congressi degli Scienziati Italiani promossi da Carlo Luciano
Bonaparte, principe di Canino (esiste tuttora, sua benemerita erede, la
Società Italiana per il Progresso delle Scienze), volano
dell'unificazione politica. Senza ricorrere a pugnali e insorgenze atte
solo a provocare in risposta carcere e patiboli, la Cultura puntò a
ragionare in italo-europeo. ...Alla “Nuova Antologia” (1866). Nel
1866, un anno dopo l'effettivo trasferimento della capitale del regno
d'Italia da Torino a Firenze, venne fondata in Firenze la “Nuova
Antologia”, che sin dalla testata si riallacciò agli albori del
Risorgimento. La memoria degli antenati conforta nella prova più
difficile, che non è il morire, ma il vivere. A fondarla e a dirigerla
fu Francesco Protonotari, docente di economia all'Università di Pisa,
città nativa di Angiolo (o Angelo) Sraffa (1865-1937), massone a 28
anni (iniziato ventottenne il 9 novembre 1893 ebbe il diploma 9.938),
fondatore del diritto commerciale moderno, rettore dell'Università
Bocconi di Milano, antifascista. Suo figlio Piero fu amico di Raffaele
Mattioli e di Antonio Gramsci, i cui “Quaderni del carcere” portò in
salvò in Gran Bretagna. Il trasferimento della capitale del
regno d'Italia da Firenze a Roma (andrà ricordato degnamente nell'ormai
imminente ma sinora silente 150°, il 20 settembre 2020) fece segnare il
passo alla rivista, perché la capitale politica richiamò a sé e assorbì
tanta parte delle energie vitali di un Paese ancora lontanissimo
dall'unificazione effettiva (non lo è neppure oggi, anzi si sta
disgregando, non solo per regionalismi, campanilismi, ma anche per
conflitti tra ceti e generazioni). L'acquese Maggiorino Ferraris: il Vecchio Piemonte che pensava europeo A
rialzarne le insegne fu appunto Maggiorino Ferraris, che la acquistò
nel luglio 1897 e la diresse per trent'anni, quando, nel 1926, passò la
mano al presidente del Senato, Tommaso Tittoni, più volte ministro
degli Esteri e ambasciatore a Parigi. Ferraris fu e rimane un campione
della dirigenza liberale subalpina nell'età da Cavour a Giolitti.
Figlio di un fornaio, a vent'anni si laureò in giurisprudenza a Torino.
Collaboratore della “Gazzetta del Popolo” e del “Diritto”, appena
trentenne fu eletto deputato nel collegio circoscrizionale di
Alessandria, già “feudo” della sinistra democratica di Urbano Rattazzi,
a sua volta ripetutamente ministro e presidente del Consiglio. Ferraris
fu puntualmente confermato sino al 1909, arroccato nel collegio
uninominale della sua Città della Bollente. Con l'introduzione del
diritto di voto maschile quasi universale il 26 ottobre 1913 fu
sconfitto da Luigi Murialdi. Però l'Italia non poteva fare a meno delle
sue qualità: competenza e dedizione alla Patria. Perciò su proposta di
Giolitti (in politica ci si stima anche se se non ci si ama) il 4
novembre venne subito “risarcito” con il conferimento del laticlavio
senatoriale. Come tanti notabili della Terza Italia, Ferraris
aveva lo zoccolo duro elettorale nelle sue terre d'origine ma
combatteva a Roma, nella trincea più difficile, fatta di trabocchetti,
piccoli e grandi scandali, meschinità, ondeggiamenti dei deputati
dall'uno all'altro versante della Camera in caccia di successi
personali assai più che per gli interessi generali permanenti del
Paese. Celebre rimase il caso di Gabriele d'Annunzio che a fine
Ottocento teatralmente passò dalla destra alla sinistra esclamando:
“Vado verso la vita”: un gesto retorico. La missione culturale della “Nuova Antologia” In
quel bailamme Ferraris tenne dritta la barra della produzione culturale
italiana. La “Nuova Antologia” da lui diretta non fu spiaggia di
venturieri, dei cosiddetti troppo celebrati “intellettuali”, ma
palestra degli studiosi ispirati dall'idea alta dell'Italia, come già
era stata la rivista dei Protonotari (a Francesco seguì suo fratello
Giuseppe, dal 1888 al 1897). Nelle annate precedenti aveva contato su
Alessandro Manzoni, Nicolò Tommaseo, Terenzio Mamiani. Ferraris ebbe
Giosue Carducci, Giovanni Verga, Giovanni Pascoli, Grazia Deledda,
Luigi Pirandello, Antonio Fogazzaro, Guido Gozzano...: il grande flusso
di lettere, scienze e arti, come indicava il sottotitolo della rivista.
Era l'Italia che entrava a vele spiegate nell'agone internazionale.
Regista della “Nuova Antologia” per la parte letteraria fu il
canavesano Giovanni Cena, poeta, romanziere, apostolo dell'istruzione
popolare, in specie nell'Agro romano attardato di secoli rispetto al
cuore pulsante della Capitale che, con Ernesto Nathan sindaco e
Giovanni Giolitti presidente del Consiglio, stava festeggiando
cinquant'anni di unità nazionale e quaranta dalla fine del potere
temporale dei papi. Ferraris mise del suo non solo con i quattrini
ma anche saggi, articoli (non meno di 170) e una miriade di note
sparse, siglate con pseudonimi bizzarri: Argentarius, Artifex,
Bibliofilo, Italicus, Mercator, Nautilus, Politicus, Victor e,
soprattutto, Spectator. Egli era, in effetti l'“Osservatore Italiano”,
quasi in controcanto con quello “Romano”. Vedeva l'Italia dal cuore
della Capitale ma con l'occhio di chi arrivava dalle colline della
Valle Bormida e alla Città Eterna giungeva grazie alla strada ferrata
fermamente voluta dal suo conterraneo Giuseppe Saracco, deputato,
ministro, senatore, presidente del Senato e del Consiglio nei giorni
tragici dell'assassinio di Umberto I. I Binari non servivano solo a far
scorrere i vagoni: erano un messaggio, l'insegnamento della
“dirittura”. Ferraris lo sapeva bene sin da giovane, quando si era
specializzato in studi di economia e finanza viaggiando, a proprie
spese, a Londra e Berlino per capire la centralità dei trasporti
ferroviari nello sviluppo del Paese, suo cavallo di battaglia per la
rapida ascesa politico-parlamentare che lo vide a soli 37 anni ministro
di Poste e telegrafi nel governo presieduto da Francesco Crispi (15
dicembre 1893). Oltre il declino, l'Italia Paradossalmente
“Nuova Antologia” declinò proprio durante la Grande Guerra, quando più
v'era bisogno di una parola alta, capace di guardare oltre i massacri e
le rovine per scongiurare il “tramonto dell'Occidente” intuito da
Spengler prima ancora che iniziasse. Furono rare le voci dissonanti
dagli urli ormai dominanti le piazze e loro tramite la “politica”.
Solenne fu quella di Romain Rolland (1866-1944) autore di
“Au-dessus de la mélée” (1914) e della” Dichiarazione di indipendenza
dello spirito” (1919), sottoscritta da Einstein, Russell, Croce e
Gorkij. I costi della carta e della manodopera tarparono le ali
della gloriosa rivista, costretta a ridurre i fascicoli, sino alla
sospensione. La ripresa coincise con il ritorno di Ferraris al
governo nel Ministero Orlando, sia pure per pochi giorni, quale
ministro per approvvigionamenti e consumi alimentari. Nella “sua”
rivista egli propugnò il ruolo che lo Stato doveva assumere alla guida
della ricostruzione economica postbellica, attirandosi severe e non
sempre condivisibili critiche del liberista Luigi Einaudi. Ministro per
la Ricostruzione delle terre liberate con Luigi Facta (1922) si batté
strenuamente per il pareggio del bilancio e la difesa della moneta,
punto di convergenza tra Giolitti e il ministro Alberto De
Stefani. A settant'anni lo Statista acquese decise che un
ciclo ormai era chiuso e cedette “Nuova Antologia” al presidente del
Senato, Tommaso Tittoni, che gli riservò a vita una stanzetta nella
redazione. Lì Ferraris continuò a ricevere gli amici “con lo scaldino
di terracotta tra le mani, vestito di velluto marrone come un
cacciatore, il berrettino di lana sulle ventitré”. Era l'immagine
vivente del Piemonte che credeva nella Città Eterna, come aveva scritto
il vercellese Giovanni Faldella (1846-1928), giornalista, deputato,
senatore, in “ Un viaggio a Roma senza vedere il papa” (1880). Era la
“Roma borghese”, fedele alla monarchia. Come la maggior parte dei
notabili della sua età (anche a questo riguardo Giolitti fu esemplare),
Ferraris non ebbe eredi politici” nella sua terra. Come quella del
conterraneo Giuseppe Saracco (Bistagno, Acqui, 1821-1907), la sua
memoria rimase consegnata allo sviluppo urbano di Acqui negli anni
fulgidi delle Terme frequentate da aristocratici, ministri, letterati
celebri, come negli stessi anni era Sanremo. Diretta da Luigi Federzoni
tra il 1932 e il 1943, dopo molte traversie nel dopoguerra “Nuova
Antologia” alzò la prora e riprese la rotta con Mario Ferrara
(1945-1956) e Giovanni Spadolini, che la restituì allo splendore delle
origini e la diresse sino alla morte, un quarto di secolo fa. Sia
per meritorio ricordo del “Senatore” per antonomasia, sia di Maggiorino
Ferraris, il Premio Acqui Storia 2019 ha tributato una speciale Targa a
Cosimo Ceccuti, direttore della Rivista, presidente della Fondazione
“Giovanni Spadolini-Nuova Antologia”, storico, da quarant'anni
cattedratico, da mezzo secolo autore di saggi innovativi, a cominciare
dal “Concilio Ecumenico Vaticano I nella stampa italiana,
sull'editore Le Monnier, Ugo Ojetti e su Mussolini nel giudizio
dei primi antifascisti. Romano Ugolini: il Risorgimento “atanòr” della coscienza nazionale L'Acqui
Storia 2019 ha premiato opere di stringente attualità, come, fra altre,
“Quando c'era l'Urss. 70 anni di storia culturale sovietica” di Gian
Piero Piretto (ed. Raffaello Cortina) e “Prove tecniche di rivoluzione.
L'attentato a Togliatti, luglio 1948” di Giuseppe Pardini e ha
conferito riconoscimenti speciali a Jared Diamond, Premio Pulitzer con
“Armi, acciaio e malattie”, a Stefano Zecchi (già vincitore dell'Acqui
Storia nel 2011 con “Quando ci batteva forte il cuore”) e all'inviato
speciale del TG1 Amedeo Ricucci, sempre “in diretta” per vedere,
documentare e proporre i drammatici eventi dell'età presente e autore
di “Cronache dal fronte” (Castelvecchi). Ha infine conferito il Premio
alla Carriera a due storici insigni, di orientamento molto differente
ma accomunati da identica passione per la concezione civile della
propria “missione”. Il primo (in ordine alfabetico) è David Sassoon,
docente emerito di storia europea comparata alla Queen Mary University
di Londra, noto al pubblico italiano per “Cento anni di socialismo” e
il recente “Sintomi morbosi. Nella nostra storia di ieri i segnali
della crisi di oggi” (Garzanti) e “Quo vadis, Europa?”, mentre è
imminente la traduzione del suo poderoso “The Anxious Triumph”. Il
secondo, Romano Ugolini, torinese di nascita capitolino di vita,
assistente universitario dal 1969 e cattedratico dal 1980 a Palermo e a
Perugia, in veste di segretario generale e presidente dell'Istituto per
la storia del Risorgimento italiano (ISRI) ha moltiplicato e rafforzato
i comitati dell'Istituto in Europa e in Paesi remoti, dalle Americhe al
Giappone. Nel solco dei suoi Maestri (Alberto Maria Ghisalberti ed
Emilia Morelli), da presidente della Commissione per l'edizione
nazionale degli scritti di Giuseppe Garibaldi, nell’organizzazione di
congressi di studi e con la promozione di saggi in anni sempre più
difficili, Ugolini ha strenuamente difeso la memoria del Risorgimento
quale fondamento dell'Italia attuale, europea sin dalla sua genesi (tra
illuminismo e liberalismo costituzionale) come attestato dai suoi eroi
eponimi: Vittorio Emanuele II, Camillo Cavour, Giuseppe Mazzini,
Garibaldi e lo stuolo di patrioti che tra esilio e cospirazioni, in
Parlamento e nei governi gettarono le fondamenta della Terza Italia.
Con equilibrio di storico al di sopra dei preconcetti, Ugolini ha anche
esplorato a fondo i governi degli ultimi papi-re, Gregorio XVI e Pio
IX, riconoscendo a ciascuno il suo: come ha recentemente documentato
Francesco Margiotta Broglio annettendo Roma l'Italia salvò il
“papato” dal fallimento economico al quale era ormai condannato (un
secolo e mezzo dopo la “finanza” rimane il tallone d'Achille della
Santa Sede). Villa Ottolenghi: il Giardino più bello d'Europa Tra
i Testimoni del Tempo l'Acqui Storia 2019 ha tributato speciale omaggio
a Liliana Segre, nominata senatrice a vita dal Presidente della
Repubblica Sergio Mattarella: una scelta emblematica per la città che
tra le sue maggiori attrattive vanta la prestigiosissima Villa
edificata dai conti Arturo Ottolenghi e Herta von Wedekin zu Horst che
si valsero di architetti di fama mondiale, Marcello Piacentini e Pietro
Porcinai, ai quali si deve un gioiello, il cui giardino (36.000 metri
quadrati) nel 1911 fu riconosciuto il più bello d'Europa. L'Italia
nata dal Risorgimento fu liberale nel senso più elevato e piano, come
ha ricordato il conduttore della premiazione e componente di una delle
giurie del Premio, Roberto Giacobbo. L'articolo 24 dello Statuto del
regno di Sardegna promulgato da Carlo Alberto di Savoia e poi “passato”
all'Italia fu chiarissimo: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro
titolo o grado, sono uguali dinanzi alle leggi”, qualunque fosse la
loro confessione religiosa, come poi ribadito dalla Costituzione della
Repubblica, altrettanto esplicita e, anzi, rafforzativa e persino un
po' ridondante: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di
lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e
sociali”. Nel rispetto degli ideali che ne ispirarono la genesi e al
tempo stesso innovato, come nel passaggio da Carlo Sburlati
all'assessore alla cultura Alessandra Terzolo, da tre anni suo
responsabile esecutivo, malgrado i suoi 52 anni di vita il Premio Acqui
Storia insegna che in Italia la libertà è antica. La cultura è la sua
spina dorsale. Costa fatica, ma è ripagata dalla Memoria.
Aldo A. Mola
COME RISALIRE LA CHINA? GIOLITTI CONTRO LA DISFATTA DELL'ITALIA (1919) Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 13 Ottobre 2019, pagg. 1 e 11.
I Neet: la putrefazione dell'unità nazionale La
notizia è che non fa notizia. La “disfatta” si consuma quotidianamente
sotto gli occhi di ciascuno, ma se ne parla poco; e meno ancora se ne
ragiona. Un quarto dei cittadini tra i 15 e i 29 anni non studia, non
lavora e non cerca alcun impiego. Campa. Nella panna montata dell'uso
improprio della lingua italiana, quando (di rado) se ne scrive, se ne
parla come di “ragazzi”, mentre si tratta di uomini e di donne, persone
spesso precocemente “mature”, capaci di tutto tranne che di assumere la
“banale” responsabilità di esistere. Il silenzio su questa catastrofe,
rotto di quando in quando da inchieste e da saggi dolenti, come il
denso libro di Alessandro Rosina, docente all'Università Cattolica di
Milano (“NEET. Giovani che non studiano e non lavorano, ed. Vita e
Pensiero), ha una motivazione imbarazzante. All'attuale stadio di
decomposizione della società non si è arrivati d'un botto, ma scendendo
la china un anno dopo l'altro, governo dopo governo, tutti:
inizialmente lenta, poi più accentuata, infine precipitosa, come accade
alle frane da tempo annunciate, auscultate, vezzeggiate (quanta bolsa
retorica sull'arretramento dei ghiacciai, quasi fosse un accadimento
eccezionale, mentre esso si è ripetuto nei millenni, esattamente come
la loro avanzata). Il punto è che l'“occidentale” contemporaneo, armato
di scienza e tecnologia, di capacità previsionale e dei conseguenti
rimedi, sa, se lo vuole, come fronteggiare inquinamento e mutamenti
climatici, ma non affronta in termini coraggiosi la missione antica e
nuova: congegnare istruzione e educazione, trasmettere il testimone
dall'una all'altra generazione, “da pare 'n fieul”, come dicono gli
alpini, riecheggiando la saggezza millenaria delle genti che ne hanno
viste di tutti i colori, senza lasciarsi scoraggiare né isolarsi
nell’autocontemplazione ombelicale. Ora siamo al dunque: o una
svolta vera o la disfatta diverrà irrimediabile e la “generazione
perduta” dei Neet contaminerà l'altra parte della società. Al confronto
con questa sfida, la chiassosa disputa su rifugiati politici e migranti
economici (realtà del tutto diverse e facilmente discernibili) si
rivela per quello che è: retorica e distrazione di massa. Lo dicono i
numeri. I Neet in Italia sono ormai quasi 2.200.000: una faglia
tellurica che apre un vuoto nel corpo del Paese, anche perché nel
Mezzogiorno i giovani che non studiano, non lavorano e non cercano
impiego schizzano dalla media nazionale del 23,4% (quasi un quarto del
totale) al 35-36% in Calabria e Campania e al 38,6% in Sicilia. Tutta
colpa di Cavour? Di Garibaldi? Dell'unificazione nazionale? A soffocare
un confronto serio su questa angosciante priorità hanno concorso
decenni di chiacchiere neoborboniche, di fatue nostalgie dei governi
pre-unitari, tutti (tranne il Regno sabaudo) succubi diretti o
indiretti di potenze straniere. “Porro unum necessarium” è la
restaurazione della Pubblica istruzione, minata alla radice mezzo
secolo addietro, alla metà degli Anni Settanta, dai famigerati Decreti
delegati che introdussero i consigli di istituto e di classe, misero in
riga i docenti, passarono la mano a genitori e studenti e, a
responsabilità immutate (anche per edifici non a norma e servizi
servizi mai forniti da amministrazioni locali che spendono in sagre e
pagliacciate quanto negano alle scuole), imbalsamarono presidi e
collegi docenti e svuotarono la funzione pedagogica della Scuola.
Gonfie le gote del vacuo titolo di “dirigenti”, gli eredi dei
presidi d'antan oggi comandano navi senza conoscerne il
pescaggio, la rotta, gli ufficiali, i marinai...Vagano in acque
tempestose e concorrono a spingere il Paese contro gli scogli di un
fallimento epocale. In sintesi i Neet danno oggi lo spettacolo di
un'Italia che ha perduto una lunga e dolorosissima guerra e non sa come
risalire la china, recuperare la vera pace interna: l'unione tra i
cittadini e fra le diverse generazioni. Il silenzio dei Neet (e sui
Neet) è persino più grave dei gutturali incitamenti alla
secessione in voga decenni addietro. È diserzione quotidiana nei
confronti della coesistenza civile: l'opposto di quel plebiscito che
giorno dopo giorno cementò lo Stato. Ed è appena ovvio che il gregge
divenga preda di tutti i lupi che combattono le istituzioni, valendosi
dell'organizzazione capillare della criminalità che dispensa “a
pioggia” un obolo ai nullafacenti, più della carità dei tempi andati e
di certe farraginose leggi dei nostri tempi. Risorgere? Perciò
non è vano vedere come un secolo fa venne affrontato il dopoguerra.
Vale la pena ricordare le parole di Giovanni Giolitti, massimo statista
dell'Italia unita. “Per il risorgimento
economico dell'Italia, per metterla in condizione di sostenere la
concorrenza dei popoli più progrediti, una riforma soprattutto si
impone: la completa trasformazione dell'istruzione pubblica, che è
quella fra tutte le nostre istituzioni che procede con maggior
disordine e con minor efficacia, mentre non vi è pubblico servizio il
cui disordine abbia effetti così deleteri dal punto di vista del valore
di un popolo, poiché un popolo tanto vale quanto sa”. Lo disse
a Dronero lo Statista ormai quasi ottantenne il 12 ottobre 1919,
esattamente un secolo addietro, per indicare la via della riscossa
dell'Italia dalle rovine materiali e finanziarie della partecipazione
alla Grande Guerra. I “social” dell'epoca erano i giornali e il
“passaparola” tra le persone pensose, consapevoli di avere sulle spalle
le sorti del Paese in un'Europa in fiamme ma con gli occhi bendati dai
nefasti Trattati di pace che attizzarono nuovi conflitti. Quattro volte
presidente del Consiglio dei ministri fra il 1892 e il 1914, “cugino
del Re” dal 20 settembre 1904, considerato all'estero il politico
italiano più avveduto e affidabile, Giolitti parlò dinnanzi a 650
commensali e a una folla di inviati speciali di quotidiani e agenzie di
stampa. In linea con la severità imposta dai tempi, il menù fu sobrio:
minestrina in brodo, arrosto con contorno, formaggio, dolce e un litro
di vino da pasto a persona e uno di barbaresco ogni quattro. Altri 847
notabili non trovarono posto al banchetto, si dispersero nelle
trattorie della zona, firmarono l'apposito registro delle adesioni o
lasciarono il biglietto da visita (come trecento parlamentari il famoso
10 maggio 1915 alla portineria di via Cavour a Roma) e accorsero ad
ascoltarlo, “orgogliosi di essere rappresentati da una serena e forte
tempra di carattere subalpino”. Lo Statista parlò per un'ora e mezzo
filata. Aveva tra le mani cartoncini con appunti scheletrici
manoscritti con grafia già un po' tremolante, a volte sottolineati con
due o tre barre, sui quali di quando in quando gettava gli occhi
grifagni. Come di consueto parlò in piedi, svettante sugli
astanti. Giolitti aveva chiarissimo il caotico paesaggio
postbellico europeo: dalla rivoluzione bolscevica in Russia (a
differenza del visionario presidente americano Wilson, non se ne
attendeva nulla di buono), ai trattati di pace che stavano seminando
mine di futuri conflitti, la profonda delusione dei reduci da anni di
guerra. “Alla grandezza della vittoria – affermò- non
corrisposero certamente le condizioni fatte all'Italia nelle trattative
diplomatiche e particolarmente ingiusto mi parve il rifiuto di
riconoscere alla città di Fiume il diritto di ricongiungersi alla madre
patria”. Sennonché la città quarnerina era stata “dimenticata”
dai compensi ai quali l'Italia aveva diritto per ripagare il suo
intervento asimmetrico a fianco dell'Intesa anglo-franco-russa, così
come il 26 aprile 1915 concordato a Londra da Salandra e Sonnino, che
esplicitamente riconobbero spettasse invece alla Croazia (all'epoca
manco esistente come Stato). Lo Statista ricordò perché fosse stato
contrario all'intervento nel conflitto: “Non credo sia lecito portare
il paese alla guerra per sentimentalismo verso altri popoli; per
sentimento ognuno può gettare la propria vita, non quella del proprio
paese”, tanto più che nella primavera del 1915 era ormai chiaro che la
guerra sarebbe stata lunga e sempre più “grossa”, del tutto
sproporzionata alle risorse dell'Italia. Poiché “quando la casa brucia
ogni sforzo deve tendere a spegnere l'incendio; a rendere la casa più
comoda si penserà dopo”. Al momento occorrevano riforme radicali.
In primo luogo bisognava trasferire dalla Corona al Parlamento il
potere di dichiarare la guerra, per scongiurare futuri colpi di mano
del governo all'insaputa delle Camere e dei cittadini. Urgeva risanare
il bilancio dello Stato, anche tassando tutti i titoli di azioni e
obbligazioni. Mentre nella maggior parte erano anonimi, “al portatore”,
questi dovevano essere mutati in nominativi: un provvedimento che
avrebbe fatto emergere i profitti di guerra e l'immensa ricchezza
mobiliare di enti ecclesiastici, ed era quindi inviso alla Santa
Sede. Il debito pubblico era schizzato dai 13 miliardi
anteguerra, comprendenti i debiti dei governi preunitari, a 94
miliardi, sui quali lo Stato pagava interessi salatissimi. Non era più
tempo di “sermoneggiare” ma di agire, da un canto tagliando tutte le
spese superflue, gli sperperi, le mance elettorali; dall'altro
trasferendo le imposte dai consumi alla ricchezza accumulata nei modi
da accertare. Occorreva “ridurre la eccessiva circolazione di moneta
cartacea” che faceva crollare il potere d'acquisto di stipendi e
salari, aumentando il malcontento popolare, l'instabilità dell'ordine
pubblico e le tensioni sociali artificiosamente esasperate da chi
mirava alla guerra civile per instaurare un regime comunque
reazionario. Con la visione lungimirante di consigliere e
presidente di un consiglio provinciale all'avanguardia nell'opera di
rimboschimento e tutela delle acque e dell'ambiente (che non sono
“scoperte” dei giorni nostri ma furono sempre in cima agli obiettivi
della dirigenza liberale, formata da ingegneri, agronomi, medici, oltre
che di avvocati dalla cultura multiforme: si pensi a Claudio Calandra,
ideatore degli speciali “tubi” per la bonifica delle vastissime aree
paludose tra Fossano e Carmagnola), Giolitti esortò a ricorrere
all'energia idraulica per sostituire il carbone, avviato
all'esaurimento e comunque inquinante. In quegli stessi anni
fiancheggiava la moltiplicazione delle centrali idroelettriche in
Piemonte, tra le quali svettò quella ideata da Luigi Burgo e da
Giolitti stesso inaugurata nel settembre 1922. Ma – concluse lo
Statista il 12 ottobre 1919 - la riforma fondamentale per la riscossa
dell'Italia era quella della Scuola. “Da noi, osservò, l'istruzione
elementare è insufficiente; ciò che si impara in tre anni (quanti
all'epoca erano obbligatori) non basta più alle limitate esigenze e,
dopo abbandonata la scuola, si dimentica quasi interamente. Molto
peggio procede l'istruzione media, quella forse che esercita la
maggiore influenza sull'indirizzo generale del Paese. La scuola
classica è ancora la parte principale dell'insegnamento medio; ma è una
scuola in piena decadenza; gli allievi, ad esempio, studiano il latino
otto anni e, dopo così lungo studio, tranne rarissime eccezioni, non
sono neppure in grado di leggere e capire gli autori classici. La
scuola tecnica non ha di tecnico che il nome, ed è in massima parte il
duplicato della classica, sostituendo al latino e al greco alcune
lingue moderne, insegnate in modo così imperfetto che gli allievi,
tranne rare eccezioni, non imparano né a parlarle né a scriverle”. Però
non erano impossibili rimedi efficaci. In primo luogo “la parte
principale dell'insegnamento di Stato dovrebbe in tutti i gradi essere
l'istruzione veramente pratica, sapientemente specializzata, alla testa
della quale l'alta istruzione tecnico-scientifica, industriale ed
agricola, con larghi mezzi di studio e di esperimenti, così che vi si
interessi e contribuisca l'alta industria, e organizzata in modo da
attrarre all'insegnamento le migliori intelligenze del paese, e da
costringere gli insegnanti a tenersi perfettamente al corrente della
scienza.” In secondo luogo, poiché “l'alta scienza tecnica, e in specie
la fisica, la chimica, l'elettrotecnica, la meccanica progrediscono
rapidamente (e, aggiungiamo, lo aveva incentivato proprio la Guerra),
il professore che non si tiene al corrente di ogni nuovo passo della
scienza diventa un ostacolo al progresso del Paese e deve essere messo
a riposo. A tal fine non esiterei a stabilire che queste cattedre si
rimettano ogni dieci anni a concorso. Solo così l'Italia può mettersi
in condizione di sopportare e vincere la concorrenza dei popoli più
progrediti”. “Governo e Parlamento, infine, dovranno dire sempre al
Paese la rude verità, abbandonando la vuota retorica la quale, ponendo
sotto falsa luce fatti e apprezzamenti, costituisce una delle forme più
insidiose di menzogne. Occorre ricordare che i governi sono fatti per
servire i popoli, non per dominarli, per condurli dove non desiderano
di andare. Occorre soprattutto ricordare che sempre che la sola fonte
sicura di ricchezza, di prosperità e anche di vera gloria per un popolo
è il lavoro”. Detto trent'anni prima che i costituenti scrivessero che
l'“Italia è una repubblica fondata sul lavoro”. Lo era il regno
d'Italia, che, per di più poggiava su un’Istituzione di garanzia e di
continuità, la monarchia, proprio perché la Corona era volano di
certezze, come in Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Danimarca, nei Paesi
scandinavi...: cosa ben diversa, anzi opposta, all'elezione diretta di
un presidente di Repubblica, fatalmente preda di pulsioni umorali che,
sic stantibus rebus, spingerebbero alla scelta di un qualunque
Barabba...: celebre “plebiscito”. Secondo Giolitti occorrevano
dunque anni di coraggioso impegno legislativo. L'introduzione del
riparto dei seggi della Camera dei deputati in proporzione ai voti
ottenuti e l'abolizione dei collegi nominali determinarono non solo il
successo di due partiti antirisorgimentali (i socialisti e i cattolici
del partito popolare italiano) ma anche la moltiplicazione dei gruppi
parlamentari, l'instabilità dei governi, la crisi del sistema, con
quanto ne seguì. La riforma della scuola, modellata da Benedetto Croce,
ministro dell'Istruzione nel V governo Giolitti (1920-1921), poi
riformulata da Giovanni Gentile (all'Istruzione dal 1922 al 1924),
rimase lontana dagli orizzonti indicati dallo Statista cent'anni fa. Come
lontani dalla realtà sono stati i lamenti estivi sulle condizioni della
scuola, nelle prime settimane di ritorno in aula scanditi da
incitamenti al lassismo, alla sostituzione dello studio in classe con
libero passeggio a difesa dell'ambiente, a dispute sul diritto degli
scolari di portarsi da casa la refezione come nei secoli andati e in
assenza di un vero “progetto Scuola”. Nulla di strano, quindi, se la
voragine dei Neet si amplierà sino a determinare il cataclisma : è
semplicemente la certificazione della mancanza di vera politica fornita
di senso dello Stato. “Quos Deus vult perdere, dementat prius”.
Aldo A. Mola
RE VITTORIO EMANUELE III (1900-1946) MEZZO SECOLO DI STORIA D'ITALIA Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 6 Ottobre 2019, pagg. 1 e 11.
Lo
scarno “Diario della Casa Militare del Re”, ricostruito per il
1922-1924 su agende del Primo aiutante di campo e carte
dell'Ispettorato di Pubblica Sicurezza del Quirinale, e l'“Itinerario
generale” dal 1° giugno 1896 al 24 ottobre 1946, manoscritto ad
Alessandria d'Egitto da Vittorio Emanuele III, dicono l'essenziale
delle “opere e giorni” del sovrano che per mezzo secolo resse le sorti
dell'Italia. Tra i pochi fatti di rilievo del settembre-ottobre 1922
spiccano le sue visite agli studi del pittore Giuseppe Augusto Levis (a
Racconigi) e dello scultore Leonardo Bistolfi (a Torino), il viaggio in
Belgio (10-14 ottobre) e il rientro in treno da San Rossore (Pisa) a
Roma, la sera del 27 ottobre, ove il presidente del Consiglio Luigi
Facta gli presentò le dimissioni del governo. Dalle 10.30 dell'indomani
il Re ricevette al Quirinale i presidenti delle Camere (Tittoni e De
Nicola), Cocco Ortu, Orlando, Federzoni, Salandra, De Nava e De Vecchi.
Non vi sono appunti per i tre giorni seguenti, nei quali, fallita
l'ipotesi di un governo Salandra e assenti da Roma Giolitti e Meda,
rappresentanti delle maggiori forze costituzionali, sentiti in via
breve direttamente e indirettamente i portavoce del Paese, il 29 il Re
anticipò l'incarico a Benito Mussolini, che giunse a Roma la mattina
del 30, presentò la lista dei ministri e il 31 si insediò a capo di un
governo di unione costituzionale comprendente fascisti, nazionalisti,
popolari, democratici sociali, giolittiani, Gentile all'Istruzione, il
generale Diaz alla Guerra e l'ammiraglio Thaon di Revel alla Marina. Lo
stesso 31, dopo giorni di attesa sotto la pioggerella autunnale con
poche munizioni da fuoco e da bocca, gli “squadristi” sfilarono per
Roma preceduti dalla banda musicale capitolina e ne partirono con treni
sveltamente allestiti. L'indomani Roma era tranquilla, come d'uso. Il 4
il Re si recò all'Altare della Patria e il 5 partì per San Rossore.
L'Italia aveva un governo, approvato il 17 novembre alla Camera con 306
voti contro 116 e il 27 al Senato, ove ebbe 19 voti contrari su 398
membri. All'opposto di quanto a lungo ripetuto quella coalizione non fu
affatto “subito regime”. La Camera era quella eletta nel maggio 1921
con la regìa di Giolitti. Il Senato contava appena due iscritti al
Partito fascista. Re costituzionale per l'Unità e la Libertà Il
Re, trentunenne, aveva i poteri ereditati con la Corona dal padre,
Umberto I, assassinato cinquantaseienne a Monza il 29 luglio 1900. Dopo
il regicidio i più si attendevano una sterzata autoritaria. Invece
Vittorio Emanuele III l'11 agosto giurò fedeltà allo Statuto e dichiarò
di consacrarsi alla “monarchia liberale”: pace interna e concordia “di
tutti gli uomini di buon volere” per consolidare Unità e Libertà. Il 14
novembre 1901 un regio decreto determinò gli “oggetti da sottoporsi al
consiglio dei ministri”, incluse le proposte di trattati e le questioni
internazionali in generale. Precisò che il presidente del Consiglio
(all'epoca era Zanardelli, affiancato da Giolitti all'Interno)
rappresentava il governo e manteneva “l'unità di indirizzo politico e
amministrativo di tutti i ministeri”, i cui titolari dovevano
previamente sottoporgli le loro proposte. Quello degli Esteri doveva
conferire con lui “su tutte le note e comunicazioni” che impegnassero
il governo nei suoi rapporti con gli altri Stati. Il presidente era
dunque l'interlocutore apicale tra il Re e i “suoi ministri”. Nella
cosiddetta “età giolittiana” si susseguirono undici diversi ministeri:
Saracco, Zanardelli, Giolitti (3 governi), Fortis (2), Sonnino (2),
Luzzatti e, all'indomani del 4° governo Giolitti, Salandra, che dopo
l'attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 e la conflagrazione europea,
intraprese la via del cambio di alleanze (dalla Triplice con gli Imperi
Centrali all'Intesa anglo-franco-russa) anche per annientare il
predecessore. Non solo ago della bilancia ma motore immobile della vita
istituzionale, governativa e, di concerto, parlamentare, rimase il
sovrano. Lo si vide nella guerra di Libia (1911-1912) e nella crisi del
maggio 1915 quando Salandra si dimise il 13 perché non contava sulla
fiducia della Camera e il 17, riprese le redini e chiese i pieni
poteri, accordatigli a scatola chiusa dalle Camere il 20-21 seguenti,
due giorni prima della dichiarazione di guerra all'Impero
austro-ungarico. Secondo lo storico Luigi Salvatorelli la decisione
dell'intervento fu il primo dei tre “colpi di Stato” di Vittorio
Emanuele III: nel maggio 1915, nell'ottobre 1922, quando incaricò
Mussolini, e il 25 luglio 1943 quando lo destituì. Nei due primi casi,
in realtà, il Re affidò la ratifica della decisione alle Camere. E nel
terzo? Riportò l'Italia alla sua genesi. Dall'intervento nella Grande Guerra al regime Trasferita
“in sua assenza” la gestione dei regi poteri allo zio Tomaso di
Savoia-Carignano, quale Luogotenente generale (come già avvenuto nel
1848, quando Carlo Alberto, ebbe luogotenente il principe Eugenio),
poiché volle seguire di persona la guerra di concerto con il Comandante
Supremo Luigi Cadorna, il Re non intaccò alcuna prerogativa del
Parlamento. Il 25 settembre 1919 a cospetto dell'irruzione di Gabriele
d'Annunzio in Fiume e mentre la Camera, screditata, era ormai alla
vigilia dello scioglimento, in via eccezionale il Re convocò un
“Consiglio della Corona”: i presidenti delle Camere, del governo, i
suoi predecessori, gli esponenti dei partiti, Diaz e Thaon di Revel.
Confermò la sua visione di Re costituzionale. Il socialista Turati non
si presentò. In un'Europa inquieta (affermazione del comunismo
sovietico in Russia e del nazionalsocialismo in Germania e a fronte
dell'impotenza della Società delle Nazioni, cui rimasero estranei gli
USA) l'Italia passò da democrazia parlamentare a regime di partito
unico. Il cambio non avvenne in un giorno e non fu un colpo di mano di
Mussolini e del Partito nazionale fascista, nel quale nel febbraio 1923
confluirono i nazionalisti di Corradini, Federzoni e Rocco. La premessa
fu la legge elettorale presentata dal sottosegretario alla Presidenza,
Giacomo Acerbo, e approvata dall’apposita Commissione parlamentare
(diciotto membri) presieduta da Giolitti, con il sostegno di liberali,
democratici e popolari. Fortemente maggioritaria, essa assegnò due
terzi dei seggi al partito che avesse raggiunto il 25% dei voti. Il
“listone nazionale” (comprendente Salandra, Orlando e De Nicola,
cattolici, democratici ed ex socialisti) ottenne il 65% dei voti. Dopo
il “delitto Matteotti” (10 giugno 1924) le opposizioni
disertarono la Camera, con l'eccezione di giolittiani e comunisti. Fu
quel Parlamento ad approvare via via le “leggi fascistissime” che anno
dopo anno erosero le libertà politiche senza però intaccare lo Statuto
sotto il profilo strettamente formale. Anche la drastica repressione
della stampa, delle associazioni, dei partiti e dei sindacati liberi
non cancellò la Carta Albertina, posto che questa prevedeva le libertà
civili e politiche ma ne demandava la disciplina alle Camere. Per
esempio l'art. 28 recitava: “La stampa sarà libera, ma una legge ne
reprime gli abusi”. In regime statutario a fare le leggi non era il Re
ma il Parlamento. Se approvate, il Re le controfirmava, come oggi fa il
Presidente della Repubblica (salvo “messaggi”). In “La macchina
imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista“ (il Mulino, 2018)
lo storico dell'amministrazione Guido Melis ha documentato l'oggettiva
continuità tra l'età liberale e la seguente. A parte alcune
estromissioni mirate (per esempio di alcuni massoni, perché
politicamente orientati), i “quadri” delle cariche statuali e locali
dopo il 1922-1925 rimasero pressoché identici. Proposta dal
ministro Rocco, una nuova legge elettorale (17 maggio 1928) conferì al
Gran Consiglio del Fascismo (che ancora non aveva veste istituzionale:
la ebbe solo il 9 dicembre) la designazione di 400 deputati, da
approvare o respingere in blocco. Partiti e politici liberali,
socialisti, cattolici, demo-radicali furono completamente spazzati via.
Solo alcuni loro esponenti avevano o avrebbero trovato riparo in
Senato. Contrariamente all'opinione corrente, il Gran Consiglio non
esercitò alcun potere sulla Corona, avendo unicamente titolo a
esprimere un “parere” (non vincolante) su leggi (mai emanate)
concernenti la successione, le attribuzioni e le prerogative del Re. La
monarchia rimase intatta, anche nel potere esclusivo di dichiarare la
guerra e approvare i trattati (art. 5 dello Statuto), che invano
Giolitti aveva tentato di modificare a favore del Parlamento. L'11
febbraio 1929 il Concordato Stato-Chiesa costituì un altro corposo
successo del regime, rafforzato negli anni seguenti con l'imposizione
del giuramento di fedeltà al duce per tutti i pubblici impiegati. Il
rilancio della stabilità monetaria (“quota 90”), della produzione
cerealicola e di quella industriale, orchestrata dall'Istituto per la
Ricostruzione Industriale, presieduto dal già socialista e massone
Alberto Beneduce, suscitò ampio consenso a favore di Mussolini, forte
di “pieni poteri”. La solitudine del Sovrano... Nel
1936 la lunga e costosa guerra contro l'Etiopia, sorretta da abili
operazioni di propaganda (l'offerta di “oro alla Patria”, la lotta
contro le inefficaci “inique sanzioni” deliberate dalla Società
delle Nazioni) e l'intervento in Spagna a sostegno dei nazionalisti
guidati da Francisco Franco contro la caotica Repubblica rafforzarono
il potere personale del Duce e la liquidazione delle residue
opposizioni all'interno e all'estero. Nel complesso e articolato
consolidamento del proprio “mito”, ormai alternativo alla Corona,
Mussolini si valse di formidabili strumenti per soggiogare l'opinione
nazionale: lo sport, la cinematografia, la radio di stato e i maggiori
quotidiani, allineati alle sue direttive anche tramite il Ministero per
la Stampa e la Propaganda (1935), poi Cultura popolare; nonché la
Milizia, il partito stesso, il Dopolavoro e le denigrazioni, i
sussurri, in specie contro il principe ereditario. Il Re
rimase via via isolato. Non potendo certo valersi di antifascisti in
esilio, ferocemente avversi alla Corona (fu il caso di Carlo Sforza,
ancorché Collare della SS. Annunziata), cercò invano chi, dall'interno
del regime, fosse disposto a contrapporsi al “duce del fascismo” e/o a
temperarne le pulsioni e l'attrazione che Mussolini subiva da parte
della Germania di Hitler, che, più incalzante dopo la visita in Italia
(maggio 1938), lo sollecitava a sbarazzarsi della monarchia. Perciò,
malgrado la personale avversione e i ripetuti tentativi di rinvio, il
Re si trovò anche nell'impossibilità di rifiutare la firma delle leggi
razziali dell'autunno 1938, approvate dalla Camera con 360 voti su 400
(tra i pochi “assenti ingiustificati” vi fu Italo Balbo) e da 150
senatori tra i 160 presenti e i 400 e più in carica. Se, in
alternativa, avesse abdicato, avrebbe scaricato il peso della decisione
sul figlio Umberto, a sua volta al bivio: firmare o abdicare, a favore
del principe di Napoli, di appena un anno e quindi da affidare alla
Reggenza del “prossimo parente” (art. 12 dello Statuto; nel caso era il
duca Amedeo d'Aosta). S'aggiunga che Mussolini era trionfalmente reduce
dalla Conferenza di Monaco dalla quale era uscito quale salvatore della
pace europea con plauso di Gran Bretagna e Francia. Il “consenso” al
regime non venne meno neppure nel 1939, quando l'Italia non entrò in
guerra a fianco della Germania (forte del patto di non aggressione con
l'Unione Sovietica di Stalin), né quando, all'opposto, il 10 giugno
1940 intraprese la “guerra parallela” che di errore in errore si
risolse nella quasi immediata perdita dell'Africa Orientale, nello
sparpagliamento delle armate su teatri bellici remoti (inclusa la
Russia) e nell’incapacità di difendere il territorio nazionale, anche
per le gravi perdite subite dalla Marina e la modestia bellica
dell'Aeronautica. Riprese in pugno le sopite ma mai rinunciate
prerogative della Corona, il 25 luglio 1943 nel corso di un breve
colloquio a quattr'occhi il Re revocò Mussolini, lo fece “fermare” (non
“arrestare” come suol dirsi) e lo sostituì con il Maresciallo Pietro
Badoglio, al quale il “duce” scrisse di essere pronto a collaborare.
Mentre il governo riuscì a ottenere l'armistizio (3 settembre), seguito
dal trasferimento del governo stesso e dei Reali da Roma a Brindisi
(9-11), il “prelievo” di Mussolini al Gran Sasso d'Italia da parte dei
tedeschi pose le premesse dello Stato repubblicano d'Italia (poi
RSI). ...in pace a Vicoforte, in attesa della Storia Il
governo del Re ottenne il riconoscimento da parte degli Alleati,
inclusa l'URSS. Nella primavera del 1944 gli anglo-americani imposero
al Re di trasferire tutti i poteri della Corona al figlio, Umberto
principe di Piemonte (5 giugno), che il 25 giugno sottopose ai
cittadini la scelta della forma dello Stato. Vittorio Emanuele III
abdicò il 6 maggio 1946 e partì alla volta dell'Egitto, unico Stato del
Mediterraneo all'epoca non belligerante con l'Italia (il Trattato di
pace venne fatto sottoscrivere il 10 febbraio 1947). Lì morì il 28
dicembre 1947, cittadino temporaneamente “all'estero”, tre giorni prima
che entrasse in vigore la Costituzione che lo avrebbe privato di ogni
diritto e condannato all'esilio, come toccò ai suoi discendenti maschi
(il repubblicano Giuseppe Chiostergi, massone, propose di estendere
l'esilio anche alle femmine). La vera “storia” di Vittorio
Emanuele III rimane da scrivere. È la biografia degli italiani
dall'Unità nazionale al ritorno della democrazia parlamentare, radicata
nella monarchia rappresentativa, come emerge dal confronto tra lo
Statuto Albertino e la Carta ora vigente. Il 17 dicembre 2017, alla
vigilia del 70° della sua morte, la sua salma è stata trasferita da
Alessandria d'Egitto nel Santuario di Vicoforte (Cuneo), ove due giorni
prima era giunta quella della Regina Elena dal cimitero di Montpellier,
con il placet del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “Requiescant
in pace” nel Mausoleo voluto da Carlo Emanuele I, come dal 2011
auspicato dalla Principessa Maria Gabriella di Savoia con il benestare
del Vescovo Luciano Pacomio, inarrivabile storico del Catechismo
cattolico.
Aldo A. Mola
LA CARTA DEL CARNARO (1920) CENT'ANNI FA. IL POTERE TRA “FANTASIA” E “RAGIONE” Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 29 Settembre 2019, pagg. 1 e 11.
Il Vento soffia dove vuole “Il
Vento soffia dove vuole. Ne senti la voce ma non sai da dove viene e
dove va” (Giovanni Evangelista, 3,8). Oggi bimbi e anziani sfilano
illusi di “far nuove tutte le cose” entro undici anni, come pretese il
Mostro dell'Apocalisse. Ma l'Apocalisse può arrivare prima: la guerra,
la vera e ultima Grande Guerra, con le bombe atomiche. Bello è sognare
il mondo verginale: “Alza la prora e salpa verso il mondo...”. Oggi si
salpa terra terra con internet. Con un ditino. Basta un nulla, il più
stupido degli “errori umani” ed è la catastrofe. Non è questione di
emissione di gas. E' sufficiente un “ordine”, un contrordine male
interpretato. Salta il salvavita. E' la fine. Perciò mentre milioni
di estremisti saltellano (di qua il Bene, di là il Male), forse è tempo
attendere silenti e solitari che il vento passi. Meno Nobel per la
pace, meno succubi di fondamentalismi, più artigiani della Ragione, più
uomini di Scienza e Progresso. E più cognizione della storia del
Pianeta, meno presunzione che i cambiamenti del clima siano opera degli
ominidi. Ci vuol altro! E altro ci fu. Sognare o fare? 12
settembre 1920. Dopo lunga gestazione Gabriele d'Annunzio proclama la
Reggenza del Carnaro. Nell'anniversario della “marcia di Ronchi” Fiume
diviene una città-stato. Non è riconosciuta da nessuno. Ma il Reggente
è pago di sé. Come i suoi seguaci. Molto meno gli abitanti che stanno
per affrontare il secondo inverno di ristrettezze. Mesi prima era
fallito il sogno di fare di Fiume la capitale di una fatua “Lega dei
popoli oppressi” contro la “Lega delle Nazioni” decretata dal Congresso
di pace di Versailles il 28 giugno 1919. “Fiume” (cioè un “governo” con
ministro per gli “affari esteriori”) si rivolse a tutte le possibili
minoranze del globo terracqueo. Cercò di capitanare quanti lamentavano
che gli fossero stati negati i sogni dell'infanzia, eccetera eccetera.
Pensò di coinvolgere persino i cinesi della California. Sognare è un
diritto. Tenere i piedi per terra è un dovere per chi ha responsabilità
di governo. Risultato pratico della Lega fiumana? Zero. L'Europa
era nel caos. La guerra (una follia decisa da una crestomazia di
sconsiderati capi di Stato, militari e diplomatici imbolsiti) era
costata più o meno quindici milioni di morti senza una motivazione
plausibile. Tuttora la sua “spiegazione” rimane senza risposta, se non
la stupidità di chi governa. La guerra aveva spalancato le porte alla
rivoluzione e aveva messo alle corde il progresso civile realizzato tra
il 1870 e il 1914: la Belle Epoque, invisa ai clericali attratti dalle
tonde gambe delle Folies Bergères e ai socialmassimalisti che volevano
andarle a vedere senza pagare il biglietto. Mentre Bulgaria,
Romania, Ungheria e Germania erano nel caos, la Gran Bretagna era
squassata da scioperi mai visti prima e la Francia era dilaniata tra
nazionalisti e socialisti, a chi mai poteva importare di Fiume? Ve ne
erano tante in Europa. Nell'estate del 1920 l'Armata della Russia di
Lenin invase la Polonia. Anche in Italia scattò la “rivoluzione”
all'italiana: l'occupazione delle fabbriche. Gli estremisti ritennero
che impadronirsi del macchinario e della produzione comportasse il
dominio dello Stato. Forse non avevano mai letto “Il Capitale” di Karl
Marx. Arrivavano da Sorel e magari da Giovanni Gentile: la
“volontà...”, l' “Atto puro”, che ha afflitto generazioni di liceali ma
non è mai stato spiegato in termini di passaggio dalla fabula alla
cruda realtà. L' “atto puro” abbassa il costo del pane si domandava
Giuseppe Peano, capofila dei logici-matematici e persino massone? Mentre
Arturo Labriola, ex anarco-sindacalista e ministro del Lavoro nel
governo Giolitti trattava in sotterranea combutta con industriali e
sindacati per chiudere pattiziamente la “vertenza” il 12 settembre
1920, anniversario della “marcia di Ronchi” ferma da 365 giorni, il
Vate emanò dunque la Carta del Carnaro. Il Poeta e l'anarco-sindacalista L'interesse della Carta venne riproposto oltre mezzo secolo fa da Renzo De Felice. Spesso
fantasiosamente è stato asserito che essa abbia una ispirazione
massonica. Anche a rettifica di qualche antichissima personale
concessione al mito, l'asserzione merita una puntualizzazione. In primo
luogo, malgrado le variegate leggende, Gabriele d'Annunzio non venne
mai iniziato in alcuna loggia italiana. Da qualche parte e in qualche
modo ne sarebbe rimasta traccia. La storia si scrive sui documenti, non
su fantasie/o insinuazioni e/o supposizioni. Niente documenti, niente
storia. Massone, orgoglioso di esserlo, fu Giosue Carducci, seguito da
Giovanni Pascoli, che però, dopo la fugace iniziazione nella “Rizzoli”
di Bologna il 23 settembre 1882, non frequentò alcuna loggia. Nei Poemi
del Risorgimento riecheggiò suggestioni liberomuratòrie e persino
carbonare, ma non fece alcun esplicito cenno a un suo vissuto tra le
colonne. D'altra parte viveva sotto l'occhiuto controllo della
bigottissima sorella Maria (Mariù), che amava i “fratelli” come il fumo
negli occhi e alla morte di Giovanni “pulì i cassetti” dalle carte
scomode. Morti a breve distanza i due Grandi, d'Annunzio ne
afferrò l' “eredità” di Vate. Viveva in Francia, ma andava bene
così. Non era difficile oscurare i “lamenti” di Sergio Corazzini o di
Guido Gozzano. L'Italia alzava la prora e andava in Libia...
Certo anche Gabriele (“Ariel” tra i “martinisti ”?)
ebbe relazioni politico-culturali con massoni e massonerie, come ogni
altro personaggio rilevante tra Otto e Novecento, perché all'epoca le
Comunità liberomuratòrie euro-americane non solo erano onnipresenti
nella vita pubblica (politica, sociale, economica, artistica,
assistenziale, come poi fecero Rotary e Lions Club) ma lo mostravano
pubblicamente, sulla scia secolare di filantropi e di benefattori. Però
i “contatti” e le ripetute “collusioni” accertate nel tempo tra
d'Annunzio e i Labari di loggia (maggio 1915 in vista del Discorso del
5 maggio a Quarto dei Mille, nel settembre 1919 per
l'organizzazione della “marcia di Ronchi” e persino dopo l'ottobre
1922, quando i Legionari dannunziani si contrapposero agli squadristi
mussoliniani) non comportavano affatto identificazione. Si va, si vede,
si resta come si è. La pretesa genesi massonica della Carta
viene asserita perché il suo primo estensore, Alceste De Ambris,
anarco-sindacalista e dal gennaio 1920 segretario degli Affari
Civili (una sorta di ministro dell'Interno) del comando dell'Esercito
liberatore in Fiume, un giorno entrò in loggia. Ma il suo ingresso “tra
le colonne” avvenne a Parigi il 23 febbraio 1925, precisamente nella
loggia “Italia” n. 450, della Gran Loggia di Francia, con sede in rue
Puteaux. Secondo Enrico Serventi Longhi (“Alceste De Ambris. L'utopia
concreta di un rivoluzionario sindacalista”, FrancoAngeli ed.)
l'iniziazione dell'ex fiumano e di alcuni suoi compagni servì a Luigi
Campolonghi, esponente in Francia della Lega internazionale dei diritti
dell'uomo, per spostare l'equilibrio della loggia su una posizione
antifascista più militante rispetto alla linea del suo maestro
venerabile, Ubaldo Triaca (antico iniziato della “Ausonia” di Torino).
Di sicuro De Ambris rimase poco nell' atelier parigino, proprio perché,
a differenza del Grande Oriente (rue Cadet), la Gran Loggia di rue
Puteaux non gradiva pronunciamenti politicamente troppo impegnativi.
Non intendeva essere coinvolta in vertenze non condivise dal governo
nazionale. Perciò De Ambris preferì migrare in una loggia di Tolosa,
più pugnace rispetto alla consorella. Tre anni dopo a Parigi venne
costituita la loggia “Giovanni Amendola”, formata da repubblicani
(Giuseppe Leti, Eugenio Chiesa, ex ministro e di lì a poco gran maestro
del Grande Oriente d'Italia dell'esilio, Cipriano Facchinetti, ministro
della difesa nel governo di Alcide De Gasperi, Luigi Campolonghi) e due
socialisti (Arturo Labriola, già ministro del Lavoro nel V governo
Giolitti, dal 1920 al 1921, e successore di Chiesa al vertice del GOI
dell'esilio, e Alberto Giannini, poi autore delle esilaranti “Le
memorie di un fesso. Parla Gennarino fuoruscito con l'amaro in bocca”,
pubblicato nel 1934 e ristampato in anastatica dall'editore Forni). Ma
quelle miserie partitico-politiche che cosa hanno a che fare con la
massoneria? Nulla. Quali che siano state le vicissitudini
liberomuratòrie di De Ambris oltralpe è storiograficamente
improponibile sostenere che la Carta del Carnaro sia stata insufflata
da una iniziazione di cinque anni successiva alla sua appassionata
ventura a fianco del Vate. E' sempre arrischiato sostenere che le
azioni di un qualunque politico, militare, artista, scienziato siano
spiegabili quale diretta estrinsecazione di principi massonici appresi
nella Camera di Riflessione e all'ingresso in loggia, anche perché in
molti casi questo non ebbe alcun seguito: una caramella senza
retrogusto. L'elenco di capi di Stato, primi ministri eccetera massoni
per un sol giorno potrebbe essere lunghissimo. Per il “caso Spagna” ne
ha scritto José Antonio Ferrer Benimeli S.J.. Per la Francia
Yves-Hivert Messeca. In Italia il tema è ancora “tabù” e se ne sussurra
con molta approssimazione. Ancor meno proponibile è una sorta di
massonizzazione “retroattiva”, a meno che a carico dei massoni si
voglia adottare il “battesimo di desiderio”, in forza del quale si è
tali anche senza essere mai stati iniziati o che se si entra in loggia
alla vigilia della morte (come fece Voltaire) vuol dire che lo si era
sin dal grembo materno. Predestinati al culto del Grande Architetto
dell'Universo. In tale visione (storiograficamente inconsistente)
basterebbe proclamarsi fautori della fratellanza tra i popoli,
dell'uguaglianza dinnanzi alle leggi e della libertà per essere
“grembiulini” ad honorem. Va aggiunto (per quanto sia scomodo
ricordarlo) che tra i massonofagi più spietati si contarono anche
parecchi massoni delusi. Bastino i casi di Augustin Barruel e, per
l'Italia, di Francesco Gaeta, molto apprezzato da Benedetto Croce, che
non risparmiò mai sanguinose stilettate contro il pacifismo
umanitaristico dei massoni, “cultura ottima per commercianti e
insegnanti elementari”. Tra il massonissimo Léon Bourgeois, premio
Nobel per la pace e primo presidente della Società delle Nazioni dal
suo insediamento a Ginevra, e un De Ambirs, le distanze sono
incolmabili. Fratelli? Agli antipodi. La Carta del Carnaro e le Internazionali: a ciascuno il suo Va
aggiunto che alcuni tra gli articoli più rimarchevoli e potenzialmente
sospetti di massonismo acuto della Carta del Carnaro non si debbono
affatto a De Ambris ma proprio a d'Annunzio. Fu il Vate a scrivere ex
novo l'articolo XIV (“La vita è bella...; il lavoro, anche il più
umile, anche il più oscuro, se sia bene eseguito, tende alla bellezza
ed orna il mondo”), il LXIII (insegnamento del canto corale e
dell'ornato) e il memorabile LXIV: “Alle chiare pareti delle scuole
aerate non convengono emblemi di religione né figure di parte politica.
Le scuole pubbliche accolgono i seguaci di tutte le confessioni
religiose. I credenti di tutte le fedi, e quelli che possono vivere
senza altare e senza dio. Perfettamente rispettata è la libertà di
coscienza. E ciascuno può fare la sua preghiera tacita....”. Era
l'estate del 1920. Lì d'Annunzio andò “oltre” il mondo a lui
contemporaneo, fatto di fondamentalismi e di estremismi, un po' come
l'attuale. Fu il Profeta della libertà assoluta. L'Italia ancora
arranca. Anzi sprofonda nelle sabbie mobili del neo-clericalismo,
tra ambientalismo pseudo-evangelico e fondamentalismo costumale
arcaico, basato sulla retrocessione della donna ad animale
domestico. Il paradosso di Fiume sta nel fatto che voleva
essere fulcro di una Internazionale. Ma ve ne erano almeno altre tre:
la “rossa”, cioè la cosiddetta Terza internazionale varata a Mosca da
Lenin completa di un “catechismo” di venti punti programmatici (cui si
aggiunse l'incompatibilità tra i partiti comunisti e le logge); l'
“azzurra”, formata dalla catena d'unione tra la Società delle
Nazioni e le comunità massoniche; e la chiesa cattolica apostolica
romana, forte di una struttura universale e piramidale che non trova
confronto con quella anglicana, né con i caleidoscopi delle chiese
evangeliche e riformate né infine con i patriarcati autocefalici delle
chiese ortodosse, dai legami gerarchici e disciplinari assai labili. Si
potrebbe aggiungere l'internazionale del capitale finanziario,
dominatore sull'industria, se non si corresse il rischio si sconfinare
nel labirinto visionario di monomaniaci quali Malinsky e De Poncins
autori di “La guerra occulta: armi e fasi dell'attacco
ebraico-massonico alla tradizione europea”. Il Legionario forte e bello, ma un po' superato Però
anche Fiume ebbe i suoi limiti. Oggi si cerca di coglierne la
modernità, il “futuribile”. Ma ebbe i suoi lati oscuri e molti
infantilismi. Basti d'esempio la visione superomistica venata di
paleo-maschilismo acuto, avallata dal proemio dannunziano all'
“Ordinamento dell'esercito fiumano”. Il “legionario” non poteva
dirsi “compiuto” se non risultava esperto “nel correre, nello
spiccar salti, nello scagliar pietre, nel levare pesi, nel fare ai
pugni, nel lottare, nel remare, nel nuotare, nel cavalcare qualunque
cavalcatura, nel montare su qualunque albero o trave, nel superare muri
e cancelli, nell'inerpicarsi fino a una finestra, a una gronda, a un
tetto, a un fumaiolo; nel gettarsi giù da un'altezza più disperata;
nello spalancare una porta con un colpo di spalla, nell'imitare le voci
degli uomini e delle bestie, nell'intraprendere con le mani e coi piedi
la più ripida delle rocce, nel salire e nel calarsi per una fune, nel
passare attraverso le fiamme salvo, nell'assottigliarsi per passare
attraverso spiragli e fenditure, nel raggomitolarsi per restar
dentro al più stretto nascondiglio in agguato, nel fischiare forte e
nel variare il fischio per segnali, nell'imitare le voci degli uomini e
delle bestie, nel cantare, nel sonare, nel ballare”. Un “guerriero” che
andava bene per fare scampagnate ma un tantinello superato dal
progresso della tecnologia bellica e dal corso della storia. Alle
spalle, come detto, l'Europa aveva la Grande Guerra; dinnanzi a sé la
fase più cruda dei totalitarismi e la seconda guerra mondiale: la
guerra dei materiali, la scienza, la pianificazione del dominio
tecnologico. L' “atomica”. Il “ceffone” non bastava più. L'
“ardito” aveva ben altri tavoli sui quali mostrare i suoi requisiti, se
ne aveva. I muscoli passano, il cervello rimane. Valeva per il 1920,
vale oggi. Nell'ultimo articolo della Carta del Carnaro per una
città dal clima severo qual è Fiume d'Annunzio sognò l' “edificazione
di una Rotonda capace di almeno diecimila uditori, fornita di gradinate
comode per il popolo e d'una vasta fossa per l'orchestra e per il coro.
Le grandi celebrazioni corali e orchestrali sono totalmente gratuite
come dai Padri delle Chiesa è detto delle grazie di Dio”. Rimane da
fare. Chissà? E' un'idea per il 2020, quando Fiume sarà Capitale
europea della Cultura. Nel drammatico secolo scorso a Fiume il Vento
è andato e venuto. Sul golfo riecheggia il verbo di Giovanni
Evangelista: “Io sono una voce che grida nel deserto...”. Si sente il
bisogno profondo di solitudine, di meditazione, di risanare le ferite.
Lo scrisse il “fratello” Salvatore Quasimodo, rievocato da Enrico
Tiozzo in “Il Premio Nobel per la letteratura” (ed.Aracne):
“Ognuno sta solo/ sul cuore della terra/ trafitto da un raggio di
sole/ed è subito sera”. Cent'anni dopo, la Carta del Carnaro va riletta
al crepuscolo, a voce bassa. Solo così si intravvede meglio l'avvento
della Luce.
Aldo A. Mola
NO GERMANIA, NO IMPERO DUE MILLENNI DI GUERRE, AMICIZIA, PASSIONI E RIVALSE. L'AFFINITÀ ITALO-GERMANICA Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 22 Settembre 2019, pagg. 1 e 11.
Quando il braidese Giovanni Piumati insegnava italiano a Guglielmo II Tra
Otto e Novecento le relazioni amichevoli tra il Regno d'Italia e
l'Impero di Germania raggiunsero l'apice: scambi economici e
soprattutto fitto dialogo culturale, con riflessi anche sulle Forze
Armate, particolarmente quando Capo di stato maggiore dell'esercito fu
Alberto Pollio (Caserta, 1852-Torino, 1914). Filosofi, letterati e
artisti italiani erano di casa nelle Università germaniche e a loro
volta i sommi studiosi tedeschi si facevano un punto d'onore di
dialogare con Giosue Carducci, Benedetto Croce e Giovanni Gentile,
traduttore di Kant. Anche i piemontesi fecero la loro parte. Fra i
molti, Giovanni Piumati (Bra, 1850-Viù, 1915), docente di letteratura
italiana a Colonia e a Bonn, tenne lezioni di italiano al futuro
imperatore Guglielmo II, che, grato e ammirato, lo volle precettore dei
figli. Iniziato massone nella prestigiosa loggia “Rienzi” di Roma,
Piumati curò l'edizione del Codice Atlantico di Leonardo da Vinci su
mandato dei Lincei e introdusse nella loggia “Cavour” di Torino il
concittadino Beniamino Manzone, pioniere della storia del Risorgimento.
L'Italia di allora non confondeva Berlino con Vienna: l'irredentismo
era una partita aperta esclusivamente con Vienna. Alla Germania,
invece, l'Italia doveva Venezia e, indirettamente, Roma, ove Raffaele
Cadorna aveva fatto irruzione il 20 settembre 1870, dopo la sconfitta
di Napoleone III a Sédan e la proclamazione della Terza Repubblica a
Parigi. Ma in passato l'immagine della “Germania” non era stato così lineare nella cultura “patriottica” italiana. Da Cesare al Kaiser “Sta
Federico imperatore in Como...”. È l'incipit della “Canzone di Legnano”
scritta dall'insuperabile Giosue Carducci nel 1876 e limata sino al
1879. Il “maestro e Vate della Terza Italia” omise che erano i comaschi
prima e più che Barbarossa a volere la distruzione di Milano. Già
nel 1872 aveva fatto ammenda anticipata dei suoi successivi e un
po' scolastici entusiasmi per il “Carroccio”. In “Su i campi di
Marengo” aveva inneggiato alla vittoria sulla “lega lombarda”
dell'“imperator romano/ Del divo Giulio erede, e successor di Traiano”.
Sentiti “gli squilli/ de le trombe teutoniche fra il Tanaro ed il Po/
in cospetto a l'aquila gli animi ed i vessilli/ d'Italia s'inchinarono
e Cesare passò”. Era l'Imperatore. Originariamente duca di Svevia,
pacificatore della lunga diatriba tra guelfi e ghibellini, Federico I
Staufen, Barbarossa, era il Kaiser, la reincarnazione dell'Imperatore
romano. Con la pace di Costanza (1183) egli infine pattuì il modus
vivendi tra Sacro romano impero e Comuni. Deposta la veronica di
mazziniano e sempre ammiratore di Garibaldi (“Italia e Vittorio
Emanuele”), storico e politico ancor più che poeta, Carducci insegnò
che il legame tra Italia e Germania non nasce da capricci. È nella
storia. È il fulcro dell'Europa. Ma non è l'“asse Roma-Berlino”, errata
formula in uso ottant'anni addietro. Nell' epoca evocata da Carducci ,
l'attuale capitale della Germania era un villaggio insignificante.
L'Imperatore, invece, era insegna sacra della grande storia d'Europa,
sintesi tra quanto rimaneva della Romanità e la cristianità
d'Occidente. L'equivoca formula Roma-Berlino. Gli Ottoni e la Renovatio Imperii Romanorum Roma
è l'Italia, Berlino è solo una (e recente) delle tante città importanti
dell'arcipelago tedesco, capitale della marca di Brandeburgo dal 1451
(quando in Italia svettavano Milano, Venezia, Firenze, Napoli,
Palermo...) e del regno di Prussia dal 1701, che anticipò di un
decennio quello dei Savoia re di Sicilia e poi di Sardegna. La Germania
non è la borussica Berlino: è il desiderio millenario dei tedeschi di
essere anch'essi Romani. A tutto vantaggio dell'Italia. Furono
Giulio Cesare e Augusto a “cercare” la Germania. Lo sterminio delle
legioni comandate da Varo nella selva di Teutoburgo lasciò il segno. Ci
riprovò Domiziano nei decenni seguenti, sino a occupare i Campi
Decumati, che pochi ricordano. Lì l'Impero romano si fermò e si
trincerò, come fece col vallo Adriano fra Britannia e Caledonia e altre
difese verso un “nord” che andava arginato con muraglie complete di
torri armate. Bastavano truppe scelte anziché costosissime legioni
stanziali. Il pericolo per l'Impero romano non arrivava dalla futura
Inghilterra né dalla Germania ma da est: Goti, Quadi, Marcomanni e via
continuando sino ai Vandali. Il visigoto Alarico, che non aveva nulla a
che fare con i teutoni della Germania propriamente detta, penetrò in
Italia come un coltello nel burro. Sconfitto da Stilicone a Pollenzo
(oggi Cherasco, sul Tanaro, nel Cuneese) e a Verona, nel 410 saccheggiò
Roma. Un colpo al cuore non solo dei pagani ma anche dei cristiani. Poi
fu la volta di Attila, “re” degli unni, fermato da Enzo con le armi e
da papa Leone Magno con lo Spirito. Neppure lui era “tedesco”. Come lo
era solo per vago ceppo etnico il goto Genserico, che dall'“Africa”
assalì Roma e la devastò una seconda volta nel 455. Infine vennero gli
Eruli di Odoacre, che depose Romolo Augustolo. I tedeschi hanno
costituito la continuità della Germania. Gli altri popoli erratici
nominalmente germanici, ignari di agricoltura, artigianato e di
costruzione di città, sono stati sommersi dalle sabbie del tempo.
Quanti tunisini si considerano discendenti di Genserico? Quanti
spagnoli si sentono visigoti o vandali? Il ventre molle
è là, sulle Alpi Orientali, non sulla linea dalle Marittime al Brennero
e all'Isonzo. Da quel fronte dilagarono gli Ostrogoti di Teodorico, i
Longobardi di Alboino... Da lì passarono anche Avari (ne scrisse Paolo
Diacono in pagine che ancor oggi fanno rabbrividire), Magiari, Slavi e
via continuando, mentre il Mezzogiorno era preda di “saraceni”, la
Sicilia dominio arabo e gli abitanti della Sardegna lasciavano le
indifendibili coste per arroccarsi tra i sassi, nuragici nei millenni. Dopo
il saccheggio di Montecassino e di Ostia, Roma si chiuse nelle Mura
Leonine, un cerchio modestissimo rispetto alle maestose Aureliane: dà
la misura di come si fosse ridotta la Caput Mundi. I Bizantini avevano
fermato gli Ostrogoti con la guerra logorante capitanata da Narsete e
Belisario: un rullo compressore sulla popolazione che ne fece le spese.
L'Italia meridionale venne ridotta a macerie desolanti. Ma Bisanzio
aveva altre priorità: difendere il suo settentrione dalle popolazioni
“barbariche”, spingendole verso ovest. Più ne andavano alla volta di
Italia, Gallia, penisola iberica, meno ne insidiavano il confine
settentrionale. Inoltre la missione di Costantinopoli era ormai fermare
l'avanzata degli arabi, dell'islam, che in mezzo secolo aveva
soggiogato l'intera Africa settentrionale e la Spagna meridionale,
aveva fatto irruzione in “Francia” (fu fermata a Poitiers) e dove
arrivava faceva il deserto. Massacri come ancora oggi ne avvengono in
molti paesi lacerati da diverse “osservanze” islamiche e come in
Europa accadde nei secoli passati. Neppure Carlo Magno poté
eliminarne la minaccia mortale. Annientò spietatamente Avari e Sassoni
e si spinse a Roma per la sua incoronazione: Sacro romano imperatore.
Senza Roma non c'era Corona imperiale. Ma il suo impero andò in
frantumi e nell'Italia centro-meridionale il caos rimase più o meno
qual era. Un secolo e mezzo dopo (centocinquant'anni voglion dire
almeno cinque generazioni dell'epoca) furono Ottone I di Sassonia e i
suoi immediati successori (figlio e nipote) a ridare splendore
all'Impero, comunemente detto “Germanico”. Nel frattempo gli Ungari
erano arrivati in Lombardia, i Saraceni avevano incendiato Torino, le
coste erano di chi ci arrivava. Berengario del Friuli, Ugo di Provenza,
Berengario d'Ivrea avevano alzato le insegne di “re d'Italia”. Ma fu
appunto Ottone I a farsi incoronare Sacro Romano Imperatore e ad
affrontare il vero pegno: la liberazione del Mezzogiorno d'Italia dagli
islamici, quali ne fossero i referenti “politici”, d'Oltremare e
d'entro terra, collusi. Il progetto aveva un'unica soluzione: il patto
di ferro con Bisanzio, il fronte comune della cristianità. Nel 966
Ottone I fece incoronare suo figlio “collega nell'impero” (come
avveniva nei migliori tempi della Romanità) e gli ottenne in sposa la
bizantina Teofano (972). Era il sogno di un nuovo corso per lo spazio
euro-mediterraneo: l'unità contro gli assedianti. Ottone II si espose
in prima persona. Nella battaglia navale di Capo Cotrone (Rossano, in
Calabria) venne sconfitto (982). Si salvò a nuoto. Morì tre anni dopo
mentre preparava una nuova offensiva per liberare il Mezzogiorno dagli
islamici e un'altra per respingere gli Slavi sul confine orientale. Il
figlio, Ottone III (980-1002), su impulso del suo maestro, Gerberto di
Aurillac (poi papa Silvestro II), annunciò la Renovatio Imperii
Romanorom, incardinata sul primato della Città Eterna. Con tutto il
rispetto che si deve loro, tra i vari pretendenti “locali”, precedenti
e successivi, alla corona d'Italia (è il caso del meritorio Arduino
d'Ivrea, una tantum episcopicida), l'unico a pensare e a parlare in
termini autenticamente universali, “romani”, fu proprio il
sassone-bizantino Ottone III di Sassonia. Gli Staufen: impero italo-germanico “fronte Sud”. Ci
volle un altro secolo e mezzo prima che le insegne dell'Impero
tornassero a guidare l'”idea” di Roma. Dopo le logoranti dispute
sull’investitura dei vescovi-conti (chiusa con il concordato di Worms
nel 1122 a vantaggio di “Piero” (come nell'Ottocento scrivevano Antonio
Fusinato e Carducci), oggettivamente alternativo a Cesare). Avvenne con
Federico I di Svevia (1152-1190). L'imperatore in Italia ha goduto di
pessima fama, per la sua lunga lotta contro i comuni, sette secoli dopo
assunta quale alba del Risorgimento e della lotta per l'indipendenza
nazionale. La “propaganda” capovolse la storia. Vi concorsero Massimo
d'Azeglio, quando ancora si dedicava alla pittura e alla narrativa, e
l'abate di Montecassino, Luigi Tosti, primo “storico” della Lega
Lombarda. La realtà è del tutto diversa. All'epoca di Federico
Barbarossa da mezzo secolo erano iniziate le crociate, la conquista
della Terra Santa, poco gradita a Bisanzio. “Oltremare” l'Europa
occidentale mostrò tutti i suoi limiti. I re di Francia, Inghilterra e
altri insigni “capitani” (Corrado di Monferrato) mirarono al proprio
interesse. Gli “stati” sorti dalle crociate ebbero piedi di argilla.
Anche gli Ordini religioso-cavallereschi, dai Gerosolimitani ai
Templari stessi, non ebbero un vero progetto unitario. Gli unici a
“pensare in grande” rimasero Federico I e suo nipote, Federico II di
Svevia, sepolto nella cattedrale di Palermo: sintesi della forza
militare dei Normanni, della Germania e della Romanità. L'Impero era
anzitutto l'Italia. E fu in Italia che si consumarono le battaglie
decisive: la sconfitta di Re Enzo, catturato e imprigionato a vita, di
Manfredi, morto in battaglia, e di Corradino di Svevia, decapitato su
ordine del francese Carlo d'Angiò. Il nuovo re di Napoli era forse un
difensore dell'idea di Italia? Federico II Staufen, che indossando la
dalmatica ascoltava messa sfogliando il Corano, e i suoi discendenti
erano forse “tedeschi” o uomini “universali”? Va aggiunto che, coperti
sul fianco dall'attivismo mediterraneo di Federico II, i cristiani di
Spagna poterono accelerare la riconquista. Dante Alighieri per Arrigo VII di Lussemburgo L'idea
di Sacro Romano Impero sopravvisse alla catastrofe della Casa di
Svevia. Ne scrisse Dante Alighieri, che sperò nella “missione” dello
sfortunato Arrigo VII di Lussemburgo. Nel 2021 quale “Dante” verrà
narrato? Come osservò Carducci quando rifiutò la “cattedra dantesca”
propostagli da Francesco Crispi e da Adriano Lemmi, gran maestro del
Grande Oriente d'Italia, Alighieri pensava in “medievale”: Impero e
Papato. Duecento anni dopo, al termine delle catastrofiche guerre
franco-ispaniche per l'egemonia sull'Europa, l'Italia finì sotto
dominio germanico per interposta Spagna, da Carlo V d'Asburgo e suoi
successori, sino a Filippo V di Borbone. Preda della riforma scatenata
da Martin Lutero, degli evangelici seguaci di Calvino e di altri
turbamenti psico-sociali con paramenti religiosi dottrinari
(anabattisti, ecc.), la Germania uscì di scena. La Guerra dei
Trent'anni la polverizzò. In Italia nessuno se ne occupò più.
Imperatore lontano (e irrilevante), briglie sciolte. A riportare i
germanofoni in Italia furono le Guerre di Successione del Settecento.
Torino fu salvata da Eugenio di Savoia, che non giunse da solo contro
le truppe francesi ma con corpi di élite dell'Impero. Nel 1714
Lombardia e regno di Napoli passarono a Vienna. Dopo vari cambi di
dinastie, all'epoca usuali, i Borbone ebbero il Mezzogiorno e
Parma-Piacenza. Vienna dominò Milano, il Granducato di Toscana e
Modena. Venezia ormai sprofondava nell'ozio. Mentre Parigi proteggeva i
“lumi”anticlericali e libertini lo Stato pontificio aveva nei cattolici
Asburgo l'unico vero baluardo. Maria Teresa d'Asburgo ancora oggi è
venerata quale sovrana più illuminata di Voltaire. Suo marito, il
pacatissimo Francesco Stefano di Lorena, pur massone, altrettanto. La
Rivoluzione del 1789 e la successiva età franco-napoleonica sconvolsero
i punti cardinali. In riposta agli equilibri imposti dal
Congresso di Vienna (1815) e dalla Santa Alleanza i “patrioti” italiani
furono naturaliter antiasburgici, da Federico Confalonieri, iniziato
massone dal fratello del re d'Inghilterra, a Silvio Pellico. Nacque
confusione tra Vienna e la Germania, a sua volta divisa tra “grande” e
“piccola”. Presto dimenticato il capolavoro di Madame de Stael, De
l'Allemagne, la letteratura risorgimentale fu compattamente
antitedesca, per l'arbitraria identificazione tra lingua, nazione e
potere politico (e “sangue” o “razza”, come al tempo di diceva). Nel
famoso “Sant'Ambrogio” Giuseppe Giusti inneggiò ai croati,
“Povera gente! Lontana da' suoi,/ in un paese che qui le vuol male”.
Non prevedeva affatto che l'Impero d'Austria (non più Sacro e Romano)
era l'unico freno contro gli appetiti atavici di popoli che, appena
l'avessero potuto, avrebbero fatto di più e di peggio a danni degli
altri, a cominciare dagli slavi, del nord e del sud. Superfluo
ricordare che l'Italia deve Venezia alla vittoria della Prussia
sull'Austria nel 1866, quando purtroppo essa dovette registrare un
insuccesso a Custoza e una sconfitta a Lissa. Dopo la vittoria su
Napoleone III a Sedan e la proclamazione dell'Impero di Germania nel
Salone degli Specchi del Castello di Versailles (gennaio 1871), grati
per la neutralità dell'anno precedente i Kaiser visitarono
ripetutamente i Re d'Italia a Roma. Anche senza il colpo di mano
francese su Tunisi (1881) la linea era chiara. L'aveva anticipata
Francesco Crispi in visita a Bismarck nel 1877, mentre maturava
l'intesa dei Tre Imperatori (Berlino, Vienna, San Pietroburgo) contro
l'anarchia e la repubblicanizzazione” dell'Europa, di impronta francese. La
seconda metà dell'Ottocento fu la stagione d'oro dell'amicizia
italo-germanica. Da Oltralpe in Italia giunsero filosofia e scienze,
tecnica e filologia... Mommsen e Gregorovius rinnovarono alla radice
gli studi di romanistica e medievistica. Carducci imparava il tedesco
dal veneziano Emilio Teza. I politici italiani di spicco capirono bene
che la Germania era la garanzia contro ogni rivalsa offensiva di Vienna
ai danni dell'Italia; e Roma si concesse il lusso di tener le distanze
da Parigi, di liberarsi dalla francofilia d'età risorgimentale.
Giolitti proseguì nel solco di Crispi. Non si lasciò mai intenerire da
Vienna. Ammirò invece la Germania di Bernhard von Bulow, ove il
socialismo riformistico prosperava all'ombra dell'industrializzazione e
della modernizzazione della vita quotidiana: un modello per l'Italia,
ancora così diversificata al suo interno. I voltafaccia del Novecento e le loro ripercussioni sul presente La
catastrofe venne con la firma dell'arrangement di Londra del 26 aprile
1915, che impegnò Roma a entrare in guerra entro trenta giorni contro
tutti i nemici dell'Intesa. Il governo Salandra-Sonnino aveva qualche
fondato argomento per combattere la duplice monarchia asburgica. Non ne
aveva alcuno di veramente credibile per dichiarare guerra alla
Germania: nessun contenzioso territoriale, economico, né gare nei
domini coloniali. Le motivazioni addotte dal governo Boselli
nell'agosto 1916, redatte in tre diverse versioni, furono e rimangono
sconcertanti per la loro fatuità. Iniziò così quella nuova
“guerra dei trent'anni” che dal 1938 vide Roma sempre più appiattita
sulla strategia politico-militare del Terzo Reich germanico di Hitler,
rafforzato dall'annessione dell'Austria. Ostile contro la perfida
Albione dei cinque pasti al giorno e contro la Francia
demo-pluto-massonica e socialista l'Italia di Mussolini finì per
allearsi con il “nemico storico” del secolo precedente. Tornò a
confondere la parte con il tutto, il nazismo con la Germania
millenaria, che era anche civiltà romana, umanesimo, universalità: le
coreografie naziste di Norimberga accecarono tanti italiani, che si
proposero di imitarle. Ottant'anni dopo sentimenti e
risentimenti continuano a oscurare il giudizio della storiografia.
Eppure non dovrebbe essere difficile capire che l'Italia ha tutto da
guadagnare dall'amicizia (sia pure asimmetrica) con la Germania,
proprio per sottrarsi all'invadente influenza francese sulla sua
economia e per contenere la tracotante ostilità degli Stati sorti dalla
disgregazione dell'impero asburgico e della Jugoslavia. Può bilanciarne
l'ambizione a dominare l'Adriatico da Trieste alla Grecia solo passando
per Berlino, su un piano di confronto franco, che lasci alle spalle la
ruggine del recente passato, l'eco di quanti (Luigi Federzoni e un
famoso spretato, capofila del razzismo in Italia) un secolo addietro
deploravano l'assalto tedesco all'Italia per alimentare l'odio contro
il “brutale imperialismo teutonico”. Meno ancora che nei secoli
andati, il possibile “progetto Italia” del Terzo Millennio non può
reggere su fantasie propagandistiche e promesse illusorie. Deve avere
fondamenta nella cultura, nella capacità produttiva, nella stabilità se
non riduzione del debito pubblico. Diversamente è solo retorica.
Aldo A. Mola
LEGIONARI FIUMANI PER I “LUMI” E LA FRATELLANZA DEI POPOLI Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 15 Settembre 2019, pagg. 1 e 11.
Legionari in cerca di un lavoro qualunque “Compagni
legionari, Vengo a Voi con queste mie poche righe per farvi sapere che
sono ancora legionario fedele come nel Natale 1920. Io dopo che sono
venuto da Fiume non o più un giorno tranquillo senza lavoro prego Voi
che siete in torino di cercarmi un lavoro da qualunque sia lavoro in
fabrica da cameriere. Voi che siete legionari fedeli fatemi una
risposta su questo. Un saluto fedele da un legionario che a dato la
vita per la causa fiumana”. Così scriveva da Ceva Giovanni Vaniglia
il 21 febbraio 1922 alla “Federazione Legionari Fiumani di Torino
(via Urbano Ratazzi, n° 11)”, affidando il messaggio senza troppi
pudori a una cartolina postale. Il 13 luglio, ricevute per
posta la tessera associativa e la medaglia di Ronchi, il cuneese
Celeste Giovanni Rosso, parimenti legionario, a sua volta scrisse a
Giacomo Treves, presidente della sezione torinese della Federazione: “E
mi a fatto molto piacere nel sapere che lei se ne interessava di me per
trovarmi una occupazione la quale mi fa molto piacere. Sei mesi fa
avevo fatto domanda alle ferovie dello Stato come guardia di Vigilanza
ma non oh mai avuto risposta. E adesso qui a Cuneo non si trova niente
del lavoro. Percio spero nella sua gentile persona che mi trovera una
occupazione”. Rosso, sergente a Fiume nella Compagnia “D'Annunzio”, in
una precedente lettera aveva narrato che, “ragazzo del '99”, aveva
combattuto nella “Guerra contro l'Austria” ed era stato ferito il 16
giugno 1918, all'inizio della Battaglia del Solstizio. Tenne a
precisare a Treves: “Oh una medaglia D'argento”. Di professione
manovale, perduti il padre e la madre e senza lavoro, gli inviò quattro
lire per la tessera sociale e “per la piccola medaglia di Ronchi”. Si
affidava a Treves, corpo e anima degli italo-fiumani d'Italia,
promotore dell' “impresa”. Le sue “Carte” sono una ricca miniera. Quale progetto? Il silenzio del Re. Quando
Vaniglia e Rosso, stretti dalla fame, scrivevano a Treves, eran
trascorsi un paio d'anni dal “Natale di sangue” del 1920. L'Italia era
molto diversa: ormai a un passo dalla crisi del sistema. A parte una
eletta schiera di personalità di spicco (ufficiali, artisti, letterati,
sindacalisti, venturieri...) col gennaio 1921 la generalità dei
legionari era tornata nei ranghi di una quotidianità per i più dolente.
Tra l'autunno del 1919 e l'estate seguente a Fiume si erano ammassati
da 7 a 10.000 militari e volontari, molti per scelta motivata, altri al
traino dell'entusiasmo dei superiori. È superfluo ricordare le tappe
del percorso accidentato dell'“impresa”. Mentre Riccardo Zanella
puntava su una città-stato autonoma sulla traccia dell'antico “corpus
separatum” e dei privilegi riconosciuti a Fiume dall'Impero asburgico,
alcuni dal 30 ottobre 1918 ne chiesero l'annessione all'Italia. Ruolo
eminente vi ebbero il sindaco Antonio Vio, affiliato alla loggia
massonica “Sirius”, attiva dal 1901, e, di seguito, la loggia
“Guglielmo Oberdan”, fondata a Trieste dal torinese Giacomo Treves
(1882-1947). Il 12 settembre Gabriele d'Annunzio d'intesa proprio con
lui guidò a Fiume reparti militari che, qualunque giudizio si voglia
esprimere sulle loro motivazioni ideali, a quel modo vennero meno alla
consegna e sotto il profilo dei codici risultarono “sediziosi”, tanto a
giudizio di Giovanni Giolitti quanto di Luigi Cadorna, due personalità
apparentemente lontanissime ma unite nel senso dello Stato. Di sicuro
Vittorio Emanuele III (di cui nessuno si è occupato nel Centenario) fu
puntualmente aggiornato sugli eventi da parte dei suoi servizi
informativi. Il Re non interferì sul loro corso: paralleli alla
condotta del governo, avrebbero potuto propiziare una diversa
inclinazione delle Cancellerie estere mentre rimaneva aperta la stipula
dei trattati di pace con l'Ungheria, la Bulgaria e la Turchia (Trianon,
molto importante proprio con riferimento a Fiume; Neuilly e Sèvres).
Dieci giorni dopo la “marcia di Ronchi” il Sovrano convocò il Consiglio
della Corona che il 25 si tradusse in un nulla di fatto. Dopo il primo
afflusso di reparti in assetto di guerra, si susseguirono altri arrivi
alla spicciolata. A fine ottobre il gran maestro del Grande Oriente
d'Italia, Domizio Torrigiani, recatosi appositamente a Trieste, negò
nettamente ogni sostegno alla ventilata marcia di legionari fiumani su
Roma. Fiume rimase un laboratorio, ove a fianco di d'Annunzio si
alternarono militari (come Giovanni Host-Venturi), politici (Giovanni
Giuriati) e utopisti corrivi a volere il mondo a loro immagine e
somiglianza come il Mostro dell'Apocalisse. Dapprima venne inventata la
Lega dei popoli oppressi (brutta copia di quella ipotizzata nell'aprile
1918 a Roma), poi fu promulgata la Carta del Carnaro, scritta
dall'anarco-sindacalista Alceste De Ambris e volta in bello stile dal
Vate, che assunse la Reggenza di Fiume, una città ove circolavano
valute d'ogni genere, abbondavano generi di lusso ma scarseggiavano
viveri. Wilson: se cediamo Fiume chiederanno New York Quando
accettò/assunse il comando dell'impresa, D'Annunzio non aveva alcun
progetto politico definito. Si donò a Fiume e (fedele al motto “io ho
quel che ho donato”) ne prese il comando. Fu il gesto sublime di
un artista impolitico uso a sfidare la sorte, come tante volte aveva
fatto nel corso della vita e specialmente nella Grande Guerra, con
ammirevole coraggio. Ma, come nel 1915 aveva osservato Giolitti, per
sentimento ognuno può gettare la propria vita, non quella di un Paese.
In realtà i promotori dell'impresa contavano sull'annessione immediata
in risposta al colpo di mano. Però il governo di Roma non era
assolutamente in grado di proclamarla. L'Italia doveva fare i conti con
l'Europa di allora e soprattutto con gli Stati Uniti d'America, il cui
presidente, Woodrow Wilson, era nettamente contrario a quelle che
riteneva richieste pretestuose. Osservò gelidamente che se all'Italia
fosse stata concessa Fiume perché abitata “anche” da italofoni allo
stesso titolo Roma avrebbe chiesto New York. Dopo una serie di
“testa-coda” ricostruiti scrupolosamente da Giovanni Stelli in
“Storia di Fiume dall'origine ai giorni nostri” (Ed. Biblioteca
dell'Immagine), d'Annunzio, Comandante prima, Reggente poi, al termine
di una battaglia che costò quasi cinquanta morti e duecento feriti tra
militari italiani e legionari il 18 gennaio lasciò Fiume senza
particolare enfasi, preceduto da 47 casse su due camion, come ricorda
Giordano Bruno Guerri in “Disobbedisco” (Mondadori). Il 28 gennaio
approdò a Gardone, sceltogli da Tom Antongini. Lo trasformò nel
Vittoriale degli Italiani, fondendo il proprio estro col genio
dell'architetto Gian Carlo Maroni. La rete del Fratello Giacomo Treves E
i legionari? I meno fortunati furono proprio i giovani “di leva”, delle
classi 1900-1901, che a Fiume erano andati sicuri che la “città di
vita” avrebbe mutato l'Italia, l'Europa intera e le loro condizioni
individuali, ma poi ci vissero male, disgustati da episodi di
criminalità e dal palese contrasto tra lo sfarzo di alcuni e le
ristrettezze dei più. Tornarono ai luoghi d'origine, dispersi nel
vortice di un'Italia alle prese con tensioni sociali, disoccupazione,
scioperi, scontri anche sanguinosi fra opposte fazioni. A Fiume non si
avvertì la drammaticità dell'occupazione delle fabbriche nell'Italia
nord-occidentale, scattata nel settembre 1920, in coincidenza con
l'avanzata dell'Armata sovietica verso la Polonia, nella prospettiva
della rivoluzione generale, dall'Europa orientale alla penisola
iberica. Chiusa la grande avventura, i “fiumani di complemento” non
dimenticarono i mesi della grande illusione, tra riti patriottici,
privazioni, delusioni. “Muti e silenziosi” (come furono ritratti da un
legionario novarese il 15 luglio 1922 al presidente della loro sezione
piemontesi) essi non furono dimenticati da quanti, come Giacomo Treves,
assunta all'origine la responsabilità dell'impresa, non ne rinnegarono
mai il valore ideale. Gli “italo-fiumani” non si trincerarono nel
reducismo, in racconti inter pocula dell'esperienza vissuta.
Continuarono a sentirsi quali erano stati e si ritenevano: “Sempre
pronti”. Se ne possono individuare tre diverse stagioni. In primo luogo
la Federazione Nazionale Legionari Fiumani, ramificata in tutta Italia
con lo scopo di annodare i legami tra quanti avevano donato parte della
loro vita a un ghiribizzo senza capo né coda. Proprio Treves assunse il
compito di tirare le fila di una rete che doveva annodare quanti
fossero ancora disposti a camminare sull'esile filo della lotta per la
liberazione e la fratellanza tra le nazioni in cerca di Stato (vi era
anche il suo “focolare ebraico” in Palestina) e dei principi
irrinunciabili di libertà, uguaglianza e fratellanza. Nel
dicembre 1921, un anno dopo la tragica fine della Reggenza, Treves
raccolse un manipolo di sodali che dichiararono di appartenere alla
“Squadra d'Annunzio” e giurarono perciò di adempiere il loro dovere “e
mantenere segreto” su quanto avessero appreso. Era un tipico giuramento
massonico. Treves aveva varie frecce al suo arco: anzitutto i
dannunziani veri, quelli della prima ora, sempre fedeli al Comandante,
un progetto politico/culturale (la Unione spirituale dannunziana) e la
massoneria. Le scoccò anno dopo anno. Non raggiunse l'obiettivo, ma
conservò intatta la sua “missione”: tenere fermamente separata
l'“impresa” da chi mirò ad appropriarsene, a cominciare dai fascisti.
Va ricordato a quanti ancor oggi confondono l'impresa di Fiume col
fascismo, come si è veduto con le proteste della Croazia contro lo
scoprimento di un d'Annunzio seduto, libro in mano, in una piazza di
Trieste nel centenario della marcia di Ronchi. Anche Enrico Togliatti, fratello del “Migliore”, tra i fiumani Piemontesi La vicenda fiumana è tanto più complessa e va studiata documenti alla mano. Sin
dalla primavera 1910 gli italo-fiumani ebbero in Piemonte uno dei loro
punti di forza. Lo prova il numero unico “Per la notte di Ronchi e per
l'alba del Carnaro. Alalà” pubblicato il 12 settembre 1920 dal Comitato
Pro Fiume e Dalmazia, fondato il 14 aprile e divenuto referente
ufficiale della Reggenza il 9 settembre. Presieduto dal generale Angelo
Chiarle, il Comitato comprendeva la contessa Sofia di Bricherasio, Nino
Daniele, addetto alla propaganda, e un folto numero di militari,
aristocratici, liberi professionisti tra i quali Amalia d'Incisa,
Alessandra Medici del Vascello, Margherita di Mirafiore, la baronessa
Daviso di Charvensod, Gabriellino d'Annunzio, Giuseppe Vidari, il conte
Barbavara di Gravellona, Gustavo Talmone... Tra le “adesioni alla
causa” pubblicò i messaggi di Ildegarde Occella, Mario Gioda
(segretario del Fascio), Eleonora Contin Ferria, presidente delle Madri
dei Combattenti, Daniele Bertacchi, nazionalista e futuro deputato
fascista, Luigi Sturani. Alla sottoscrizione “per la causa” aderirono
con tributi di varia entità centinaia di dannunziani tra i quali
Vittorio Cian, Attilio Begey, Mario Bersano, Barbara Allason, Enrico
Togliatti, fratello minore del più noto Palmiro, Elia Rossi Passavanti,
che a Fiume scoprì Margherita Incisa di Camerana e, sorprendentemente,
la loggia Propaganda Massonica di Torino, omonima ma non identica a
quella di Roma e tuttavia titolata a parlare per l'Ordine. Tramite
suoi emissari, il Grande Oriente ebbe ruolo precipuo nella promozione
del mito di Fiume e nella sua salvaguardia da abusi impropri. Vi dedicò
anni Giacomo Treves, iniziato alla “Ausonia” di Torino il 17 giugno
1913. Anzitutto egli concorse a dar vita alla Federazione Nazionale
Legionari fiumani. Tra le sue carte si rinviene l'elenco completo dei
componenti. Il decollo avvenne tra mille difficoltà, a cominciare dalla
provvista di “divise” e di “segni distintivi” a prezzi di favore. Nel
passaggio da uno all'altro “segretario”, lo Spirito dell'Uroburo e le
Vaghe Stelle dell'Orsa fecero i conti con la “consegna” di timbri,
matite, gomme, cianfrusaglie, debitamente rendicontate. Poi
tornò a splendere il sole, con la costituzione dell’Unione spirituale
dannunziana, costituita su proposta di Eugenio Coselschi per fondere la
Federazione dei Legionari e quella degli Arditi, ormai agonizzanti. Suo
segretario fu il capitano Umberto Calosci. Contò subito su sezioni
regionali. In Piemonte ebbe quelle di Torino (segretario Giacomo
Treves), Novara (Aronne Manera), Alessandria (Aleardo Borghi, che però
manco ritirò le tessere da distribuire ai soci) e Saluzzo per la
provincia di Cuneo (Raffaele Malatesta). In Liguria ebbe segreterie a
Genova (la cui sezione però si dichiarò autonoma) e a Porto Maurizio. Le distanze dei Legionari dal fascismo... Da
quasi un secolo dura l'interrogativo sulla connessione
logico-cronologica tra impresa di Fiume e avvento del governo
Mussolini, tra i rituali sperimentati dal Vate e i discorsi del duce
alle “folle oceaniche”. D'Annunzio fu il Giovanni Battista del regime?
I suoi seguaci si accodarono al fascismo? Sia la Federazione Nazionale
dei Legionari sia l’Unione Spirituale dannunziana documentano una
realtà del tutto diversa. In primo luogo la generalità dei legionari
rimase fedele a due capisaldi: l'Italia prima e al di sopra dei
partiti, la libertà nella fratellanza, dei singoli e dei popoli. Enzo
Mecheri, segretario nazionale della FNLG, il 10 maggio 1922 intimò a
quello della sezione torinese, Pallieri: “I Legionari iscritti agli
altri partiti devono prima dimettersi dai medesimi se vogliono far
parte della Federazione”. Identica era la posizione di Treves,
presidente della sezione torinese della Legione Gabriele d'Annunzio,
che scriveva su carta del Comandante (“Ardisco e non ordisco”). Da
Alessandria il diciannovenne Gino Morini, già capofila di una squadra
composta esclusivamente di ex combattenti, con undici istruttorie alle
spalle per ferimenti, lesioni, ecc., desideroso di gettarsi anima e
corpo nell'idea del Comandante, a sua volta osservava a Pallieri che
“l'idea fascista, da movimento di nazione qual era, va sempre più
degenerando, e contraendo tutti gli inevitabili compromessi che sono
propri di ogni partito”. Poiché era “sempre stato più per D'Annunzio
che per Mussolini” era deciso a costituire nella sua città una
sezione o gruppo per diffondere l'Associazione Legionari”. Si poteva
“amare l'Italia senza bisogno di essere un partito”. Il Bollettino
dell’Unione Spirituale Dannuziana è un inno alla libertà, eco
vibrante della “missione ideale affidata dal Comandante ai Legionari di
Fiume”. Non vi mancano frecciate ironiche contro il servilismo
opportunistico di chi a Napoli cambiò l'intitolazione di una scuola
elementare (dal pedagogista libertario Francisco Ferrer y Guardia al
maestro Benito Mussolini) e contro Roberto Farinacci (massone pentito)
che incitava gli squadristi ad aggredire i dannunziani. In effetti per
i Legionari era prossima la “soluzione finale”. Dapprima i fascisti
liquidarono a bastonate i “dissidenti”, come Cesare Forni, Alfredo
Misuri, Massimo Rocca..., poi criminalizzarono i massoni, infine si
scagliarono contro i dannunziani, colpevoli di essere stati i
precursori della battaglia per la più grande Italia, “Diis Sacra” come
il Comandante scrisse nell'esergo di “Per l'Italia degli Italiani”
(1923) suggellato dalla tragica meditazione “Cantano i morti con la
terra in bocca e le carene valicano i monti” (27 settembre 1922),
quanto di più avverso al “regime” sia stato scritto prima e dopo la
farsesca “marcia su Roma” del 31 ottobre seguente. Ormai a
corto di “munizioni” l'Unione Spirituale all'inizio del 1925 diramò la
sua prima circolare dell'anno. A parte l'indignazione per l'arresto di
Calosci, deplorò le “violenze fasciste” contro l'Associazione Nazionale
Combattenti e ordinò a tutti i Legionari di iscriversi all'ANC. Ricordò
di aver concorso al sorgere e al formarsi dell'Associazione “Italia
Libera” (fucina di antifascisti irriducibili) e ammonì che Nazione e
Stato “non sono qualcosa che capricciosamente si improvvisa ma una
continuità storica insopprimibile”. Diffidò dall'aderire alla “Milizia
Adriatica” inventata dall'anguillesco Eugenio Coselschi (dieci anni
prima radiato dalla loggia “Michelangelo” di Firenze per assenteismo e
morosità) e additò l'obiettivo supremo: “Nessuna causa fu più bella,
più santa dell'attuale! Bisogna riconquistare la libertà”. ...e per l' “Italia Libera” del Grande Taciturno Tutti dovevano ispirarsi al Grande Taciturno, “prigioniero del duce”. Tra
gli italo-fiumani quelli del Piemonte non mostrarono mai dubbi
nell'anteporre d'Annunzio a Mussolini e, in maniera altrettanto
radicale, la monarchia al partito fascista, le cui origini e componenti
repubblicane conoscevano bene. Ne fu specchio Giacomo Treves,
orgoglioso della nomina a cavaliere e commendatore dell'Ordine della
Corona d'Italia (22 aprile 1920 e 15 gennaio 1924) e ufficiale (classe
4^) dell'Ordine della Corona del Montenegro, conferitogli dalla
Reggente Milena il 19 maggio 1922, per i “servizi speciali resi al
popolo montenegrino”. Mentre archiviava i “saluti affettuosi” che gli
telegrafava il Comandante, anche lui si preparava alla traversata del
deserto, ma non immaginava la sterzata del 1938: le leggi razziali che
avrebbero suscitato lo sdegno del Vate se la Grande Visitatrice non
gliele avesse risparmiate, liberandone definitivamente lo Spirito
dall'“involucro” il 1° marzo di quell'anno cruciale.
Aldo A. Mola
I LIBERALI IN ITALIA? PER I “LUMI” E LA FRATELLANZA DEI POPOLI Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 8 Settembre 2019, pagg. 1 e 11.
L'antica contrapposizione dei liberali ai reazionari La
nascita del nuovo governo di coalizione tra M5S (che si dichiara né di
destra né di sinistra), Partito democratico (conglomerato di cattolici,
socialisti e altro) e Liberi e Uguali ripropone l'attualità di domande
da troppo tempo in attesa di risposta. Chi sono i “liberali”? Silvio
Berlusconi, presidente di “Forza Italia”, rivendica con orgoglio che i
partiti da lui promossi e guidati in un quarto di secolo furono e sono
intrinsecamente non “di destra” ma “centristi”, propriamente liberali
ed europeisti. È innegabile. “Liberale”, originariamente aggettivo, è
termine di tale pregnanza che da due secoli è anche sostantivo,
soggetto di storia (“chi sostiene e professa principi di libertà”,
scrive il dizionario). Lo divenne due secoli fa in Spagna, quando i
liberali si contrapposero ai reazionari. I primi volevano vincolare la
monarchia alla costituzione, precisamente a quella approvata dalle
Cortes autoconvocate a Cadice nel 1812: una “Carta” ispirata da
profondo ottimismo cosmico. Affermava, per esempio, che i cittadini
devono essere buoni. Il potere del Re derivava dalla volizione della
nazione: un principio a ben vedere ribadito dalla costituzione del
1978, garante della Spagna odierna. I reazionari, invece, miravano
all'affermazione della priorità metastorica del sovrano rispetto a
quello dei cittadini. Il monarca tale è per grazia di Dio. Le leggi
promanano da lui. I liberali spagnoli (e di lì a poco quelli
portoghesi, che affrontarono problemi analoghi, anche per il
“regolamento dei conti” fra madrepatria e impero coloniale) divennero
punto di riferimento di quelli italiani, più di quanto all'epoca lo
fossero gli inglesi e i francesi, sia per i legami secolari tra Madrid
e gran parte degli Stati d'Italia, sia perché il regime
franco-napoleonico non aveva lasciato un ricordo esaltante fra i
liberali italiani, sino alla svolta dell'“impero liberale” varato da
Napoleone al rientro dall'Elba, quando ebbe il consenso anche di
Benjamin Constant e di Simonde de Sismondi. La libertà: un principio morale senza frontiere Lasciando
per ora alle spalle quel passato remoto, alla domanda chi siano oggi i
liberali e come si collochino nell'arco politico dell'Italia odierna si
può rispondere che essi derivano la loro identità dal sostantivo: la
libertà. Il liberismo, cioè una specifica dottrina economica, è un
aspetto non esaustivo del liberalismo, come a suo tempo Benedetto Croce
scrisse in controcanto a Luigi Einaudi. Per quanto apparentemente
superfluo, va precisato che la libertà non è né di destra né di
sinistra. È un ideale, un postulato, un principio morale. Essa è motore
e al tempo stesso frutto di millenni di lotte dall'antichità ai giorni
nostri. È privilegio di un numero tuttora molto ristretto di donne e di
uomini di una parte molto circoscritta del Pianeta. In Italia,
aggiungiamo, da metà Settecento la libertà è stata costruita decenni
dopo decenni da minoranze che non agirono per vantaggi propri ma
perché credevano nel progresso generale dell'umanità, senza frontiere.
Non sono parole al vento. In Italia da metà Ottocento a metà Novecento,
esponenti insigni del liberalismo di portata europea sono stati, fra
altri, Silvio Pellico, Cesare Balbo, Massimo d'Azeglio, Camillo Cavour,
Giovanni Giolitti, Luigi Einaudi... Tutti pensatori e statisti che
hanno mirato alla liberazione di moltitudini di persone che manco
sapevano di avere la corda al collo perché vi erano abituate da secoli.
Quei liberali, veri e grandi, fecero leva sul sovrano, sul
Parlamento e sull'opinione degli elettori per compiere e far compiere
più celeri passi avanti sulla via dell'incivilimento. Fecero leva sullo
Stato perché in sé le leggi non sono affatto nemiche delle libertà.
Così era al tempo della monarchia rappresentativa, così è oggi ai sensi
della Costituzione vigente. Lo Stato non è avversario delle libertà. Ne
è garante. Se per “sinistra” si intende liberazione dal dispotismo
di “pieni poteri” e da “precetti” contro natura, allora si può
convenire che il liberalismo trovò espressione nel democristiano Alcide
De Gasperi: un “centro” che guarda anche “a sinistra”, verso orizzonti
che la maggior parte dei cittadini non sempre intravede perché troppo
assillata dalla quotidianità. Non nutre speranze per sé e diffida dei
giovani. La catastrofe della Scuola e della Ricerca sono i due
segnali del declino di un Paese che se non ritrova lo spirito liberale
che ispirò l'unità nazionale si chiude in se stesso mentre il mondo
cambia alla velocità accelerata dalla telematica. Internet è
come la libertà: non è né di destra né di sinistra. C'è. Tutto dipende
da chi e da come lo utilizza. Se lo usano liberali anziché tiranni è
ottimo, sennò no. È come il Proclama di Moncalieri del 20 novembre
1849, con il quale Vittorio Emanuele II chiese agli elettori di votare
una Camera di buon senso. Esattamente come ha fatto Giuseppe Conte
quando ha invitato i cittadini a sostenere un governo che si propone di
dare concretezza a un “nuovo umanesimo”, sorretto da un ministero
all'Innovazione con l'obiettivo di dar corpo alla “cittadinanza
digitale”, traguardo ancora lontano in un paese tecnologicamente
arretrato qual è il nostro. I principi generali del liberalismo universale La
risposta alla domanda sull'identità e sulla collocazione dei liberali
d'Italia va dunque cercata nella storia. Il liberalismo non è un
partito. Non è un catechismo. Non ha un “manifesto”. È uno “stato
d'animo”, così etereo che se ne può scrivere solo premettendo che non
se ne vuole proporre alcuna definizione. Semmai è doveroso precisare
che cosa non fu, per evitare che venga confuso con altro, con le sue
negazioni. Per esempio, esso promuove la liberazione dei popoli
oppressi, l'avvento delle Nazioni senza Stato, ma non ha nulla a che
vedere con il nazionalismo, che si è sempre tradotto in negazione della
libertà e della fratellanza tra i popoli. In premessa va
chiarito inoltre che non esiste il “liberalismo italiano”. Sarebbe una
contraddizione, perché la libertà è universale. Esiste invece il
liberalismo “in” o “di” Italia: scintilla della visione cosmica
espressa da Ludwig van Beethoven nel coro della Nona Sinfonia,
giustamente adottato quale inno dell'Unione Europea. Dovrebbero
ricordarsene Oltre Manica e nei tanti lembi d'Europa (dalla Catalogna
all'Ungheria, che fu e per noi rimane la patria di Lajos Kossuth) ora
infetti da pulsioni separatistiche, isolazionistiche, pseudo
sovranistiche... Nella seconda metà del Settecento, cioè in
tempi più ravvicinati di quanto paia se ci si misura con la storia
universale, in Italia il liberalismo attecchì in cerchie ristrette di
persone colte, che si fecero carico di estendere la propria visione del
mondo a chi aveva il potere di decidere (sovrani e principi
“illuminati”) a beneficio di quanti, per condizioni storiche, non erano
in grado di scegliere. Esso fece parte di un movimento filosofico,
politico e costumale di portata intercontinentale. Il 4 luglio 1776 i
delegati di tredici Stati Uniti d'America dichiararono i motivi della
loro secessione dal dominio inglese, con parole semplici e chiare, che
meritano di essere ricordate: gli uomini “sono creati” uguali, dotati
di diritti inalienabili, quali la vita, la libertà, la ricerca della
felicità. I cittadini hanno diritto di mutare la forma dei governi se
questi conculcano i loro diritti. I delegati si appellarono al Supremo
Giudice dell'Universo. Su quella scia tredici anni dopo, il 17 agosto
1789, l'Assemblea nazionale francese approvò la Dichiarazione dei
diritti dell'uomo e del cittadino: gli uomini “nascono” liberi e
rimangono liberi ed uguali nei diritti; il fine di ogni associazione
politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili
dell'uomo; tali diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e
la resistenza all'oppressione. La libertà consiste nel poter fare tutto
ciò che non nuoce ad altri; l'esercizio dei diritti naturali di ciascun
uomo può essere limitato solo dalla legge. Tutto ciò che non è vietato
dalla legge non può esser impedito e nessuno può essere costretto a
fare ciò che essa non ordina. Nessuno deve essere molestato per le sue
opinioni, anche religiose, purché la loro manifestazione non turbi
l'ordine pubblico stabilito dalle legge. La libera comunicazione dei
pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell'uomo.
Ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente,
salvo rispondere dell'abuso di questa libertà nei casi determinati
dalla legge. Poiché la proprietà è un diritto inviolabile e sacro,
nessuno può esserne privato, salvo quando la necessità pubblica lo
esiga in maniera evidente e previa giusta indennità.... Quei
principi avevano alle spalle secoli di fanatiche guerre di religione,
conflitti tra Stati governati da autocrati interessati ad ampliare i
loro domini più che a migliorare le condizioni dei loro sudditi. I
migliori tra i sovrani dell'età moderna vennero assassinati. Fu il caso
di due re di Francia, Enrico III, ispiratore del “partito dei
politici”, che tentò invano di arginare il sanguinoso conflitto tra
cattolici e ugonotti, ed Enrico IV, che pragmaticamente si convertì da
ugonotto a cattolico per pacificare la Francia e sognò che ogni suo
abitante avesse in tavola un pollo quotidiano. A suo modo precorse il
pensiero del presidente americano Franklin D. Roosevelt (per inciso, un
massone) secondo il quale la libertà di parola e di religione
dev'essere accompagnata dalla libertà dal bisogno e dalla paura
della guerra. Per gli “occidentali” odierni quei principi sembrano
ovvi, scontati. In realtà furono e sono conquiste, da rincalzare ogni
giorno. Il preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite (San Francisco,
giugno 1945) e la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo
(Parigi, 10 dicembre 1948) hanno ribadito i cardini del liberalismo.
Gli italiani avevano e hanno bisogno di rileggere quelle “Carte”. Esse
sono rispecchiate dalla Costituzione vigente, che, senza retorica, è
tra le più liberali del pianeta. L'attualità di Cavour, Giolitti ed Einaudi Sorge
allora la domanda: il liberalismo è “di destra”? Al riguardo esistono
una narrazione e una confusione in netto contrasto con la verità dei
fatti, perché dal 1943 il liberalismo in Italia è stato identificato
con movimenti e partiti contrapposti a due suoi avversari (o nemici)
formidabili. Esso venne combattuto e negato dal clericalismo arcaico,
che entrava nella vita quotidiana dei cittadini e pretendeva usare la
legge per soggiogare non solo i corpi ma anche gli spiriti, e dal
totalitarismo comunista, eterodiretto dall'Unione Sovietica, che mirò a
imporre il suo modello ideologico e sociale ovunque fosse giunta
l'Armata Rossa, agognata anche da parecchi italiani. L'inclusione nella
Costituzione dei Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929 suggellò la
temporanea convergenza di quei due “blocchi”. Poiché i partiti liberali
(o “laici”) persero seguito elettorale e per contingenti motivi di
schieramento nelle aule parlamentari si arroccarono sulla destra,
risultò comodo classificare il liberalismo come ideologia o ideario “di
destra”. A volta la contiguità fisica creò una confusione ulteriore e
peggiore: quasi i liberali fossero una variante degli eredi ideologici
del fascismo nelle sue due varianti, quella pre e post 1943. Per
meglio comprendere la direzione di marcia dei liberali “in” o “di”
Italia basta rievocarne alcune figure rappresentative e le loro imprese
fondamentali. Asceso al governo quando il regno di Sardegna,
riconosciuta l'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi, abolì
ogni discriminazione per valdesi e israeliti, Camillo Cavour si batté a
sostegno delle “leggi Siccardi” che cancellarono i privilegi medievali
del clero, come ricorda la stele elevata a perpetua memoria in piazza
Savoia a Torino. A quel tempo il generale Alfonso La Marmora andava di
persona ad arrestare l'arcivescovo di Torino, Fransoni, e lo conduceva
nel forte di Fenestrelle, donde poi fu mandato in esilio. Concordata la
convergenza di centro-sinistro (sic) con l'alessandrino Urbano
Rattazzi, Cavour affrontò un decennio di marosi. Quando, dopo
l'armistizio di Villafranca (luglio 1859) gli subentrò al governo,
Rattazzi varò leggi destinate a durare settant'anni: sulla scuola
(firmata dal cattolico moderato milanese Gabrio Casati), su Comuni e
Province, sul riordino dell'amministrazione locale. Impossibile
classificare quei liberali come “destra” se per tale si intenda chi si
oppone al progresso popolare. Non lo furono i ministri che risanarono
il bilancio sino ad assicurare il pareggio di esercizio nel 1876:
Giovanni Lanza, Marco Minghetti e Quintino Sella, tenace nel volere
l'ingresso in Roma dell'esercito italiano agli ordini di Raffaele
Cadorna (20 settembre 1870), costato il rinnovo della scomunica per il
re, i ministri, i parlamentari, il Risorgimento stesso. Nel
discorso politicamente più importante dopo il 1876 (Busca, 29 ottobre
1899), su suggerimento di Urbano Rattazzi jr il liberale Giovanni
Giolitti spiegò: “I nostri reazionari d'oggi non appartengono alla
scuola politica del conte di Cavour. Una politica reazionaria dovrebbe
contare principalmente sulla forza armata”, cioè sull'impiego
dell'esercito contro i cittadini. “Per ottenere la libertà – egli
aggiunse - i nostri padri sacrificarono vita e averi; saremmo noi
figli così degeneri da sopportare in pace che ci venga tolta? L'Italia
deve essere governata con la libertà e con la legalità”, per soddisfare
ai desideri della grande maggioranza del paese, attenuare il
malcontento e far quadrato attorno alla monarchia rappresentativa,
pilastro portante dello Stato. Non furono certo “di destra”
le grandi riforme politiche, sociali ed economiche del primo
quindicennio del Novecento e l'introduzione del diritto di voto
maschile quasi universale. Esse promossero l'avvicinamento tra
cittadini e istituzioni e il progresso del Mezzogiorno. Giolitti fu
meridionalista non a parole ma con la forza delle leggi e la
collaborazione di ministri e consiglieri come i siciliani San Giuliano
agli Esteri e Finocchiaro Aprile alla Giustizia, il calabrese Antonio
Cefaly, i Senise. Nel suo quinto e ultimo governo chiamò alla Pubblica
istruzione il napoletano Benedetto Croce. Sarebbe miope classificare
“di destra” il liberalismo di Luigi Einaudi, che da giovanissimo
scrisse nella “Critica sociale” di Filippo Turati e Claudio Treves e
persino nella “Revue Socialiste” fondata da Benoit Malon e puntò sul
liberismo proprio quale volano per sciogliere l'economia dai lacci
della burocrazia. Ministro del Bilancio restaurò per quanto possibile
la finanza pubblica, restituì fiducia nell'Italia all'estero e
nell'opinione dei cittadini, quelli che quotidianamente votano andando
al lavoro e affidano i risparmi al sistema creditizio (a cominciare da
quello postale, ideato da Sella). La Democrazia cristiana di Alcide De
Gasperi, con Einaudi ministro, vicepresidente del Consiglio, presidente
della Repubblica, fece propri alcuni capisaldi dell'età liberale.
Impossibile classificarla “di destra”. Né lo fu il governo presieduto
da Giuseppe Pella, antico allievo del “Sommeiller” di Torino. Ecco
dunque, in sintesi, che occorre ripensare in termini storiograficamente
corretti e politicamente avvertiti l'identità tra libertà e progresso.
Poco contano le sigle di chi è al governo. Ciò che davvero preme è il
suo progetto. È la direzione di marcia: libertà nella legalità,
europeismo, valorizzazione della Comunità internazionale in vista della
pace, bene supremo per l'incivilimento dei popoli. In prospettiva
storica Cavour, Giolitti, Einaudi e la moltitudine di ministri,
parlamentari e uomini di Stato che ne assecondarono l'opera si mossero
nel solco del liberalismo quale faro dell'Europa che stava trovando
continuità logico-cronologica nell'assetto del Nuovo Mondo, dagli USA
alla pleiade di Stati sorgenti dal collasso degli imperi coloniali
iberici, un processo tuttora in corso. Altrettanto vale per il
ruolo dello Stato che si incarna nell'istituzione suprema: la monarchia
costituzionale ieri, la presidenza della Repubblica oggi. Chi scorra i
requisiti attribuiti all'una e all'altra dallo Statuto albertino e
dalla Costituzione vigente vi coglie consonanze profonde, come ha
ricordato il convegno a tal riguardo organizzato a Palazzo Carignano in
Torino lo scorso 12 giugno dal Gruppo Croce Bianca. Anche a tale
riguardo occorre fare chiarezza sia nella corretta ricostruzione della
storia, sia nella terminologia: la monarchia non è “di destra”, è
garanzia di equilibrio. Si ha motivo di guardare con serenità al
futuro del Paese? Il liberalismo è scritto nella Costituzione ed è
penetrato profondamente nella vita quotidiana, più di quanto
solitamente si ammetta. È come l'aria. Se ne sente subito bisogno
quando viene a mancare. E allora si ricorre ai rimedi. Di sicuro esso
ha anche una sua dimensione e manifestazione storica e presente: un
vastissimo “centro”, che non si conta solo in termini di voti, di seggi
(a Roma o al Parlamento europeo) ma sulla base del civismo diffuso e
della capacità di immaginare e concorrere a costruire il futuro: quella
“innovazione” che il governo promette di voler promuovere e assecondare
ed è necessità storica dell'Italia, un Paese nato dalla lotta per
l'indipendenza, l'unità e la libertà.
Aldo A. Mola
SETTEMBRE 1919 IL CONSIGLIO DELLA CORONA E L'ITALIA SULL'ORLO DELL'ABISSO Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 1 Settembre 2019, pagg. 1 e 11.
Italia del dopoguerra: solida nella realtà, debole nell'immagine Cent'anni
fa l'Italia visse traumi di gran lunga più gravi degli attuali. Li
affrontò e superò. Nulla era ancora perduto. Il 10 settembre 1919 venne
firmato a Saint-Germain il trattato di pace fra Roma e l'Austria,
relitto dell'impero asburgico. L'Italia ottenne gran parte di quanto le
era stato promesso con l'accordo di adesione all'Intesa (26 aprile
1915): il confine al Brennero, Trieste, l'Istria e molto altro. Vista
dagli Stati Uniti d'America, Londra e Parigi, la sua era una posizione
fortissima, mentre l'Europa centro-orientale era nel caos, tra
rivoluzione in Russia, disgregazione della Germania, sconquasso
socio-politico in Ungheria, disfacimento dell'impero turco e una
Jugoslavia in grande affanno. Il recentissimo accorpamento di serbi,
croati e sloveni in uno Stato unico, palesemente artificioso,
impensieriva chi ne conosceva le secolari divisioni etniche e
religiose, le efferate lotte tra dinastie rivali e la fragilità della
monarchia, sorretta dalla Francia, che però, come ha scritto François
Fejto, puntava alla “repubblicanizzazione dell'Europa” e utilizzava la
Jugoslavia in funzione anti-italiana. In quello scenario l'Italia
aveva urgenza di passare rapidamente dall'economia di guerra a quella
di pace per riprendere il cammino dell'unificazione effettiva del Paese
dopo cinque anni di militarizzazione forzata e di enorme indebitamento,
sia con l'estero sia con i “prestiti nazionali” (al 5%) a sostegno
della vittoria: un affare lucroso per gli investitori, pessimo per le
finanze dello Stato, come in un eccellente saggio ha scritto il gen.
c.a. della Guardia di Finanza, Luciano Luciani. Il trattato di pace non
riconobbe all'Italia il possesso di Fiume. All'estero (e non solo)
molti erano convinti che non ne avesse bisogno effettivo. Ma sin dal 30
ottobre 1918, tre giorni prima dell'armistizio, la sua annessione a
Roma fu chiesta dal presidente del Consiglio nazionale fiumano, Antonio
Grossich, e dal sindaco Antonio Vio. Membro della loggia massonica
“Sirius”, poco dopo Vio venne ricevuto a Roma dalla loggia “Rienzi” e
ottenne l'appoggio esplicito del Grande Oriente d'Italia, ribadito dal
gran maestro Ernesto Nathan il 25 aprile 1919 in un rovente “appello
agli italiani” contro il presidente degli USA, Woodrow Wilson,
contrario all'assegnazione della città liburnica all'Italia. Secondo
Wilson nelle aree mistilingue il confine doveva essere deciso dalla
popolazione residente tramite plebiscito: criterio enunciato dalla
massoneria francese sin dal congresso del 28-30 giugno 1917, presenti i
delegati del Grande Oriente d'Italia, Ettore Ferrari, Ernesto Nathan e
Giuseppe Meoni, ma disastroso per Roma perché gli italofoni erano in
minoranza. Dalla “Marcia di Ronchi”.... La
notte del 12 settembre Gabriele d'Annunzio guidò un corteo di 27 camion
da Ronchi a Fiume: arditi, granatieri, volontari. Preparata di lunga
mano, l'impresa ebbe molti e discordi padri: nazionalisti massonofagi
da un canto (Giovanni Host Venturi, Giovanni Giuriati), massoni
dall'altro. Come era accaduto con l'“interventismo” nel 1914-1915, si
aggiunsero sindacalisti (Alceste De Ambris), affaristi e una
moltitudine di apprendisti della rivoluzione, molti di persona, altri
prudentemente da lontano. Tra questi vi fu Benito Mussolini, che dalle
colonne di “Il popolo d'Italia” promosse una sottoscrizione pro-Fiume,
i cui proventi, però, solo in parte vennero dirottati alla “città
martire”. A sostegno dell'impresa dannunziana scesero le logge del
Piemonte e della Liguria. Alcuni loro affiliati (come il quarantenne
ebreo torinese Giacomo Treves, membro della Madre loggia “Ausonia”) sin
dal dicembre 1918 avevano fondato la “Guglielmo Oberdan” a Trieste per
preparare il terreno. La situazione rischiò di precipitare. Il
presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, e la maggior parte
dei politici e di militari di grado supremo, come Luigi Cadorna,
rimasero sconcertati dalla mancata resistenza del generale Vittorio
Emanuele Pittaluga all'irruzione di d'Annunzio, che indossava la divisa
di tenente colonnello dei Lancieri di Novara. Anziché “fermarlo” lo
“scortò” in città e consentì l'afflusso del suo vociante seguito.
Traballò uno dei cardini dello Stato d'Italia: la disciplina delle
Forze Armate. Anche Giolitti deplorò la “sedizione”. Quanto avveniva
dinnanzi agli occhi del mondo era inammissibile perché nel corso della
Grande Guerra ogni minima infrazione del codice militare era stata
punita con pene severissime, inclusa la fucilazione. ...al Consiglio della Corona (25 settembre) Di
giorno in giorno la crisi si aggravò, anche perché numerosi militari,
sia in congedo temporaneo sia in servizio, continuarono ad affluire a
Fiume malgrado l'interdizione ordinata ma blandamente attuata da Pietro
Badoglio e contro la direttiva di Nitti di imbrigliare “il delittuoso
movimento che tende a sovvertire ogni nostra opera”. Il 22 settembre
Vittorio Emanuele III, sempre rispettoso del Parlamento, assunse
un'iniziativa unica nella storia d'Italia. Convocò al Quirinale un
“Consiglio della Corona” per le 10 del 25 seguente: il tempo
strettamente necessario per informarne i componenti e consentirne
l'arrivo a Roma con i mezzi dell'epoca, mentre molti servizi pubblici
erano in disordine per disfunzioni e scioperi. Il Consiglio della
Corona non era previsto dallo Statuto. Però il Re ritenne necessario
andare oltre il governo in carica e consultare ufficialmente le
personalità più rappresentative delle Istituzioni. Non volle ripetere
quanto era accaduto nella settimana del “radioso maggio” 1915 quando il
governo presieduto da Antonio Salandra il 13 si dimise perché
dichiaratamente privo di consenso parlamentare, salvo ripresentarsi tre
giorni dopo per chiedere e ottenere i pieni poteri. La Camera era la
stessa di allora: succuba, screditata e comunque alla vigilia
dell'ormai tardivo scioglimento e rinnovo sulla base della legge
elettorale pubblicata il 15 agosto, la “maledetta proporzionale”.
Mentre la casa andava a fuoco, non si potevano attendere i comodi di
politicanti e mestatori. Vittorio Emanuele III chiamò a Consiglio i
presidenti delle Camere, gli ex presidenti del governo, i
rappresentanti dei partiti politici in Parlamento ed i vertici
dell'Esercito e della Marina “per conferire su la situazione”. Tra i
pochi resoconti della seduta (dalle 10 alle 12 e dalle 16 alla
conclusione ) spicca quello di Luigi Federzoni, che non vi ritornò nel
Diario inedito scritto nel 1943-1944, da poco pubblicato (Ed.
Pontecorboli). Bisognava pronunciarsi sulla sorte di Fiume. Il Re aprì
la seduta e la diresse “con volto sereno”. Nitti propose annessione e
elezione della Camera per averne poi il parere. Paolo Boselli
(1838-1932), ex presidente del Consiglio, il modenese conte Adeodato
Bonasi (1838-1920) e Giuseppe Marcora (1841-1927), presidenti dei due
rami del Parlamento, propugnarono l'annessione. Giolitti, che per
arrivare in tempo usò un vagone notturno da Torino a Roma, eluse la
questione fiumana, deplorò la disgregazione dello Stato e sollecitò le
elezioni. Gli si opposero i due ex presidenti Luigi Luzzatti e Antonio
Salandra, secondo i quali non bisognava consultare i cittadini mentre
il paese era travagliato da passioni e discordie. In realtà più
passavano i giorni, peggio andava. Il caos (scioperomania,
conflitti armati tra fazioni anche eterodirette dall'estero, guerra
civile a bassa intensità) durò altri tre anni, sino all'insediamento
del governo di unione costituzionale presieduto da Mussolini dal 31
ottobre 1922. In quel momento, nel settembre 1919, era ancora possibile
tornare all'ordine senza traumi. I due ebbero il sostegno di Vittorio
Emanuele Orlando, che diceva l'opposto di Giolitti per partito preso.
Lo stesso fecero Salvatore Barzilai e Leonida Bissolati alla ripresa
pomeridiana. Fu infine la volta dei ministri militari, il sassarese
Giovanni Sechi, il gallaratese Alberico Albricci. L'ammiraglio Paolo
Thaon di Revel (membro del Supremo Consiglio della Gran Loggia
d'Italia) invitò a risalire alla radice del “deplorato episodio”. Per
ultimo Armando Diaz sferrò un duro attacco contro l'antimilitarismo
serpeggiante nel Paese per opera delle sinistre e di clericali ancora
fermi al rifiuto del Risorgimento, spacciato come complotto massonico.
L'antimilitarismo, osservò il futuro duca della Vittoria, si traduceva
in vero e proprio anti-patriottismo. Quanto era avvenuto a Ronchi e a
Fiume era conseguenza dello sgretolamento morale dell'Esercito: un
processo che andava subito fermato se si voleva salvare l'Italia
puntando sulla solidità delle Forze Armate. Il 26 settembre il
Quirinale sintetizzò che “nessuno degli intervenuti all'alto consesso
propugnò la tesi dell'annessione di Fiume; nessuno mosse critiche
all'azione del Governo; nessuno accennò alla opportunità di una crisi
ministeriale”. Secondo Federzoni, il comunicato non rispose esattamente
all'andamento della discussione, ma ne colse l'essenza: in effetti
nessuno aveva detto in modo chiaro come affrontare l'emergenza e le sue
devastanti conseguenze. Il Consiglio lasciò che a sbrogliare la matassa
fossero il Re, il governo, i militari al comando del “cordone
sanitario” che separava Fiume dall'Italia e una serie di poteri più
meno occulti e influenti, incluse Comunità massoniche italiane e
straniere. Molti fra i politici presenti dettero prova patente di fuga
dalla responsabilità. Fu il caso di Filippo Turati, il più autorevole
rappresentante del partito socialista italiano. Invitato, non si
presentò. Si schermì dietro un paravento nominalistico: il Consiglio
della Corona non era previsto dallo Statuto; bisognava andare
subito al voto ed evitare che “le elezioni non si facciano contro di
noi”. Pensava al partito e ai seggi. Fu l'ennesimo suicidio del
socialismo riformista, sempre con un piede nei “ludi cartacei” (come i
riti elettorali furono bollati dal socialmassimalista e poi fascista
Mussolini) e uno nella “rivoluzione”, ma mai disposto a farsi carico
del governo, come da quasi vent'anni gli chiedeva Giolitti. A quel
punto la parola passò ad altri soggetti. Nitti si preoccupò di vincere
le elezioni. Privo di un partito di riferimento andò allo sbaraglio.
Fiume rimase un “teatro”, qual era nel senso più alto: ognuno vi
scrisse e recitò una parte. D'Annunzio vi celebrava quotidianamente i
riti cari a Legionari che in qualche modo andavano intrattenuti in
attesa che Roma si pronunciasse. Sennonché la sorte della città non
dipendeva solo dal governo italiano né dai venturieri che vi si
affacciavano ritenendo che fosse un laboratorio politico universale,
mentre era una cangiante sacra rappresentazione fondata su parole
alate, come poi si vide con l'insediamento della Reggenza e la
promulgazione della Carta del Carnaro. Poeta ma non privo del
“buonsenso di provinciale abruzzese” (parole di Federzoni) ai massoni
d'Annunzio chiese lana per i soldati, armi, denari e di propiziare la
corrispondenza tra i legionari e le lontane famiglie (a volte un po'
scombinate). La “Sirius” e la “Italia Nuova” dall'egemonia alla persecuzione Un
ruolo di spicco nella vicenda fiumana svolsero logge del Grande Oriente
d'Italia (GOI) e della Gran Loggia d'Italia (GLI), le due Comunità
liberomuratòrie all'epoca preminenti: il GOI con la “Alpi Giulie” e la
“Gugliemo Oberdan” di Trieste e la “Sirius” di Fiume (GOI), la GLI con
la “XXX ottobre” di Fiume, la “XX Settembre” e la “Trieste
Redenta”, che affiliò anche il colonnello Cesare Pettorelli Lalatta. Il
ruolo della “Oberdan” è stato più volte ricordato sulla base delle
Carte del suo maggiorente, Giacomo Treves. Meno note (anche per la
rarefazione dei documenti) è quello delle officine della Gran Loggia. Nel
centenario della Marcia di Ronchi meritano un ricordo la “Sirius”,
l'unica loggia “nativa” di Fiume, e la sua gemmazione, “Italia Nuova”.
Come già detto il suo venerabile, Vio, sin al 30 ottobre 1918 chiese
l'annessione di Fiume all'Italia. Con procedura non propriamente
fraterna allontanò dalle colonne i fratelli ungheresi e di altre lingue
e incontrò ripetutamente i confratelli di Trieste in vista della
“marcia di Ronchi”. Nei quindici mesi “dannunziani” fece da interfaccia
fra il Comandante e la cittadinanza, tra le urgenze della popolazione e
il governo di Roma, sollecitato tramite la rete delle logge. Un mese
dopo il Consiglio della Corona, il gran maestro del GOI, Domizio
Torrigiani, andò a Trieste per vedere, capire e decidere. Alcuni
seguaci del Vate stavano progettando una “marcia su Roma”. Ne sarebbe
nata l'insorgenza dei socialisti e l'intervento delle Forze Armate per
rimettere ordine nel Paese. La democrazia parlamentare sarebbe finita
in soffitta. Il gran maestro dissociò nettamente il GOI da ogni
azzardo. Toccò a Vio reggere le briglie di molti aggrovigliati intrichi
di una città lanciata a folle velocità fuori binari. Dopo il trattato
italo-jugoslavo di Rapallo-Santa Margherita voluto da Giolitti per la
quinta volta al governo (maggio 1919-giugno 1921) e l'espulsione di
d'Annunzio da Fiume, anche per i massoni fiumani iniziò una lunga
traversata del deserto. Erano i depositari di fedeltà all'Italia e il
passo rituale. Ne accennò una volta Giolitti, riferendosi a certe
processioni indiane: due passi avanti e uno all'indietro. Il vero
progresso richiede e lungimiranza e pazienza. Chiusa
tragicamente la lunga contraddittoria stagione dannunziana, alcuni
“fratelli” della “Sirius” dettero vita a una nuova loggia dal titolo
programmatico: “Italia Nuova”, animata dall'ingegnere Guido Lado,
venerabile, Ariosto Mini, Salvatore Bellasich e altri molti, in
collegamento con le tante officine della Venezia Giulia (“Santa
Gorizia”, “Nazario Sauro” di Capodistria, “La Concordia” di
Abbazia e la “Nazario Sauro” di Pola). Un “rapporto” del settembre 1922
dice però che ormai le logge erano nel mirino. La “Sirius” era
considerata “la più infida e pericolosa. Pronta di unirsi anche al
diavolo” per conservare la sua autorità. Poi anche Fiume arrivò al
bivio senza alternative: fascismo o massoneria. La “Italia Nuova” pose
allo studio uno statuto per la città, sull'esempio di San Marino, ma
dovette prendere atto che era un modello improponibile perché era lo
Stato italiano a mantenervi una guarnigione di carabinieri e a saldare
i debiti della Repubblica del Titano con un contributo annuo di sei
milioni. Un caso unico e irripetibile. All'inizio del 1924,
presenti di persona o tramite messaggi numerose officine (“La Vedetta”
di Udine, la “Italia Nuova” di Torino con il fratello Forte), la loggia
liburnica festeggiò l'annessione di Fiume all'Italia, “pietra miliare
del Risorgimento italiano”, consacrata dal sacrificio di
cinquecentomila giovani caduti nella Grande Guerra: pegno perpetuo. In
giugno però le due logge avvolsero i labari, distrussero carte e
attesero la tempesta. Alcuni si procurarono una sorta di “liberatoria”
a futura memoria. Era imminente la legge 26 novembre 1925, n. 2029
sull'appartenenza dei pubblici impiegati alle associazioni, che impose
ai dipendenti (militari inclusi) di dichiarare di quali sodalizi
fossero membri. Allora si comprese meglio che un Ordine segreto non
deve avere registri, né contabilità, né sedi, né alcuna forma
esteriore. Esso è. Opera nel riserbo. Il
Ministero dell'Interno incalzò il prefetto a comunicare i nomi dei
massoni notori e a esercitare la massima sorveglianza: ordini ribaditi
il 20 novembre 1925 perché gli constava che l'Associazione dei
commercianti era completamente controllata dal Grande Oriente. Il 6
ottobre 1930 il comandante della 61^ legione “Carnaro” della Milizia
volontaria di sicurezza nazionale, Leo Franca, informò prefetto,
questore, comando generale dei Carabinieri, ecc. ecc. che sei persone
(seguivano i nomi) erano stati visti uscire dal ristorante riservato
del Caffè “Budai”, con tanto di signore al braccio: “Probabilmente
doveva trattarsi di qualche cenacolo massonico. I suddetti, con alti
amici, molto noti, sogliono riunirsi in lieti simposi,
frequentemente...” . Chissà che cosa ne avrebbero detto i Legionari
di d'Annunzio? Non era per quel tipo di regime poliziesco che la notte
del 12 settembre 1919 erano partiti da Ronchi per assicurare alla
Patria la “Perla d'Italia”. Anni dopo, grazie alla connivenza
dell'Ungheria dell'ammiraglio Horthy, che nel 1920 aveva sciolto la
Gran Loggia simbolica d'Ungheria e ne aveva sequestrato le carte, “chi
di dovere” riuscì ad avere nelle grinfie gli elenchi degli affiliati
alla “Sirius” sin dalla sua remotissima fondazione. La caccia al
massone riprese alacremente. L'astro più fulgido della Costellazione
del Cane Maggiore, sacro a Iside, per molto tempo cessò di irradiare
sull'“aiola che ci fa tanto feroci”. (*)
Aldo A. Mola
(*) Dal 5 al 7 settembre si
svolge a Gardone (BS) il Convegno internazionale di studi “Fiume,
1919-2019. Un centenario europeo tra identità. Memorie e prospettive di
ricerca”, ideato e organizzato da Giordano Bruno Guerri,
presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani. Informazioni in:
fiume@vittoriale.it
PROPORZIONALE O MAGGIORITARIO? IN CERCA DELLA NUOVA LEGGE ELETTORALE Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 25 Agosto 2019, pagg. 1 e 11.
La funzione storica dei collegi uninominali (1848-1919) Tira
daccapo vento di “proporzionale”? “L'assassino torna sempre sul luogo
del delitto”, verrebbe da ripetere. L'assegnazione dei seggi alla
Camera in proporzione ai voti ottenuti dai partiti fu introdotta in
Italia giusto un secolo fa,
con la legge 15 agosto 1919, n. 1401. Dal 1848 al 1861 il Regno di
Sardegna e dal 1865 al 1913 quello d'Italia avevano utilizzato i
collegi uninominali, con ballottaggio tra i due candidati più votati al
primo turno. Con alcune modifiche transitorie ma non sostanziali tra il
1882 e il 1890, quel modello propiziò il passaggio dalla monarchia
rappresentativa a quella parlamentare, già vaticinato da Camillo Cavour
e poi pienamente attuato da Giovanni Giolitti. Nei collegi uninominali
gli elettori sceglievano il candidato più capace di rispondere ai
bisogni locali. Poiché il diritto di voto era riservato a cittadini
consapevoli e i deputati non rappresentavano i loro elettori ma la
Nazione, si era così instaurato un equilibrio virtuoso tra tutela del
collegio elettorale e visioni di ampio respiro. D'altronde i
parlamentari erano generalmente persone di solida cultura, patrizi,
professionisti, funzionari dello Stato forniti di mezzi che li
rendevano liberi da condizionamenti. In mezzo secolo i collegi
uninominali plasmarono una dirigenza politica qualitativamente non
inferiore a quella di Stati di più lunga esperienza parlamentare, che
poi, ridotti all'osso, erano la Gran Bretagna, la Francia e alcuni di
minori dimensioni, quali il Belgio e i Paesi Bassi. La Spagna dei
“cacicchi” era altra cosa. Nel 1912 il diritto di voto fu conferito
a tutti i maschi maggiorenni alfabeti, a quanti avessero prestato
servizio militare e ai trentenni anche se analfabeti e militesenti. Il
presidente del Consiglio Giolitti spiegò che l'esercizio del voto non
poteva più dipendere dal maneggio delle 24 lettere dell'alfabeto. Però
a far da argine a imprevedibili scossoni rimasero i collegi
uninominali. Lì ogni elettore conosceva ciascun candidato. Poteva
essere illuso o raggirato una o due volte, ma non all'infinito, e non
era ben disposto verso candidati catapultati da chissà dove,
soprattutto se privi della dote basilare del “fare politica” ovvero la
capacità di “ascoltare” l’elettorato. L'introduzione del suffragio
universale maschile fu provvidenziale. Sarebbe stato impossibile
mettere in divisa cinque milioni e mezzo di cittadini durante la Grande
Guerra se in cambio non avessero avuto almeno il diritto di voto.
L'Italia sarebbe precipitata in una crisi di sistema come la Russia di
Nicola II. Sulla fine del conflitto, dopo decenni di proposte avanzate
da pattuglie di esperti di leggi elettorali, il Fascio di difesa
parlamentare e i nazionalisti alzarono la bandiera della proporzionale
per garantirsi il ritorno alla Camera. A loro bastava essere minoranza
(tendenzialmente “rumorosa”), nel solco delle Estreme, sia di sinistra
sia di clericali oltranzisti. Anche pochi scranni consentivano di
“testimoniare”, di gridare il “no” alla maggioranza moderata, concreta,
fattiva che in pochi decenni aveva portato l'Italia da arretratezza e
sottosviluppo a Paese moderno. Certo molto altro occorreva. Lo aveva
detto Giolitti inaugurando un ospedaletto per l'infanzia. Ci volevano
due generazioni ben educate e bene allevate per portare gli italiani ai
livelli di Stati dalla storia unitaria plurisecolare. In breve
la “proporzionale” divenne il cavallo di battaglia dei socialisti e del
Partito popolare italiano fondato il 19 gennaio 1919 da don Luigi
Sturzo. Per non essere tacciati di avversione alla democrazia anche i
liberali si accodarono: alcuni per assicurarsi almeno un buon numero di
seggi, altri per sottovalutazione delle possibili ripercussioni. Il pur
navigato Giolitti il 12 luglio confidò alla moglie, Rosa Sobrero
(Gina), il suo disinteresse per la riforma della legge elettorale:
“Credo sia cosa di nessuna portata. Io credo che di fronte ai grandi
guai del paese questi pannicelli caldi lasciano il tempo che trovano”.
A suo giudizio urgeva ripristinare la finanza pubblica, frenare la
svalutazione del potere d'acquisto della lira, che trascinava con sé
aumenti di salari e stipendi e, conseguentemente, il dissesto del
bilancio dello Stato e degli enti locali, ripristinare la quiete
pubblica preda della scioperomania e riaffermare la dignità dell'Italia
dinnanzi alle Grandi Potenze. Tutto vero, ma per un attimo anche
all'anziano statista sfuggì che qualunque Esecutivo deve basarsi su una
maggioranza solida e durevole. La proporzionale, invece, era fatta
apposta per generare instabilità. La proporzionale: partiti grossi ma non grandi Gli
elettori crebbero di due milioni e mezzo, distribuiti in 54 collegi in
gran parte coincidenti con le province dell'epoca. Alcune regioni
fecero collegio a sé. Alla Liguria, che contava due sole province
(Genova e Porto Maurizio), furono assegnati 17 seggi. Il Piemonte contò
4 collegi, uno per ogni provincia (Torino, Alessandria, Cuneo e
Novara). Indeciso a tutto, il presidente del Consiglio, Francesco
Saverio Nitti, procrastinò la data delle votazioni sino al 16 novembre:
troppo tardi per le aree montane ove erano più radicati i moderati di
tradizione liberale e cattolica. Nel frattempo a Parigi venne
sottoscritta la pace tra l'Italia e l'Austria, detta di Saint-Germain
dalla sede ove fu ratificata. Essa negò all'Italia Fiume. Il 12
settembre Gabriele d'Annunzio vi irruppe mettendo a segno un'“impresa”
organizzata di lunga mano da massoni e militari. Il governo ne risultò
vulnerato e screditato. A fine ottobre venne progettata una “marcia su
Roma” che doveva partire da Fiume e Trieste. Venne bloccata dalla
dissociazione del gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Domizio
Torrigiani, timoroso che una guerra civile sfociasse in dittatura
militare e sospensione a tempo indeterminato della democrazia
parlamentare. Il Paese andò alle urne in grave affanno? Dalle
cronache giornalistiche pareva fosse sull'orlo dell'abisso. In realtà
votò il 56,6% degli aventi diritto: una tra le partecipazioni più basse
dall'unità, inferiore a quella del 1909 e persino del 1913, quando fu
sperimentato per la prima volta il suffragio quasi universale maschile.
Nel 1919 nell'Italia settentrionale votò il 64% degli aventi diritto,
nell'Italia meridionale appena il 50% e in quella insulare il 46%. Gli
elettori vivevano in modo molto diversificato gli assilli del Paese,
dei parlamentari, dei partiti. La proporzionale ebbe un esito
catastrofico. Su 508 deputati ben 327 furono di nuova nomina. Con il
32,3% dei suffragi i socialisti ottennero 156 seggi; i popolari, con il
20,5%, ne ebbero 106. Sommati i due partiti di massa avevano la
maggioranza, ma erano gli uni contro gli altri armati: si andava dal
“libero amore” alle gonne sin sotto i piedi. I “centristi” si
attestarono al 36,9% ma, essendo frastagliati, si divisero tra liberali
(41 seggi) e liberal-democratici (146 seggi). I radicali furono appena
12 e i socialriformisti 6. I repubblicani precipitarono a 4: il loro
peggior risultato di sempre, proprio mentre tanti chiedevano di
rovesciare la monarchia. I socialisti ottennero il 42,5% dei
consensi al Nord, il 56% al Centro e appena il 6,7% nel Mezzogiorno
(con una punta migliore in Puglia). I popolari contarono 20 seggi in
Lombardia, 17 nel Veneto, 11 nel Piemonte di don Bosco e dei “santi
sociali”, appena 4 in Liguria e nel Lazio, 1 in Umbria e in Sardegna,
nessuno in Basilicata. Ne ottennero 6 nella Sicilia di don Sturzo
contro i 30 dei democratici liberali convergenti con la Democrazia
sociale del teosofo Giovanni Antonio Colonna duca di Cesarò. Il Paese,
insomma, era molto più frammentato di quanto indicassero i risultati
complessivi. D'altronde aveva vissuto la guerra in modi e misure del
tutto differenti. Per la prima volta i votanti si trovarono dinnanzi
una scheda su cui comparivano i soli contrassegni dei partiti in lizza:
un favore per gli analfabeti e un freno a manipolazioni e brogli. I
partiti si premurarono di distribuire volantini con i nomi dei
candidati da votare e, soprattutto, con il simbolo ben nitido,
solitamente semplice e diretto. Per esempio una spiga di grano con la
stella d'Italia. Per allentare la drammatizzazione della contesa
Camillo Peano, uno tra i più fidi collaboratori di Giolitti, fece
introdurre nella legge la possibilità che l'elettore aggiungesse ai
nomi presenti nella lista preferita anche quello di un candidato di una
lista diversa. Il “panachage” (screziatura) era da tempo in uso
Oltralpe (per esempio in Belgio) per propiziare sin dalle urne la
formazione di una coalizione di governo. Esso fu l'ultima eredità del
collegio uninominale, giacché consentiva all'elettore di esercitare un
“voto di stima”. L'opportunità non ebbe però una vasta eco nella
pratica. Funzionò proprio là dove Giolitti meno se l'aspettava, cioè
nella “sua” provincia di Cuneo. Lì, debitamente istruiti, parecchi
liberali aggiunsero la preferenza per il cattolico Giovanni Battista
Bertone; i popolari, tuttavia, non fecero altrettanto. Ne conseguì che
gli sturziani conquistarono quattro seggi (come i socialisti) contro i
tre dei liberali (Giolitti, Soleri e Peano) e che l'ex presidente del
Consiglio ebbe meno preferenze di Bertone: un’umiliazione non da poco
per lo statista. Mentre doveva curare le immense ferite della Grande
Guerra l'Italia si trovò con due partiti grossi ma non grandi e molti
partitini che anteposero i propri interessi di fazione a quelli del
Paese. Il Re, l'Internazionale, i patres e la polverizzazione dei costituzionali La
seduta inaugurale della Camera annunciò la tempesta. Mentre Vittorio
Emanuele III si accingeva a pronunciare il discorso della Corona i
socialisti intonarono l'Internazionale e uscirono dall'aula. Il Re
ricordò che “il Parlamento, presidio di ogni libertà, difesa e garanzia
di tutte le istituzioni democratiche, deve essere oggi più che mai
circondato dalla fiducia del Paese” per “determinare all'interno un
intenso programma di produzione e di lavoro, e un senso più profondo di
cooperazione sociale, e determinare all'estero un'azione sempre più
democratica di cooperazione fra i popoli”. Oggi che cosa potrebbe dire
di più e di meglio un Presidente della Repubblica? Sulla base del
nuovo regolamento si formarono undici gruppi parlamentari, nominalmente
di almeno 20 membri, in realtà anche solo di 10. Malgrado il vistoso
successo di due partiti di massa, che si schierarono all'opposizione,
la Camera risultò un caleidoscopio di partitini. L'esatto contrario di
quanto occorreva al Paese per risalire la china. Il “sistema” resse
perché Montecitorio aveva per contrappeso il Senato, di nomina regia,
vitalizio e non suddiviso in gruppi, anche se non vi mancavano
tendenze, correnti e “umori”, talora assai difformi. D'intesa con il
Sovrano (che aveva l'ultima parola in fatto di nomine, mentre
all'Assemblea ne competeva la convalida), nel 1919 la Camera Alta venne
ampliata con il conferimento, a piccole dosi, del laticlavio a
generali, imprenditori e politici di primo piano: Badoglio, Pecori
Giraldi, Cagni di Bu Meliana, Albricci, Dante Ferraris, Carlo Sforza.
Il 6 ottobre 1919, un mese prima delle elezioni, in continuità con una
lunga consuetudine, si registrò l'“infornata” di 59 nuovi patres della
miglior tradizione liberale nel senso più lato del termine: Mario
Abbiate, Ernesto Artom, Leonardo Bianchi, Ettore Bocconi, Dario
Cassuto, Giovanni Ciraolo, Luigi Credaro, Marco di Saluzzo, Achille
Loria, Carlo Petitti di Roreto, Nino Tamassia... ebrei, cattolici e
radicali, tutti uniti nel culto dell'Italia e nel lungo servizio quali
deputati, militari, industriali, agrari e banchieri. Il 7 ottobre fu la
volta di Carlo Schanzer, poi ministro degli Esteri, figlio di un
illustre massone. La proporzionale non determinò subito il collasso
della democrazia liberale perché, dinnanzi all’inconcludenza di Nitti,
il Re affidò il governo al settantottenne Giolitti. Nelle elezioni
amministrative dell'autunno 1920 lo statista incoraggiò tutto dove
possibile la formazione di “blocchi” comprendenti liberali, cattolici
moderati, democratici (ex radicali e socialriformisti), combattenti,
“agrari” e qualche sporadico militante nel movimento fascista
(all’epoca non ancora “partito”: lo divenne un anno dopo, con il
congresso di Roma del novembre 1921). Vinta la battaglia per
rimettere ordine nei conti dello Stato e abolire il rovinoso “prezzo
politico” del pane, Giolitti coronò tre altri successi fondamentali:
innanzitutto fronteggiò l'occupazione delle fabbriche da parte degli
estremisti rossi, che si erano mossi mentre l'Armata sovietica invadeva
la Polonia e puntava a innescare una rivoluzione generale nell'Europa
centro-occidentale; inoltre trattò con la Jugoslavia la demarcazione
del confine orientale, disinnescando la sempre esplosiva questione di
Fiume; infine terminò con la “Reggenza” e lo sperimentalismo politico
inaugurato con la Carta del Carnaro. Perseverare diabolicum... L'anno
seguente Giolitti ottenne lo scioglimento della Camera e la sua
rielezione, a legge elettorale immutata: un errore strategico, come gli
era stato vaticinato da Antonio Frassati e da altri lungimiranti. Lo
statista aveva però validi motivi. Occorreva, per un verso, consentire
di votare ai cittadini delle terre annesse in forza della pace di
Saint-Germain ma senza plebiscito confermativo (a differenza di quanto
era avvenuto con le precedenti annessioni tra il 1848 e il 1870) e, per
l’altro verso, verificare se con la trasposizione dalle elezioni locali
a quelle generali i blocchi nazionali avrebbero dato vita a una solida
maggioranza. Avvenne il contrario. I socialisti persero una trentina di
seggi, ma nella nuova Camera entrarono i comunisti che ne ebbero 15.
Per non farsi scavalcare a sinistra i socialisti su arroccarono su
posizioni anti-sistema. Fu il suicidio delle sinistre, come intuì Anna
Kuliscioff. I popolari aumentarono a 107 seggi ma a loro volta vissero
di “veti” (anzitutto contro Giolitti) e si resero invisi persino alla
Santa Sede. I “liberali” si sfarinarono in diverse sigle. Nacquero
quattordici gruppi parlamentari, tra i quali quello fascista con appena
35 deputati su 535. La “maledetta proporzionale” (definizione data da
Giolitti e ripresa da Dario Fertilio in un acuto saggio su “I chi, come
e perché della democrazia maggioritaria”, Bibliotheca Albatros) dette
il suo frutto avvelenato: l'ingovernabilità. Questo accadeva in un
Paese che, al culmine di una lotta senza quartiere tra opposte fazioni
armate, il giorno delle elezioni lamentò quaranta morti e settanta
feriti gravi. Alla vigilia del voto Giolitti lasciò Roma per
accorrere a Cavour, ove giaceva la salma della moglie. Stava finendo un
mondo, sotto i colpi ripetuti di una legge elettorale dalle conseguenze
tossiche. È davvero il caso, cent'anni dopo, di riproporre proprio
quel modello? Sarebbe un omaggio alla legge del pendolo, che ha visto
l'Italia passare dal maggioritario spinto (una straripante maggioranza
a chi ottenga almeno il 25 % dei consensi, come la “legge Acerbo” del
1923, o il 40% come oggi) alla proporzionale pura. Il correttivo
potrebbe essere forse la via di mezzo, rappresentata dalla legge
approvata il 29 marzo 1953, ferocemente combattuta come “legge truffa”
dalle sinistre e dal movimento sociale nelle Aule e nel Paese. In
realtà essa, condivisa da liberali, socialdemocratici e repubblicani di
allora, assegnava 380 seggi su 630 alla coalizione che avesse ottenuto
il 50%+1 dei voti validi. Se non fosse fallita alle urne per lieve
scarto e non fosse stata subito abrogata, quella legge avrebbe
probabilmente assicurato alla Prima Repubblica la stabilità di governo
che le mancò e le avrebbe evitato di finire succuba della partitocrazia
in tutte le sue metamorfosi e manifestazioni.
Aldo A. Mola
HIC ET NUNC PAESE LEGALE, REALE, IMMAGINARIO Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 18 Agosto 2019, pagg. 1 e 11.
L'Italia perse la Guerra dei Trent'Anni (1914-.1945) “Hic
et nunc”. Qui e ora. La crisi di governo è surreale come una novella di
Pirandello. Pulsioni represse o troppo urlate talvolta suscitano gesti
estremi. Ne rimane esempio l'auto-evirazione del teologo Origene di
Alessandria (185-254 d. Cr.). Oppure precipitano nel ridicolo, come
insegna “La Giara” di Luigi Pirandello: duello tra il facoltoso don
Lolò Zirafa e il conciabrocche Zi' Dima Licasi, finito nello scorno del
“proprietario” e lo spasso degli abbacchiatori di olive. Il balzo dalla
razionalità all'assurdo nasce dal travisamento della realtà,
dalla contrapposizione tra i “fatti” e la loro “narrazione”. È quanto
da troppo tempo accade in Italia, un Paese uscito sconfitto e umiliato
nella Guerra dei Trent'anni del secolo scorso (1914-1945). Le tre Italie e il mito del “sorpasso” Letteratura
a parte, esistono tre Italie: quella legale, la reale e l'immaginaria,
frutto di manipolazioni deformanti. In tempi procellosi, quali i
presenti, l'unica vera rimane quella legale, fondata sulla Costituzione
e sulle norme che direttamente ne discendono o che, pur essendo
antecedenti, non vennero abrogate. Vi è poi l'Italia reale, che si
esprime attraverso le consultazioni elettorali e il plebiscito
quotidiano di fiducia nelle istituzioni, certificato dal fatto che,
sotto il profilo dell'ordine pubblico e della coesistenza tra
cittadini, tuttora il Paese è tra i più quieti d'Europa. Non ha nessuna
Catalogna (e non ne sente alcun bisogno). Tra culto dei santi e
salutismo pagano non ha conflitti di religione, né linguistici, né
razziali. È un'Italia che tira a campare. Alle elezioni politiche del
febbraio 2013, che registrarono l'alba del Movimento 5 Stelle, votò il
75% degli aventi diritto. In quelle del marzo 2018 i votanti scesero,
ma di poco: 73%. I Grillini schizzarono al settimo cielo. La Lega
avanzò, ma senza esagerare. Il resto è noto. Alle elezioni degli
eurodeputati, il 26 maggio 2019, in molte circoscrizioni la Lega
svettò, il M5S fletté, come anche il PD e Forza Italia. Ma in
quell'occasione alle urne andò appena il 54,5% degli aventi diritto.
L'esito non rappresentò il paese reale. Votò il 58% nel Nord-Ovest, il
67,30% nel Nord-Est, il 53% al Centro, il 52% al Sud e appena il 37%
nelle isole. Il partito più votato fu quello radicato nell'Italia
settentrionale. Avanzò anche altrove. Ma la sua vittoria straripante è
nella narrazione molto più che nei fatti. Lo stesso vale per le
repliche alle elezioni di consigli regionali, caratterizzate da modesta
affluenza alle urne e con esiti complessivi che non motivano affatto
l'urgenza di nuove elezioni politiche. Al contrario, il Paese ha
bisogno di raccoglimento, di una pausa di riflessione, di tornare
dall'esasperazione dei toni al confronto razionale, basato sulla
consapevolezza dei propri “confini” (che sono anche i suoi “limiti”).
Poiché qualche cosa la Storia insegna, va ricordato
che il 17 giugno 1984, nelle elezioni degli europarlamentari, si
registrò l'agognato “sorpasso” della Democrazia cristiana da parte del
Partito comunista italiano: 33,3% contro 33% (27 deputati contro 26).
Un cataclisma? Quel successo nacque dall'emozione per la morte
improvvisa di Enrico Berlinguer. Alle amministrative dell'anno seguente
la DC ottenne il 36%; il Pci si fermò al 30,2%. Il collasso venne sette
anni dopo, per l'intreccio “tangentopoli/mani pulite”: tutta un'altra
storia, dopo il crollo dell'URSS, la caduta del muro di Berlino e tanto
altro che non va dimenticato quando si scrive non di fantasie ma di
Storia. Un pastrocchio di mezza estate e le sue conseguenze... Innescato
da Matteo Salvini in totale solitudine (a quanto dicono suoi stessi
autorevoli fiduciari, a cominciare dal sottosegretario alla presidenza
del Consiglio, Giancarlo Giorgetti) il pastrocchio poteva/dovrebbe
essere risolto illico et immediate nell'unico modo concludente: le
dimissioni del ministro dell'Interno e dell'intera delegazione della
Lega al governo, via maestra per determinare la caduta dell'a lui
improvvisamente inviso presidente del Consiglio. Un “sacrificio” alla
Origene, completo di scatoloni di carte dei ministri dimissionari e del
loro immenso seguito, da asportare con serafica leggerezza in nome
della coerenza. In assenza, per ora, dei passi che è legittimo
attendersi da chi pretende le dimissioni altrui senza dare le proprie,
questa crisi ferragostana ha sinora avuto molti contraccolpi
verosimilmente non previsti da chi l'ha voluta senza per ora fornirne
spiegazioni convincenti. In primo luogo essa ha fatto emergere in
primissimo piano Giuseppe Conte. Spacciato per mesi come “uomo senza
qualità”, il presidente del Consiglio di ministri è balzato al centro
della scena sia per la posizione istituzionale, sia perché sta
sfoggiando il retroterra culturale e professionale di un ceto, gli
“avvocati”, che nella storia d'Italia ha veduto innumerevoli uomini di
legge ergersi a politici di rango senza bisogno di defatiganti tirocini
partitici o di lungo esercizio di cariche elettive. Gli uomini del foro
sono come i sacerdoti. Se questi conoscono le tentazioni del mondo
soprattutto dalle confessioni dei loro fedeli, gli avvocati le
apprendono attraverso i loro clienti: un osservatorio privilegiato. Di
lì il dominio della logica e il linguaggio tagliente che hanno subito
improntato le tempestive repliche di Conte a chi ne chiese le
dimissioni tacciando il governo di accidiosa inconcludenza, quasi non
ne avesse fatto parte sin dalla stipula del famigerato “contratto per
il cambiamento” (completo, va ricordato, di pretese anticostituzionali,
quali il divieto ai membri di questo o quell'Ordine di far parte
del governo nazionale). Salvini è riuscito inoltre a compiere
il prodigio sino a pochi giorni prima inimmaginabile: spingere
l'alleato di governo e tutti i partiti di opposizione a coalizzarsi nel
bocciarne la perentoria richiesta di immediata calendarizzazione delle
comunicazioni del presidente del Consiglio, della eventuale “sfiducia”,
del subitaneo scioglimento delle Camere e dell'indizione di nuove
elezioni. Per la nota regola in forza della quale quando si è
improvvisamente assaliti si accetta volentieri l'aiuto di un nemico
temporaneamente meno pericoloso, i Cinque Stelle sono stati costretti a
sommarsi agli oppositori del colpo di mano: che non significa né
allearsi, né fondersi, né, meno ancora, dar vita a una coalizione di
ampiezza e di durata imprevedibile. Il futuro è tutto da scrivere. Per
uscire dall'angolo nel quale si è cacciato da sé, Salvini ha tentato
due carte che ne hanno ulteriormente accentuato l'isolamento, sia sul
piano istituzionale, sia nei rapporti con il principale alleato
storico, cioè Forza Italia, un “partito”essenzialmente “centrista” o,
se si preferisce per chiarezza, con il suo presidente, Silvio
Berlusconi. Al riguardo va ricordato che l'attuale “partito” Fratelli
d'Italia è il punto di arrivo delle reiterate convulsioni di una
estrema destra, che non ha mai chiarito sino in fondo la propria genesi
né il proprio iter. Per motivi che non è possibile ripercorrere
analiticamente in questa sede, la “Destra” a lungo fece da contenitore
di persone e di storie non solo diverse ma reciprocamente contrastanti,
quali i monarchici e gli eredi del mussolinismo, cosa ben diversa dal
regime fascista nato tra il 1923 e il 1929 dalla fusione fra la destra
liberale (alimentata dai nazionalisti) e il partito fascista,
ideologicamente caleidoscopico e cangiante (reazionario, sinistrorso,
mangiapreti e corrivo a firmare il Concordato con la Santa Sede,
élitario e corporativo: tutto e il contrario di tutto). Ne scrive Marco
Mensi in “Destra d'Italia. Una breve storia da Cavour a Mussolini” (Ed.
Erga). Forza Italia: una storia liberale Al
presidente Berlusconi il “Capitano” Salvini ha prospettato di formare
un “cartello”, benevolmente disposto a ospitare un certo numero di
candidati sotto il suo spadone. Non ci voleva molto a capire che questi
avrebbero fatto la fine di quanti, senza essere iscritti al PNF,
nell'aprile del 1924 si candidarono nella Lista nazionale allestita da
Mussolini. Finirono intruppati e fagocitati, ghettizzati e scaricati
alla prima occasione, cioè quando nel 1929 si passò dalla Camera
elettiva a quella preconfezionata dal Gran Consiglio del Fascismo,
deputato a stilare l'elenco dei 400 candidati, da approvare in blocco.
Di formazione intrinsecamente liberale, il presidente Berlusconi non ha
certo scordato la lezione del 1924. Dei 374 deputati espressi dal
listone gli iscritti al PNF erano solo 227. Molti degli eletti erano e
rimasero contrari a indossare la camicia nera: bastino i nomi di Enrico
De Nicola e di Vittorio Emanuele Orlando. Ma in capo a un paio d'anni
ai più non rimase alternativa: piegarsi o essere emarginati. Lo aveva
intuito l'ottantaduenne Giovanni Giolitti, che nel 1924 presentò in tre
circoscrizioni elettorali la lista liberale affinché (disse il 16 marzo
1924 nel suo ultimo discorso elettorale) non scomparisse “perfino il
nome del partito di Cavour, di d'Azeglio, di Rattazzi, di Lanza,
di Sella e di centinaia di altri patrioti”. Non bisognava rinnegare “le
più pure nostre glorie a beneficio dei due partiti (socialcomunisti
e clericali capitanati da don Sturzo) che avevano reso
impossibile la normale funzione del Parlamento”. Forza Italia ha una
lunga storia di partito centrista ed è corposamente presente nel gruppo
dei Popolari al Parlamento Europeo, ove ha avuto un peso determinante
nell'elezione della Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen,
in vista di partite di valenza intercontinentale. Sic stantibus rebus,
se declinano la Germania e la Francia, l'Italia va a rotoli, prima
durante e dopo l'ormai incombente crisi finanziaria mondiale che
rischia di travolgere non solo l'Esecutivo ma la vita quotidiana e il
valore dei beni mobili e immobili degli italiani. Non per caso tornano
a schioccare le ali dell' uccello del malaugurio: la
“Patrimoniale...”. A scanso di equivoci, il 1922-1929 (e
specie il 1924) non è qui evocato per appiccicare fatue e
anacronistiche etichette a personaggi politici odierni ma per
evidenziare l'errore lessicale di chi ha incautamente agitato la
richiesta di “pieni poteri” tramite una investitura plebiscitaria,
estranea alla storia parlamentare d'Italia dal 1848 a oggi, con la sola
e niente affatto rimpianta parentesi degli anni 1929-1943. Il mito del “costo della politica” Percepito
di essere alle corde per l'intempestiva pretesa di sfiduciare Conte,
Salvini ha rilanciato proponendo di approvare in quarta lettura la
riduzione dei componenti della Camera e del Senato, quale premessa per
dimissioni del governo e indizione immediata di nuove elezioni
generali. La potatura del numero dei parlamentari è un vecchio e
stantio leitmotiv dell'antipolitica. Ha accomunato nei decenni partiti
e movimenti del tutto diversi. La Sinistra (mai dimenticare!)
originariamente era per l'abolizione del Senato, considerato fortilizio
dei reazionari anche quando nel 1948 passò dalla nomina regia e
vitalizia all'elettività. Proprio per il centinaio di “senatori di
diritto”, in massima parte non democristiani, aggiunti a quelli appena
eletti, De Gasperi fu costretto a varare il governo di coalizione
centrista che scongiurò la clericalizzazione dell'Italia. Così come è
(del tutto diverso dal papocchio proposto dalla “riforma” Renzi-Boschi)
il Senato ha reso e può rendere grandi servigi alla democrazia
parlamentare: soprattutto se continuerà ad avere un corpo elettorale
diverso (cioè più anziano) rispetto a quello della Camera dei deputati
e uno stile austero, diverso da quello esibito lo scorso 12 agosto. Il
monocameralismo è sempre stato (e rimane) cavallo di battaglia dei
giacobini e dei leninisti, perché spiana la strada all'eliminazione dei
residui oppositori (anche fisica, all'occorrenza: espulsione dall'Aula,
dichiarazione di decadenza, ecc.). E' predicato dalla chiacchiera sul
“costo della politica” condivisa da tutti i neo-qualunquisti. Essa
sposta l'attenzione dal vero nodo della democrazia parlamentare: non il
numero dei rappresentanti ma la loro preparazione culturale e,
specificamente, i prerequisiti per l'esercizio della rappresentanza
politica, la più alta delle responsabilità, delle “arti”, delle
“professioni”, come (secondo il suo discepolo Platone) insegnava il
filosofo ateniese Socrate, sino a quando, esasperati del richiamo alla
serietà e inclini al malgoverno, i suoi concittadini lo fecero
condannare a morte dall'Areopago. Il Paese Italia è perfettamente in
grado di accollarsi il costo del Parlamento. Ha ben altri sperperi da
eliminare! Non è invece in condizione di sopportare l'inerzia del
governo nazionale, di Regioni spendaccione e di amministrazioni
comunali che hanno condotto al fallimento gli enti affidati alle loro
cure. Forme e sostanza degli Stati... Dinnanzi
all’incombente crisi dell'esecutivo attuale non è per nulla retorico
riflettere sul “porro unum necessarium” di qualunque altro dovesse
subentrargli. Lo Stato è chiuso nella tenaglia dell'enorme e crescente
indebitamento pubblico, della stagnazione del prodotto interno lordo e
del declino della sua creatività, anche e soprattutto per lo sfascio
della scuola e della ricerca scientifica che ancora ricorre allo
sfruttamento delle capacità e della dedizione. Anche altri Paesi
dell'Unione Europea vivono difficoltà, ma hanno fondamentali economici
(sistema produttivo e fiscalità) di gran lunga più efficienti e un
assetto dei poteri istituzionali così stabile da assorbire i
contraccolpi della labilità del regime rappresentativo. Vale per gli
Stati monarchici (da Gran Bretagna, Spagna, Benelux, Paesi
scandinavi...) come per la repubblica presidenziale francese e per
quella federale germanica. La cornice e il capolavoro Qualunque
capolavoro politico voglia compiere un futuro governo va ricordato che
da secoli per il Paese Italia è la cornice a decidere il quadro e non
viceversa. Falliti i propositi di dar corpo a monumenti imperituri,
Leonardo da Vinci dedicò gli ultimi anni a rivisitare “la Gioconda”.
Quello era l'unico “spazio” rimasto a disposizione del suo genio, in un
castello lontano dalla sua terra d'origine. All'altro gigante
dell'epoca, Michelangelo Buonarroti, papa Giulio II affidò la
decorazione della Sistina. Egli affrontò la sfida e la superò, ma non
poté ampliare di un metro le dimensioni della Cappella. Così è e sarà
per qualunque Esecutivo. Come nel mensile “Storia in Rete” ha ricordato
lo storico Nico Perrone, specialista dei legami italo-americani,
l'Italia è vincolata in aeternum alla Nato per quanto riguarda il suo
assetto difensivo (e quindi militare, dell'industria strategica e
pertanto nell'informatica...). I “giri di valzer” che si era permessa
con la Francia a inizio Novecento vennero guardati con indulgenza dal
Cancelliere germanico von Bulow perché Vittorio Emanuele III era
sovrano di uno Stato con ampi margini di indipendenza e di possibili
iniziative (lo si vide con la dichiarazione di guerra all'impero turco
per la sovranità su Tripolitania e Cirenaica, intrapresa senza l'avallo
preventivo né degli alleati né degli avversari/concorrenti). Ora non
può fare altrettanto. Lo stesso vale per i suoi rapporti con l'Unione
Europea, che non è una combriccola di burocrati antipatici ma una somma
di vincoli ineludibili se non a prezzo di sanzioni durissime. Vagheggiare
l'uscita dall'euro e l'invenzione di forme neppur tanto occulte di
aumento del debito pubblico (per esempio con i risibili mini-bot) vuol
solo dire perdere ulteriormente di credibilità internazionale,
scoraggiare qualunque investimento dall'estero, far fuggire i pochi
capitali ancora disponibili e seminare panico e sfiducia in quanti si
sentono intrappolati dalle loro proprietà immobiliari, vessate dalla
tassazione esorbitante, unicamente destinata a fronteggiare la spesa
corrente, senza alcun beneficio per la famosa “crescita”. Sarà un
bene o sarà un male la somma dei vincoli che oggi fa da cornice al
Paese Italia e recide i garretti di qualunque velleità sovranistica?
Sarà giustizia o misericordia, per dirla con padre Cristoforo? Agli
occhi della Storia essa risulterà un beneficio, come le regole
elementari di comportamento insegnate a bambini poco inclini alla
disciplina. Capiranno nel tempo che la vita è fatta di diritti come
anche di doveri, di gioco e di serietà. L'Italia immaginaria
deve lasciare spazio a quella reale e alla legale: la Costituzione e
tutte le convenzioni internazionali sottoscritte dal 1948 a ieri. Se
l'Italia contò e ancora conta, è proprio grazie alla riduzione della
sovranità nazionale cui, sconfitta nella Guerra dei Trent'anni, essa
acconsentì nell’art. 11 della Carta fondamentale. Pretendere di
ignorarla e di “fare da sé” è solo ingenua velleità di dimenticare la
propria storia, la realtà fattuale. Poca cosa per un principato ricco e
operoso, pessima per un Paese dall'economia stagnante in un mondo in
recessione. I prossimi giorni saranno decisivi e peseranno per
molti e molti anni, come ha ripetutamente ricordato Silvio Berlusconi e
fa intendere il Presidente Sergio Mattarella.
Aldo A. Mola
EBREI TRA ALPI E COSTA AZZURRA UNA “NAZIONE” PRIMA E OLTRE GLI “STATI” Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 11 Agosto 2019, pagg. 1 e 11.
13 aprile 1850: quando Cavour fece fischiare una palla... “Oh,
gran bontà de' cavalieri antiqui” scrisse il poeta. Anziché
moltiplicare insulti e polemiche, vi sono altri modi per chiudere una
disputa nata in Parlamento. Lo documentano gli Atti della Camera dei
deputati del regno di Sardegna, l'unica elettiva in Italia dopo il
fallimento del Quarantotto, a dimostrazione che la monarchia
rappresentativa varata da Carlo Alberto e dal suo giovanissimo
successore, Vittorio Emanuele II, era il solo regime capace di guidare
l'impervio cammino dell'Italia verso indipendenza nazionale, unità e
libertà. Emblematica rimane la “resa dei conti” tra due deputati della
Camera “subalpina” nella primavera del 1850. Camillo Cavour, ancor
prima della nomina a ministro di Agricoltura e Commercio in successione
allo sfortunato Pietro Derossi di Santarosa, era schierato per la
liberalizzazione degli scambi. In aprile si aprì il dibattito sul
trattato di navigazione e commercio con la Francia. Il conte lo
propugnò a spada tratta. Lo ricorda Simona Tombaccini in “La Nazione
Ebrea di Nizza, 1814-1860” (Ed. Centro Studi Piemontesi, candidato al
Premio Acqui Storia), uno di quei libri che chiedono una vita di
ricerche d'archivio ma poi durano nei secoli. Gli si oppose Henri
Avigdor, di cospicua famiglia israelita, deputato di Gavi e strenuo
difensore degli interessi della sua nativa Nizza Marittima. Dall'Aula
di Palazzo Carignano la polemica, tutta svolta in perfetto francese
(Cavour lo parlava meglio che l'italiano), rimbalzò nei giornali. Il
duello tra il cavouriano “Il Risorgimento” e “La Voix de l'Italie”,
periodico fondato da Giulio Avigdor, fratello di Enrico, salì al
diapason. Secondo il costume del tempo ai due non rimase che posare la
penna e passare ai fatti: un duello alla pistola. Lasciati per pochi
minuti gli scranni deputatizi, il pomeriggio del 13 aprile si trovarono
sulle sponde della Dora, non lontano da un cimitero. Per sorteggio,
Avigdor sparò per primo. Ebbe a portata di tiro la vita del trentenne
Camillo e, con essa, le sorti del regno e dell'Italia ventura. Mancò il
bersaglio. Lo stesso fece Cavour. I rispettivi padrini si affrettarono
a giudicare chiuso il duello, “considerato il contegno franco e
generoso dei due avversari”. Il nizzardo tese amichevolmente la mano al
conte confidandogli di aver sentito “siffler la balle” all'orecchio.
“Non ho mirato per mancarvi” rispose Cavour, gelido e ambiguo come un
oracolo. Poiché il duello era proibito, il procuratore generale di
Torino li incriminò, ma la Camera respinse l'autorizzazione a
procedere. Il codice dell'onore prevaleva su quelli ordinari. La loro
riconciliazione avvenne in Aula e, come Cavour confidò divertito, il
trattato passò grazie alla “conversion d'Avigdor”. Ne accenna il
siciliano Rosario Romeo in una nota dell'immensa insuperata biografia
dello Statista, affidatagli dalla Associazione Piemontesi a Roma,
mentore Renzo Gandolfo, “ 'l profesor”. D'altronde la sorte di Nizza
era segnata. Dall'annessione della Liguria nel 1814, anziché alla città
di Caterina Segurana Torino guardava a Genova (ai danni di Savona, da
sempre in contrasto con la Superba) e a La Spezia quale porto militare,
più possibile lontano da Tolone. Nel decennio seguente tante
famiglie nizzarde si trovarono dinnanzi alla scelta tra Parigi e
Torino, la Francia (e il suo già immenso impero coloniale, dall'Algeria
alla Cocincina) e un'Italia ancor tutta da costruire. Con la cessione
alla Francia della Savoia e della Contea di Nizza (1860) venne l'ora
delle decisioni ultime. Francofoni da molte generazioni, scrive
Tombaccini, i giudeo-nizzardi “nutrivano sentimenti filofrancesi e da
lunga data”. I più chiesero la “naturalizzazione” francese. Altri
scelsero la cittadinanza italiana. Il “dilemma dell'annessione
attraversava le famiglie e le spaccava, dato che un genitore, memore
dell'esperienza napoleonica, preferiva la Francia, mentre il figlio,
sensibile agli ideali del Risorgimento, inalberava il vessillo
dell'Italia unificata che si profilava all'orizzonte”. Al di là degli Stati, sotto la Stella di Davide Per
gli ebrei v'era però una terza opzione, silente: rimanere se stessi,
“nazione”, come sempre nei secoli. Fu il caso di molte famiglie della
Costa Azzurra. Quando ancora non c'erano telefoni né internet avevano
una fitta rete di comunicazioni da uno all'altro dei Paesi nei quali
singoli loro componenti si erano trovati a vivere, spesso sospinti
dalle bufere delle persecuzioni, da Spagna e Portogallo alla Francia e
all' “Italia”. Tra la Rivoluzione e l'Impero (1789-1815) avevano
vissuto una lunga parentesi di libertà, rimasta pressoché intatta in
Francia dopo la Restaurazione, a differenza di quanto accadde nel regno
di Sardegna col ritorno di Vittorio Emanuele I. Dopo decenni
tra conati di rivolta e rassegnata sottomissione, lo Statuto di Carlo
Alberto e i Regi decreti del suo Luogotenente Eugenio di Carignano
riconobbero agli israeliti uguaglianza di diritti civili e politici.
Gli Avigdor se ne avvalsero subito. Henri-Enrico il 2 febbraio 1850 si
candidò alla Camera dei deputati nel collegio di Gavi, già
rappresentato dai marchesi Damaso Pareto, Orso Serra e Tommaso Spinola.
Soccombente al primo turno per un paio di voti contro Pietro
Bianchi, due giorni dopo egli trionfò in ballottaggio con 130
preferenze contro le 19 del rivale. Suo fratello Giulio a
sua volta fu eletto in ballottaggio nel 2° collegio di Nizza Marittima
l'11 dicembre 1853 e venne confermato il 22 gennaio 1854. Morì il 23
dicembre dell'anno seguente. Gli subentrò Carlo Laurenti-Robaudi, come
Augusto Riboty e altri patrioti pugnace difensore dell'italianità di
Nizza. Di là, di qua delle Alpi: il rabbino cuneese Lelio della Torre Con
minuziosi alberi genealogici (quasi diamanti incastonati in una ricca
collana di capitoli) Tombaccini documenta i flussi secolari dei membri
di una stessa famiglia dall'uno all'altro versante delle Alpi del Mare.
E' una regione che ancora attende la vera svolta dell'Unione Europea:
tornare da sommatoria di Stati e staterelli all'ecumene antica,
vaticinata da Caracalla (non il più costumato fra gli imperatori
romani) quando, nel 212 d.Cr., conferì la cittadinanza a tutti gli
uomini liberi. Ne emerge l'arricchimento culturale che ne trasse il
Piemonte nell'Otto-Novecento. Fu il caso del Piemonte meridionale, ove,
per esempio, Cuneo contò due ebrei di peso europeo: Lelio della Torre e
Marco Cassin. Della Torre nacque nel capoluogo della “Granda”
l’11 gennaio 1805 e morì a Padova il 9 luglio 1876. Orfano di
padre a soli due anni, crebbe nella casa dell’avo materno, Michele Vita
Treves, rabbino maggiore di Casale Monferrato. Studiò ebraico, latino e
greco. Parlò italiano, francese, tedesco... Così definì la sua
schiatta: “Italiani per nazione e per patria, israeliti per religione,
e come italiani e come israeliti dobbiamo tendere ogni sforzo
all’unità: dobbiamo stringerci fortemente intorno allo stendardo della
patria comune, intorno allo stendardo della religione, fonte della
libertà, di eguaglianza, d’indipendenza. che ausiliaria anch’essa vuol
essere della patria e da noi a suo pro’ adoprata”. Della Torre respinse
l’attribuzione dell’unificazione italiana a un “complotto
giudaico”, preludio di quello “giudaico-massonico”, classico
cavallo di battaglia dell’antisemitismo reazionario. Perciò la sua
figura e la sua opera furono riproposte quale vessillo
liberale nel Piemonte d’inizio Novecento. Marco Cassin, politico, patriota, rotariano... Altro
esponente insigne della comunità ebraica subalpina fu Marco Cassin
(Cuneo, 29 agosto 1859 - Padova l’8 aprile 1926). Come i
Cavaglion, i Lattes, Treves, Valobra, Valeri (una Debora sposò Aronne
Ovazza di Torino), anche i Cassin furono una famiglia transfrontaliera.
Nel Cuneese si affermarono come proprietari di manifatture
seriche e di una banca. Un membro della famiglia, Aronne, componente
della giunta comunale di Caraglio, nel 1885 caldeggiò l’ingresso
di Giovanni Giolitti nel consiglio provinciale di Cuneo. Era morto
Agostino Moschetti, avvocato, già sindaco di Cuneo, deputato alla
Camera e consigliere provinciale per il mandamento di Caraglio.
Eletto col sostegno di Cassin, Giolitti rappresentò il mandamento
sino al 1920 quando morì Luigi Moschetti, che non resse alla
perdita del figlio, caduto al fronte all’inizio della Grande
Guerra. Nel 1920 Giolitti ne ereditò il mandamento di Prazzo e
San Damiano, terra dei suoi antenati paterni. Vi rinunciò nel dicembre
1925, in risposta al servile complotto di catto-fascisti, con contorno
di liberali tristemente dimentichi di sé, tutti proni dinnanzi al duce
del fascismo. Primo esponente politico-amministrativo della famiglia
Cassin nel consiglio comunale della città di Cuneo fu Emanuel, titolare
dell’omonima banca, in carica dal 1873 al 1882, quando morì.
Sette anni dopo fu eletto Marco. Non confermato nel 1893, riconquistò
il seggio nel 1905, mentre affioravano tensioni fra clericali e
liberaldemocratici. Marco Cassin divenne punto di riferimento di
una linea politica destinata a fare da spartiacque
nell’amministrazione civica cuneese: i clericali da una parte,
duramente ostili nei confronti di Giolitti, proprio quell’anno eletto
presidente del consiglio provinciale; i liberali progressisti
dall’altra. Anche in Piemonte molti esponenti della democrazia
cristiana ispirati da don Davide Albertario e da Cesare Algranati,
ebreo convertito in Rocca d'Adria (1892 e seguenti), polemizzavano a
freddo contro israeliti e massoni. Alle elezioni comunali
del 5 marzo 1908 prevalse un blocco moderato, confermato nelle
elezioni del 12 settembre 1910. Cassin rimase soccombente. La lotta
fra clericali e liberali crebbe di tono con la fondazione della loggia
“Vita Nuova”, il cui stratega fu l’avvocato Angelo Segre.
La lotta per la conquista dell’amministrazione cuneese balzò al
centro dell'attenzione nazionale. Nel 1909 Tancredi Galimberti, che nel
corso degli anni aveva percorso tutto l’arco ideologico e politico (da
garibaldino e radicale a giolittiano e infine filoclericale), venne
confermato deputato. I liberali in Cuneo e altre zone della provincia
erano però prevalentemente progressisti, convinti di poter fare a meno
di alleati scomodi: sia i socialisti, sia i clericali. Il loro vero
Nume era Giolitti. Benché non fosse al governo (presidenti del
Consiglio furono, in rapida successione, Sidney Sonnino e Luigi
Luzzatti) lo Statista lo controllava, anche tramite il deputato di
Alba, Teobaldo Calissano, sottosegretario all’Interno. Per sciogliere
il nodo, il Comune di Cuneo fu commissariato. Cassin organizzò la
riscossa dei liberali. Finanziò la nascita di un terzo quotidiano, il
“Corriere Subalpino” (poi “Il Subalpino”), contrapposto alla
“Sentinella delle Alpi” di Galimberti e al cattolico “Lo Stendardo”. Le
elezioni del 1912 decretarono la vittoria dei progressisti
guidati da Cassin, fiancheggiato dai “fratelli” Eugenio Cavaglione,
Giovanni Quaranta, Angelo Segre e dal trentenne avvocato Marcello
Soleri, eletto sindaco. Questi chiamò Cassin in giunta. Ancora
una volta un pugno di uomini determinati e coesi garantirono la libertà
delle moltitudini. Quello è il ruolo delle élites. Il 15 maggio 1913 Soleri si dimise per rendersi eleggibile alla Camera dei deputati. Il
26 ottobre 1913, mentre Soleri fu eletto deputato per il collegio di
Cuneo, Cassin strappò il seggio di Borgo San Dalmazzo ad Alessandro
Rovasenda di Rovasenda in carica dal 1897. Fu un duello memorabile. Vi
puntarono i riflettori i giornali nazionali. A chi lo tacciò d’essere
ebreo e massone e che pertanto non meritava di rappresentare i
borgarini a Roma Cassin rispose di non sentirsi in colpa
solo perché apparteneva alla stirpe di Abramo. A ogni modo non
poteva farci nulla. Smentì d’essere affiliato alla massoneria italiana.
Non aveva motivo di nasconderlo. Massoni erano stati cinque presidenti
del Consiglio. Nessun imbarazzo, dunque; semmai all'epoca era un
passe-partout. Negò di esserlo non per opportunismo ma perché non lo
era. Il 12 luglio 1914, in veste di pro-sindaco, Cassin
annunciò la vittoria dei liberali nelle elezioni comunali di Cuneo.
Sindaco fu eletto Luigi Fresia. In quello stesso turno amministrativo
Cassin fu eletto consigliere provinciale per il mandamento di
Vinadio, già rappresentato da Rovasenda. Sconfitto da Soleri a
Cuneo nelle politiche del 1913, Galimberti fu battuto anche alle
provinciali: una disfatta che ne eccitò lo spirito di vendetta,
spinto all'estremo quando perfidamente chiese soldi agli industriali
torinesi per annientare per sempre Giolitti nella sua provincia
originaria. Cassin non tornò nel consiglio comunale di Cuneo
perché ormai aveva altre e più alte incombenze. Presidente
della Camera di Commercio di Cuneo, all’intervento dell’Italia nella
grande guerra a fianco dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia)
egli gettò sul piatto della bilancia una ricompensa concreta e
immediata: la rettifica della balzana linea di frontiera italo-francese
risalente ai frettolosi accordi di Plombières fra Cavour e Napoleone
III e peggiorata nel 1860. Però il miope governo Salandra-Sonnino
non raccolse il suggerimento, per non creare allarme nel governo
francese di cui, senza molte ragioni e con più danni che vantaggi, col
patto di Londra del 26 aprile 1915 l’Italia divenne alleata contro
gl’Imperi Centrali. Nel 1916 Cassin perse il figlio Luigi, caduto
ventitreenne durante esercitazioni alla base dell’aviazione militare a
Cameri (Novara). Presidente delle Camere di Commercio italiane dal
1916, candidato con Giolitti nelle elezioni politiche del 1919, l’anno
seguente, lasciate tutte le cariche locali, ascese a
vicepresidente della Camera di commercio internazionale. Giolitti
lo propose senatore. Durante la sua presidenza fu avviata la
costruzione della sontuosa sede della Camera di Commercio di Cuneo.
Autore di numerosi studi scientifici, economici, statistici, egli
pronunciò il discorso ufficiale per la posa della prima pietra
della Stazione Nuova di Cuneo presenti il Re, Vittorio Emanuele III, il
presidente del Consiglio dei ministri, Giolitti, il direttore generale
delle Ferrovie Riccardo Bianchi e altre personalità. L'Internazionale Azzurra, bastione delle libertà Quando
nel dicembre 1925 si dimise da presidente e da consigliere provinciale,
Giolitti non gli chiese di fare altrettanto, così come non pretese che
Camillo Peano lasciasse la presidenza della Corte dei Conti, alla quale
era asceso una settimana prima che Mussolini si insediasse al governo.
Chi lo poteva doveva rimanere al suo posto per protrarre il magistero
liberale e prepararne la riscossa. Se ne intravvedono i segni
premonitori nella relazione di Cassin sull’attività camerale, che
fu anche il suo testamento politico. A far scendere un'ombra sulla sua
figura concorse il concordato cui la sua Banca fu costretta per
evitare un mortificante fallimento. A quasi un secolo dalla morte,
Marco Cassin merita l'intitolazione di un luogo o edificio pubblico,
non meno dei sindaci e deputati ai quali spianò la via del meritato
successo. E' l'emblema di un mondo che esisteva prima e rimarrà vivo
dopo il tramonto degli “Stati nazionali”, qui e là necessari secondo le
“circumstanzie”, ma spesso forieri di guai nel corso millenario della
storia. Con l'industriale e poi senatore del Regno Luigi Burgo, con
Soleri, lo scrittore Nino Berrini (massone) e altri insigni esponenti
del Vecchio Piemonte (Giuseppe Boglione, Umberto di Montezemolo,
Gastone Guerrieri di Mirafiori, Giambattista Imberti, Enrico
Marone...), nel 1925 Cassin dette vita al Rotary Club di Cuneo: antenna
della nuova Internazionale Azzurra. La sua storia fu pubblicata
nell'80° del Sodalizio, all'epoca presieduto da Gianmaria Dalmasso, e
riproposta dieci anni dopo con premessa di Alois Dalmasso di Garzegna.
Socio d'onore il Rotary di Cuneo dal 1927 ebbe Umberto di Savoia,
principe di Piemonte; e dal 2006 vanta sua figlia, la Principessa Maria
Gabriella: tanti “nodi” della lunga “catena” che ha condotto alle
libertà, ai diritti dell'uomo, alla fratellanza tra i popoli,
arricchita dalla “nazione ebraica” cresciuta tra Alpi e Costa Azzurra.
Il 15 novembre 1938 anche il Club di Cuneo sospese le sedute a tempo
indeterminato prima che Mussolini sciogliesse di autorità i Rotary
d'Italia, malgrado ne fosse presidente onorario il Re stesso.
D'altronde tre giorni dopo furono emanate le leggi razziali, volute dal
duce d'intesa con l'ala antimonarchica del fascismo per isolare
Vittorio Emanuele III e subordinare il Paese alla Germania di Adolf
Hitler. Fu il suicidio di sovranisti sprovveduti e cortomiranti.
Purtroppo, però, esso comportò la rovina d'Italia.
Aldo A. Mola
(*) L’autore è grato a Mathieu
Vernant (Parigi), che ha liberalmente messo a disposizione una
fotografia inedite del nonno, Marco Cassin .
LA PARABOLA DEL GENERALE LUIGI CAPELLO DA COMANDANTE DELLA II ARMATA A TRENT’ANNI DI CARCERE Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 4 Agosto 2019, pagg. 1 e 11.
I “casi” della Storia La
storia d'Italia è zeppa di casi che meriterebbero di esser narrati da
scrittori dalla penna forbita anziché da aridi cronisti. Tra i molti vi
è la sorte dell'attuale Verbania. A Pallanza e ad Intra, ora fusi nel
ridente comune del Lago Maggiore, nacquero Luigi Cadorna, Comandante
Supremo dell'Esercito italiano nella Grande Guerra, e il suo più
valente generale, Luigi Capello, comandante della II Armata. Non
bastasse, Capello presiedette il congresso di Roma che nel novembre
1921 segnò il passaggio del fascismo da movimento a partito nazionale e
quattro anni dopo venne condannato a trent'anni di reclusione per
attentato alla vita del duce. Di Cadorna molto si è scritto
nel centenario della prima guerra mondiale, scandito anche dalla
ristampa delle sue opere fondamentali, La guerra alla fronte italiana
(ed. Bastogi) e Caporetto. Risponde Cadorna, curato da suo nipote,
Carlo (ed. BCSmedia). Capello, invece, rimane in un cono d'ombra.
Motivo in più per ricordarlo anche per memoria del 10 agosto 1916,
quando comandò il vittorioso ingresso degli italiani in Gorizia. Capello: la carriera militare di un borghese Luigi
Carlo Attilio Capello (Intra, Novara, 14 aprile 1859 - Roma, 25 giugno
1941), familiarmente chiamato Attilio, nacque mentre il padre, Enrico,
originario di Fossano nel Cuneese, combatteva nella seconda guerra
d’indipendenza. Avviato sedicenne alla Scuola Militare di Modena, vi
ottenne risultati brillanti. Studiò l’arte militare di fine Settecento
e la napoleonica campagna d’Egitto del 1798. Volontario dal 21 novembre
1876 (“con firma permanente”) salì di grado in grado sino a entrare nel
Corpo di Stato Maggiore. Nel 1887 fu destinato al comando della
Divisione militare di Firenze, poi a quelle di Ancona e di Napoli
(1890), ove il padre era capo dell’ufficio del telegrafo. Nel
1893 fu trasferito a Cuneo: posizione periferica, si disse, perché non
erano stati apprezzati articoli nei quali aveva propugnato il passaggio
dell’esercito da un assetto difensivo a quello offensivo, proprio
mentre cresceva la tensione tra Italia e Francia. Nell'agosto di
quell'anno ad Aigues-Mortes decine di emigrati vennero massacrati a
colpi di vanga perché si contentavano di una mercede inferiore a quella
chiesta dai terrazzieri francesi. In realtà l’assegnazione al capoluogo
della provincia del presidente del Consiglio Giovanni Giolitti non fu
affatto una “punizione”, sia perché la “Granda” era, appunto, “terra di
frontiera”, sia perché Capello vi era circondato da amicizie e da
parenti. Il 26 luglio 1893 vi sposò Lydia Bongioanni, un cui fratello,
Riccardo, massone, sarebbe divenuto presidente della locale Cassa di
Risparmio. Cinque giorni dopo la conquista di Derna (3 marzo 1912),
durante l’impresa di Libia, Capello rievocò alla truppa la propria
iniziazione alla vita militare: “È un antico Alpino del Battaglione Val
Maira che vi parla, soldati; un Alpino di trent’anni fa, che, quando vi
vede, non può non ricordare i tempi della sua giovinezza e l’Alpe
nativa. E come tale io vengo fra voi oggi, tra i miei fratelli di un
tempo, tra i grandi e modesti eroi del 3 marzo”. A Cuneo
Capello visse anni di turgori. Sotto i portici di via Roma, da piazza
Vittorio Emanuele II a piazza Torino militari e graduati minori
passeggiavano sul lato sinistro, gli ufficiali sul destro, quello dei
caffè-concerto. In tal modo coscritti,
caporali e sergenti erano dispensati da irrigidirsi ogni due passi nel
saluto di prammatica ai superiori, a scanso di punizioni esemplari. Su
quel lato privilegiato un giorno una signora (che non era Lydia) spinse
due pargoletti dinnanzi ad “Attilio-Luigi” dicendo loro: “Salutate il
vostro papà...”. Nessuno ci fece gran caso. Del resto persino il
Feldmaresciallo Radetzky aveva avuto quattro figli da una fedelissima
domestica. Volere l'ordine nel Lombardo-Veneto non comportava di
nutrire repulsioni per i suoi abitanti, popolani inclusi (anzi, meno
ancora per questi che verso gli altezzosi patrizi e borghesi che
avevano linciato a colpi di ombrello il napoleonico ministro delle
finanze, Prina, colpevole di aver fatto pagare le tasse). Tenente
colonnello nel 1898, colonnello nel 1904, nel 1909 Capello pronunciò a
Torino l’orazione ufficiale per il cinquantenario della seconda guerra
d’indipendenza. Auspicò la pace europea: “Se guerre ancora vi saranno
non potranno essere per noi che guerre rese necessarie da grandi
interessi nazionali; ed allora, ancor più che per il passato,
l’esercito sarà il Paese. L’indole nostra, la nostra storia lo
impongono. La tradizione militare del nostro risorgimento si associa
nella mente del popolo e si confonde colla tradizione garibaldina...”
Ritratto come “uno dei più giovani e colti nostri ufficiali superiori”,
nel novembre 1911 partì da Padova alla volta della Libia alla testa del
57° reggimento di fanteria. Dopo il già ricordato successo di Derna, il
2 giugno spiegò ai soldati il valore dello Statuto, “santa legge di
libertà e di eguaglianza la quale voi avete giurato di osservare
arruolandovi sotto le bandiere”. Valutato “idoneo a conseguire il grado
superiore”, proposto per l’encomio solenne e apprezzato da Armando
Diaz, dal 1° febbraio 1913 fu assegnato al comando della brigata
“Lombardia”. La Quarta guerra per l'Unità d'Italia del Fratello Capello Fautore
dell'amicizia italo-francese, nel 1914-1915 Capello non nascose la sua
inclinazione per l'intervento in guerra contro l'Austria, nemico
storico. Era la Quarta guerra per l'indipendenza, a fianco di Marianne,
depositaria del trinomio “libertà, uguaglianza, fraternità” scritto nei
templi massonici da lui frequentati da quando era stato iniziato nella
loggia “Fides” di Torino, il 15 aprile 1910 (brevetto n. 31.681). Nell’agosto
1916, alla testa del VI corpo d’armata, Capello liberò la “Santa
Gorizia”: un successo che lo impose all’attenzione generale e, come
scrisse Renzo De Felice, ne fece l’“unico generale italiano di statura
europea”. Nei momenti più complessi si valse di solidarietà propiziate
dalla “fratellanza”: viatico per le relazioni con Ernesto Nathan,
Eugenio Chiesa, Salvatore Barzilai, Leonida Bissolati, Ferdinando
Martini... dei quali aveva bisogno per tenersi al riparo dagli
eventuali fulmini del Comandante Supremo, Luigi Cadorna, che lo
apprezzava come uomo di guerra ma non ne gradiva l'ostentazione di
amicizie tripuntinate. Bollato quale “tiranno sanguinario” e
persino “macellaio” (come si legge nella famigerata “Inchiesta su
Caporetto” del 1919, ristampata dall'Ufficio Storico dello SME e dalla
Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo presieduta da Gianni Rabbia),
Capello si batté invece per migliorare le condizioni materiali e
spirituali della truppa, valendosi anche dell’amicizia di padre
Giovanni Semeria e di Agostino Gemelli. Promosso nel giugno 1917 alla
testa della II Armata (circa 900.000 uomini: la più imponente mai
allestita nella storia d’Italia come insegna il generale Oreste Bovio),
in agosto guidò l’offensiva risoltasi nella conquista dell’altipiano
della Bainsizza: una avanzata che però non si tradusse in vittoria
strategica. Nelle settimane seguenti, mentre perdurava l’incertezza fra
una seconda spallata e il ripiegamento del grosso della forza in vista
di una possibile offensiva degli austro-ungarici, alleggeriti dalla
“diserzione” della Russia, la fronte italiana rimase sbilanciata in
avanti. La conferenza di Capello del 9 ottobre 1917 ai comandanti della
sua Armata evidenzia la contraddittorietà della sua condotta:
attestarsi sulla difensiva ma pronti alla controffensiva, con
sbilanciamento in avanti, contro l'ordine impartito da Cadorna il 28
settembre: difensiva e arretramento delle artiglierie (tanto più che,
dopo l'arresto dell'avanzata sulla Bainsizza, inglesi e francesi si
erano affrettati a ritirare i cannoni prestati all'Italia). Capello
ebbe il torto di non adeguarsi; Cadorna (come scrive suo nipote, Carlo)
ebbe quello di non controllare l'esecuzione puntuale delle proprie
direttive. Fregiato dal re motu proprio del Gran Collare dell’Ordine
Militare di Savoia, colpito da attacco acuto di nefrite, Capello lasciò
per pochi giorni il comando proprio alla vigilia dell’offensiva nemica
che, preceduta da intenso bombardamento, vide in campo anche gli
Alpenjaeger, reparti germanici di élite, tra i cui ufficiali spiccò
Erwin Rommel, lanciati a penetrare nelle linee italiane e a superarle
in profondità. Tornato febbricitante in linea, condivise la decisione
di Cadorna, interprete del pensiero del Re, di arretrare sulla destra
del Piave. Assegnato al comando della V Armata, raccogliticcia
e formata in gran parte con gli “sbandati” della II Armata - tanto che,
egli scrisse, “in un solo reggimento vi erano rappresentati i colori
delle mostrine di oltre cento brigate” -, il 17 febbraio 1918 Capello
venne “messo a disposizione” della Commissione d’inchiesta sulle
responsabilità della ritirata, presieduta dal generale Carlo Caneva, a
suo tempo rimosso da Giolitti dal comando delle forze impegnate in
Libia. Benché tra i commissari fosse il deputato e già sindaco di San
Remo, Orazio Raimondo, socialista, e, come lui, interventista e
massone, Capello non ebbe alcuna speciale tutela. Bissolati gli fece
sapere che l’unico a poter intervenire a suo favore era Emanuele
Filiberto, Duca d’Aosta, comandante della III Armata, mentre da Londra
il generale Armando Mola, addetto militare all'Ambasciata d'Italia, gli
scrisse che “in Inghilterra mai un momento si era dubitato di lui” (6
settembre 1918). Risalire la china: la Democrazia del Lavoro Posto
in congedo definitivo il 18 marzo 1920 con effetto retroattivo e quindi
escluso dai benefici previsti dal 1° gennaio 1920, Capello visse per
ottenere giustizia. Dinnanzi all’impresa di Fiume (12 settembre 1919)
plaudì alla continuità tra garibaldinismo e dannunzianesimo: “Soldato e
democratico, sono contrario ai pronunciamenti militari; ma questo non è
fenomeno militare, è pronunciamento nazionale, pronunciamento
italiano”: l'opposto di quanto ritennero Giolitti e Cadorna, a giudizio
dei quali la “marcia di Ronchi” era inammissibile sedizione, da
reprimere manu militari. Il 5 febbraio 1920 Capello si dichiarò
pronto ad appoggiare la “Repubblica dannunziana”, mentre lo scaltro
“Vate” evitava di rompere davvero con la Corona e varò la Reggenza. Fautore
come Giolitti dell’“abolizione della diplomazia occulta”, nel
dopoguerra Capello affermò: “Non s’illudano le classi borghesi di
ridivenire arbitre e sfruttatrici. Il problema è essenzialmente di
lavoro e di produzione”. Si schierò per la valorizzazione dello Stato
contro la demagogia. Nel movimento fascista originario, come Ernesto
Rossi e tanti futuri antifascisti irriducibili, anche Capello intravide
un volano della democrazia del lavoro, terreno d'incontro dei
“produttori”. Del fascismo gli piacquero anche l'anticlericalismo
(condiviso da Arturo Toscanini, Filippo Tommaso Marinetti e Guido
Podrecca, ex direttore di “L'Asino”, rivista ferocemente antipretesca:
candidati con Mussolini nelle elezioni del 1919 contro i socialisti e i
“popolari” di don Sturzo) e la valorizzazione degli Arditi, in gran
parte sua ideazione. In Esercito e squadrismo sollecitò il ritorno alla
legalità con la trasformazione delle squadre in “milizia volontaria,
animata da elevato sentimento ed operante per le alte idealità
nazionali nell’orbita dello Stato, consona alle tradizioni più fulgide
del nostro Risorgimento”. Alla sfilata dei “marciatori in Roma” e in Loggia Il
31 ottobre 1922 con i generali Gustavo Fara e Sante Ceccherini anche
Capello sfilò in Roma dopo che il Re aveva incaricato Mussolini di
formare il governo. Proprio alla vigilia della Marcia, la commissione
senatoriale per la revisione delle risultanze della precedente
Commissione d’inchiesta sulle responsabilità di Caporetto aveva
concluso con un verdetto di piena riabilitazione tanto di Cadorna
quanto di Capello. Musssolini però ne vietò la pubblicazione per non
riattizzare già aspre polemiche e per “tenere al guinzaglio” i vertici
delle Forze Armate. Niente affatto compensato con una missione privata
in Germania e da un compromettente “rimborso spese” di 5.000 lire
concessogli dal generale Emilio De Bono, direttore generale della
polizia, da quando il governo consentì e incoraggiò gli assalti
squadristici alle logge Capello optò decisamente per la difesa della
massoneria e ne capitanò l’opposizione al fascismo. Il 5
novembre 1925 fu arrestato a Torino per pretesa connivenza col
progettato, ma mai attuato, attentato alla vita di Mussolini imbastito
dal socialista Tito Zaniboni (niente affatto massone, a differenza di
quanto asserisce Fulvio Conti, senza produrre documenti), affiancato da
Carlo Quaglia, ex militante del partito popolare e informatore della
polizia. Processato, malgrado la mancanza di prove concludenti e la
testimonianza a suo favore del gran maestro Domizio Torrigiani,
appositamente rientrato dalla Francia e assegnato a cinque anni di
confino di polizia, Capello fu condannato a trent’anni di carcere, uno
dei quali in regime cellulare, tre di sorveglianza speciale e
l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Aveva quasi
settant'anni... Ad alleviargli la solitudine furono due sacerdoti, il
Cappellano del carcere di San Gimignano e, a Soriano sul Cimino, il
padre Bernardino della Passione, uomini “di cuore e di spirito” che
nelle lunghe conversazioni non toccarono mai argomenti che potessero
suscitare disagio. Dal generale ingiustamente incarcerato non
pretendevano alcuna “capitolazione”. Lasciavano che a giudicare fosse
l'Altissimo o il Grande Architetto. La storia è galantuoma? Sorretto
dalla certezza che “la storia è galantuoma”, Capello passò da un
carcere all'altro con “sopportazione tranquilla” ma senza alcuna
“rassegnazione”. “Mangio tutto quello che mi danno” scrisse alla
moglie. Viveva di ricordi, con “mente sana per comprendere ed
apprezzare” e la coscienza adamantina della propria totale estraneità
al “complotto” che gli era stato imputato. Lo disse alla corte che lo
giudicava, sorda, prevenuta, eterodiretta: chi aveva comandato la II
Armata non avrebbe mai imboccato il viottolo di cospirazioni
dilettantistiche. Quando, dopo sei mesi di reclusione cellulare uscì a
vedere il sole, malgrado il “magnifico panorama” ne trasse
un'“impressione penosa” per le condizioni che gli venivano imposte. “Si
resiste meglio a un temporale che a una goccia persistente”, aggravata
dall'“albagia più sfacciata ed incosciente” e dal “difetto di ogni
misura e di sentimento di opportunità” dei carcerieri. Non
ebbe alcuno speciale aiuto né dal massone Ugo Cavallero, né da Pietro
Badoglio. Passò poi alle cliniche di Montefiascone (laida e desolante)
e di Formia e infine all’ospedale Littorio di Roma (1° giugno 1935).
Poté tornare a casa l'anno seguente, ma nel silenzio assoluto, con un
sussidio di 600 lire mensili erogati dal Capo della polizia, Arturo
Bocchini. Anche per intervento dei “fratelli” Roberto Farinacci e
Giuseppe Bottai, sua figlia Giulia ebbe un impiego all'INPS, all'epoca
caso ancora rarissimo per una donna, e venne tenuta al riparo dalle
altrimenti consuete insidie di colleghi inclini a esibire la loro
pochezza mascolina. Dopo la concessione degli arresti domiciliari,
Capello morì da detenuto il 25 giugno 1941. Da poco era caduta Derna,
che egli aveva assicurato all’Italia il 3 marzo di trent'anni prima. Nel
dopoguerra la famiglia non chiese affatto la revoca della condanna per
l'attentato a Mussolini. A quel punto era semmai un merito. Però
occorreva annullare gli effetti “amministrativi” della condanna.
“Amnistiato” post mortem dai governi Bonomi e Parri, solo con il
governo De Gasperi il ministro della Difesa Mario Cingolani lo
riabilitò e reintegrò nel grado di generale d’armata della riserva e
nelle onorificenze (5 agosto 1947). La sua difesa fu affidata al
memoriale scritto dalla figlia Laura, N. 3264. Generale Capello
(Garzanti, 1947), che mandò un messaggio criptico: 3264 era il numero
di brevetto di Capello quale grado 33 del Rito scozzese antico e
accettato (6 novembre 1915). Capello rimane in attesa di una
biografia esaustiva, in parte anticipata dagli atti del convegno Luigi
Capello: un militare nella storia d’Italia (Cuneo, 3-4 aprile 1987, ed.
L’Arciere, 1987). Con esemplare rettitudine nel 1930 l’Enciclopedia
Italiana diretta da Giovanni Gentile ne ricordò la figura e le opere
(Per la verità e Note di guerra, entrambe del 1920), senza tacerne la
“grave condanna per complotto politico”. Con la sua carriera Capello
mostrò che nella monarchia statutaria anche la piccola borghesia poteva
raggiungere i gradi supremi delle Forze Armate, un tempo appannaggio
dell’aristocrazia. Lo Stato era un ascensore sociale a tutto vantaggio
dell'armonia tra Istituzioni e cittadini.
Aldo Mola
NE' TRANSIZIONI NE' RIVOLUZIONI SOLO UNITA E IN ORDINE L'ITALIA PUO' FARE GRANDI COSE Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 28 luglio 2019, pagg. 1 e 11.
Il “leghista” Guicciardini a lezione da Ferdinando il Cattolico
Ferdinando il Cattolico, già sovrano di Aragona, confidò al fiorentino
Francesco Guicciardini (1483-1540) il segreto del Regno di Spagna “solo
la nazione può compiere grandi imprese se si mantiene unita e in
ordine”. Era il 1512. Il mondo stava rapidamente cambiando. Vent'anni
prima Cristoforo Colombo era approdato a San Salvador. Poco conta
se nativo di Genova o di un paesino del Monferrato, cattolico fervente
o di sangue ebreo. Meno ancora importa dove avesse sbirciato o persino
trafugato carte geografiche e portolani altrui e se avesse fiutato il
vento soggiornando a Madera. Il punto è che fu lui per primo a “cruzar
el charco” al comando di tre navicelle e a vincere la partita da
tanti sognata: “Buscar el Levante por el Poniente”. Non arrivò a
Cipango, ma aprì alla Spagna (e quindi all'Europa cattolica) le Indie
Nove. Era al servizio di una Corona che stava ampliando i raggi del suo
compasso, dai Caraibi all'America centro-meridionale e di lì a poco al
Messico. Il Re aveva alle spalle il coronamento della “reconquista”,
compiuta a fianco di Isabella di Castiglia, pari a lui nelle visioni e
nella concezione dei metodi, talora brutali, necessari alla loro
realizzazione. Il Potere è tanto più saldo e fattivo quanto più deciso
a impiegare i mezzi necessari per liberarsi da nemici interni ed
esterni e imporre unità e ordine. Nel 1512 Guicciardini aveva 29
anni. Genio del pensiero politico come il concittadino Niccolò
Machiavelli (1469-1527) e fondatore della storiografia scientifica, il
giovane ambasciatore di Firenze in Spagna era il frutto maturo della
finissima diplomazia cresciuta alla scuola di Lorenzo de' Medici, morto
nel 1492, quando l'Italia intera ne aveva più bisogno che mai. Signore
di Firenze, il Magnifico, scettico come rivelano alcune sue “canzoni”,
era stato l'“ago della bilancia”. Anno dopo anno aveva mediato tra i
cinque Stati principali del mosaico italiani: il regno di Napoli (ne
era sovrano un Aragona, la cui Casa dal 1282 regnava sulla Sicilia), la
repubblica di Venezia (il doge era emanazione del Consiglio dei Dieci,
espressione dall'aristocrazia), il Ducato di Milano (sottratto ai
Visconti dagli Sforza) e lo Stato pontificio, da poco restaurato col
ferro e col fuoco e forte di pontefici di statura grandiosa, da Sisto
IV ad Alessandro Borgia, che tracciò la “raya” per appagare gli opposti
appetiti di Spagna e Portogallo nella conquista delle Americhe. E poi
vi era appunto Firenze, ricca, colta, mirabile ma stretta fra nemici
infidi e affacciata su un Tirreno che, al sicuro da scorrerie dei
barbareschi grazie ai valorosi Cavalieri dell'Ordine di Santo Stefano,
le stava sempre più stretto. Guicciardini percepì il messaggio di Re
Ferdinando ma non poté metterlo a frutto. Il suo era e rimaneva il
piccolo mondo antico di un'Italia sull'orlo del precipizio, tra guerre
franco-ispaniche per l'egemonia sull'Europa passando per l'Italia e la
faglia che si stava aprendo nella chiesa d'Occidente. In passato erano
pullulate eresie, prontamente eliminate con l'eliminazione, anche in
forme crudeli, dei loro estemporanei profeti. Dagli albigesi (o
càtari), i dualisti d'Occidente impareggiabilmente narrati da Emmanuel
Le Roy Ladurie, rimanevano poche frange nascoste in lande marginali,
destinate agli ultimi roghi. Stava invece per esplodere la Protesta di
Martin Lutero, la Grande Riforma, che sconvolse la Chiesa cattolica
proprio quando la Croce veniva innalzata nelle Americhe e in Asia dai
massimi esploratori-conquistatori, da qualche tempo dipinti quali
criminali assoluti da chi giudica il mondo dai “valori” odierni anziché
sforzarsi di conoscerne il percorso effettivo. Guicciardini era
troppo assorbito dallo scacchiere italiano per cogliere a pieno il
cambio epocale. Nel 1512 l'ottantenne papa Giulio II della Rovere
capeggiò una effimera lega italiana per cacciare dall'Italia i francesi
di Luigi XII con un'insegna che non chiedeva traduzioni: “Fuori i
barbari”. Ma tre anni dopo il suo successore, Francesco I, piombò in
Italia e vi menò stragi. Dopo la prematura morte del Magnificò Firenze
aveva vissuto la ventata di follia di frate Gerolamo Savonarola (inviso
a Guicciardini come a Machiavelli). Al culmine della sua fanatica
lotta contro il lusso, la bellezza, la poesia, la filosofia, il brodo
primordiale dal quale scaturiscono l'esibizione dei corpi, la lussuria,
i sette vizi capitali..., quel frate finì bruciato in piazza della
Signoria, previo strangolamento. Come Machiavelli (torturato con
tratti di corda, emarginato e finito a indossare vesti “di fango e di
loto” e a meditare sui Principati e sulla Prima Deca di Tito Livio),
anche Guicciardini visse a lungo tra speranze di riscatto e
constatazione dell'arroganza dei de' Medici, usi a preferire i
cortigiani. Estromesso dalla macchina del potere lasciò la Storia
d'Italia che lo rese immortale. A differenza di Spagna, Francia e
Inghilterra, l'Italia non era nazione, non aveva né unità né ordine.
Dei cinque Stati dell'età del Magnifico solo Venezia rimase
indipendente. Gli altri decaddero a dominio diretto o indiretto
dell'imperatore Carlo V e dei suoi discendenti e successori, da Filippo
II d'Asburgo a Francesco II di Borbone, sconfitto da Giuseppe Garibaldi
nell'ottobre 1860 e cacciato da Vittorio Emanuele II nel febbraio 1861.
Papa Clemente VII, Giulio de Medici, tardò più di Guicciardini a capire
il cambiamento in atto. A chiarirglielo fu il “sacco di Roma” del 1527,
al quale seguì l'assedio di Firenze, i cui difensori (scrisse poi
Guicciardini) erano animati dalla “fede”, che è irrazionale, suscita
eroismi (Francesco Ferrucci) e protrae oltre ogni limite ragionevole i
tempi della sconfitta finale. Nel 1530 il papa andò a Bologna per
incoronare Carlo V Sacro Romano Imperatore. Dopo di lui si susseguirono
sul Sacro Soglio esponenti di grandi Casate (i Farnese), di Ordini
(Sisto V) e dell'aristocrazia, ma in una visione sempre più
circoscritta della Missione degli Apostoli. I sovrani pontefici (come
Urbano VIII Barberini, il Chigi e altri molti) abbellirono Roma, ma si
guardarono dal rischiare il martirio di Pietro e Paolo. L'Italia
rimase in massima parte dominata e in piccola parte “a noleggio”,
pedina di scambio tra le Impero e Francia. Lo insegnano la sorte
di Mantova, la “guerra del Casale”, la liquidazione della repubblica di
Siena e altre vicende del tutto secondarie mentre la flotta di Francis
Drake compiva la seconda circumnavigazione del globo, dopo quella del
portoghese ispanizzato Ferdinando Magellano, il cui quinto centenario è
ignorato in un'Italia con l'occhio reso opaco tra contemplazione del
golfo della Sirte e le sbirciatine al reggiseno di Carola Rackete. L'unificazione d'Italia per la pace europea e l'ordine interno Quasi
quattro secoli dopo la catastrofe di fine Quattrocento-inizio
Cinquecento, il “miracolo” del Risorgimento dette all'Italia i beni più
preziosi di cui una nazione di antica cultura e civiltà può andare
fiera: indipendenza, unità, libertà. Un patrimonio inalienabile, da
custodire con cura amorevole per le generazioni venture. Come
nacque e come venne completata l'unificazione nazionale? Per quanto
superfluo va ricordato che essa ha richiesto un secolo, dai primi moti
costituzionali del 1820-1821, dalle cospirazioni di carbonari e
massoni, dalla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi
(1831-1834), e settant'anni di guerre per l'indipendenza, dalla prima
(marzo 1848-marzo1849) contro l'impero d'Austria, alla vittoria (4
novembre 1918), ancora contro l'Austria e i suoi alleati. Un cammino di
tre-quattro generazioni. Lasciando tra parentesi il lungo,
faticoso e persino tortuoso percorso è la meta che infine conta. La
nazione italiana unita e in ordine, precorsa dall' “opinione nazionale”
di Massimo d'Azeglio e dalla Società Nazionale di Daniele Manin e del
“fratello” Giorgio Pallavicino Trivulzio, compì grandi imprese grazie
alla monarchia sabauda, che ne conciliò unità con Tradizione e
Legittimità, cardini del Congresso di Vienna del 1815 (mentore
Metternich) ammodernati da quello di Parigi del 1856 (ispirato da
Napoleone III). La Nuova Italia nacque dal consenso dell'Europa del
tempo, che plaudì la lunga transizione dal mosaico degli Stati
esistenti, debellati da insorgenze, moti, colpi di mano, invasioni a
tutela delle libertà conculcate, sempre con l'avallo di plebisciti
(1848-\1870). Questi possono essere irrisi da nostalgici degli “Stati”
preunitari, ma vennero accettati dall'Europa, che conta più delle
chiacchiere di revisionisti filologicamente calvi. Quella stessa Europa
non batté ciglio quando l'Esercito italiano irruppe in Roma e la tolse
al Papa che la possedeva da 1.100 anni (donazione di Sutri). Dal
canto suo l'Italia di Raffaele Cadorna col garibaldino Nino Bixio
schierato nella retroguardia, a Roma non andò per fare
dell'anticlericalismo spicciolo. Lo stesso Giosue Carducci dei “Giambi
ed Epodi” solo nei suoi ultimi anni cominciò a usare il termine
“laico”, succhiato non dalla Lupa di Roma ma dai seni avvizziti
di Marianne, dal mito della Rivoluzione francese, usato dalla borghesia
d'Oltralpe come giustificazione per la strage dei comunardi (1871) e la
deportazione dei sopravvissuti nell'inferno della Nuova Caledonia. Le due Italie: il Paese che lavora e “malpancisti” Lì
si aprì il divario tra l'Italia dei letterati, dei rimatori, dei
visionari e quella degli artefici, della cultura di Stato, di gran
lunga più fattiva e meritevole dell'altra. Militari di alta cultura
(Federico Menabrea e Luigi Pelloux, per esempio), ingegneri ferroviari
e minerari (come Quintino Sella), giuristi, economisti, clinici,
agronomi, fisiologi...una folla di liberi professionisti talvolta
appena diplomati (geometri, ragionieri, tecnici) costruirono il Paese e
lo traghettarono dallo squallore originario al decoro. Un camino lento,
che chiedeva alto “senso dello Stato”. Ma proprio l' “altra”
cultura non ne fu affatto soddisfatta. Gli “scapigliati” avevano fretta
e quindi sentivano il bisogno infantile di agitare il vessillo
della Rivoluzione, l'ideologia posticcia che accomunava il
“proletariato senza rivoluzione”, emarginati e supposti seguaci di
Giuseppe Mazzini, via via sino alla “Rivolta ideale” di Alfredo
Oriani. “Rivoluzione” divenne la parola d'ordine dei tanti
che, frustrati dalla deludente quotidianità, invece di rimboccarsi le
maniche e fare (sull'esempio di inglesi, tedeschi, svizzeri,
austriaci...), si rifugiavano in sogni alternanti malinconie e furori.
Meno facevano per il prossimo, più pretendevano dagli altri, dallo
Stato, dipinto come padre-padrone, esigente (chiedeva persino il
servizio militare obbligatorio e imponeva la scuola elementare
gratuita, la vaccinazione, l'igiene personale maschile e femminile,
l'educazione fisica...). La minoranza rumorosa prevalse sulla
maggioranza operosa, non nei fatti, che sono ostinati, ma nella
rappresentazione, che è fantasiosa e deformante. Per decenni andò in
scena la sacra rappresentazione dell'Italia delusa, riscoperta dal
Sessantottismo perenne germinato nel Novecento, per molti versi ancora
serpeggiante. Lo spaccio della bestia trionfante Nel 1919
“Rivoluzione” divenne l'insegna anche del Grande Oriente d'Italia con
la gran maestranza di Domizio Torrigiani, un avvocato toscano di ampia
cultura, arguto come Ferdinando Martini (biografato da Guglielmo
Adilardi), ma tentato di usare il lessico altrui per svuotarne la
pericolosità. Invano. Chi, come Benito Mussolini, arrivava dal
socialmassimalismo, massimalista rimase anche da fascista e dopo
l'ascesa a presidente del Consiglio e tornò a esserlo all'indomani
della sua defenestrazione dal comando della guerra, deliberata il 25
luglio 1943 dal Gran Consiglio del fascismo (pomposamente
denominato “organo della rivoluzione”). Tra il 1922 e il 1943 il regime
non ebbe la grandezza nibelungica del nazionalsocialismo che nella
notte dei lunghi coltelli, il 30 giugno 1934, massacrò le SA,
prendendone a pretesto i costumi dissoluti, in realtà per
disfarsi del loro sinistrismo. Mussolini rimase l'uomo che, uscendo dal
PSI nell'agosto 1914, aveva promesso ai “compagni” che si sarebbero
nuovamente incontrati. Quando? Con quali scopi? Accelerare il
corporativismo caro a Giuseppe Bottai, l'antico massone espulso dalla
loggia per morosità, e a Farinacci, “il più fascista”? Luigi Federzoni: i conti con la storia Nel
“Diario inedito, 1943-1944”, curato da Erminia Ciccozzi dell'Archivio
Centrale dello Stato con illuminante saggio introduttivo di Aldo G.
Ricci e pubblicato da Pontecorboli (Firenze), Luigi Federzoni
aiuta a capire che l'Italia non ebbe mai rivoluzioni. Tra le centinaia
di citazioni possibili da un “Diario” che in 500 pagine nomina Giulio
Cesare appena tre volte e mai Augusto, basti una sua riflessione
sull'abuso di Mazzini attuato dal duce, issato a capo della Repubblica
sociale italiana ma ridotto a “morto che cammina” sotto il
controllo di Hitler e dei suoi manutengoli. Nel mare magnum delle
meditazioni vergate nel “Diario d'un condannato a morte” (titolo
autografo, parallelo a quello del barone e “fratello” Giacomo Acerbo:
“Tra due plotoni di esecuzione”) Federzoni, per molti aspetti a lungo
“numero due” del regime, osservò: “Il Risorgimento? Una leggenda
sfatata: si salva appena Mazzini come precursore della repubblica
mussoliniana, La costruzione legislativa, amministrativa ed economica
dello Stato unitario? Un'oscura fatica di avvocati e di burocrati senza
genio e senza storia. La prima campagna d'Africa? Un misero conato di
grandezza, abortito perché ad attuarlo invece di Crispi, sarebbe
occorso un Mussolini. La guerra italo-turca? Una piccola impresa
sabauda, in cui l'unico episodio di rilievo fu il coraggioso tentativo
del segretario della sezione socialista di Forlì (cioè Mussolini, col
concorso del repubblicano Pietro Nenni, NdA) di fare svellere le rotaie
per impedire la partenza delle truppe per la Libia. La guerra
1915-1918, con le 11 battaglie dell'Isonzo, il Piave, Vittorio Veneto?
Un odioso termine d confronto, adoperato tendenziosamente dagli
avversari del regime per sostenere che l'Italia di Salandra e di
Cadorna, di Orlando e di Diaz sapeva combattere e vincere meglio
dell'Italia mussoliniana. 'Fornitore di vertebre' è forse uno degli
epiteti espressivi e pseudo-originali con cui Mussolini amerebbe
restare nella storia. Ma per condurre la nazione alla guerra e alla
vittoria bisognava fornirle non tanto le vertebre quanto alcune altre
cose meno metaforiche: i cannoni, i carri armati, gli aeroplani. Senza
delle quali cose un uomo di Stato, dirò meglio un patriota vero, aveva
un solo dovere: non fare la guerra...”. Acutamente Federzoni
(monarchico, conservatore, autoritario, conciliatorista, sempre e
comunque liberale) osservò che gli strali di Mussolini contro
l'Italietta giolittiana e sabauda erano speculari a quelli degli
antifascisti di matrice gramsciazionista (termine felicemente coniato
da Dino Cofrancesco), che accomunò Luigi Salvatorelli, Carlo Sforza,
persino qualche guizzo di Benedetto Croce contro Vittorio
Emanuele III, e trovò poi lunga eco negli scritti di Antonino Repaci,
salveminiano in ritardo. Quel che resta dell'Italia? Dopo
il 1946 l'Italia non conobbe né transizioni né, meno ancora,
Rivoluzioni, ma solo segmenti discontinui, ascese e crolli improvvisi,
eterodiretti, sui quali oggi ci si interroga in termini sempre più
lontani dalla scienza storica di cui Guicciardini fu Maestro insuperato
(ebbe anche il pregio di additare la centralità degli Archivi: perciò
chi voglia scrivere di storia d'Italia deve andare in Spagna, a
Salamanca e a Simancas) e sempre più inclini al complottismo: quello,
per esempio, che tratteggia Carola Rackete quale agente occulta di una
cospirazione massonica mondiale … Una “dirigenza” raccogliticcia e
storiograficamente digiuna è condannata a cibarsi di panzane,
altra cosa (del tutto opposta) delle fiabe d'antan che la maggior parte
dei parlamentari bene farebbe a leggere. Di certo oggi l'Italia rimane
“nazione non ancora del tutto disunita e in disordine” solo grazie al
presidente Mattarella e a una minoranza, sempre più esigua, di politici
ancora nutriti di senso dello Stato. Grazie a questa legione sacra
ancora può compiere grandi imprese, nell'ambito di alleanze che nessun
improvvisatore può mutare senza passare dal confronto alla luce del
sole con gli attuali alleati e dal Parlamento.
Aldo A. Mola
L'ARTICOLO 16 DEL TRATTATO DI PACE (10 FEBBRAIO 1947) UN’ASSOLUZIONE PLENARIA ALL'ITALIANA Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 21 luglio 2019, pagg. 1 e 11.
Guardie e ladri: il gioco d'infanzia tagliato sull'Italia Ai
giardini pubblici, negli oratori, per le strade un tempo animate senza
rischi dalle “bande” di ragazzi, fra i giochi preferiti dominava la
gara tra “guardie” e “ladri”, con i secondi sempre più numerosi,
perché, malgrado tutto, le forze del Bene, poche ma buone, alla fine
prevalgono su quelle del Male. I cittadini dell'Ordine vincono
sull'Avversario, come l'Arcangelo Michele. I ragazzini, invero, non
avevano un'idea precisa dei valori contrapposti, tanto che, a fine
partita, il gioco riprendeva a ruoli invertiti: chi aveva fatto il
ladro diventava guardia e viceversa. Era la sfida a chi correva più
lesto, sapeva nascondersi meglio, balzar fuori all'istante opportuno e,
tàc, toccare il bambino o la bambina della squadra avversa. Si
proseguiva così a perdifiato per ore. Poi, tutti amici come prima, a
casa per la cena. Altrettanto avveniva nelle colonie estive, comunali,
parrocchiali, spesso allestite dall'Azione cattolica per arginare i
“Pionieri” organizzati in alcune lande dal Partito comunista in attesa
dell'Armata Rossa. Nell'immediato dopoguerra, invece, lo scoutismo
rimase fenomeno elitario, sospetto di infiltrazioni massoniche. Nei
campi estivi chierici giovanissimi insegnavano a giocare “a tattica”.
Anche lì i ragazzini venivano suddivisi in “bande”. Non erano guelfi o
ghibellini, cattolici o protestanti ma semplicemente compagni di
vacanza che imparavano a divenire grandi. Acquattati tra le fronde
scoprivano fiori stupendi, seguivano il volo di farfalle multicolore,
scrutavano il prodigioso lavorio degli insetti fra gli steli d'erba.
Nei rovi attendevano pazienti il passaggio di uno, due, tre rivali. Al
momento giusto scattava l'assalto. Bastava un “alt” e si contavano i
punti del vantaggio guadagnato secondo i gradi dei “prigionieri”,
condotti nell'apposito accampamento: un soldato semplice valeva poco,
un sergente assai più, un ufficiale era una trofeo. Ma la vera magia di
quegli animosi giochi d'infanzia era la formula che a volte chiudeva la
partita nel più strambo dei modi. Proprio quando una banda era sicura
della vittoria e aveva raccolto gli avversari nel campo di prigionia,
dai filari del gran turco, dalle piantagioni di fagioli o da chissà
quali porte degli inferi sbucava il malandrino salvifico. Gli bastava
sfiorare uno dei prigionieri e gridare “Liberi tutti” perché i detenuti
se la squagliassero come oggi da un campo profughi in Libia dopo un
bombardamento. Un'Italia senza eresie né guerre civili Quei
giochi del buon tempo antico sono paradigma della storia d'Italia, che
tanto arrovella quando, ed è consueto, se ne scordino complessità,
sinuosità e brusche svolte. E' un percorso a segmenti
discontinui. Nell'ampia intervista rilasciata al “Corriere della Sera”
nel suo 90° compleanno Sergio Romano, ambasciatore, storico e saggista,
ha asserito che l'Italia ha vissuto “tre guerre civili: al Sud dopo il
Risorgimento; poi negli anni tra la Grande Guerra e la marcia su Roma;
infine tra l'8 settembre e il 25 aprile 1944: una guerra fra italiani
che in Emilia durò ancora per un altro anno”. È un invito a riflettere,
più che un assioma, anche perché la storiografia non detta sentenze.
Essa cerca di comprendere e utilizza formule possibilmente precise come
fanno i meccanici quando prendono in mano la chiave rispondente al
bullone: tot pollici, sennò non funziona. “Guerra civile” è tra le
formule più delicate e disputate possibili. Per tale, tecnicamente,
s’intende la lotta tra due fazioni di cittadini di pari diritti
appartenenti a un identico Stato che, consapevoli delle proprie scelte
e in piena libertà d'azione, non eterodiretti da potenze straniere, si
combattono per opposti ordinamenti. Tali furono le guerre al crepuscolo
della Roma dei Consoli fra i seguaci di Cornelio Silla e di Caio Mario,
di Giulio Cesare e di Cneo Pompeo, aristocrazia senatoria contro
“popolani”, estremo regolamento di conti tra due opposte concezioni
dello Stato, che tanto affascinò Teodoro Mommsen. Già il successivo
mortale duello tra Caio Ottaviano Augusto e Marco Antonio fu vicenda
del tutto diversa, perché contrappose due visioni dell'impero, la
Romana e l'Egizia, il Senatus populusque romanus e il diritto divino. A
ben vedere, come non ebbe movimenti ereticali di massa, riforme
evangeliche o protestanti numericamente rilevanti, così l'Italia non
soffrì mai vere guerre civili. Non lo furono le compagnie di Santa Fede
capitanate dal cardinale Fabrizio Ruffo (neppure ordinato prete) contro
la Repubblica napoletana del 1799, né le “masse cristiane” di Branda
Lucioni e altre “insorgenze” che nell'Italia settentrionale
combatterono l'occupazione francese e la scristianizzazione forzata e
mirarono a restaurare sovrani spodestati. Sorrette entrambe dal
concorso di Stati stranieri, quelle fazioni non sono paragonabili alle
guerre civili tra cittadini della Res publica romana. A sua volta il
brigantaggio meridionale del 1861-1867 fu ribellione, anche prezzolata
dall'estero, di chi non si riconosceva negli ordinamenti innovativi
dello Stato unitario: servizio militare obbligatorio, nuovo sistema
impositivo, uguaglianza dinnanzi alle leggi, abolizione dei secolari
privilegi ecclesiastici, sorretti dalla manipolazione idolatrica delle
coscienze e dalla demonizzazione dei non cattolici e, peggio, dei non
credenti. Si può anche dubitare che possa essere classificata come
guerra civile quella del 1943-1945 tra “partigiani” e fascisti
repubblicani, se non nel indicato dal comandante piemontese di
“Giustizia e Libertà”, Dante Livio Bianco, avvocato, già iscritto al
Partito nazionale fascista, secondo il quale essa era “guerra di
civiltà”. Né fu guerra civile il conflitto tra il Corpo volontari della
libertà da una parte, proiezione dello Stato italiano riconosciuto
dalle Nazioni Unite, e gli “occupanti”, cioè i tedeschi e i loro
alleati. Comprendenti le milizie dello Stato repubblicano d'Italia
(denominazione originaria della RSI): un conflitto nel cui ambito si
contrapposero partigiani dai programmi, ideali e alleati stranieri
molto diversificati e i fautori del fascismo repubblicano. Gli uni e
gli altri rimasero minoranza quantitativamente irrilevante rispetto
alla immensa “zona grigia” la cui storia rimane da scrivere. L'Italia,
insomma, non visse nulla di paragonabile all'unica vera guerra civile
dell'Europa occidentale, quella di Spagna, che nel 1931-1940 ebbe il
decennio agonico di un conflitto radicato nei secoli e indurito sin
dalla conquista franco-napoleonica d'inizio Ottocento. Umberto II, il Traghettatore La
refrattarietà degli italiani a pulsioni destinate a esplodere in guerre
civili trova conferma nel cambio istituzionale del giugno 1946. Con
sorpresa generale esso avvenne in un clima complessivamente pacifico e,
per i tempi, persino ordinato. Dopo comizi accesissimi, dai toni
minaci, straripanti manifestazioni di piazza e timori di scontri
volgenti in conflitto generale persino con intervento di armi
straniere, il Paese registrò il passaggio dalla monarchia alla
repubblica con un'onda di profonde emozioni individuali ma senza traumi
politico-militari nazionali. A moderare la transizione fu Umberto II,
che lasciò il suolo italiano sciogliendo dal giuramento alla Corona, ma
non alla Patria, quanti l'avevano pronunciato. Proprio il sovrano fu il
sommo traghettatore dall'uno all'altro regime. Già solo per questo
merita molto più di quanto le Istituzioni sinora gli hanno
riconosciuto. Ma occorre dare tempo al tempo. Nel frattempo il suo
ruolo va apprezzato dalla storiografia per comprendere la pacificazione
scandita dagli atti successivi: la “firma” del Trattato di Pace
(sottoscritto dall'ambasciatore Antonio Meli Lupi di Soragna, che firmò
con la stilografica personale e impresse sulla ceralacca lo stemma di
famiglia per tacita protesta dell'Italia nei confronti dell'iniquo
diktat ), la sua ratifica da parte dell'Assemblea Costituente e il varo
della Carta repubblicana, pilastri portanti dell'Italia ormai compresa
nelle Nazioni Unite, anche se per un decennio fermata sulla soglia
della sua Assemblea. La lenta genesi dell'articolo 16 del Trattato di pace In
“Chi doveva essere protetto dall'art. 16?” (speciale “Bombe
sull'Italia”, n. 4) il direttore di “Storia in Rete”, Fabio Andriola,
ha riaperto il dibattito su uno degli articoli meno noti e studiati del
Trattato di pace imposto all'Italia il 10 febbraio 1947. Fermo restando
che il Trattato fu scritto in inglese, russo e francese, nella
pedissequa traduzione ufficiale esso recita: “L'Italia non perseguirà
né disturberà i cittadini italiani, particolarmente i componenti delle
Forze Armate, per il solo fatto di avere, nel corso del periodo
compreso tra il 10 giugno 1940 e la data dell'entrata in vigore del
presente Trattato, espresso la loro simpatia per la causa delle Potenze
Alleate ed Associate o di avere condotta un'azione a favore di detta
causa” (corsivi dell'autore). L'articolo 16 è connesso al 15, che
obbligò l'Italia ad assicurare ai suoi cittadini il godimento dei
diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (“ivi incluse le libertà
di stampa, di religione, di opinione e di associazione”) e al 17 che,
preso atto dello scioglimento delle organizzazioni fasciste, attuato
“in conformità all'art. 30 della convenzione di armistizio”, impegnava
a “non tollerare la ricostituzione sul suo territorio di organizzazioni
di questa natura, aventi un carattere politico, militare o
paramilitare, ed il cui scopo sia quello di privare il popolo dei suoi
diritti democratici”. Le premesse dell'art. 16 erano tre: una
di carattere generale, altre connesse all'armistizio del 3-29 settembre
1943. La prima era la consapevolezza che la “guerra parallela”
intrapresa dall'Italia il 10 giugno 1940 era stata decisa in condizioni
molto diverse da quelle narrate dalla propaganda di regime. I dubbi e
le contrarietà verso quel passo erano stati molteplici e forti. A
parte gli antifascisti all'estero (non tutti propriamente “esuli”: per
esempio il monarcomaco Carlo Sforza, Collare della SS. Annunziata,
rimase sempre senatore e non venne mai privato di alcun diritto),
parecchi italiani, anche militari e persino di grado elevato, nutrivano
“simpatia per la causa delle Potenze Alleate” e non lo nascondevano
agli interlocutori più ricettivi quando se ne presentasse l'occasione.
Se i rapporti dell'Ovra e dei questori traboccavano di dichiarazioni di
sfiducia nei confronti delle armi italiane, di antipatia nei riguardi
della Germania e di inclinazioni verso paesi nemici (“occidentali”
molto più che l'Urss), va ricordato che lo scenario bellico cambiò
ripetutamente in modo drastico, costringendo partiti, movimenti e
personalità a capriole clamorose. Fu il caso del giudizio da esprimere
sull'URSS e sulla Germania all'indomani del patto di non aggressione
Ribbentrop-Molotov (23 agosto 1939). I lungimiranti (altra cosa
dell'“uomo della strada”, succubo della propaganda e di pregiudizi)
sapevano che non esistono nemici assoluti, identici e perpetui. Ci si
combatte, ci si ammazza, si tratta, si stabiliscono tregue, ci si
scambiano i prigionieri ecc. ecc. Mentre alcuni combattono altri
patteggiano, talvolta in vista di un cambio di alleanze. Da che mondo è
mondo, gli uni e gli altri, anche con finzioni spudorate, svolgono la
propria funzione. La premessa formale dell'art. 16 fu il
“Pro-memoria” anglo-americano di Québec (18 agosto 1943) collegato alle
condizioni dal generale Dwight Eisenhower al governo italiano per
l'armistizio. Quando ancora gli anglo-americani pensavano di contenere
i germanici a nord della linea Venezia-Livorno, precisò che “se
informazioni sul nemico verranno fornite immediatamente e regolarmente,
i bombardamenti degli alleati verranno effettuati nel limite del
possibile su obiettivi che influiranno sui movimenti e sulle operazioni
delle forze tedesche”. Quel “pro-Memoria” venne integrato dalla
Dichiarazione di Mosca del 30 ottobre 1943. A conclusione della
riunione tripartitica anglo-russo-americana questa stabilì il rilascio
e la completa amnistia di “tutti i prigionieri politici del regime
fascista”, che ovviamente avevano espresso “simpatia” per le Potenze
Alleate (Urss compresa) nella loro già accennata geometria variabile. I
passi fondamentali successivi verso il futuro art. 16 del Trattato di
pace sono documentati dai testi dell'armistizio e, ancor più, dai
verbali delle riunioni svolte a Cassibile il 3 e a Malta il 29
settembre 1943, con delegazioni ogni volta del tutto diverse, ma
convergenti sul nodo sostanziale: inglobare l'Italia nella guerra delle
Nazioni Unite contro la Germania. I Generali Giuseppe Castellano e
Walter B. Smith per conto di Badoglio e di Eisenhower il 3 settembre
concordarono di coordinare i piani d'operazione. Smith assicurò che
“gli ufficiali ed i marinai italiani non sarebbero stati assoggettati
ad alcuna indegnità”. Nel timore che Vittorio Emanuele III e Badoglio
venissero arrestati dai tedeschi, si convenne che il capo di stato
maggiore Vittorio Ambrosio “parlasse da una stazione (radio) italiana e
annunziasse che parlava con la loro autorità”. Nella segretissima
“missione” a Torino del 7 settembre forse Ambrosio portò la
registrazione dell'annuncio di armistizio, comunicato l'indomani da
Radio Algeri e ribadito da Badoglio, secondo la sequenza stabilita a
Cassibile. A Malta il 29 settembre il testo armistiziale previde che
il governo italiano consegnasse agli Alleati Mussolini, i suoi
“associati fascisti” e tutti i sospetti di crimini di guerra (il cui
elenco gli sarebbe stato trasmesso), nonché l'immediata liberazione di
tutte le persone, “di qualsiasi nazionalità” detenute o condannate,
anche in contumacia, per le loro relazioni con le Nazioni Unite.
Durante la seduta collaterale alla firma, Eisenhower chiese che il Re
sottoponesse ufficiosamente agli Alleati la lista di ministri
“politici” da immettere nel governo; nel clima di collaborazione,
Badoglio sollecitò il rilascio del Maresciallo Giovanni Messe,
“ufficialmente aiutante del re” (oltre che antico iniziato massone alla
loggia “Michelangelo” del Grande Oriente d'Italia). “Liberi tutti...?” L'immunità
di quanti prima, durante e dopo la guerra avevano concorso a ritardare
e, nei modo più diversi, a “erodere” la portata filogermanica
dell'intervento dell'Italia in guerra era dunque una misura scontata.
Fa parte delle regole della guerra che, si sapeva anche prima di
Clausewitz, sono la prosecuzione della diplomazia con “argomenti”
suasori talora ruvidi (compresi i bombardamenti a tappeto, terroristici
o pedagogici, secondo i punti di vista) che però non escludono la
continuazione dell'utilizzo di altri, quali spionaggio,
controspionaggio, disinformazione, propaganda, corruzione di apparati,
etc., in una ridda in continuo divenire. Per una pacata visione
dell'art. 16 del Trattato di pace un'altra considerazione si impone.
Dal 10 giugno 1940 al 9 maggio 1946, capi delle Forze di terra e di
mare erano stati Vittorio Emanuele III e il Luogotenente del regno
Umberto di Piemonte. I ministri erano “ministri del Re”. Qualunque
incriminazione di un militare per simpatie espresse o collaborazione
operata a favore delle Nazioni Unite avrebbe comportato, salendo per li
rami, anche quella del sovrano: cioè proprio del Re in nome del quale
venne operato il cambio del luglio-settembre 1943, con quanto ne seguì
sino al regime post-monarchico incardinato sul presidente provvisorio
della Repubblica, Enrico De Nicola (monarchico) e sul governo De
Gasperi, unico abilitato a legiferare. Mentre alcuni costituenti (come
Benedetto Croce, Roberto Lucifero, Leo Valiani...) votarono contro la
ratifica del discusso Trattato di pace, altri, parimenti liberali, dopo
aggrovigliati e contraddittori ragionamenti, si schierarono a favore.
Furono i casi di Francesco Saverio Nitti (a lungo esule) e di Vittorio
Emanuele Orlando, nel 1924 candidato nel Listone nazionale, come De
Nicola. La ratifica ottenne 262 voti favorevoli, 68 contrari e 80
astenuti: meno del 50% dei 555 costituenti. De Nicola, contrario a
firmarlo, fece una scenata apocalittica, rovesciando tutte le carte
dalla scrivania. La sua ratifica era però la via maestra per chiudere
decenni di storia d'Italia con un colpo di spugna: “liberi tutti”. Era
anche il viottolo per tornare a esercitare un minimo di sovranità
nazionale dopo la pesante sconfitta militare e in un pianeta ormai
diviso dalla “guerra fredda”. Come ruvidamente chiesto da Churchill e
da Roosevelt, l'Italia pagava il salatissimo “biglietto di ritorno” tra
le democrazie parlamentari. Grazie al Re essa era caduta sul fianco
meno doloroso, lontano dalle mire di Stalin. Poteva persino accampare a
proprio merito la dichiarazione di guerra contro il Giappone,
deliberata dal governo Parri, con il consenso del Luogotenente Umberto
di Savoia. Suscita perplessità, invece, la posizione di De
Gasperi. Il 31 luglio 1947, chiedendo l'approvazione del Trattato,
“dinanzi a Dio, moderatore di tutte le cose (Grande Architetto? NdA), e
dinanzi agli uomini” proclamò che l'Italia non assumeva “nessuna
corresponsabilità, né per gli effetti che avrà in Italia, né per gli
effetti che avrà nella ricostruzione del mondo”. Era l'approdo di
quanto deliberato da rappresentanti di alcuni partiti antifascisti a
casa di Giuseppe Spataro una sera dell'agosto 1943: scaricare tutto il
passivo della sconfitta sul fascismo e sulla monarchia, con distorsione
della verità storica. Ma ormai Umberto II era all'estero. Il
gioco del “liberi tutti” configurato dall'articolo 16 del Trattato di
pace (ma come dimenticare l' “amnistia Togliatti” del 22 giugno 1947?)
mandò indenni gli antifascisti che avessero fiancheggiato gli Alleati
dal 10 giugno 1940 e tanti fascisti in vario modo contriti prima e dopo
il 25 luglio 1943; non si estese invece a cittadini che, né ignavi né
faziosi, propriamente fascisti non erano stati mai, bensì solo
“patrioti”: la sempre trascurata “zona grigia”, tuttora in attesa di
doverosa indagine storica.
Aldo A. Mola
GIOVANNI GIOLITTI IL VECCHIO SAVIO DELLA NUOVA ITALIA Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 14 luglio 2019, pagg. 1 e 11.
Vi
sono parecchie ragioni per ricordare Giovanni Giolitti (Mondovì, 127
ottobre 1842.- Cavour, 17 luglio 1928), massimo statista italiano dalla
proclamazione del Regno d'Italia a oggi. Ne ricordiamo almeno quattro.
(*) Dall'annessione alla Francia a capofila dell'indipendenza italiana In
primo luogo Giolitti è la sintesi del regno di Sardegna restaurato nel
1814 dopo l'età franco-napoleonica, quando il Piemonte venne ridotto a
XXVII Divisione dell'impero di Napoleone I. Se questo fosse durato, non
vi sarebbero mai stati Risorgimento, unità e indipendenza. L'Italia
sarebbe un'appendice di Parigi (come Oltralpe qualcuno ancora pensa).
In Piemonte, però, la Restaurazione non fu pura e semplice Reazione. Lo
si vide nel marzo 1821, quando il ventitreenne Carlo Alberto di
Savoia-Carignano, reggente, concesse in via provvisoria la Costituzione
di Cadice. A chiedergliela furono aristocratici cresciuti negli ideali
di libertà e di bilanciamento dei poteri. Il nonno materno di Giolitti,
Giovanni Battista Plochiù, alto magistrato in età franco-napoleonica,
era Legion d'Onore, come Carlo Alberto era conte dell'impero. La Storia
è continuità, anche grazie a società segrete (carboneria, massoneria,
illuminati...) quando la libertà di opinione è conculcata. Giolitti
nacque proprio quando Carlo Alberto accelerò il rinnovamento dello
Stato non per pressione straniera ma dal suo interno, valendosi di una
dirigenza di patrizi, borghesi, militari, ecclesiastici accomunati da
due capisaldi: scienza e apertura all'Europa. A quel modo il Regno di
Sardegna si candidò a interpretare e a esprimere il sentimento profondo
dell'“opinione nazionale”, come auspicato da Silvio Pellico, Massimo
d'Azeglio, Cesare Balbo, da uno stuolo di patrioti, anche esuli, come
Vincenzo Gioberti. L'assillo del Piemonte non era solo di conoscere
Parigi, Londra, Bruxelles, Berlino ma della valutazione che in quelle
capitali si aveva di Torino. Nel Regno di Sardegna il “Quarantotto” non
fu prodotto di importazione, ma frutto di lunga maturazione di una
nuova moderna classe dirigente. Lo rievoca Giolitti nelle “Memorie
della mia vita”, pubblicate il 27 ottobre 1922 per
festeggiare il proprio 80° compleanno. Vi ricorda l'incontro, al quale
assisté, di Camillo Cavour con zio, Melchiorre Plochiù, magistrato e
azionista di “Il Risorgimento”, una tra le grandi voci del Quarantotto,
come “La Gazzetta del Popolo” di Felice Govean e Giambattista Bottero.
Lo Statuto Albertino segnò il passaggio dalla monarchia amministrativa
a quella rappresentativa, l'elettività dei consigli comunali e
provinciali, l'uguaglianza dinnanzi alle leggi e, quindi, la
libertà di culto: caso unico in Italia. Da lì nacque la Terza Italia.
Al servizio dello Stato., cioè dei cittadini Inoltre
Giolitti è il modello della generazione costruì lo Stato nuovo.
Laureato in giurisprudenza a Torino a 19 anni, volontario senza
stipendio al ministero della Giustizia a 20, sostituto procuratore del
Re a 24, per un ventennio progredì nel servizio dello Stato, “prestato”
al ministero delle Finanze con Quintino Sella, segretario generale
della Commissione centrale delle imposte dirette (osservatorio
privilegiato su Comuni e Province), della Corte dei Conti (1877),
commissario alle Opere Pie San Paolo di Torino (che trasformò in
“istituto bancario di sicuro avvenire”) e consigliere di Stato a
quarant'anni. Quando nel settembre 1882 accettò la candidatura alla
Camera si mostrò politico vero, capace di ascolto, abilissimo del
procacciarsi il sostegno dei notabili, società di mutuo soccorso e
sodalizi vari. Lo documenta la sua molto elaborata “Lettera agli
elettori”, suggellata da una frase che anticipa quasi mezzo secolo
della sua “politica”: “Allorché gli uomini di Stato più eminenti e gli
operai sono concordi in un programma, vi ha la certezza che questi
risponde ai veri bisogni del Paese”. Estensore del Manifesto
dell'opposizione subalpina contro la “finanza allegra” del ministro
Agostino Magliani (1886), contrario a dispendiose e rischiose avventure
coloniali ma fermo nella difesa della dignità nazionale, ministro del
Tesoro e delle Finanze nel Governo presieduto da Francesco Crispi
(1889-1890), quello delle grandi riforme (abolizione della pena di
morte, trasformazione delle Opere Pie in Ipab, elettività dei sindaci e
dei presidenti delle Deputazioni provinciali...), presidente del
Consiglio dei ministri a soli 50 anni, Giolitti affrontò la più
difficile delle riforme: dar vita alla Banca d'Italia in un Paese che
trent'anni dopo la proclamazione del Regno e venti dopo l'annessione di
Roma aveva ancora sei Banche abilitate a emettere moneta. Dovette fare
i conti con l'intreccio tra malavita organizzata e la spesso
cortomirante opposizione “democratica”. Perseguitato da Crispi, nel
timore di carcerazione arbitraria andò a Berlino, ospite della figlia
Enrichetta e del genero, Mario Chiaraviglio, massone. Rientrò quando
seppe dalla moglie, Rosa Sobrero (“Ginotta”) che il mandato di
comparizione non conteneva capo d'accusa. La terza lezione di
Giolitti è l'alto senso della politica quale servizio allo Stato. Nei
lunghi anni di “disgrazia”, durante i regni di Umberto I (tra il 1893 e
il 1899) e di Vittorio Emanuele III (1915-1919), la sua lealtà nei
confronti della monarchia, consustanziale all'Italia, non mutò di una
virgola. Il monarchico non è un cortigiano. Ha il dovere di dire al
sovrano anche parole “scomode”. Perciò egli rimase la grande “riserva”
della Corona, per risollevarne il prestigio. Avvenne nel 1899, dopo la
repressione della cosiddetta “insurrezione milanese” del
maggio1898, schiacciata con metodi inaccettabili e con l'arresto di
deputati in carica. Giolitti capitanò la svolta liberale d'intesa con
il democratico bresciano Giuseppe Zanardelli e con Ernesto Nathan, gran
maestro del Grande Oriente d'Italia poi da lui voluto sindaco di Roma.
Sempre capace di ascolto nel 1899, Giolitti recepì i suggerimenti di
Urbano Rattazzi jr: dare voce al “Paese che lavora” e non inventare
artificiosamente “nemici”. Iniziò il quindicennio più prospero
dell'Italia unita, quando anche l'emigrazione (per lavoro, per fame)
costituì una risorsa con le “rimesse” degli italiani dall'estero. Al
governo si alternarono Zanardelli, lui, Alessandro Fortis (ex
repubblicano), Sidney Sonnino, ebreo di culto protestante, Luigi
Luzzatti, ebreo non praticante, una miriade di ministri e
sottosegretari, sorretti da diplomatici, militari, dirigenti
ministeriali, prefetti, magistrati, scienziati, accademici, docenti
universitari, segretari comunali, insegnanti, artisti e, mai
dimenticare, ecclesiastici ispirati da Pio X, il papa che “sospese” il
divieto per i cattolici di voto attivo e passivo nell'elezione della
Camera. Dai 3 cattolici deputati del 1904 si passò a 227 deputati
liberal-moderati, radicali e persino massoni eletti col voto dei
cattolici (il “Patto Gentiloni” del 1913), per arginare massimalisti,
clericali e anarchici. Nel 1911 il bilancio del Cinquantenario registrò
il grande progresso civile e sociale della Nuova Italia, cresciuta con
la liberalizzazione degli scioperi “economici”, cioè per miglioramenti
salariali, divieto assoluto di quelli “politici”, in specie nei servizi
statali, leggi speciali a favore delle regioni arretrate, provvidenze
d'ogni genere per istruzione e sanità. Conosceva bene la realtà. Contro
tutte le leggende, il Piemonte aveva enormi sacche di povertà,
generalmente sopportata con dignità anche grazie ai tanti Don Bosco. Giolitti meridionalista e neutralista Sin
da giovane alto dirigente statale Giolitti aveva esplorato il
Mezzogiorno. Tra gli amici politici più fidati ebbe meridionali come
Tommaso Senise, Antonio Cefaly, Antonino Paternò Castello di San
Giuliano, Giuseppe Saredo, Pietro Rosano (che il 9 novembre 1903
si sparò per evitare che uno scandalo squallidamente orchestrato ai
suoi danni potesse coinvolgere Giolitti e il neonato governo). Sapeva
che per unificare davvero l'Italia occorreva destinare al Sud enormi
investimenti per liberarlo dalla secolare arretratezza (infrastrutture,
servizi pubblici,...). Messa a frutto la costosissima “impresa di
Libia”, che all'Italia fruttò Tripoli e la Cirenaica (per evitare che
se ne impadronissero la Francia o altri), Rodi e il Dodecanneso
(liberati dal secolare turpe dominio turco), nel 1914-1915 ritenne che
l'Italia non poteva impegnarsi in una guerra europea lunga e
inevitabilmente esosa di vite e di risorse, causa di divisione non solo
tra Nord e Sud ma anche fra lo Stato e le masse operaie naturaliter
neutraliste e i cattolici, contrari a conflitti ai danni dell'unico
impero cattolico, l'Austria. Neutralista, dopo l'intervento si schierò
senza riserve a sostegno della Vittoria come tutto il Piemonte, da
sempre uso a battersi “alle bandiere” con lo scudo sabaudo.
La processione indiana: due passi avanti, uno all'indietro Richiamato
una quinta volta al governo da Vittorio Emanuele III, Giolitti ottenne
successi fondamentali (abolizione del prezzo politico del pane,
risanamento della finanza pubblica, superamento senza soverchi traumi
della occupazione delle fabbriche da parte dei rivoluzionari decisi a
“fare come in Russia”, cacciata di d'Annunzio da Fiume...). Chiese
anche il trasferimento del potere di dichiarare guerra dalla Corona al
Parlamento. Fallì l'obiettivo. Fu la sua prima seria sconfitta. La
seconda venne col veto opposto da don Sturzo a una coalizione
liberal-cattolica-socialriformista. Lo Statista trascorse a Cavour, in
Piemonte, la notte fra il 27 e il 28 ottobre 1922, suo 80° compleanno:
tormento e stasi. Il Re era a Roma per sostituire Facta, dimissionario,
con un presidente fattivo. Mussolini temeva il ritorno di Giolitti. A
Cesarino Rossi confidò: “ Se arriva Giolitti, siamo fottuti. Ha fatto
sparare su d'Annunzio a Fiume”. Ma a Giolitti l'invito telegrafico ad
accorrere a Roma arrivò solo “a cose fatte”. La storia non è una linea
retta. Neppure quella d'Italia. Procede a zig-zag. Giolitti, statista
serissimo e quindi capace di umorismo, osservò che il progresso è come
certe processioni indiane: due passi avanti e uno all'indietro... Nessuno
come lui ebbe alto il senso dello Stato: una formula intraducibile,
come la libertà, “ch'è si cara, come sa chi per lei vita rifiuta”.
Quando andava al Colosseo o in montagna, Giolitti aveva sempre in tasca
una delle cantiche della Divina Commedia. Chissà se ne ricorderanno
tanti dantisti “di complemento” da qui al 2021?
Aldo A. Mola
(*) E' in libreria il
nuovo volume di Aldo A. Mola, Giolitti. Il senso dello Stato, ed.
Rusconi Libri, pp.XXII+626 e 16 ill. ,
Giolitti
secondo il generale Arturo Cittadini (1864-1928), primo Aiutante di
Campo di Vittorio Emanuele III (Dichiarazione al generale Angelo Gatti,
Palazzo del Quirinale, 30 marzo 1922): un ritratto acre, con tratti
veridici.
GIOLITTI COME L'IMPERATORE TIBERIO?
Giolitti
ha dominato per molto tempo, anche quando non era al potere, la Camera.
Da che cosa proviene questa forza indiscutibile di Giolitti? Ha prima
di tutto la dote indiscutibile della conoscenza perfetta di tutto il
congegno amministrativo dello Stato. A lui non la si può dare a bere.
La seconda qualità è di essere inflessibile ed irriducibile. La
terza qualità è che è un uomo relativamente onesto: vale a dire che per
se stesso non ha rubato. Per conto suo vive modestamente (a Roma) in un
quartierino solito. La quarta qualità è di tenere tutti a distanza.
Egli parla poco, e quando parla, con tono da padrone. Quest'uomo
avrebbe attratta l'attenzione di Machiavelli. Poiché fu un uomo
veramente forte di fisico e di carattere. Facoltà principale della sua
coscienza fu di considerare tutti gli uomini governabili e comandabili
per i loro vizi. Facoltà principale del suo carattere fu quella di
considerare se stesso padrone, e tutti gli altri servi. In molti
lati, (meno che per il sanguinario si capisce) questo vecchio
somigliava a Tiberio. Aveva la sua grandiosa statura, il disprezzo
degli uomini, la conoscenza dei loro vizi, la durezza del cuore, una
certa onestà personale, il disdegno delle lodi palesi, la facoltà di
governare da lontano, il rifuggire la folla, la semplicità, fino a un
certo momento, della vita. Ma la sua facoltà principale, come
conduttore di uomini parlamentari, era quella di sentirsi padrone. Era
in questo aiutato dalla bassezza degli altri, che si sentivano servi. Più
difficile gli sarebbe stato governare le folle, che hanno anche
passioni di entusiasmi, ecc.; ed, infatti, egli ciò non cercava. Egli è in disparte, solitario.
Tre domande all'Autore:
Questo “Giolitti. Il senso dello Stato” è nuovo rispetto ai libri precedenti? R.
Nel 2003 (l'anno della biografia scritta per Mondadori) non erano
ancora disponibili molti documenti qui utilizzati sulla formazione
politica di Giolitti, sulla crisi del “radioso maggio 1915”, quando
venne ordito un attentato mortale alla sua vita, e sull'ottobre 1922,
quando lo Statista rimase a Cavour mentre nella Capitale si giocava la
partita fatale: la liquidazione del governo Facta, l'invito
inviatogli alle 5 del mattino del 28 ottobre e il telegramma
firmato dal generale Cittadini che il 29 invitò Mussolini a Roma per
formare il governo. Per me questo libro è un punto di arrivo e, forse,
di congedo. Auspico giovi a chi vorrà continuare la ricerca.
Qual è l'eredità di Giolitti? Un'eredità
morale e civile. Lo fece intendere egli stesso in una lettera del 1926
al nipote, Curio Chiaraviglio. Ormai ottantacinquenne, Giolitti leggeva
le storie delle guerre del Cinque-Seicento per l'egemonia sull'Europa
tra gli Asburgo e la Francia, quando l'Italia cadde sotto le
dominazioni straniere. Come essa aveva superato tanti guai del passato,
giungendo infine all'unificazione e all'indipendenza nazionale, così
avrebbe fatto con quelli imperversanti, segnati dall'incipiente regime
di partito unico. “La legge - osservava - riconosce il falegname, il
filosofo, il ciabattino, l'avvocato, il cavadenti, il beccamorto ma il
cittadino no. Il Civis Romanus sum è un'anticaglia. La libertà? Chi se
ne ricorda? Ma il giorno in cui il popolo se ne ricordasse e la
reclamasse?! Che cosa fare? Lavorare chi può ancora, stare a vedere chi
non può più. Difendersi dal pessimismo. Pensare alla salute...”. Bastano questa sue parole per capire l'attualità di Giolitti, il “Grande Saggio” della storia d'Italia.
Cavour, Giolitti, Einaudi. Chi è lo statista sommo? Impossibile
e inopportuno fare graduatorie. Meglio stare ai “fatti”. Cavour ebbe la
(s)fortuna di morire il 6 giugno 1861, subito dopo la proclamazione del
regno d'Italia, Nessuno sa come lo avrebbe governato. Non si era mai
spinto a sud di Firenze, ove andò poche volte e litigò con il Re, molto
più avveduto di lui. Nel 1944 Einaudi fu aviotrasportato dalla
Svizzera a Roma per prendere le redini dell'economia di un Paese vinto,
lacerato e poi sotto l'incubo del Trattato di pace, duramente punitivo.
Giolitti fu presidente del governo cinque volte (1892-1921) di
un'Italia che era e si conduceva da Stato indipendente e che entrò nel
novero delle maggiori potenze. Soprattutto, però, non dimentichiamo che
i veri artefici di quell' Italia furono i Re, unici garanti agli occhi
degli altri Stati: nemici, alleati, mai amici.
TUTTI A PIEDI VIA FRANCIGENA E CAMINO DI SANTIAGO Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 7 luglio 2019, pagg. 1 e 11.
Quando Romano Prodi profetizzò la riscoperta della via Francigena Con
quella faccia un po' così, con l'espressione un po' così di chi
apprende terribili segreti scrutando il fondo della tazzina di caffè,
quando divenne presidente del Consiglio dei ministri un giorno fatidico
Romano Prodi spiegò quale fosse il suo programma per l'Italia in
Europa: ripristinare la via francigena. Sorrise. Il sorriso, tra
criptico e tonto, riusciva bene a Gervaso, il cugino che Renzo
Tramaglino noleggiò quale secondo testimone per tentar di sposare Lucia
Mondella la notte degli imbrogli, come narra Alessandro Manzoni (ma
meglio di lui ne scrisse Guido da Verona. Ce lo conferma Enrico Tiozzo,
suo esegeta e ora curatore con Corrado Calabrò di “La libertà della
sera” dell'Accademico svedese Kjell Espmark, ed. Ombre e luci del Nord). Già.
La via francigena. Il ritorno al futuro, il bivio perpetuo dinnanzi
alla storia. C'è chi ci arriva come Dante Alighieri quando gli si parò
davanti “la bella fera alla gaietta pelle”. C'è chi invece ha alle
spalle lo smantellamento di quel che di buono rimaneva dell'Istituto
per la Ricostruzione Industriale e ha svenduto pure la Cirio. Acqua
passata. Per i Grandi Capitani l'importante è azzeccare la frase
destinata a rimanere negli annali, tipo “Quaranta secoli di storia ci
guardano”, come disse Napoleone dinnanzi alle piramidi. Avrebbe dovuto
aggiungere: “E ci piangono”, dal momento che gli inglesi avevano
distrutto la sua flotta ad Abukir tagliandogli la possibilità di
rientrare a vele spiegate in Francia. Napoleone riprese la sua
“via francigena” in piccioletta barca e si rifece con il colpo di
stato del 18 brumaio che lo elesse primo console: gradino verso
l'Impero. Se uno va in Egitto e ne capisce storia e popolazioni (lo
aveva fatto Marc'Antonio succubo dell'aerea Cleopatra) torna Faraone. Toninelli: “Ma chi se ne frega di andare a Lione”? Diversa
è la sorte dell'Italia odierna. Mentre sola e pensosa va per i deserti
calli, scopre quanto sa di sale lo scendere e il salir per l'altrui
scale, valli, montagne, fori, trafori, vette. Adesso chi da Torino
voglia andare in Francia deve munirsi di funi e di badili. Sull'erta
via va incontro a sorprese sino a poco fa inimmaginabili. Hanno ragione
quanti dicono che la prima capitale d'Italia è ornai una cittaduzza
decentrata. Da Oltralpe infatti vi si arriva a fatica. E ce se ne parte
con duolo. Ha detto bene il ministro delle Infrastrutture Danilo
Toninelli quando profeticamente esclamò: “Chi se ne frega di andare a
Lione?” Viaggiare da Torino a Lione è un'idea balzana. Un cattivo
pensiero. Ma quali alternative ha chi volesse andare da Vladivostok a
Capo Finisterre o almeno a La Coruña, o da Abbiategrasso a Parigi
passando, per farla più breve, proprio dalla Val Susa cara a Re Magno,
che vi transitava andando e tornando dalla guerra con bramosia d'amor? Se
un tempo, diciamo sino a martedì scorso, già era un'impresa, quella
tratta ferroviaria ora è un calvario. Una perfida slavina di fango
irruppe sulla via ferrata dalle parti di San Giovanni di Moriana, che
di là del crinale dicono Saint-Jean de Maurienne. È una graziosa e
garbata cittadina. Vi si giunge in discesa da chi ruzzola dalle Alpi,
in salita per chi punta verso l'Italia. Ma non è detto che le vie
debbano denominarsi “salita san Giacomo” o “discesa san Giovanni
Battista”. Quando venne invitato a Soveria Manneli dall'allora
sindaco Mario Caligiuri, in veste di assessore alla Invenzione o
Fantasia, Giordano Bruno Guerri propose che le strade dell'ameno comune
fossero in discesa da un lato, in salita dall'altro, perché così fan
tutte. Dipende da come le si prende. Il punto è sempre l'antico:
“hic Rhodus, hic salta”. Piaccia o meno, se d'improvviso si viene
assaliti dal capriccio di andare a Lione (città dei misteri con Torino
e Praga: un triangolo massonico, più pericoloso di quello delle
Bermude) da lì si deve passare, dalla fosca valle di Susa. Ma perché
mai pretendere di usare il treno? Esso è il Progresso cantato da Giosue
Carducci nell'“Inno a Satana”: “Un bello e orribile/mostro si sferra,
/corre gli oceani, /corre la terra:// corrusco e fumido/ come i
vulcani, / i monti supera, / divora i piani.// sorvola i baratri;/ poi
si nasconde/per antri incogniti,/ per vie profonde.// ed esce;
indomito/ di lido in lido/come di turbine/manda il suo grido,//come di
turbine/ l'alito spande:// ei passa, o popoli,/ Satana il grande./
Passa benefico/di loco in loco/ su l'infrenabile/carro del fuoco”. La
Locomotiva. Il treno a vapore. Figuriamoci il convoglio a diesel o a
trazione elettrica. O addirittura quello a Grande Velocità che i
discendenti di Carlo Magno dicono Te-ge-vè, l'Accademia della Crusca
appella Alta Velocità e il PCI (Partito Conciliatorista d'Italia)
denomina Alta Capacità: TAC, che sembra un esame diagnostico sullo
stato delle gengive. In concreto da Saint-Jean de Maurienne il treno
adesso non passa e non si sa quando riprenderà a passare. Perché non
basta ramazzare via il fango dai binari improvvisamente precipitato
dall'alto. Bisogna capire quanto e quando la ria collina potrebbe
farvene scendere ancora, con i rischi che ognuno (toccando binari)
facilmente immagina mentre si assopisce cullato dal dolce romorio del
treno che sale (o che scende). San Giovanni di Moriana. Sarà un
sabotaggio dei nazional-sovranisti italiani che rivendicano la Savoia?
O sono cose turche? Fu lì, infatti, che s'incontrarono i sommi capi
dell'Intesa e il Comandante Supremo dell'Esercito italiano, Luigi
Cadorna, nel corso della Grande Guerra. Figlio del generale Raffaele
che il Venti Settembre 1870 espugnò Roma togliendola a Pio IX, Luigi
Cadorna di guerra s'intendeva da quand'era bambino: perciò cercava di
ottenere un minimo di coordinamento tra anglo-franco-russi e l'Italia
contro gli Imperi Centrali. Sempre lì, Oltralpe, tentò di capire che
cosa gli “alleati” avessero deciso di fare dell'Impero ottomano. In
“Caporetto. Risponde Cadorna” (ed. BCSmedia) suo nipote, Carlo Cadorna,
colonnello e cavallerizzo provetto, ricorda che il Generale intuì che
gli “altri” si sarebbero spartiti le fette più appetitose e all'Italia
avrebbero lasciato qualche landa desertica nei luoghi più sperduti e
“una parte equa nella regione mediterranea finitima la provincia di
Adalia, ove essa ha già acquisito diritti e interessi”. Scrutando beccaccini e paranzelle Come
che sia, il ripristino della strada ferrata in Francia andrà per le
lunghe. E questa landa d'Europa scopre tutta la sua vulnerabilità. Con
gli occhi sbarrati a scrutare il mare di Alboran, le scialuppe che
avanzano dal Golfo della Sirte, i beccaccini e le paranzelle di
Garibaldi e garibaldini, ha perso di vista se stessa, il suo
territorio, in larga parte abbandonato e ingabbiato dai ceppi di leggi
e leggine pensate per le esose megalopoli e soprattutto da imposte,
tasse, balzelli e tagliole come i ticket per entrare nel cuore antico
delle città, identici alla cinta daziaria del buon tempo antico. Nel
medioevo (che da noi è durato sino all'altro ieri: solo nel 1908 il
governo Giolitti abolì la “ruota” ove deporre i neonati e introdusse la
“ricerca della paternità” dei trovatelli) la “città” penalizzava
l'ingresso di uova, polli, insaccati e ortaglie. Adesso incombe sui
salami che pretendono di entrarvi al volante dell'auto per il cui
acquisto hanno investito il trattamento di fine rapporto, acceso mutui,
ipotecato la casa. L'ardita Nizza-Ventimiglia, risorsa o beffa? Ma
c'è alternativa a Saint-Jean de Maurienne? Forse che si, forse che no,
direbbe Pirandello. Ci sarebbe, ci potrebbe essere, sarebbe forse
immaginabile. Ma è praticabile? È l'ora della Cuneo-Ventimiglia-Nizza.
Per darle un tono i suoi antichi artefici la dipinsero come
Berna-Marsiglia, perché, per dirla sempre con Toninelli, chi se ne
frega di prendere il treno se si deve andare solo da Cuneo a Nizza o
viceversa? Bisogna vantare che la si prende larga. Come avviene
dall'aeroporto di Cuneo (Levaldigi) dal quale non si va a Roma ma in
Albania, Marocco, Romania. E da lì, chi proprio ci tiene può sempre
andare a Roma... Sul Tenda papa Pio VII passò da prigioniero
di Napoleone. Dal litorale francese doveva raggiungere Savona.
Anziché imboccare l'autostrada, che sarebbe stata tanto più comoda, o
usare la strada ferrata, non ancora cantata da Carducci solo perché non
c'erano né lui ne la ferrovia, il papa salì in carrozza lungo la Valle
Roya. Spettacolo suggestivo quant'altri mai. Rupi scoscese, il canto
delle chiare fresche e dolci acque, e poi i tornanti su. Benché non ci
fossero i TIR e neppure le immense reti metalliche a fermare la caduta
dei massi, era davvero una gran fatica. Alla fine la carrozza
venne smontata. Da una parte l'abitacolo, dall'altra le ruote. Tutto
sulle spalle dei vetturali e di devoti volontari para-pontifici, alla
volta di Palazzo Lovera, a Cuneo, e poi a Mondovì, sempre nella
“portantina” ora in mostra nella Cappella di San Bernardo del
Santuario-Basilica di Vicoforte. Lì, ritratto in busto marmoreo,
il papa guarda corrucciato il monumento funebre di Carlo Emanuele I,
duca di Savoia, e quelli di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena.
Si domanda quale strada abbia percorso il feretro della Regina per
giungervi da Montpellier. Mistero fittissimo. La ferrovia
Cuneo-Nizza, dunque, è un’alternativa alla Torino-Lione o, se si
preferisce, alla Trieste-Parigi? Bello sarebbe se ferrovia davvero
fosse. Sennonché ne ha solo l'apparenza. È suggestiva. Un capolavoro
ingegneristico. Ma i trenini la percorrono a passo d'uomo per non
deragliare. Del resto i suoi utenti sono forti e pazienti, come recita
il motto di Cuneo, la città dei Sette Assedi. Si avventurano in treno
non perché abbiano una meta, un affare da sbrigare, un voto da
estinguere, una passione furtiva, un motivo qualunque ma perché così si
distraggono dalla noia dell'immobilità su una panchina, voltan le
spalle ai ricordi, evitano di rimuginare sul futuro, scacciano i
cattivi pensieri. Guardano dal finestrino, contemplano il Creato e
vanno… Un viaggio da impazzire: lo prova il “caso Nietzsche” La
Cuneo-Nizza è l'emblema della decrescita felice. Del tutto opposta alla
Torino-Lione-Parigi-Dakar (o la Parigi-Pechino?). Questa è ansiogena.
L'altra, la cuneese, è rilassante. È una filosofia della natura. Anzi è
“la” filosofia. Quali siano stati i tormenti del viaggiatore che verso
fine Ottocento abbia voluto andare da Nizza a Torino è narrato da Sue
Prideaux in “Vita di Friedrich Nietzsche” (Ed. Utet), ottimo candidato
al Premio Acqui Storia 2019. Proprio nel capitolo che dà titolo al
volume, “Io sono dinamite”, l’autrice, dotta storica dell'arte, inglese
di origini norvegesi, racconta che nel 1888, felice di aver terminato
“Al di là del bene e del male” e arcistufo di prendere pioggia battente
e freddo, da Nizza il filosofo partì in treno alla volta di Torino. A
Savona, tuttavia, stipati i bagagli sul convoglio per la capitale
subalpina, sceso un attimo dal convoglio quando risalì si trovò per
sbagliò su un treno per Genova. Tornò indietro e rimase due giorni
nella città ove era stato prigioniero Pio VII. Arrivò a Torino solo il
5 aprile e prese stanza al terzo piano di via Carlo Alberto 6. Gli
bastava aprire le finestre per sentire a scrocco l'esecuzione del
“Barbiere di Siviglia”. Il 3 gennaio 1889 crollò. Vedendo un vetturino
che picchiava spietatamente il suo cavallo, sopraffatto dalla
compassione il filosofo gettò le braccia attorno al collo dell'equino.
E cadde a terra (o fu spinto?) come corpo morto cade. Riportato a casa
dal coinquilino Davide Fino, narra Prideaux, per molti giorni urlò,
cantò a squarciagola, farfugliò tra se e sé, delirò. Scriveva lettere a
Umberto I e alla regina Margherita, a Jacob Burckhardt, autore
inarrivabile della “Civiltà del Rinascimento italiano”, e a Franz
Overbeck. Suonava al pianoforte musiche di Richard Wagner, ballava nudo
e si scatenava in riti dionisiaci. Era ormai fuori di senno. Traslato
in Svizzera, gli venne diagnosticata la paralisi progressiva indotta
dalla sifilide e fu affidato a un manicomio di Jena, la città ove Hegel
aveva visto “il genio del mondo a Cavallo”, Napoleone I. Morì il 25
agosto 1900. La sua autobiografia, “Ecce homo”, uscì otto anni dopo.
Era lettura obbligatoria per lunghi viaggi, in treno e in nave, per le
lente notti d'estate e quelle rigide d'inverno. Che Europa era
quella e qual è l'odierna? “Io sono dinamite” è la sintesi
autobiografica di Nietzsche ed è paradigma del cammino incompiuto
dell'Europa che nel 1914 lasciò le grandi opere dov'erano e si buttò a
capofitto nell'orgia della Grande Guerra: blitzkrieg fallito, guerra di
trincea, guerra dei materiali, rivoluzioni, catastrofi. La guerra
divorò investimenti che sarebbero bastati a mettere a lustro il pianeta
per un secolo. È pur vero che poi venne la ricostruzione, ma ancora
adesso si rinvengono ordigni bellici nei boschi che furono teatro della
lunga guerra dei trent'anni (1914-1945), suggellata dai bombardamenti
“a tappeto” documentati nel numero speciale di “Storia in Rete”, “Bombe
sull'Italia”, con saggi di Fabio Andriola, Luciano Garibaldi, Emanuele
Mastrangelo, Enrico Petrucci, Sebastiano Parisi e altri. A parte le
circa 100.000 vittime (alcuni scrivono 170.000) della “guerra inutile”
che imperversò per anni sul Bel Paese e lo ridusse in gran parte a
rovine, anche le strade ferrate vennero duramente colpite. Fu appunto
il caso della Cuneo-Ventimiglia, ripristinata solo nel 1979, con una
visione tanto in ritardo sui tempi quanto era stata invece
avveniristica la sua concezione originaria. Perciò non può fungere
affatto da succedanea della Vladivostok-La Coruña. L'alternativa è il
“camino di Santiago”: a piedi, con mantello, bordone, conchiglia, tanta
buona volontà e fortuna. Il Cebreiro illumina la mente e, se va bene,
accende appetiti e fantasie wagneriane. Passo dopo passo si procede,
con la speranza di non arrivare mai alla meta, perché lì il viaggio
finisce. La tensione si spegne. Prevale il disincanto. Nella Cattedrale
di Santiago di Compostela il botafumeiro va e viene nello Spazio...
L'occhio lo segue incantato con l'interrogativo importuno: se
scarrucolasse? Se mai si staccasse? Tutto è possibile. Come i miracoli,
così sono le tragedie. Imprevedibili. “Umane, troppo umane”. Come
l'inopportuna slavina di fango che blocca il “chemin de fer” più famoso
e discusso d'Europa. Una fatwa? Per dire che da lì passa, o non passa,
lo “straniero”? Ma “straniero” chi è? Lo era San Giacomo quando il suo
corpo venne portato in Galizia e scoperto dall'anacoreta Pelagio? O
quella di mille anni orsono era un'Europa più europea dell'attuale?
Aldo A. Mola
CAPITALISTI, VIL RAZZA DANNATA UNA, DIECI, CENTO CAPITALI DELL'ITALIA CHE SI SFARINA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 30 giugno 2019, pagg. 1 e 11.
E
così, alla faccia di Karl Marx, grazie a una leggina senza oneri per lo
Stato, in Italia trionfa il Partito dei Capitalisti. Non è quello di
George Soros, l'ebreo ungherese naturalizzato statunitense che manipola
immense fortune e soggioga governi come fosse Spectre. Non è neppure la
allegra brigata che inventa la nuova libra, spaccia bitcoin, sogna di
stampare nottetempo carta moneta più o meno fasulla e magari i
“mini-bot”, sdrucita sottoveste degli antichi “pagherò”. Questi sono
tardivi imitatori del frammassone settecentesco Giuseppe Balsamo. Noto
come Alessandro conte di Cagliostro, dai muri umidi il “mago” grattava
il bicarbonato per propiziare la digestione dei suoi “clienti” e
incitava i gonzi a soffiare in canne attorno al pentolone nel quale il
piombo sarebbe divenuto oro. Balsamo finì nel caveau di San Leo su
ordine di papa Pio VI e vi morì dopo anni di bastonate e di urla
strazianti. Quei fantasiosi venturieri erano solo dilettanti
rispetto a quanto ora accade in Italia. Oggi vi trionfano i Capitalisti
veri. È nato il nuovo PCI. Libero dalle macerie del suo omonimo (quello
di Togliatti, Longo, Secchia...) è il “Partito delle Capitali
d'Italia”, un neo-comunismo che va dalla Puglia alle Alpi, brucia
incensi a vere e presunte città “già capitali” e mette tutti d'accordo
riducendo la storia a timballo di maccheroni con contorno di fricassea.
Ognuno ci aggiunge i condimenti e le spezie che meglio crede. La storia non si stabilisce per legge Alle
12.30 del 26 giugno 2019, un mercoledì (giorno sacro a Mercurio, dio
delle birbe), la Commissione affari costituzionali della Camera ha fuso
il piombo di cinque proposte di legge propugnate da Elvira Savino
(Forza Italia), Piero De Luca (Partito democratico) e tre
“Pentastelline” (Anna Bilotti, Fabiana Dadone e Anna Macina) nell'oro
di un bozzetto di legge, col soccorso dei deputati piddini toscani che
vi han fatto inserire all'ultimo momento Firenze, curiosamente
dimenticata dalle proposte originarie. All'unanimità (che non manca mai
quando si tratta di bazzecole) la Commissione ha approvato il testo
base di prossima approvazione. A Brindisi, Firenze e Salerno (citate
dalla leggina in ordine alfabetico anziché cronologico) conferisce il
titolo di “città già capitale d'Italia”. Esse potranno fregiarsene nei
propri gonfaloni (già zeppi di emblemi, scritte, motti...). Per bontà
della pentastellata Dadone l'articolo 2 della leggiuzza riconosce a
Torino, come premio di consolazione, il rango di “città prima capitale
d'Italia” (sarebbe bene correggere in “prima città capitale d'Italia”).
Ma non sottilizziamo. Qualcuno ha fatto dell'ironia sulla
proposta liquidandola come “leggina”; ma non è giusto. Come ognuno
vede, ormai anche le “grandi” sono un coacervo di leggine. Ogni legge è
un “omnibus”. Si veda quella sulla “Crescita”. Per coerenza, infatti,
codesta mega-legge, poiché bisogna rinvigorire l'Italia
sfiduciata e sempre più moscia, contiene anche facilitazioni fiscali a
favore dell'apertura di pornoshop nei comuni con meno di 20.000
abitanti. Così anche i “villani” potranno “crescere” (senza
moltiplicarsi). La leggetta sulle “città già capitali” dà motivo per
qualche considerazione sommaria sulla “percezione” odierna della
storia, dentro e fuori il Parlamento. È come la temperatura
atmosferica. Non fedeltà ai fatti ma “narrazione”, anzi mera
“invenzione”. Ma le fantasie non hanno e non possono pretendere di
avere valore legale. Questo è un punto niente affatto secondario in un
Paese che sciaguratamente ha introdotto una legge punitiva del
“negazionismo”, di opinabili “verità ufficiali”, che per gli storici
semplicemente non esistono perché di mestiere indagano in cerca della
verità documentata. Ebbene, sapendo di rischiare grosso, diciamo subito
chiaro e forte che Brindisi e Salerno non sono mai state capitali
d'Italia. Nessuna norma può imporre di ammetterlo: tanto meno questa
aspirante leggina, storiograficamente infondata. Carlo Alberto Re di Cipro e Gerusalemme... Andiamo per ordine. Lo
Statuto promulgato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto di Savoia non fece
parola della capitale del Regno di Sardegna. Parafrasando il motto
latino secondo il quale ciò che è chiaro non richiede interpretazioni,
non v'era motivo di scriverlo. Era Torino da quando il duca Emanuele
Filiberto, che vi fece ingresso solenne il 7 febbraio 1563, la preferì
a Chambéry, perno della Savoia: una scelta che, piaccia o meno e senza
esagerazione, segnò il destino della dinastia, del Piemonte e
dell'Italia. La Costituzione repubblicana del 1° gennaio 1948, che in
quanto ha di limpido e chiaro ricalca lo Statuto Albertino, ignorò la
questione. I costituenti discussero sui confini delle Regioni e sui
loro capoluoghi, ma nulla dissero né di quelli nazionali (sul fronte
orientale erano ancora in discussione e non dipendevano dall'Italia ma
da accordi tra le Grandi potenze e la Jugoslavia, che figurava tra i
vincitori mentre essa era tra i vinti) né della sua capitale. Per tutti
era sottinteso che fosse Roma: perciò non era il caso di scriverlo.
L'articolo 12 descrisse la bandiera della Repubblica (“tricolore
italiano, verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali
dimensioni”) per differenziarla dalla precedente, adottata da Carlo
Alberto il 23 marzo 1848, recante lo scudo sabaudo nella banda bianca.
Su altro (dall'inno “nazionale” all'emblema statuale, poi disegnato da
Paolo Paschetto, valdese e non massone) la Costituente si rimise al
legislatore. Anche in Repubblica gli
italiani vissero felici e tacitamente contenti di avere capitale Roma,
poi marchiata “ladrona” dal predecessore di chi all'epoca chiedeva la
secessione della Padania e oggi vorrebbe strapparla a una maggioranza
che pare nata “a sua insaputa” e comunque si mostra inetta. Sennonché
il 7 ottobre 2001 fu varata la sciagurata riforma del Titolo V della
Carta. Nella nuova redazione essa recita che “la Repubblica è
costituita dai Comuni, dalle Province, dalle città metropolitane, dalle
Regioni e dallo Stato (…) Roma è la capitale della Repubblica. La legge
dello Stato disciplina il suo ordinamento”. “Roma capitale” fu tra le
insegne alzate da Gianni Alemanno che, all'epoca sindaco, nel 2010 ne
celebrò i 140 anni nella Protomoteca del Campidoglio, partecipi
Giuliano Amato e monsignor Angelo Ravasi, non ancora cardinale. Forse
sognava il 150°, che cadrà il 20 settembre 2020. L'iniziativa si perse
per strada. Gli atti del convegno non furono mai pubblicati e Alemanno
ha altri grattacapi. Nel 2011, su impulso del presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano, fu solennemente celebrato il 150°
dell'“unificazione nazionale”. In realtà (nella storia, non meno che
nel diritto, la forma è sostanza) il 17 marzo 1861 venne pubblicata
nella “Gazzetta Ufficiale” la legge in forza della quale, a
maggioranza, il 14 precedente il Parlamento aveva sancito che Vittorio
Emanuele II (di Savoia) assumesse il titolo di Re d'Italia. Il
Parlamento non lo “proclamò”. Riconobbe quanto era nei fatti, avallati
dai plebisciti confermativi delle annessioni votate da assemblee e/o da
poteri provvisori. Lo si legge nel robusto volume curato da Gian Savino
Pene Vidari “I plebisciti del 1860 e il governo sabaudo”
(Ed.Deputazione subalpina di storia patria). Per Re Vittorio
il nuovo titolo era un “anche”. Sovrano per grazia di Dio continuò
infatti a proclamarsi Re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme, Duca
di Savoia, Principe di Carignano, di Piemonte, Oneglia, Poirino, Trino,
Vicario perpetuo del Sacro romano impero (che non esisteva più), duca
di Genova, del Monferrato, del Chiablese, del Genevese, di Piacenza,
marchese di Susa, Ceva, Oristano, conte di Nizza, Tenda, Asti,
Alessandria, Novara, Tortona, Ginevra, Alto signore di Monaco, conte
dell'impero francese (quello di Napoleone I), Nobil Uomo patrizio
Veneto, patrizio di Ferrara e via risalendo e continuando. A Torino i
Re ebbero Palazzo, consiglio della corona, poi consiglio dei ministri,
Camera e Senato. Torino era il centro dell'amministrazione dello Stato,
ma il Re era il Potere ovunque egli fosse poiché era il capo supremo
dello Stato, così come oggi lo è il Presidente della Repubblica, che
rappresenta dell'unità nazionale in qualunque luogo egli si trovi. Camillo Cavour e Giuseppe Regnoli: il “voto” per Roma capitale A
porre il nodo della capitale d'Italia fu Camillo Cavour a conclusione
dell'interpellanza del deputato bolognese Rodolfo Audinot sulla
“questione romana”. Tra i suoi passaggi forti spiccò l'invocazione:
“Noi dobbiamo rivendicare i diritti su Roma capitale naturale d'Italia”
(per “naturale” intendeva storica,“ovvia” e quindi “connaturata”),
“simbolo della nazionalità riconosciuto da tutti”. Il 27 marzo 1861 il
dibattito si concluse con l'approvazione del “voto” proposto da Carlo
Boncompagni di Mombello, emendato dal bolognese Giuseppe Regnoli,
massone e futuro membro della loggia “Propaganda”, come Giosue
Carducci, Aurelio Saffi e altri padri della patria: “La Camera, udite
le dichiarazioni del Ministero, confidando che, assicurata la dignità,
il decoro e l'indipendenza del pontefice e la piena libertà della
Chiesa, abbia luogo di concerto con la Francia l'applicazione del non
intervento, e che Roma, capitale acclamata dall'opinione nazionale, sia
congiunta all'Italia, passa all'ordine del giorno”. Il “voto” non era
una “legge”, ma una speranza. Affinché divenisse realtà occorrevano tre
condizioni: l'assenso del papa, della Francia e degli italiani. Come
nulla fosse. Ne occorreva soprattutto una quarta, fondamentale ma
solitamente ignorata. Il neonato Regno d'Italia tale era per asserzione
della VIII^ Camera del Regno di Sardegna, che si tramutò in I^
Legislatura del nuovo Stato. Sennonché, con buona pace dei
sovranisti digiuni di diritto e di storia, agli Stati per esistere
davvero non basta auto-proclamarsi. Occorre il placet della Comunità
internazionale. All'epoca (1859-1860) questa era il Concerto delle
Grandi Potenze che aveva fissato i suoi pilastri portanti (legittimità
e tradizione) nel Congresso di Vienna del 1815, ribadito nei suoi
canoni fondamentali da quello di Parigi del 1856. Vairano Catena capitale d'Italia? Nel
1861 il regno d'Italia fu riconosciuto da Gran Bretagna, Svizzera,
Stati Uniti e Grecia e basta. Altri Stati (all'epoca tutti imperi o
monarchie) continuavano a riconoscere il regno delle Due Sicilie e la
sovranità del Papa su Legazioni Umbria e Marche. L'Italia, insomma
faticò a salire la china. Fu ammessa per la prima volta in una
conferenza diplomatica internazionale a Londra solo nel 1867, grazie
all'abilità di Isacco Artom, l'ebreo caro a Cavour. Quei precedenti
vanno ricordati al nascente Partito Capitalista d'Italia. Se proprio si
volesse cercare una “capitale” pre-unitaria, essa andrebbe individuata
in Napoli, ove (lo ha ricordato Nico Perrone in saggi su Liborio Romano
e sull'ammiraglio Persano) si svolsero le trame concluse con l'incontro
di Teano, altra possibile “capitale”, perché lì, appunto, il 26 ottobre
1860 Giuseppe Garibaldi salutò “Re d'Italia” Vittorio Emanuele giuntovi
al suono della Marcia Reale, come ricordò Giuseppe Cesare Abba
nell'emozionante conclusione di “Da Quarto al Volturno”. Aggiungiamo
che dal 1982 l'allora sindaco di Vairano Patenora spese passione e
quattrini per certificare che l'incontro decisivo per la storia
d'Italia non avvenne affatto a Teano ma nel suo comune, anzi a Vairano
Catena. Sognava un futuro turistico, ma poi (come si diceva a Parigi
nel 1968) dopo Marx venne Aprile, il giornalista-narratore che accusa i
conquistatori venuti dal Nord di aver fondato un loro PCI, il Partito
dei Carnefici d'Italia: i piemontesi buzzurri, canaglie, piombati dai
crinali alpini, dal litorale ligure e dal famelico Bergamasco per
devastare il Mezzogiorno, un Paradiso terrestre che a suo dire se la
passava benissimo (come oggi, del resto, con due meridionali su tre al
vertice del governo: Conte e Di Maio). I fatti sono stati ora rimessi
in ordine da Giancristiano Desiderio nel succoso saggio “Pontelandolfo
1861. Tutta un'altra storia” (Ed. Rubbettino, candidato al Premio Acqui
Storia). Ubi Rex, ivi Lex Dove era la
capitale? A Torino. Ma che cosa è la capitale di uno Stato? È la
residenza nominale del Capo dello Stato, delle Camere, dei ministeri,
di alcune “centrali” dell'esecutivo e dell'amministrazione. Con la
Convenzione italo-francese del 15 settembre 1864 il governo italiano
decise di trasferirla (nei termini anzidetti) da Torino a Firenze. Il
Re continuò a esercitare il suo Potere (la “sanzione e la firma” dei
decreti e delle leggi) ovunque si trovasse, in uno qualunque dei comuni
d'Italia. Era il Capo di una Dinastia che apparteneva al circuito delle
Famiglie Reali d'Europa e si estendeva ancora al Brasile. Era anche Re
d'Italia, ma in una concezione poco percepita da tanti patrioti
militanti (come poi da molti “storici”). Quando andavano a caccia al
camoscio in Valle Gesso o al cinghiale a San Rossore Vittorio Emanuele
II, suo figlio Umberto e il nipote Vittorio Emanuele III erano Re
d'Italia. Non portavano con sé l'apparenza della capitale (congerie di
Camere e di “uffici”), ma la somma di Auctoritas e di Potestas. Del
pari, quando il 9 settembre 1943 lasciarono Roma per Brindisi, ove
giunsero l'11 seguente, Vittorio Emanuele III e il Capo del governo,
Pietro Badoglio, non trasferirono affatto la “capitale”, che era Roma.
Altrettanto vale per il passaggio del Re da Brindisi a Ravello (non
Salerno). Roma rimase Roma, anche per l'altro “Stato”, la Repubblica
sociale italiana, destinata a scomparire dalla storia se non per certi
effetti “amministrativi”. Anzi Vittorio Emanuele III pose come
condizione per il trasferimento dei poteri al figlio Umberto,
“luogotenente del Re” (non “del Regno” come poi venne decretato) che
esso avvenisse in Roma: perché quella era la “sua” città: simbolo
dell'unità nazionale conseguita il 20 settembre 1870 e col plebiscito
dell'ottobre seguente, recatogli dal duca Michelangelo Caetani di
Sermoneta (massone nella loggia “Universo”,anche se di famiglia
papale). Quando Sella fece i conti con il PCI e con il PIF Accampare
che Brindisi e Salerno abbian funto da “capitali” è dunque privo di
fondamento storico. Se poi si volesse andare in cerca di chi per primo
proclamò un Regno d'Italia occorrerebbe risalire nei secoli, non tanto
a Napoleone I (il cui “regno d'Italia” era l'ex Repubblica italiana,
poi in gran parte divenuto Reich lombardo-veneto dell'Impero d'Austria)
ma ad Arduino, l'episcopicida marchese di Ivrea: più di mille anni fa.
Nell'Italia delle Cento Città (ma almeno tre-quattrocento furono fulcro
di qualche piccolo Stato meritevole di memoria (tutti derivanti dal
Sacro romano imperatore), meglio è accontentarsi di tre capitali
certificate: Torino, Firenze e Roma in sequenza cronologica chiara.
Fermo restando che Roma comprende la Città del Vaticano, uno Stato
sovrano il cui Monarca, suo vescovo in successione all'apostolo Pietro,
non trasferisce la capitale quando visita una borgata o una delle tante
città italiane. Così come non lo fa il Consiglio dei ministri dello
Stato d'Italia quando, per motivi d'immagine più che di sostanza, si
raduna in questa o quella città (solitamente per conclamati motivi di
ordine pubblico o calamità: comunque sempre per sciagure). Anziché
arzigogolare su mai esistite capitali transitorie meglio occuparsi di
Roma e cercare di farla funzionare. Un precedente eloquente: Quintino
Sella, che più di ogni altro nell'estate 1870 volle “Porta Pia” e
l'annessione di Roma e del Lazio all'Italia, non trasferì subito il
ministero delle Finanze da Firenze a Roma. Lo tenne nella città del
Giglio in attesa che fosse costruito il Palazzone, atto a incutere il
senso della serietà dello Stato. E fu li che ebbe a fianco il giovane
Giovanni Giolitti, lo statista che cercò di raddrizzare le gambe
all'Italia. Senza troppo successo. Fece i conti con il PCI dell'epoca:
il Partito dei Camaleonti d'Italia. E con il PIF, il Partito Italiano
dei Pifferai. Suonano e trascinano verso la catastrofe: prima i topi,
poi i bambini.
Aldo A. Mola
L'ANTICRISTO CHE E' IN NOI BENEDETTO CROCE TRA PROGRESSO E “FINE DEI TEMPI”
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 23 giugno 2019, pagg. 1 e 11.
Benedetto Croce: il rifiuto dello “Stato etico” In
“Declino e tramonto della civiltà occidentale” (Ed. Rubbettino)
Giuseppe Bedeschi ripercorre l'angoscia del filosofo e storico
Benedetto Croce all'indomani della seconda guerra mondiale, manifestata
in saggi intrisi di profonda amarezza, al confine con lo scoramento.
“Nel corso e al termine della seconda guerra mondiale – scrisse Croce
in “La fine della civiltà” – si è fatta viva dappertutto la stringente
inquietudine di una fine che si prepara, e che potrebbe nei tempi
attuarsi, della civiltà, o, per designarla col nome della sua
rappresentante storica e del suo simbolo, della civiltà europea”. In
“L'Anticristo che è in noi” stigmatizzò il “distruttore del mondo,
godente della distruzione, incurante di non poterne costruire altro che
non sia il processo sempre più vertiginoso di questa distruzione
stessa, il negativo che vuol comportarsi come positivo ed essere come
tale non più creazione ma, se così si potesse dire, dis-creazione”.
Erano gli “Adelphi della Dissoluzione” indagati da Maurizio Blondet? Croce
era stato profondamente colpito dall'impiego delle bombe termo-nucleari
da parte degli Stati Uniti d'America per piegare il Giappone: quasi
duello simbolico tra l'ordigno accecante e annientatore e l'impero del
Sol Levante, il Satana prodotto dall'uomo e il divino della Tradizione.
Luce che si fa Tenebre, come in tutte le visioni dualistiche, e
contrapposizione tra il Bene e il Male. Croce era ormai lontanissimo
dal pensiero del gigantesco ma sempre più deprecato Hegel, che aveva
condotto a “questo ideale di morte che ora si chiama
'totalitarismo' 'partito unico' e 'obbedienza al partito' frutto della
esaltazione dello Stato”, che si fa “comandatore della vita morale”
coniugandosi “coi più terribili tra i barbarici idoli primitivi,
Moloch, Kemosh, Baal, Jahve, dai quali è provenuto il 'numinoso' che
l'idea dello Stato etico serba e che ai tempi nostri ha rivestito forme
molteplici, forme diverse ed opposte, ma tutte con un che di sacro”. La Guerra: fatalità? Nelle
meditazioni di Croce si intrecciavano pulsioni contrastanti. Nel 1914
era stato fra quanti vennero colti di soprassalto dalla conflagrazione
europea. Gli pareva impossibile che da una lunga rigogliosa epoca di
pace e di progresso in tutti i campi del sapere e della vita civile si
precipitasse in un conflitto generale feroce, disumano, negatore dei
principi ispiratori della “civiltà”. Fatalità? Imprevidenza? Miopia?
Eppure proprio lui pochi anni prima aveva irriso i postulati da due
secoli professati dalla massoneria. Il pacifismo, l'umanitarismo, la
fratellanza a suo avviso erano formule ingenue, “cultura” ottima per
commercianti e maestrucoli di scuola, giacché, egli sentenziava
riecheggiando Eraclito, la storia è sequenza di guerre. L'altro
caposcuola del liberalismo italiano, il liberista Luigi Einaudi, a sua
volta elogiò “la bellezza della lotta” proprio quando questa stava per
giungere al culmine dello scontro fra opposti massimalismi: la sinistra
rivoluzionaria (più a parole che nella capacità e nel dominio dei
mobili di guerra) e il capitalismo dal cuore indurito nel corso della
grande guerra. Il 24 ottobre 1922 Croce non si era perso lo
spettacolo di Benito Mussolini che, orante e imprecante nel teatro San
Carlo di Napoli, preannunciò la mobilitazione per agguantare il potere:
la mai effettuata “marcia su Roma”. Senatore del regno e ministro della
Pubblica istruzione nel V governo Giolitti (1920-1921), votò a favore
del governo Mussolini non solo nei suoi primi vagiti (improntati dal
liberismo di Alberto De Stefani) ma anche dopo l'“affaire Matteotti”,
quando approvò il bilancio dell'Interno. Non vedeva alcuna alternativa
al governo in carica, anche perché chi avrebbe dovuto opporglisi (a
qualunque costo e anche a rischio della vita, come insegnò Giolitti)
aveva disertato l'Aula e si era arroccato nella posizione
politicamente più improduttiva e perdente: l'“Aventino”. Opposizione
anti-sistema ma nel sistema accampata e cresciuta da oltre trent'anni,
la compagine di repubblicani, radical-democratici e socialisti si
attendeva che a risolvere la crisi (di governo, non dello Stato)
intervenisse Vittorio Emanuele III. Già a fine ottobre 1922 il Re si
era trovato pressoché solo a dipanare l'imbrogliatissima matassa della
politichetta governativa perché il presidente del Consiglio, Luigi
Facta, non convocò il Parlamento e si smarrì negli intricati viottoli
di trattative sottobanco con amici e nemici (incluso lo sprezzante
Gabriele d'Annunzio) nell'illusione di succedere a se stesso appagando
Mussolini con un ministero di seconda fila. Se quelli erano i
“Maestri di color che sanno” bene si comprende il disorientamento (o
riorientamento) della generalità dei cittadini cosiddetti “comuni”,
desiderosi solo di ordine pubblico, quiete personale e di un salario o
stipendio sufficiente per campare dopo gli anni della lunga e dura
prova bellica (680.000 morti e più di un milione di feriti e mutilati),
della fame e della guerra civile strisciante. All'opposizione del regime, non contro lo Stato Con
il Manifesto degli intellettuali antifascisti (replica prolissa a
quello, parimenti “accademico” dei fascisti, redatto da Giovanni
Gentile e sottoscritto anche da futuri avversari del regime) Croce
assunse la guida dell'opposizione a un partito che pretendeva di
soggiogare il governo e a un governo che si ergeva a Stato, insomma al
“regime”, capitanato dal “duce”. Negli anni difficili, dal Concordato
tra l'Italia e la Santa Sede, proposto all'opinione pubblica come
gratificante e pacificante “Conciliazione”, sino alla guerra contro
l'Etiopia, scandita da abilissime operazioni mescolanti patriottismo e
fascismo (per esempio l'“offerta dell'oro alla Patria”, cui anche Croce
aderì), come la generalità dei politici anti o a-fascisti il filosofo
imbevuto del pensiero di Giambattista Vico non colse subito la deriva
di Mussolini verso la fatale alleanza con Hitler. Neppure le leggi
razziali del 1938 suscitarono la manifestazione pubblica di opposizione
netta. A differenza di Einaudi, non partecipò al loro voto in Senato,
ove si contarono 10 astensioni su 160 presenti e circa 400 patres. Di
anno in anno, di mese in mese l'Europa, e con essa l'Italia, passò
dalla Conferenza di Monaco (settembre 1938, quando Hitler ottenne
formalmente l'annessione dei Sudeti, politicamente ancor più
emblematica di quella dell'Austria) al patto Ribbentrop-Molotov (ovvero
tra la Germania di Hitler e l'Unione sovietica di Stalin) e alla nuova
conflagrazione europea, poi volta in seconda guerra mondiale (settembre
1939). Pochi ebbero chiaro che il nuovo conflitto era la
prosecuzione del precedente e che l'Italia, giunta ultima e
malvolentieri accolta tra le “grandi potenze”, rischiava di
retrocedere. Nell'introduzione al volume di Vanna Vailati “1943-1944.
La storia nascosta” (Torino, G.C.C., 1986), tra i “Documenti inglesi
segreti che non sono mai stati pubblicati” il generale Luigi Mondini
ricorda il progetto “allucinante” messo a punto dal Foreign Office e
dal War Office britannici che prevedeva la spartizione dell'Italia,
“dandone un pezzo a ciascuno degli Alleati, grandi e piccini. Alla
Grecia venivano date le Puglie e gran parte del Sud; agli Jugoslavi una
fetta che dall'Istria arrivava a Milano; ai francesi l'isola d'Elba, la
Liguria, il Piemonte fino a Milano; agli inglesi la Sardegna, la
Sicilia, la Calabria. Gli americani avrebbero occupato Roma, che
sarebbe stata affidata al Papa”. La spartizione della flotta e delle
colonie avrebbe imbonito l'Unione sovietica. L'Italia, insomma, avrebbe
avuto la sorte della Germania, suddivisa, come Berlino stessa, nei modi
ben noti: una tragedia che si prolungò sino al poco rievocato 1989 e il
cui ricordo basta a spiegare i tremori non solo di Angela Merkel ma di
chiunque conservi memoria della storia di ieri. Vittorio Emanuele III, il traghettatore L'obiettivo
dell'Italia fu di uscire comunque dal conflitto, come rievoca Luigi
Federzoni nel “Diario inedito, 1943-1944” (ed. Pontecorboli). Fra
traversie complesse e in tempi oggettivamente rapidi (poche convulse
settimane, tra ostacoli che parevano insormontabili: a cominciare dalla
diffidenza dei nemici, ostili e divisi) a condurre in porto la
trattativa fu il governo del Re. Con il trasferimento da Roma a
Brindisi (9-11 settembre) esso salvaguardò la continuità dello Stato,
rafforzata dalla dichiarazione di guerra contro la Germania (13 ottobre
1943), pilastro della “ricostruzione”. Fosse o meno gradito, Vittorio
Emanuele III fu a tutti gli effetti l'interlocutore dei vincitori.
Svolse il ruolo insostituibile di traghettatore dell'Italia dalla
rovina alla sopravvivenza. Come nel citato Diario scrisse Federzoni il
24 dicembre 1943, “la monarchia non è una persona: è un sistema”.
L'Italia si era salvata “sia pur tardi e alla meglio, o alla peggio, se
si vuole; ma si è salvata perché aveva ancora un Re. Comprendono oggi
tutto questo i così detti uomini d'ordine? Per molti segni ne dubito.
In non pochi di essi prevale una specie di rancore contro Vittorio
Emanuele III. È il solito personalismo, la solita incapacità di pensare
obiettivamente, vizio incorreggibile di molte donne e di troppi
Italiani che fanno politica”. Avrebbero accettato anche la repubblica.
“Somigliano a chi si gettasse dal tetto, con l'intenzione di fermarsi
al piano sottostante...”. Anziché abbattere la monarchia occorreva
semmai rafforzarla, perché era il bastione contro lo Stato totalitario.
Bisognava perciò tenerla al sicuro dai “monarchisti”, dalla folla di
quanti pretendevano che il re fosse a loro individuale immagine e
somiglianza. Il rancore di Croce contro il Re Tra
gli “uomini d'ordine” che intrapresero una sorta di battaglia personale
contro Vittorio Emanuele III spiccò Benedetto Croce, che il 28 novembre
1943 pronunciò nel chiostro di San Marcellino dell'Università di Napoli
un discorso nel quale chiese pubblicamente l'abdicazione del re “illico
et immediate”. Il 6 dicembre ne prospettò ruvidamente l'esilio: “Non
v'è dubbio che da un regolare processo non potrebbe uscire se non la
condanna del re, violatore dello Statuto e alleato del fascismo nel
danno e nell'onta apportata al popolo italiano. Condannato,
insisteremmo che fosse lasciato libero e allontanato dall'Italia”.
Identici concetti ribadì nelle settimane seguenti e in specie il 28
gennaio 1944 nel congresso dei comitati di liberazione nazionale a
Bari: “Il re non è in grado di formare un ministero, perché gli uomini
che hanno esperienza e reputazione si rifiutano di giurare a lui
fedeltà e temono da lui, e dalla gente che lo circonda, insidie”.
Dissociazione di responsabilità... Non bastasse, il 3 maggio deplorò
pubblicamente l'“intervista” subdolamente carpita al Principe di
Piemonte, Umberto, e pubblicata dal “Times”. Luogotenente del Regno,
questi aveva osservato che nel giugno 1940 nessuno si era opposto alla
dichiarazione di guerra. Croce obiettò che opporsi o chiedere la
convocazione delle Camere sarebbe stato da folli o da imbecilli (sic):
autoassoluzione di un “popolo” che aveva riempito le piazze osannando.
Pur essendo storico di vaglia, non si domandò se quel “documento”
rispondesse pienamente al pensiero del Principe o fosse frutto di
manipolazione. Nel “Saluto all'Italia liberata” (5 giugno 1944) il
filosofo aggiunse che gli italiani erano ora liberati anche dalla
“ardua e penosa questione della persona del re” e forti di un
“ministero democratico, formato dai rappresentanti di tutti i
partiti...”. La realtà si rivelò subito molto diversa da come
l'aveva immaginata. Nel primo numero di “Rinascita”, la rivista del
Partito comunista italiano, Palmiro Togliatti sparò a palle incatenate
contro Benedetto Croce, liquidandolo quale silenzioso connivente del
regime. Il filosofo non prese più parte dalle sedute del Consiglio dei
ministri. Il progresso e il suo contrario Sarebbe
soverchiamente lungo ed esula dall'economia di un articolo per questo
Solstizio d'Estate ripercorrere gli ideali, le passioni e talvolta gli
umori che danno vigore agli scritti crociani tra l'amaro risveglio
dell'estate 1944 e il 1946, quando, con lo spettro dello stalinismo,
gli si parò dinnanzi l'incubo della fine della civiltà europea. Non gli
fu facile ammettere che a difenderla fosse un politico pragmatico come
Harry Truman, grado 32° del Rito scozzese antico e accettato, il
presidente degli Stati Uniti d'America che non aveva esitato a far
sganciare due bombe atomiche sul Giappone e che non avrebbe esitato a
cannoneggiare Tito se i comunisti jugoslavi avessero superato la linea
fissata per la loro non apprezzata avanzata verso occidente. Le
meditazioni di Croce non furono comunque improntate solo al cupo
pessimismo dell'“Anticristo che è in noi”, classificato quale “tendenza
dell'anima”. “L'uomo - egli osservò – accetta la morte e la desidera al
termine della vita operosa, ma non mai si rassegna al pensiero della
fine della civiltà nella quale è nato, si è educato, ha lavorato ed ha
amato e si è travagliato. Egli vorrebbe che quel mondo continuasse...”.
Gli pareva però che anche il “progresso” fosse poco più che uno
“stato d'animo”, più pulsione emotiva che ideale o persino Idea. Se poi
convenne che “la storia è sempre storia di progressi”, confutò però
l'interpretazione della storia quale “corso predeterminato”, spiegabile
con una causa univoca e affermò che essa è comunque sempre opera umana,
quasi un “la storia siamo noi”: conclusione che non richiede speciale
formazione filosofica e che serpeggia nell'animo di ciascuna persona,
più o meno consapevole di sé. Non approdò mai alla serenità di chi
vive nella leopardiana consapevolezza che “tutto al mondo passa e quasi
orma non lascia”, che i barbari barbari sono e il loro avvento non è
redenzione ma rovina e che felicità suprema per la persona saggia è di
non morire tra efferate torture ma, semmai, di finire porgendo il
pugnale al consorte come la matrona Arria Maggiore al marito con la
mesta esortazione: “Paete, non dolet”. Quelli erano Stoici. Mai
avrebbero scritto “perché non possiamo non dirci cristiani”. Erano
Pagani. Un altro mondo, non corroso dall'idea di progresso: capace di
gustare la bellezza della vita nella serena contemplazione della morte.
Aldo A. Mola
GIUGNO 1940 – MAGGIO 1945 CINQUE ANNI SOTTO LE BOMBE E GUERRA CIVILE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 16 giugno 2019, pagg. 1 e 11.
GIUGNO 1940: IL NORD-OVEST SOTTO LE BOMBE L'anniversario
è passato sotto silenzio. Invece agli smemorati per opportunismo e a
quanti forse neppure lo sanno va ricordato che il 10 giugno 1940
il capo del governo, Benito Mussolini, comunicò dal balcone di Palazzo
Venezia che l'Italia aveva dichiarato guerra alla Francia e alla Gran
Bretagna. Chiamate a raccolta in tutte le piazze, le folle plaudirono.
Al duce che domandava “Volete burro o cannoni?” gli italioti
rispondevano: “Cannoni”. Dimenticare e ignorare fa male. Ricordare no.
Può aiutare a non sbagliare un'altra volta, a non mettersi invano
contro chi è più forte. “Ex uno disce omnia...”. La tragica
sorte dell'Italia sotto i bombardamenti angloamericani non iniziò con
quello su Roma del 19 luglio 1943, considerato apocalittico perché
tutti credevano che la Città Eterna fosse al sicuro grazie
all'inviolabilità della Città del Vaticano e alla sacralità universale
dei suoi monumenti. La catastrofe cominciò all'una e 35 minuti del 12
giugno 1940. Alcuni Whitleys britannici decollati dallo Yorkshire e
dalle isole normanne con volo per i tempi ardito giunsero a bombardare
Torino. Rovine, 11 morti e panico. Il 17 giugno aerei francesi partiti
da Salon de Provence per colpire la stazione ferroviaria di Cuneo,
militarmente irrilevante, la sbagliarono di mezzo chilometro. Quindici
bombe caddero nei pressi della “Chiesa Nuova”. Non esplosero. Furono
esposte in bella mostra per provare che il nemico era innocuo.
L'indomani un altro bombardamento francese mancò clamorosamente
l'aeroporto di Levaldigi, suo obiettivo. E L'AERONAUTICA ITALIANA? L'armistizio
italo-francese di Villa Olgiata (24 giugno) era ormai imminente.
Francia e Italia non volevano farsi troppo male. L'avanzata degli
italiani si arrestò a Mentone. Ne scrisse sapidamente Italo Calvino,
studiato da Luca Fucini. Chi sapeva leggere i fatti constatò
che nessun aereo italiano tentò di bombardare la Francia. Meno ancora
la “perfida Albione”. La difesa antiaerea si era rivelata incapace di
intercettare il nemico. Infine l'UNPA (Unione nazionale protezione
antiaerea) era ancora lontanissima dal prendere corpo. Roma scommise
sulla “guerra lampo”. Poiché tutto ha un costo, in specie
l'allestimento dei rifugi blindati (pubblici, collettivi e singoli:
tutti molto al di sotto dello stretto indispensabile) e la messa in
sicurezza di stabilimenti industriali, centrali elettriche e monumenti
di speciale rilievo, si sperò che la guerra finisse prima di
cominciare. Nella generalità del Paese, del resto, quel giugno 1940
passò senza speciale patema d'animo, come documentano giornali e
trasmissioni radio del tempo. I fortunati che già non erano in vacanza
progettavano dove andarci. Eppure dall'agosto dell'anno precedente
l'Europa era in guerra, a lungo stagnante, ma alternativamente
violentissima e micidiale. LA SECONDA ONDATA: TORINO DICEMBRE 1942 L'armistizio
non chiuse affatto il conflitto. L'aviazione inglese continuò a colpire
duramente l'Italia, senza sorvolare la Francia, parte occupata dalla
Germania, parte sotto controllo del Maresciallo Pétain, non alleato di
Berlino ma neppure in guerra contro Londra. Lo scenario mutò
drasticamente nel dicembre 1941 con l'intervento degli Stati Uniti
d'America contro il Giappone e a fianco della Gran Bretagna. Dopo
l'operazione Torch (cioè lo sbarco in Marocco e Algeria, quando ormai
le forze italo-germaniche in Africa erano pressoché sgominate),
Piemonte e Lombardia tornarono bersaglio precipuo, perché erano
il fulcro della produzione industriale e quindi retroterra della
difesa. Ogni dubbio fu spazzato la notte dell'8 dicembre 1942. Dopo
numerosi attacchi e allarmi, Torino subì uno spaventoso bombardamento
“a tappeto” da parte della britannica RAF, che colpì soprattutto
stabilimenti industriali ed edifici civili. Causò oltre 200 morti,
altrettanti feriti e danni gravissimi ai maggiori impianti produttivi,
a cominciare dalla sede della Fiat al Lingotto. Il comando inglese
elogiò l'impresa come la più efficace dell'intero anno. L'intento
terroristico era chiaro: evidenziare l'inferiorità della difesa
italiana, suscitare il panico nella popolazione, spingerla a sfollare
nei centri minori con enormi disagi quotidiani, mettere a soqquadro la
rete di distribuzione dell'energia elettrica proprio alle soglie
dell'inverno e dei rifornimenti dei generi di prima necessità. In un
Paese ove i consumi già erano razionati il malcontento presto sarebbe
dilagato e si sarebbe tradotto nella richiesta popolare di pane e pace,
come si vide con gli scioperi del marzo 1943, che presero in
contropiede non solo Mussolini ma anche i partiti antifascisti,
comunisti inclusi, che cercarono di cavalcare l'onda ma ne non furono
affatto i motori. LA MISSIONE POLITICA DI ENRICO CUCCIA A LISBONA: Nel
maggio dello stesso 1942 Enrico Cuccia, genero del potentissimo Alberto
Beneduce (antico massone, presidente dell'Istituto per la Ricostruzione
Industriale e demiurgo della Banca d'Italia e della grande finanza
dall'inizio degli Anni Trenta), nel corso di una missione a Lisbona per
motivi connessi al suo ruolo di alto dirigente della Banca Commerciale
Italiana, tramite il diplomatico statunitense George Kennan fu latore
di un messaggio riservato di due esponenti del neonato Partito
d'azione, Ugo La Malfa e Adolfo Tino, per Carlo Sforza, già ministro
degli Esteri nel V governo Giolitti (1920-1921), senatore del regno
d'Italia, Collare della Santissima Annunziata (e quindi “cugino del
re”), mai dimissionario da alcun titolo e rango né “radiato” o privato
di quelli conferitigli. Il Partito d'azione informò che voleva
rovesciare il regime fascista e la monarchia: non il sovrano in carica,
Vittorio Emanuele III, Inviso anche per le leggi razziali del 1938, ma
l'istituto monarchico stesso, vivaio di governi reazionari. Il primo
dei “Sette punti” elaborati e concordati nel luglio 1942 dai suoi
fondatori recita: “La prolungata abdicazione degli istituti monarchici
- corresponsabili con il fascismo della rovina del paese – legittima la
inderogabile esigenza di un regime repubblicano...”. Sforza, come la
Mazzini Society di New York, i massoni Randolfo Pacciardi e Alberto
Tarchiani, Gaetano Salvemini e molti esuli italiani oltre Atlantico e
in Inghilterra accolsero con entusiasmo quel pronunciamento. La
monarchia era stata sempre bersaglio di comunisti e socialisti,
uniti nel patto di unità d'azione. Ma i partiti di estrema sinistra non
incontravano soverchie simpatie a Londra e nessuna negli USA. Il PdA,
invece, si proponeva ed appariva quale partito della borghesia operosa,
riformatrice, “occidentale”. Esso lasciava intravvedere il rinnovamento
ab imis dell'Italia senza condizionamenti né da parte dei cattolici
(notoriamente sospettosi nei confronti degli USA, che ancora non
riconoscevano la Santa Sede quale Stato) né dei “liberali”, che, poi
asserì Benedetto Croce, consideravano i fascisti una temporanea
“invasione degli Hyksos”, dopo la quale sarebbe tornata la pax interna,
incardinata sull'Istituzione che “aveva fatto l'Italia”. I suoi
tormenti sono ora passati in rassegna da Eugenio De Rienzo in Benedetto
Croce. Gli anni dello scontento, 1943-1948 (Ed. Rubbettino). Venne
ripetutamente insinuato, ma non è mai stato provato, che tramite la
missione di Cuccia a Lisbona o altri canali e in altri momenti il PdA
in quanto tale abbia anche sollecitato gli anglo-americani a colpire
l'Italia dal cielo per metterla definitivamente in ginocchio, aprire la
crisi del regime fascista e clerico-monarchico e determinare l'avvento
di un governo capace di guidare la ricostruzione morale e materiale del
Paese, col sostegno (o tutela, o dominio) dei vincitori, senza i quali
“minoranze illuminate” con modesto seguito elettorale non
avrebbero potuto o possibile fronteggiare il futuro. In realtà
Roosevelt e Churchill non avevano bisogno di suggerimenti da parte di
nessuno su quando, come e dove colpire l'Italia, per squassarla e
costringerla alla resa. Per di più il PdA voleva la nazionalizzazione
dei “grandi complessi finanziari, industriali e assicurativi e in
genere di quante imprese hanno carattere di monopolio e rilevante
interesse collettivo”: obiettivo che avrebbe intralciato la
sottomissione del potere reale di un Paese destinato alla sconfitta
militare e al declassamento politico da grande potenza a “provincia
dell'impero”. Sapevano invece di poter contare su uomini che avevano
fiancheggiato Mussolini sino a guerra inoltrata ma ora se ne
dissociavano. Era il caso di Pietro Badoglio. Duca di Addis Abeba,
ormai sicuro che l'Asse non avrebbe vinto la guerra, questi non era più
“fedele a Casa reale” e voleva “al momento giusto, prendere il
potere e costituire un governo militare”. LA TERZA RISOLUTIVA ONDATA E L' “INFORMAZIONE” Il
colpo di Stato del 25 luglio 1943, la sostituzione di Mussolini con
Badoglio e l'accelerazione delle trattative del nuovo governo per
ottenere la “resa senza condizioni” per salvare la monarchia quale
garante della continuità dello Stato e dell'esecuzione dei diktat dei
vincitori, furono scanditi dalla raffica più violenta di bombardamenti
aerei sulle maggiori città dell'Italia settentrionale. Badoglio esortò
gli esponenti dei partiti antifascisti a capire che l'Italia era tra la
dura incudine dell'occupazione germanica strisciante e il pesante
martello dell'aviazione anglo-americana. Con il grosso delle forze
armate disseminate all'estero (Grecia, Balcani, Provenza...) o in corso
di riorganizzazione (i reduci dal fronte russo) essa non era in grado
né di contrattaccare né di difendersi. Dopo l'annuncio dell'armistizio,
diramato nelle note drammatiche circostanze, e l'ordine impartito
all'Aviazione militare di trasferirsi nei campi assegnati, gli
anglo-americani mirarono a ottenere il massimo di informazioni sulla
rete difensiva e produttiva della nascente Repubblica sociale e dei
tedeschi nell'Italia centro-settentrionale. Allo scopo utilizzarono
tutti i referenti a contatto con il SOE britannico e l'OSS
statunitense, le due reti in serrata competizione. Contrariamente
a quanto da molti asserito, gli anglo-americani e i rispettivi
“servizi” uti singuli poco si fidarono delle formazioni partigiane di
matrice esplicitamente partitica, in specie dei “garibaldini” i cui
commissari politici erano l'avanguardia dell'Unione Sovietica. Se
l'Italia (anche grazie all'armistizio) era sicuramente assegnata
all'“Occidente”, la costituzione di un forte partito comunista di massa
(come poi propugnato e avviato con la “svolta partecipazionistica” di
Palmiro Togliatti al suo rientro in Italia nel marzo-aprile 1944)
sarebbe stata comunque una pericolosa spina nel fianco del nuovo
regime. Gli anglo-americani privilegiarono invece rapporti con le
formazioni “autonome” sia monarchiche sia di non dichiarato
orientamento sulla questione istituzionale ma capitanate da militari.
In quel panorama il Partito d'azione e le formazioni “Giustizia e
Libertà” figurarono come il meno sta nel più. Ai “partigiani” gli
anglo-americani chiedevano ragguagli precisi per interventi altrettanto
mirati. Ogni loro missione di collegamento, come ogni intervento dal
cielo richiedevano lunga preparazione e comportavano un costo elevato
di mezzi e l'impiego di uomini di alta professionalità, talvolta senza
ritorno. Gli accordi del dicembre 1944 tra gli anglo-americani e il
Comitato nazionale di Liberazione Alta Italia, mediati dal governo
presieduto da Ivanoe Bonomi, resero ancora più chiaro il “patto” tra
Alleati e guerra partigiana. Contro l'ingente finanziamento del Corpo
Volontari della Libertà comandato da un generale di comprovata
competenza quale Raffaele Cadorna (che ebbe per “vice” l'azionista
Ferruccio Parri e il comunista Luigi Longo), ai partigiani fu chiesta
la massima collaborazione secondo direttive analitiche, più volte
ribadite. Lo sbarco americano in Provenza (15 agosto 1944),
l'arresto dell'avanzata anglo-americana sulla linea gotica (“proclama
Alexander”, novembre 1944), il repentino tracollo delle “repubbliche
partigiane” (clamorosi i fallimenti di quelle dell'Ossola e di Alba),
il “rientro” nelle città di tanta parte di giovani (propiziato
dall'“amnistia” del 28 ottobre 1944) e la pianurizzazione o
trasferimento dalle alte valli a meno inospitali zone collinari di
ormai esigui reparti partigiani accentuarono l'importanza strategica e
tattica delle incursioni aeree anglo-americane, sia per aviolanci di
armi, danaro e provviste, sia per bombardamenti di presidi militari
nemici e soprattutto delle infrastrutture (in specie la rete
ferroviaria, i convogli in transito, i magazzini…). In tale ambito
il concorso delle formazioni partigiane non venne organizzato sulla
base della loro matrice ideologico-partitica ma sul piano
dell'efficienza. In Piemonte, per esempio, svolse ruolo eminente il
“Servizio X” incardinato nella III Divisione autonoma “Alpi” (o “R”,
cioè Ricostruzione), allestito da un antifascista di lungo corso quale
l'ancor giovane avvocato Giocondo (Dino) Giacosa e da Aldo Sacchetti,
un ufficiale rientrato in Italia con la IV Armata, poi autore di
Un romano tra i ribelli. QUANDO GLI ALLEATI RIFIUTARONO DI BOMBARDARE CUNEO Nei
primi mesi del 1945 i bombardamenti aumentarono in frequenza, volume di
ordigni sganciati e numero di vittime causate. Sarebbe però errato
ritenere che abbiano centrato bersagli militarmente rilevanti. Per
esempio, malgrado numerosi tentativi, il Viadotto Littorio di Cuneo
(monumentale ponte ferrostradale sulla Stura, ideato in età
giolittiana) non fu mai colpito. Il 28 agosto 1944 fu centrato
l'Ospizio dei cronici (22 vittime tra ricoverati e suore) anziché una
caserma. In un caso abbiamo la certezza documentata della
sollecitazione di un attacco aereo da parte di un autorevole militante
del PdA, il geometra Ettore Cosa, comandante della V Zona del Cuneese,
designato sindaco del capoluogo provinciale. Il 27 aprile reparti di
“Giustizia e Libertà” attraversarono a guado la Stura e si attestarono
alla periferia della città. I tedeschi tennero libere le strade
principali per consentire la ritirata in assetto di guerra della XXXIV
Divisione dal crinale liguro-piemontese verso la destinazione assegnata
nel corso delle trattative a Caserta tra germanici e anglo-americani.
Gli scampati di una piccola Squadra di Azione Partigiana (SAP), mandata
allo sbaraglio, dopo aver subito perdite gravissime bussarono alla
porta della questura, per chiedere alla polizia di unirsi a loro per
“prendere la prefettura”. Il vicecommissario Pietro Benigni rispose
lapidario: “Io sono un commissario di Pubblica Sicurezza della RSI e
non posso arrendermi a voi. Se arrivano le truppe americane mi arrendo
a loro. Se arrivano i tedeschi vi consegno a loro”. Per
spezzare la resistenza avversaria Rosa chiese allora al tenente Paolo
Buffa (in realtà Paul Barton, ufficiale di collegamento della Special
Force), da tempo operante come responsabile della Missione Siamang I,
di chiedere via radio agli aerei alleati di stanza a Nizza di
bombardare Cuneo per sloggiarne tedeschi e “repubblichini”. Il 27
aprile Barton inviò il messaggio n. 196. “Nizza” rispose che il cielo
era nuvoloso. Non era il caso di rischiare aerei e uomini in una guerra
ormai finita. In quel teatro l'avversario sarebbe caduto “per manovra”.
Gli americani picchiarono duro invece nel Veneto, causandovi rovine e
vittime, in linea con il bombardamento anglo-americano “pedagogico” su
Dresda del 26 aprile 1945. GUERRA ETICA? Nel
marzo 2001 l'antico agente S-2 Carlton M. Smith rilasciò un'ampia
dichiarazione sulle missioni compiute: “Eravamo in guerra... Non si
poteva ignorare che morivano anche i civili… Personalmente non ho mai
avuto problemi morali… Esiste forse qualche differenza fra morire
durante un bombardamento o a causa della bomba atomica?” Etica e guerra
erano e sarebbero rimaste inconciliabili. La documentazione prova
che la sconfitta, la resa, la guerra civile e il disastro
seguente non furono frutto di un complotto pluto-giudaico-massonico
ordito da cospiratori interni in combutta con Poteri Forti esteri ma
fatale conseguenza del calcolo errato di chi aveva voluto l'ingresso in
guerra e ne scontò infine le tragiche conseguenze.
Aldo A. Mola
DALLO STATUTO ALBERTINO ALLA COSTITUZIONE CORNICE E SOGGETTI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 9 giugno 2019, pagg. 1 e 11.
Capo dello Stato, capitani e capi-popolo ieri e oggi
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando dichiara,
epigrammatico e allusivo, e soprattutto quando osserva, distaccato e
silente, sempre più evoca Carlo Alberto di Savoia, il sovrano che il 4
marzo 1848 promulgò lo Statuto del Regno di Sardegna. Identiche le loro
virtù teologali, Fede, Speranza e Carità. Uguale la compostezza. E quel
velo di arcana mestizia che trapela anche quando il volto sorride a
labbra strette. Entrambi rappresentano il passaggio da uno ad altro
Ordinamento dello Stato. Quello varato da Carlo Alberto durò un secolo.
Il Presidente Mattarella regge il timone della Nave Italia, repubblica
da appena 71 anni. È il nocchiero di cui il Paese ha bisogno, mentre i
venti di tempesta rafforzano. Oggi non sono in discussione un governo,
una maggioranza, poltrone varie. Sotto l'infuriare della tempesta
stridono le funi e gemono i legni dello Stato. Reggeranno? Gli
ufficiali di bordo conoscono la rotta? Ascoltano e capiscono gli ordini
del Condottiero? Di sicuro tanta parte della ciurma alle urne fa
l'“ammuina”, correndo tumultuosa da un capitano a un capo fazione,
tutti “nomi” estranei alla nobile tradizione durata dalle “Vite
Parallele” di Plutarco ai “Rerum Gestarum” di Ammiano Marcellino.
Aprendo la rievocazione di Camillo Cavour nell'avito Castello
di Santena (Torino) il 6 giugno Nerio Nesi, presidente della Fondazione
intitolata al Gran Conte, bene eretto dall'alto dei suoi 94 anni, ha
detto che, pur avendone viste tante, per la prima volta è davvero
preoccupato per le sorti del Paese: l'Italia, aggiungiamo, costruita
dai Re, dai loro ministri, da una miriade di patrioti che avevano
imparato a sentirsi italiani durante secoli di dominio straniero:
Asburgo, Borbone, incursioni di “saraceni”, venturieri..., tutti in
vario modo collusi coi papi che non solo condannavano alle fiamme
eterne le anime dei miscredenti e dei devoti di altre confessioni
cristiane ma ne perseguitavano i corpi (e questa era ed è sempre una
seccatura, anche se non si finisce sul rogo). La Costituzione nacque come Venere dalle acque? Vi
è una differenza profonda tra la Costituzione della Repubblica e lo
Statuto Albertino. Mentre altre grandi Carte, incluse quelle dell'ONU e
dei Diritti universali dell'uomo, sono precedute da un Preambolo
motivante, quella vigente in Italia si apre “ex abrupto” con i principi
fondamentali: “L'Italia è una repubblica democratica, fondata sul
lavoro. La sovranità appartiene al popolo...”. Come Venere sorgente
dalle acque, essa enuncia, afferma e ammicca. Dichiara, per esempio,
che “l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà
degli altri popoli...”. Non ci voleva molto per uno Stato uscito a
pezzi dalla Seconda guerra mondiale. Pagava il prezzo del dilettantismo
di Benito Mussolini che “sua sponte” dichiarò guerra all'Unione
Sovietica e agli Stati Uniti d'America come fossero Montecarlo e
Seborga, ma non riuscì mai a mettere le mani su Malta e perse in poco
tempo l'Africa Orientale Italiana. La Costituzione del 1° gennaio 1948
lascia tra parentesi la storia. Solo nelle Disposizioni transitorie e
finali essa mescola passato prossimo e remoto, come fossero tutt'uno:
un “mondo” da condannare e da dimenticare. Interdice agli ex re di Casa
Savoia, alle loro consorti e discendenti maschi l'ingresso e il
soggiorno nel territorio nazionale, senza spiegarne il perché; e vieta
“la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito
fascista” (ma non precisa se si tratti di quello sorto nel congresso di
Roma del 1921, quello al potere dal 30 ottobre 1922 in una coalizione
comprendente tutti i partiti costituzionali o del Fascista repubblicano
del 1943, quasi i tre siano stati una medesima cosa). Di sicuro vi è
che con la XIII disposizione transitoria e finale la Repubblica
riconosce la legge salica, vigente dall'origine in Casa Savoia, e
implicitamente la ritiene immutabile (è un segno di rispetto per le
leggi della dinastia che risalgono a fine Settecento, checché ne
pensino certi “monarchisti”, già deplorati da Luigi Federzoni nel
“Diario inedito” ora pubblicato da Pontecorboli). Diversamente avrebbe
vietato l'Italia anche alle Principesse. Come noto, la Repubblica
“scordò” di esiliare il Principe Amedeo di Savoia, duca di Aosta,
figlio di Aimone, già duca di Spoleto, a sua volta invece esule in
Argentina e morto quando l'erede era infante, e sua madre, Irene. Ne
scrivono lo stesso Principe Amedeo, Capo della Real Casa di Savoia, e
Danila Satta in “Cifra Reale” (ed. La Compagnia del Libro). A chi gli
rimproverò di averli “dimenticati” Alcide De Gasperi rispose che la
Repubblica non poteva aver paura di una vedova e di un bambino di
cinque anni... Ne aveva invece molta di Re Umberto e doveva averne
ancor più di più di se stessa, di quanti, spesso in nome della
sovranità del popolo, vi si incistarono e piano piano ne succhiarono la
linfa vitale sino a renderla qual è: disertata alle urne dal 50% degli
aventi diritto al voto e isolata da quell'Europa che pur non manca
occasione per celebrarne maestosità, bellezza, sacralità. Valga a
conferma che da duemila anni la Chiesa cattolica e apostolica è romana
ancora. Lo Statuto albertino: “ grazia di Dio” per l'“itala Corona” Di
tutt'altro tenore è lo Statuto Albertino. La sua premessa è un prodotto
alchemico: unisce teo-teleologia e percezione pragmatica delle
incombenze. Come le doppie finestre di un tempo si aprivano l'una verso
l'interno l'altra verso l'esterno, così è lo Statuto. Di mezzo vi è il
Re. Per comprenderne la complessità basta scorrere le poche righe del
suo Preambolo. Carlo Alberto, “per la grazia di Dio re di Sardegna,
prendendo unicamente consiglio dagli impulsi del suo cuore” deliberò
“in mezzo agli eventi straordinari che circondano il paese” di
“conformare le sorti dei regnicoli alla ragione dei tempi”. Sicuro
delle tante prove di fedeltà date dal popolo (sic) alla “itala sua
Corona” (itala, non piemontese o “sarda”), il Re decise dunque di
varare “larghe e forti istituzioni rappresentative”. Non si trova nulla
di analogo nelle altre Carte promulgate o votate nel 1848-1849 a
Napoli, a Palermo, a Firenze, nella Roma di Pio IX. Anche la tanto
celebrata costituzione “mazziniana” del 2 luglio 1849 dichiara
costituito in repubblica democratica lo “Stato romano”, non l'Italia.
L'itala opzione dello Statuto Abertino precedette di pochi giorni
il regio decreto con il quale il re sostituì la coccarda azzurra, “sola
bandiera nazionale”, con il “tricolore italiano”, per “viemmeglio
dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione italiana”. Dal
1° gennaio 1948 ne venne strappato lo “scudo di Savoia”, ma il
tricolore rimase e rimane contro ogni fatua negazione della storia.
Sempre più, anzi, esso torna a campeggiare nei modi e nei luoghi più
disparati... Il cambio drammatico Con
lo Statuto albertino il Regno di Sardegna si trasformò da monarchia
consultiva e amministrativa in monarchia rappresentativa, come ricorda
una miriade di studiosi di fama: Emilio Crosa, Mario Viora, Carlo
Ghisalberti, sino a Isidoro Soffietti e Gian Savino Pene Vidari, che ne
scrissero vent'anni orsono, seguiti poi da Domenico Fisichella e altri
molti. A riproporre il confronto tra lo Statuto Albertino e la
Costituzione Italiana è ora un convegno organizzato dal Gruppo Croce
Bianca, presieduto da Alessandro Cremonte Pastorello, nel 25° della sua
fondazione, con relazioni di Aldo G. Ricci, sovrintendente emerito
dell'Archivio Centrale dello Stato, e di Tito Lucrezio Rizzo, già
Consigliere per la Sicurezza della Presidenza della Repubblica (*).
Nessun feticismo, dunque, ma una “esortazione alla storia”, per dirla
con Ugo Foscolo. La firma dello Statuto avvenne in una scena
solenne e drammatica. Carlo Alberto (oltre due metri di altezza,
silente, emaciato dai ricordi...) siglò con mano ferma il testo, messo
a punto dal “Conseil de Conférence”, presenti tutti i suoi componenti.
I verbali dei lavori (quattro sedute in poche settimane), redatti in
francese e firmati dal conte Radicati (nel 1945 pubblicati dallo
storico Giorgio Falco) esplicitano la concitazione e al tempo stesso la
consapevolezza dell'urgenza di mettere al sicuro la Corona quale
sintesi dello Stato. “Videant consules ne quid detrimenti res publica
capiat...” Lo Statuto introdusse i capisaldi del patto tra il
sovrano e i “regnicoli”, scandito dagli 84 articoli della “legge
fondamentale perpetua e irrevocabile della monarchia”: potere
legislativo collettivamente esercitato dal Re e da due Camere, composte
l’una, di senatori di nomina regia e vitalizia e l’altra, di deputati
da eleggere secondo una legge da scrivere; regolamentazione (futura)
delle istituzioni comunali e provinciali; inamovibilità dei magistrati,
inviolabilità dei diritti individuali. Suo cardine fu l'articolo 24:
“Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo e grado, sono eguali
dinnanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e
politici, e sono ammessibili alle cariche civili e militari...”. I
cittadini potevano compartecipare alla vita pubblica e alla gloria
dello Stato. Perciò dal 17 febbraio erano già state e subito dopo
vennero abolite tutte le discriminazioni per i cittadini valdesi e
israeliti. Il Re Magnanimo Ma chi era Carlo Alberto? Nato
a Torino il 2 ottobre 1798 da Carlo Emanuele principe di Carignano e da
Maria Cristina Albertina principessa di Curlandia, orfano di padre a
due anni, non sempre accudito dalla madre, conte dell'Impero dei
Francesi con maggiorasco a quindici anni, dragone di Napoleone I, Carlo
Alberto venne tenuto in serbo dalla dirigenza sabauda descritta da
Walter Barberis, storico non sospetto di indulgenze filo-monarchiche.
Lo fecero intendere i cinque volumi dell'“Histoire militaire du
Pìémont” di Alessandro Saluzzo di Monesiglio. La forza del Piemonte,
che “fa grado”, era stata mostrata per secoli nella capacità di
battersi per la propria identità. Segnato da quelle vicende angosciose,
il principe aveva due scelte: il pessimismo più cupo o affidarsi alla
Provvidenza. Il Congresso di Vienna (tradizione e legittimità) lo
designò erede della corona sabauda in forza della legge salica. Carlo
Alberto, principe di Savoia- Carignano, parente di tredicesimo grado
dei tre fratelli che si erano susseguiti al trono subito prima di lui
(Carlo Emanuele IV, Vittorio Emanuele I e Carlo Felice) e fratelli
voltò le spalle il pessimismo e optò per la Grazia di Dio, la
Provvidenza. Nel marzo 1821 concesse la spagnola “Costituzione di
Cadice” con la riserva della libertà dei culti ammessi. Era
l'anticipazione dello Statuto di trent'anni dopo. Mortificato da Carlo
Felice, relegato a Firenze, poi in Spagna contro i liberali, nella
lunga vigilia della Corona sempre più si radicò nella certezza del
proprio destino: attendeva il suo Astro. Da Re (1831) operò anno dopo
anno a innovare lo Stato dall'interno. Lo descrisse bene Luigi Des
Ambrois de Nevache, che visse quella lunga esperienza, e lo ha narrato
lo storico Narciso Nada in pagine insuperate. La redazione e la
promulgazione dello Statuto non avvennero sotto l'onda di rivoluzioni
eterogenee. Furono l'approdo del lungo processo che candidò il Regno
sardo, esso solo, a guida della lotta per l'indipendenza, l'unità e la
libertà degli italiani da secoli di dominazioni straniere. Appena
il re ebbe firmata la Carta, il conte Giacinto Borelli, ministro
dell'Interno, annunciò le dimissioni del Consiglio di Conferenza. Aveva
coronato la sua missione. Il Re si mostrò fortemente contrariato. I
Consiglieri, uno per uno, gli baciarono la mano. Carlo Alberto li
abbracciò, uno alla volta. Furono minuti di alta commozione. Lì si
posero le basi della storia d'Italia. Due settimane dopo il regno
dichiarò guerra all'Impero d'Austria. Nel 1859 ottenne il Ducato di
Lombardia, poi i Ducati padani, le Legazioni pontificie, la Toscana,
Umbria e Marche, il regno delle Due Sicilie. Nacque il regno d'Italia.
Vinto in battaglia a Novara il 23 marzo 1849, esule a Oporto, Carlo
Alberto morì il 28 luglio. Si scusò con l'archiatra di corte Alessandro
Riberi inviatogli dal figlio, Vittorio Emanuele II: “Le voglio bene
Riberi, ma muoio”. È sepolto a Superga. Cent'anni di Statuto e la “Volontà della Nazione” Lo
Statuto resse a prove durissime. Dalla sua promulgazione al 1849 si
susseguirono sette diversi governi, presieduti da Cesare Balbo, Gabrio
Casati, Cesare Alfieri di Sostegno, Ettore Perrone di Sanmartino (morto
nella battaglia di Novara), Vincenzo Gioberti, teologo, Agostino
Chiodo, Gabriele de Launay. Presidente dal 7 maggio 1849 Massimo
d'Azeglio ispirò il Proclama di Moncalieri (novembre) con il quale il
Re chiese agli elettori di votare una Camera ragionevole: per risalire
la china bisognava firmare la pace con l'Austria. Iniziò l'età di
Cavour e del centro-sinistro con Urbano Rattazzi. Seguì di tutto:
l'annessione di Roma nel settembre 1870, la rinnovata scomunica del re
e dei suoi uomini da parte di Pio IX (per il quale Risorgimento e unità
d'Italia erano frutto di un complotto massonico: e c'è ancora chi lo
crede), il passaggio dalla Destra alla Sinistra, la politica coloniale
di Depretis e Crispi, il regicidio di Monza, l'età giolittiana, la
Grande guerra... Lo Statuto resse alle procelle, incardinato sui pochi
robusti pilastri: l'elettività alle cariche pubbliche, l'indipendenza
dell'ordine (non potere) giudiziario, la fedeltà delle Forze armate e
dei pubblici impiegati, il profondo e sempre più diffuso “senso dello
Stato”. Se c'è qualche cosa da rimpiangere di quel passato è che esso
non sempre è abbastanza presente e vivo. Il 17 aprile 1861 il
Parlamento nazionale deliberò a larga maggioranza che i regi decreti e
le leggi sarebbero state firmate dal Re “per grazia di Dio e volontà
della Nazione”. Lo Statuto però rimase immutato. In colloqui riservati
anche Vittorio Emanuele III si dichiarò convinto che i re tali erano
per volontà divina. Impersonavano un destino imperscrutabile. Sfugge
alla generalità e spesso anche a chi ricopre cariche apicali. A
chi voglia soffermarsi sulla meta-storia lo Statuto risulta
affascinante non solo per quanto dice ma anche per ciò che lascia tra
parentesi, sotto traccia, ma va inteso. Esso dedica tredici articoli
(dall'11 al 23) al Re e alla Reggenza. Non mancano due articoli
sibillini: “In mancanza di parenti maschi la Reggenza apparterrà alla
Regina madre”. “Se manca anche la regina madre le Camere, convocate fra
dieci giorni dai Ministri nomineranno il Reggente”. Titolari del
potere della convocazione erano i Ministri del Re (non esisteva ancora
la figura del presidente del consiglio; men che meno quella del
mussoliniano capo del governo). E se per effetto della secolare legge
salica la successione fosse spettata a un congiunto straniero? Occorreva
davvero confidare nell'Astro, nella Provvidenza, nello Stellone
d'Italia, al quale guardarono e ancora guardano quanti credono nella
Patria, una libera grande, “gran madre” della civiltà euro-occidentale.
Aldo A. Mola
(*) Mercoledì 12 giugno, dalle
h. 16.30, si svolge al Museo Nazionale del Risorgimento di Torino
(Palazzo Carignano, Piazza Carlo Alberto 5) il Convegno “Dallo Statuto
Albertino alla Costituzione della Repubblica italiana”.
I FAZIO L'ACROCORO LIBERALE LIGURO-PIEMONTESE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 2 giugno 2019, pagg. 1 e 11.
Ferruccio Fazio neo-sindaco di Garessio Garessio,
in provincia di Cuneo, il 25 agosto 1870 elevata a Città da Vittorio
Emanuele II, il 26 maggio 2019 ha eletto sindaco Ferruccio Fazio.
Classe 1944, egli ha sconfitto nettamente un avversario di tutto
rispetto come il celebre designer Giorgetto Giugiaro, candidato nella
lista “Garessio c'è”. Con “Ambiente e territorio” Fazio ha ottenuto 808
consensi; l'avversario appena 197. In lizza erano anche “Rialziamoci”
guidata da Isaac Carrara e “Garessio bene comune” capitanata da Renza
Roberi. Alla città degli avi Ferruccio Fazio ha prestato volentieri la
canizie di clinico di fama internazionale, cattedratico insigne,
sottosegretario di Stato al Lavoro nel IV Governo Berlusconi (2008),
viceministro con delega alla Salute (dicembre 2009) e ministro della
Salute sino al fatidico 16 novembre 2011, dopo il ferale 11-11-2011. Ferruccio
Fazio è nella storia come suo nonno, Egidio. Una stirpe di una terra
che è una sorta di acrocoro liberale liguro-piemontese. Ne scrisse
ripetutamente il rimpianto Fulvio Basteris, classicista, docente al
liceo classico di Cuneo, saggista brillante, liberalsocialista e già
direttore del “Giornale del Piemonte” e studioso appassionato della sua
originaria Garessio. Alpigiani, naturalmente liberi Per
intendere le radici della parabola di “genti” quali i Fazio, come i
Giolitti, Soleri, Moschetti, Einaudi, Riberi..., via risalendo nel
tempo e passando dall'una all'altra valle liguro-piemontese, retaggio
della IX Regio Augustea che andava dal mare alla destra del Po, merita
ricordare quanto nel 1809 scrisse il “fratello” Dominique Destombes
nell'“Annuaire statistique du Département de la Stura” su mandato del
prefetto Pierre Arborio: “Il morale delle Alpi non è meno interessante
del fisico. In queste alte valli, in cui non vi sono né signori né
ricchi né una presenza frequente di stranieri, l'abitante, non vedendo
attorno a sé che persone uguali a lui, dimentica che esistono uomini
più potenti. Il suo animo si nobilita e si eleva; i servizi che egli
presta e l'ospitalità che concede non hanno nulla di servile, né di
mercenario.” Lo aveva già osservato Ferdinand de Saussure: gli
alpigiani sono “naturalmente” liberi, orgogliosi della propria dignità,
dell'indipendenza e delle tradizioni, ma senza pregiudizi né ostilità
alcuna verso chi salga nelle “terre alte”, a patto che non pretenda di
soggiogarle. Molto prima di Destombes ne aveva scritto da par suo
l'abate Carlo Denina, nativo di Revello, in “Le rivoluzioni d'Italia”,
suggellate dalla enunciazione dell'influenza del clima e del suolo
sulla popolazione e dall'elogio del “Piemonte”, unico Stato italiano
paragonabile alla Prussia. Esso era forte non solo per sé e in sé, ma
anche per quanti ne emigravano in cerca di miglior fortuna: “Parte
dell'eccedente popolazione dell'Alpi – egli scrisse – si sparge nelle
pianure della Lombardia, parte nelle migliori città dello stato
pontificio e in Roma; altri vanno fino a Napoli. Conviene che il resto
si volga verso il settentrione, dove la grandezza degli Stati e la
qualità degli abitanti offre più facile via di trovar fortuna”. Era
migrante anche lui, dal regno di Sardegna alla corte di Federico II di
Prussia e poi a Parigi, ove fu bibliotecario di Napoleone I. Denina non
era un “cervello in fuga”, ma un europeo del suo tempo. Continuò a
studiare la “Istoria dell'Italia occidentale” (1809) e i popoli che
l'avevano abitata nel corso dei millenni. Avevano la propria identità:
il gusto della libertà. La loro era, appunto, la terra delle famiglie
che dettero nerbo al Risorgimento nazionale e alla costruzione della
Nuova Italia. Suo esponente insigne fu Egidio Fazio (Garessio, 1 settembre 1872-20 luglio 1957). Il costo del consenso liberale nell'aprile 1924 Il
6 aprile 1924 la Lista Nazionale orchestrata da Benito Mussolini
registrò uno straripante successo elettorale. Non solo con
violenze e brogli (altrove, e non solo in Europa, accadeva di
peggio), essa ottenne 4.305.936 voti. Altri 347.552 andarono a una
lista fiancheggiatrice. Nell'insieme i “fascisti” ebbero il 64,9% dei
voti validi: 54,3% al Nord, 76% al Centro, l'81,5% al Sud e il 69,9%
nelle isole. I “liberali”, che sino al 1921 avevano la maggioranza dei
seggi alla Camera, raggranellarono appena il 2,8% dei consensi e 15
deputati su 535. I repubblicani si fermarono all'1,3% con soli 7
eletti. I popolari crollarono da oltre 100 parlamentari a 39. I
comunisti, con il 3,6% ne ebbero 19. I socialisti, divisi in due
tronconi, precipitarono dai 150 seggi del 1919 a 46. Chi oggi si
stupisce della volatilità dei consensi bene farebbe a ripassare la
storia di un Paese che nel 1943 toccò il massimo degli iscritti al
Partito nazionale fascista (oltre tre milioni) e nel 1945 ebbe il
record di antifascisti. Dopo la conta dei voti venne quella
dei costi della campagna elettorale. Marcello Soleri (Cuneo,
1882-1945), coordinatore della lista dei liberali presentata in
Piemonte, mandò la nota-spese ai candidati: diciottomila lire a testa.
Una somma astronomica. All'epoca un buon stipendio era 5-600 lire al
mese. Il maggiorente della lista, l'ormai ottantaduenne Giovanni
Giolitti, il 26 aprile 1924 non esitò a rispondergli: “Non nascondo che
la somma mi disturba un po', perché io non sono in condizioni così
floride come si può credere. La politica è stata per me una pessima
speculazione”. Sia pure a malincuore, avrebbe comunque versato la sua
quota. Con Giolitti furono eletti Soleri e Fazio, non già Peano (a
differenza di quanto scrive Pierfranco Quaglieni nella prefazione alla
riedizione delle sue Memorie nella collana “Libro Aperto” valorosamente
diretta da Antonio Patuelli). Anche grazie alla pubblicazione dei
cinque volumi “Giolitti al Governo, in Parlamento e nel Carteggio”
curati da Aldo G. Ricci e con prefazione di Giovanni Rabbia (Ed.
Bastogi), lo Statista della Nuova Italia è ampiamente noto. Anzi, è in
corso la sua rivalutazione malgrado la noiosa ripetizione
dell'ingiurioso epiteto di “ministro della malavita” lanciato contro di
lui dal livoroso Gaetano Salvemini, che gli imputò le proprie
ripetute sconfitte ai seggi elettorali. Il nome di Soleri ricorre in
due tornanti fondamentali della storia d'Italia: il passaggio dal
secondo governo presieduto da Luigi Facta (nel quale rivestì la carica
di ministro della Guerra) al ventennio di Benito Musoslini e la
battaglia da lui condotta per la stabilizzazione della moneta quale
ministro del Tesoro con Ivanoe Bonomi e Ferruccio Parri (1944-1945),
accanto a Luigi Einaudi, governatore della Banca d'Italia e suo grande
estimatore. Purtroppo per il Paese, Soleri morì proprio quando più ve
n'era necessità. La sua battaglia venne continuata da Egidio Fazio,
componente della Consulta Nazionale per il Partito liberale italiano
(1945-1946) ed eletto senatore nella prima legislatura repubblicana
(1948-1953). Membro del Gruppo misto e dal 1° gennaio 1949 di quello
Liberale, fattivo componente di commissioni permanenti e speciali,
Fazio concorse al “miracolo” della Ricostruzione con l'esperienza di
uomo politico di lunghissimo corso: monarchico, liberale, laico libero
da infatuazioni anticlericali e strenuo fautore della collocazione
dell'Italia nella nascente Comunità economica Europea nel quadro
dell'“Occidente”. Poiché non aveva indossato il laticlavio, non fece
parte del Gruppo dei Senatori del Regno costituito il 5 giugno 1955 su
impulso di Re Umberto II né, sopraggiunta la morte, poté essere
nominato nella Consulta dei senatori del regno, il cui profilo fu
scritto da Aldo Pezzana in “Gli uomini del Re” (Ed. Bastogi). Il “cursus honorum” di un politico della Terza Italia Il
“cursus honorum” di Egidio Fazio è paradigmatico per comprendere la
Terza Italia dal Risorgimento alle guerre per l'indipendenza alla
costruzione dello Stato unitario, incardinato sull’elettività delle
cariche (consigli comunali, provinciali e Camera dei deputati),
meritocrazia (tramite il volano della scolarizzazione e della
moltiplicazione degli “ascensori sociali”: convitti militari e collegi
universitari pressoché gratuiti), convergenza di aristocrazia operosa e
borghesia a servizio per lo Stato (militari, funzionari...),
dilatazione delle libere professioni, premiate con ampia nobilitazione
(generoso conferimento di onorificenze ripartite nei cinque gradi:
cavaliere, cavaliere ufficiale, commendatore, grand'ufficiale, gran
croce). Alla base della Nuova Italia operò la “pax” non dichiarata ma
fattuale tra lo Stato e il clero. Ai cattolici veniva sconsigliato
(“non expedit”) di votare per i deputati alla Camera: un immenso regalo
alla borghesia liberale, composta quasi esclusivamente da “credenti
senza ostentazione”, ai quali mai sarebbe passato per la mente di usare
simboli per procacciarsi voti, giacché distinguevano tra fede e
superstizione. Essi però presero costantemente parte attiva e passiva
alle elezioni comunali e provinciali nonché alla vita quotidiana della
moltitudine di enti, istituti e sodalizi che costituirono la spina
dorsale della Nuova Italia, incluse casse di risparmio, banche
popolari, casse rurali... Avvocato di affermata fama e
competenza, dopo cariche amministrative locali, vicino ai quarant'anni
Fazio fece il suo rodaggio nella Giunta Provinciale Amministrativa,
interfaccia fra la Deputazione provinciale (corrispondente alla Giunta
provinciale del dopoguerra) e la prefettura, da quando, nel 1890,
questa non fu più presieduta dal prefetto, cioè, indirettamente, dal
ministero dell'Interno, ovvero dal presidente del Consiglio, bensì da
un consigliere liberamente eletto dal consesso. Grandezza e decadenza dei Consigli provinciali L'evoluzione
politica e normativa dei Consigli provinciali dopo la legge Rattazzi
dell'ottobre 1859, in massima parte identica sino alla loro
sostituzione con i Rettorati istituiti dal governo Mussolini (1926), è
rimasta ai margini della storiografia. Eppure essa è lo specchio della
“costituzione materiale” della Terza Italia, quando essi furono
solitamente presieduti da politici eminenti. Basti ricordare Quintino
Sella a Novara, Giuseppe Saracco e i Rattazzi ad Alessandria e Giovanni
Giolitti, presidente del consesso cuneese dal 1905 (in successione a
Gustavo Ponza di San Martino, Alerino Como e Carlo Buttini tra il 1866
e il 1904) alle forzate dimissioni nel dicembre 1925. Fazio fu
eletto consigliere provinciale cuneese dal mandamento di Garessio
nell'infausto luglio 1914, quando l'Europa precipitò nella
conflagrazione generale. Il consesso contava 60 membri: una élite di
altissima qualità: senatori (Giuseppe Carle, Eugenio Rebaudengo,
Spirito Riberi), deputati (Lorenzo Bonino, Vincenzo Bovetti, Marco
Cassin, Giacomo Curreno, il marchese Marco di Saluzzo, il conte Paolo
Falletti di Villafalletto, Marcello Soleri), aristocratici (il marchese
Calisto Gay di Lesegno, i conti Annibale Galateri di Genola, Giuseppe
Galli della Mantica e Carlo Incisa di Santo Stefano Belbo, il marchese
Alberto Scarampi del Cayro e di Prunetto) e una quantità di futuri
sindaci, scienziati, artisti, docenti e “notabili” delle libere
professioni. Giuseppe Ghio, eletto dal mandamento di Carrù,
era esponente della Associazione “Giordano Bruno”, punta di diamante
dell'anticlericalismo militante. Dal 1915 Giovanni Lanza, eletto per il
mandamento di Limone, rappresentò l'avanguardia dei nazionalisti nel
Cuneese. Voleva l'annessione di Nizza, ovvero la guerra con la Francia
mentre il governo stava per passare dall'alleanza con Vienna e Berlino
a quella con Parigi, Londra e San Pietrogrado. All'epoca si passava
dall'uno all'altro Stato senza passaporto. Il possesso integrale della
Valle Roya non valeva una guerra, come, secondo Giolitti, non era il
caso di farla per spostare di pochi chilometri il confine orientale:
meglio trattare e guardare lontano, a quell'Europa che ormai era realtà. “Post fata”, l'eclissi del liberalismo: lo Stato per diritti e libertà Come
a Torino, Genova, Porto Maurizio (Imperia ancora non c'era) anche a
Cuneo il Consiglio provinciale fu laboratorio di profonde riforme
sociali. Fazio vi dette voce all'acrocoro liberale liguro-piemontese.
Lo documentano gli Atti del Consiglio, sempre in attesa che venga
aggiornata la “Storia dell'Amministrazione provinciale di Cuneo
dall'unità al fascismo (1859-1925)” pubblicata nel lontano 1971. Nelle
elezioni del novembre 1919 Giolitti rimase soccombente proprio nella
sua terra. Con lui furono eletti solo Soleri e Camillo Peano, già
deputato di Barge. La Granda elesse deputati quattro socialisti,
quattro del neonato del partito popolare (cattolico) e un “agrario”. Al
rinnovo del Consiglio provinciale, nel 1920, il mandamento di Garessio
elesse il socialista Giulio Ferrari, come a Cavallermaggiore Domenico
Chiaramello. Nelle nuove elezioni (maggio1921) con Giolitti alla Camera
entrarono Soleri, Peano (dall'ottobre 1922 saggiamente nominato alla
presidenza della Corte dei Conti) e, appunto, Fazio. L'arco alpino era
il fortilizio dei liberali... La terna Giolitti-Soleri-Fazio venne
confermata, come già si è detto, nelle elezioni del 6 aprile 1924,
mentre la lista liberale ligure strappò un solo deputato: l'avvocato
genovese Michele Poggi. Quei travagli sono ripercorsi da Marco Mensi in
“Destra d'Italia. Breve storia da Cavour a Salvini” (Erga Edizioni,
Genova). Che fare? Tenere viva la tradizione del liberalismo di Cavour,
Azeglio, Lanza, Sella. La lista giolittiana aveva compreso politici di
alto profilo: Bruno Villabruna, Luigi Ambrosini, Eugenio Artom,
Giovanni Cantono Ceva, sindaco di Pinerolo, Mario Risso, Emanuele
Sella. Liberali e democratici erano sostantivi, non etichette di
comodo. Dopo l'“affaire Matteotti” la pattuglia si domandò se
rimanere in Aula o arroccarsi sullo sterile Aventino accanto a
repubblicani, residui del partito popolare e dei socialisti, ormai ai
margini della storia. Ne scrisse Raimondo Collino Pansa nella biografia
di Soleri (Garzanti, 1948), antica ma non polverosa. Soleri propose di
rimanere in Aula a qualunque costo perché quello era il mandato degli
elettori. Giolitti chiuse la breve consultazione con il lapidario: “A't
l'as rasùn, Soleri. Andouma”. In Aula Fazio impose al governo di
emmettere e di dichiarare che i deputati eletti nel “Listone” erano
liberi di votare come meglio credessero perché non rappresentavano un
“partito” ma la Nazione, ai sensi dello Statuto del 4 marzo 1848, come
anche oggi esige la Costituzione repubblicana, in tanta e più nobile
parte continuatrice della Carta albertina. Dicembre 1925: il Natale dei tradimenti Mussolini
tentò in tutti i modi di attrarre Giolitti nella sua orbita. Gli fece
ventilare la nomina a senatore (“piuttosto mi dimetterei da uomo”
rispose lo Statista) e persino la presidenza della Camera Alta. Non
potendolo piegare, corruppe i consiglieri provinciali. Promise loro un
milione di lire per completare opere pubbliche in cambio
dell’imposizione a Giolitti: tessera del PNF o dimissioni. Giolitti si
dimise da presidente e, per elementare senso della dignità, da
consigliere. Fu seguito da Soleri, Fillia, Enrico e da altri liberali
per i quali la libertà non vale alcuna “messa” né si baratta con opere
pubbliche e favori. Nell'agosto 1943, dopo il rovesciamento di
Mussolini Fazio fu nominato Regio Commissario alla Provincia di Cuneo.
Lo rimase poche settimane. Il tempo di far tinteggiare i locali del
Consiglio, all'epoca ospitati nella Prefettura, all'imbocco di via
Roma: una sede decorosa ormai dimenticata dai più. Giova domandarsi se
questi ricordi sian solo “povera foglia frale” o non pongano invece una
domanda niente affatto retorica: che cosa fare dei Consigli
provinciali? Delle Province? Della democrazia elettorale? In tempi di
volubilità degli umori politici forse è ora di volgere lo sguardo
all'arco alpino e di tornare ai piedi della Rocca di Cavour. Lì al
funerale di Giolitti con tanti notabili dell'Italia liberale (Benedetto
Croce, Einaudi, Bergamini, Frassati, Poggi, Ruffini, Soleri...)
sfilarono anche il “fratello” Giovanni Battista Ceirano e il socialista
Chiaramello, che si era dimesso dal consiglio provinciale per
solidarietà con lui. Il socialismo umanitario piemontese (altra cosa
dai rivoluzionari bolscevichi e dai massimalisti alla Mussolini) era
un'ala del liberalismo. Riformare per conservare: più Stato in difesa
dei deboli, dei meno fortunati, per maggiore uguaglianza dei diritti e
della libertà. Fazio fece la sua parte. Perciò stupisce che né lui né
Poggi compaiano nel “Dizionario del liberalismo italiano” (ed.
Rubbettino): un repertorio che forse merita un terzo volume,
riparatorio o quanto meno integrativo...
Aldo A. Mola
QUESTA EUROPA? C'E' DI PEGGIO NEL MONDO
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 26 maggio 2019, pagg. 1 e 11.
Giovane vecchia Europa
Nel 2022, il tempo vola e manca meno di quanto si pensi, il Mercato
Comune Europeo compirà 65 anni. L'Unione Europea al confronto è ancora
giovane. La sua forma attuale è appena adolescente. Nulla di più noioso
che ripercorrerne le vicissitudini dai primi vagiti, quando nel 1952
nacque la CECA (Comunità del carbone dell'acciaio), poi venne ventilato
l'Euratom e nel 1953 fallì la CED (Comunità europea di difesa), uccisa
in culla dalla Francia nazionalista. Niente di più malinconico che
ricordare passo passo il transito dall'Europa dei Sei a quella dei
Dodici, poi dei Diciotto sino all'odierna: 28-1? Sì, no, forse. Con o
senza la Gran Bretagna e i suoi secolari problemi con l'Irlanda e il
Commonwealth? Come che sia, l' “Europa” è per ora una somma algebrica,
remota dai propositi del tempo che fu. Lontanissima dagli ideali dei
fondatori, da Jean Monnet a Robert Schuman, Konrad Adenauer, Alcide De
Gasperi… Ma quando essa sorse le rovine della guerra erano ancora sotto
gli occhi e i governanti capivano qual era la strada da imboccare:
senso dello Stato e responsabilità comunitaria furono tutt'uno. La
dirigenza uscita dal travaglio della guerra si afferrava al passato
remoto, conscia che lì sono le fondamenta del presente: Carlo Magno, la
Porta di Treviri, Roma,… la diffusione del cristianesimo, che impiegò
mille anni a superare verso est i confini dell'Europa occidentale,
mentre doveva difendersi dall'avanzata islamica da sud e dalla penisola
iberica, liberata dopo sette secoli di dominazione. Cose notissime ma
che forse oggi sfuggono anche a parecchi “politici” persino al governo,
tenuti a filtrare la quotidianità attraverso le spesse lenti della
Storia. Come Pipino, nato vecchio morto bambino?
Così com'è l'“Europa” dei 28-1 (tra Brexit, Italexit, sovranismi
seborgici, infatuazioni neonazionalistiche e tuffi nel passato
antidiluviano) è il capovolgimento della realtà che incombe. È il
rovescio della stupenda favola di Giulio Gianelli, la “Storia di
Pipino, nato vecchio e morto bambino”. Riassumiamo per i pochi che non
la conoscono. “Pipino” è la trasfigurazione di una pipa che in una
notte di luna assume fattezze umane dal destino segnato. Nasce
sessantacinquenne, anziano per i tempi, con saggezza proporzionata alla
barba già bianca e lunghissima. Mentre i romanzi di formazione del
Sette-Ottocento avevano percorso via via le esperienze dall'infanzia
alla maturità e alla senescenza, con guizzo geniale Gianelli muove
dalla sapienza propria della Vecchiaia verso l'ingenuità del bambino,
perché, lo si veda dalla nascita alla morte o viceversa, alla fin fine
l'“uomo” è uno: una percorso segmentato, segnato da ascese e cadute, di
quadri bianchi e quadri neri. Il cattolico Gianelli fa intendere che la
bontà originaria è innata, come la “docta ignorantia”. Genuinità e
spontaneità sono sentimenti “naturali” che per manifestarsi non hanno
bisogno di sistemi filosofici né di enciclopedie delle arti e delle
scienze. Sono congenite. Gianelli, però, non ha nulla a che vedere con
Jean Jacques Rousseau. Non deplora gli uomini, la loro supposta
pravità, né meno ancora le leggi degli Stati. La parabola di Giulio Gianelli
Pipino muove i suoi primi passi nella natura, non per negare
l'uomo, bensì per “vedere” (che è altra cosa dal “guardare”) la
bellezza del Creato. Come noto, la favola di Pipino è un “romanzo”
autobiografico. Mai davvero celebre, Gianelli fu quasi sul punto di
divenire noto. Ancor oggi è ignorato da tanti sussiegosi repertori
della letteratura. Ebbe tre gravi pecche: la sfortuna domestica, le
malattie, la sua libertà di artista. Per di più il 7 ottobre 1879
nacque a Torino, che non è terra tenera con i poeti, semmai verso
gli “artieri”: aperta a un Giosue Carducci, refrattaria ai propri
scrittori (ne seppe qualcosa Edoardo Calandra, apprezzato dal
napoletano Benedetto Croce più che dal suo Vecchio Piemonte).
Precocissima, la morte falciò Gianelli quando aveva appena trentacinque
anni. La “Storia di Pipino” visse di fama propria. Ma solo come un
“motto”, un modo di dire, senza riferimento all'autore. Infatti il
libro, uscito nel 1911, fu presto dimenticato e venne ristampato solo
nel 1993, proprio quando l'Europa odierna stava prendendo forma
maggiore. Gianelli, rimase una figurina pallida, relegata nel novero
degli scrittori minori tra Otto e Novecento, nel pulviscolo di
crepuscolari, in una nicchia coperta da ragnatele accanto a quelle
ormai sempre più impolverate del canavesano Guido Gozzano e del romano
Sergio Corazzini. Abbandonato a due anni dal padre,
ingegnere, che partì da Torino per l'Argentina senza più dare notizie
di sé, orfano di madre a quattro anni, cresciuto in collegio col
sussidio di benefattori, da quando ebbe tredici anni Gianelli si
guadagnò a fatica la retta di un pensionato e gli studi. Campò come
poté, tra umiliazioni, stenti, fame nera e amicizie caldissime con
poeti come Giovanni Cena e Nino Oxilia, autore nel 1909
dell'estemporaneo inno goliardico musicato da Giuseppe Blanc
“Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza”, poi abusato da chi al
potere arrivò vecchio e zeppo di programmi raffazzonati.
Alternando raccolte poetiche di qualche successo, come “Mentre l'esilio
dura”, e lunghe degenze in ospedale, afflitto da una forma di
tubercolosi all'epoca inguaribile, dopo la pubblicazione di “Gli Intimi
vangeli” nel 1908 Gianelli andò a Roma per concorrere con Giovanni
Cena, Sibilla Aleramo e l’insuperata Maria Montessori alla campagna per
l'alfabetizzazione e l'incivilimento della popolazione dell'agro
romano. Era l'esordio dell'amministrazione guidata da Ernesto Nathan,
già gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Quella non era una
battaglia ideologica, di mangiapreti contro clericali. Era una
“missione”, come quella che nel 1884 aveva veduto a Napoli fianco a
fianco per risollevare le sorti dei colerosi il radicale Felice
Cavallotti, le suore di carità e il Re Umberto I. Quella era l'Italia.
La stessa che fronteggiò la catastrofe del terremoto di Messina e
Reggio Calabria: centomila morti. Una sciagura oggi inimmaginabile, Non
si sa come l'Italia odierna, gonfia di appelli a chiudersi in se
stessa, saprebbe e potrebbe fronteggiare. Da Messina Gianelli tornò a
Roma recando con sé due bambini, Mario e Ugo Morosi. Li affidò al
collegio del Nazareno e ne seguì le sorti anche dopo la comparsa della
madre, sopravvissuta alla catastrofe. Nella favola di
“Pipino nato vecchio e morto bambino” Ughè , “il piccolino”, e Mariù,
“il pensatore”, accompagnano “Biddicchiu Pipino” (Giulio stesso) in una
successione di “quadri” allegorici che fanno della “Storia” un libro
appena un gradino al di sotto del tanto più famoso “Pinocchio” di
Collodi. Particolarmente allusivi sono la visita a Paidopoli, cioè la
città dei bambini, e l'allarme verso un conflitto devastante
incombente. “A 25 anni la guerra non fa paura” scrisse Gianelli nel
1911. Era lo stato d'animo destinato a durare sino al 1915-1918, quando
essa si mostrò in tutti i suoi orrori. Ma ormai Gianelli non c'era più.
Dopo molti ricoveri e un'operazione chirurgica dall'esito infausto morì
il 27 giugno 1914: il giorno prima del mortale attentato di Sarajevo,
che fu detonatore della Grande Guerra: tre spari, due vittime
(Francesco Ferdinando d'Asburgo e sua moglie Sofia), quattordici
milioni di morti... Garibaldi, Novicow e Pellico profeti dell' Europa in pace
L'Europa unita e pacifica era già allora un sogno maturo. Aveva alle
spalle il pensiero del massimo filosofo europeo, Immanuel Kant, che
dedicò i suoi ultimi anni a vaticinare la “Pace perpetua”. Mentre tanti
illuministi del tempo suo predicavano la distruzione di torni e di
altari (finì con la Grande Paura, gli emigrati, le stragi, il Terrore,
la “legge dei sospetti”, l'avvento di Napoleone, vent'anni di guerre
ininterrotte e almeno cinque milioni di morti...), Kant additò agli
uomini la Legge morale e il Cielo stellato. Altra cosa dalla “nazione”
di Fichte (“i tedeschi sopra tutti”) e l'esaltazione del “genio del
mondo” di Hegel, padre putativo di Karl Marx e di quanto ne seguì.
Quindici anni dopo il crollo di Napoleone e due lustri dopo il
fallimento dei moti costituzionali in Spagna, a Napoli e in Piemonte,
Giuseppe Mazzini fondò la “Giovine Europa”: una “setta” che nei suoi
propositi doveva suscitare ovunque insorgenze, moti, tirannicidi. Al
confronto risulta molto più pacato e attuale Giuseppe Garibaldi, pur
con tutte le contraddizioni del suo temperamento e delle vicissitudini
che ne scandirono la vita. Se una volta scrisse che “la guerra è la
vera vita dell'uomo” (non era pensiero suo proprio ma citazione di un
motto altrui), il 9 settembre 1867 propose al Congresso della pace
organizzato a Ginevra la sua convinzione più autentica: “Tutte le
nazioni sono sorelle; la guerra tra loro è impossibile: tutte le
querele che sorgeranno tra le nazioni dovranno essere giudicate da un
Congresso (…) La religione di Dio è adottata dal Congresso e ciascuno
dei suoi membri si obbliga a propagarla. Intendo per religione di Dio
la religione della verità e della ragione (…) La democrazia sola può
rimediare al flagello della guerra”. Nel 1870 sognò anche di istituire
nella sua nativa Nizza l'areopago per la soluzione pattizia delle
contese interstatuali. La “missione” di una città internazionale non
era ergersi a centrale di affaristi apolidi ma promuovere la
fratellanza universale. C'era più “filosofia della storia” sotto il suo
curioso berretto e il suo poncho che sotto la calvizie di tanti
studiosi da biblioteca. Del resto, nel 1860, proprio all'indomani della
brillante e decisiva vittoria sull'esercito borbonico al Volturno (2-3
ottobre) il Generale scrisse l'appello famoso all'Unità dell'Europa,
ripetuto nei decenni seguenti. Utopia? Forse. Ma venne condivisa da chi
sapeva guardare lontano: anzitutto scongiurare la “guerra”, che “fa
male”, come sanno bene i militari, proprio perché alla fin fine tocca
anzitutto a loro prendersela sulle spalle.
L'Europa è approdata alla pace nel 1945 dopo due Grandi Guerre
precipitate in Guerre Mondiali. Ha vissuto settant'anni di quiete
interna (a tacere di movimenti terroristici di varia denominazione, in
parte spontanei e in parte eterodiretti) anche grazie alla sua
debolezza politico-militare. Questa però per alcuni è stata sorgente di
lungimiranza, per altri di inguaribile frustrazione. L'intuizione che
occorresse andare oltre l'illusoria sovranità dei singoli Stati fu
chiara all'inizio del Novecento. Se ne fece interprete Giacomo Novicow
in “La missione dell'Italia” (1902). Lo ripeterono Luigi Einaudi,
Giovanni Agnelli, Attilio Cabiati e altri nel corso della Grande
Guerra, quando la Federazione europea venne contrapposta all'illusione
della Lega delle Nazioni propugnata dal presidente americano Wilson,
che nascondeva sotto il tappeto la “dottrina Monroe”, cioè il disegno
di dominio universale degli Stati Uniti d'America. Con
altrettanto vigore gli stessi ideali vennero riproposti nel corso della
fase agonica della seconda guerra mondiale. Da lì arriva l'Unione
Europea odierna. Le sue istituzioni possono piacere poco. Nondimeno nel
volgere di pochi giorni quattrocento milioni di cittadini scelgono i
propri rappresentanti in un Parlamento sovrano. È un caso unico al
mondo. Un esperimento senza precedenti nel fantasmagorico laboratorio
della storia. Come tutti gli esperimenti anche questa “Europa” può
riuscire bene o può fallire. L'esito, però, non dipende da un Mago e da
giochi di prestigio di una manciata di “politici” ma dalla moltitudine
dei votanti. Al di là della narrativa sui progressi compiuti
dall'affratellamento oggettivo negli affari, nella moneta (utilissima e
ormai indispensabile, malgrado i guai prodotti!) e in promozioni civili
come l' “Erasmus”, ovviamente la generalità dei votanti non conosce la
maggior parte di quanti a loro volta depongono la scheda nell'urna
chissà dove. Ma è quanto accade all'interno dei singoli Stati, che
erano e sono moltitudine di regioni dalle radici storiche remotissime,
inclusi lingue (o dialetti), costumi, abitudini alimentari, giudizi e
pregiudizi. La volizione a lungo sospesa infine precipita in un
cristallo. Lo aveva intuito Silvio Pellico che in “Dei doveri degli
uomini” scrisse: “Due viaggiatori europei s'incontrano in altra parte
del globo; uno sarà nato a Torino, l'altro a Londra. Sono europei;
questa comunanza di nome costituisce un certo vincolo d'amore, un
certo, direi quasi, patriottismo, e quindi una lodevole sollecitudine
di prestarsi buoni uffici. (…) L'amor patrio quando s'applica ad un
paese vasto e quando s'applica ad un piccolo, è sempre sentimento
nobile. Ma badisi che l'amor patrio, tanto ne’ più ampli suoi circoli
quanto ne’ più ristretti, non facciasi consistere nel vano insuperbire
d'esser nato in quella tal terra, e nel covare indi odio contro altre
città, contro altre province, contro altre nazioni. Un patriottismo
illiberale, invido, feroce, invece d'esser virtù, è vizio”. Era il
1832, quasi duecento anni orsono. Ma era già tutto chiarissimo. Pellico
era stato il redattore del “Conciliatore”, carbonaro, condannato a
morte senza che avesse commesso alcun vero reato, prigioniero due
lustri anni tra Milano, Venezia e lo Spielberg, in Moravia, ove visse
anni tristissimi, ma non cessò mai di credere nell'Uomo né nel Figlio
dell'Uomo. “Una cosetta appena visibile?”
Forse è il caso di ricordarsene e di rileggere la pagine finale
del capolavoro di Giulio Gianelli. Pipino aveva avuto in sorte di
nascere decrepito, di ringiovanire e di spegnersi al compimento del 65°
anno. Col tempo divenne adolescente e poi così piccino che sulla fine
veniva recato in tasca dalla “mamma” che non aveva mai avuto ma sempre
sognata. Ad assisterlo furono i bimbi che aveva idealmente adottato.
Uno scambio di generazioni. “Ughé” e “Mariù” trascorsero un anno in
compagnia di Pipino, “usando al nano, che doveva presto morire, tutte
le più delicate cure fraterne. Povero Pipino, pensavano. Dopo aver
fatto tanto bene, ora non sei più che una cosetta appena visibile. Ma
quanto ti siamo grati! Parleremo di te a tutto il mondo, narreremo la
tua vita ai nostri figli e saremo sempre, con te, buoni”. È questa la
sorte imminente dell'Europa vicina ai sessantacinque anni? Lo intuirono
i suoi fondatori? O si rassegnarono presto ad adottare pargoli spesso
discoli, irriconoscenti, avidi, ingrati? Le Dodici stelle del Pavillon liberomuratòrio
Se vogliamo essere sinceri sino in fondo questo 26 maggio 2019
dobbiamo fare due considerazioni concatenate: i libri sull' “Europa” e
sui suoi intricatissimi problemi sono sfogliati solo da specialisti.
Per la generalità dei cittadini essi sono noiosissimi e persino
fastidiosi. La disaffezione verso le Istituzioni comunitarie si
riverbera sulla scarsa affluenza alle urne, benché ì, come noto, chi
non vota comunque ha sempre torto. Anche l'editoria di maggior peso
continua a proporre figure e temi che affondano molto oltre le
ginocchia nella palude del paleo-nazionalismo e delle sue varianti, dal
nazionalsocialismo al comunismo sovietico. Qualunque biografia di
Mussolini, Stalin, Hitler continua ad avere una moltitudine di lettori.
Gli europeisti sono sprofondati invece nell'oblio. Quale cielo e quali
menti illuminano le dodici stelle rilucenti nella bandiera dell'Unione?
Chi ricorda che esse vennero prefigurate nel “pavillon”della Società
delle Nazioni ideato dal Congresso delle massonerie europee il 28-30
giugno 1917? L' “Europa”, dunque, è ancora lontana da prendere corpo
definitivo. Ma appena si guardi a quanto avviene negli altri continenti
è inevitabile concludere che nel mondo c'è di peggio. Tanto vale
tenerla in vita, un po' avvizzita e un po' bambina, e cercare di
irrobustirla.
Aldo A. Mola
IL DIARIO INEDITO DI FEDERZONI I “CONTI CON IL FASCISMO” DI UN LIBERALE CONSERVATORE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 19 maggio 2019, pagg. 1 e 11.
Una crisi senza soluzioni? La
Nòttola di Minerva si leva al tramonto. Volteggia al buio su un mondo
ormai libero da passioni e agonismi: le rovine del tempo. Il suo volo
può ispirare la riflessione sulla crisi politica in corso in Italia, la
più grave dal dopoguerra perché per la prima volta non se ne intravvede
la via di uscita, a parte l'ennesimo ritorno alle urne (come in Spagna)
o un governo “tecnico”, cioè il crepuscolo della “politica”.
Lasciate da parte le chiacchiere oggi imperversanti su fascismo e
antifascismo, l'analogia tra la crisi sistemica odierna e la lunga
storia d'Italia rimanda al 1919-1922 quando la “maledetta
proporzionale” (la definizione è di Giovanni Giolitti) generò alla
Camera due corposi partiti (il Partito socialista e il Partito
popolare) e una pleiade di gruppi costituzionali incapaci di sintesi e
corrivi ad anteporre i propri interessi a quelli del Paese. Ai margini
rimanevano i repubblicani irriducibili e frange estremistiche, parte
intruppate nel PSI (dal quale nel gennaio 1921 si spiccò il Partito
comunista d'Italia, sezione nostrana dalla Terza internazionale) parte
nel “fascismo rosso”, speculare a quello social-massimalista. Con un
piede nel “sistema” e uno nell'illegalità, gli estremisti di opposto
colore infettarono la vita pubblica. Finanziariamente spossato dalla
partecipazione alla Grande Guerra, il Paese precipitò in una
degenerazione che richiedeva responsabilità, dedizione e quel “senso
dello Stato” tanto difficile da definire quanto facile da comprendere
quando chi governa se ne mostra e ne risulta privo. Il partito liberale nacque vecchio e morì bambino Tra
le prove che l'Uccello di Minerva spicca il volo quando ormai
sopraggiungono le tenebre v'è la storia paradossale del partito
liberale in Italia. Esso nacque in un congresso a Bologna l'8-10
ottobre 1922, dieci giorni prima della leggendaria “marcia su Roma”,
quando il liberalismo in Italia era avviato al crepuscolo. A
promuoverlo furono Alberto Giovannini, deputato, eletto segretario,
Luigi Albertini, direttore e comproprietario del “Corriere della Sera”,
Nino Valeri (iniziato massone in un'officina della Gran Loggia d'Italia
con Gabriellino d'Annunzio) e il genovese Emilio Borzino, issato alla
presidenza del partito. All'assise bolognese si affacciarono anche
Antonio Salandra e Giovanni Giolitti, parlamentari di lungo corso,
ministri ed ex presidenti del Consiglio, l'uno molto distante
dall'altro: democratici liberali e liberali-democratici contrapposti.
Giolitti si iscrisse al gruppo parlamentare “liberal-democratico”, poi
semplicemente “democratico”. Finì con la scissione dell'atomo: la fine
dei liberali. Negli stessi giorni il Partito socialista si
spaccò per l'ennesima volta: Filippo Turati e Giacomo Matteotti
slittarono “a destra”, mentre gli altri continuavano a volere la
“rivoluzione”, pur avendo alla loro sinistra Gramsci, Bordiga,
Togliatti e Tasca, cioè la già citata Terza Internazionale di Lenin.
Quando nel 1931 si spense a Parigi, ove era espatriato da sei anni,
Turati fu irriso da Togliatti come strumento succubo della borghesia.
All'epoca i comunisti bollavano i riformisti come social-fascisti. Solo
anni dopo Stalin promosse i fronti popolari per contrastare l'ascesa
dei nazional-socialisti di Hitler e le destre, dall'Italia di
Mussolini, all'Ungheria di Horthy, alla Spagna di Franco. Morto durante
il rapimento di cui fu vittima il 10 giugno 1924 (come ha documentato
Enrico Tiozzo nel 2° volume della sua biografia, “Il Delitto”, ed.
Bastogi), Matteotti divenne l'icona dell'antifascismo democratico, che
però ebbe il torto di astenersi dai lavori della Camera e così regalò
l'Aula al governo che, piaccia o meno, rappresentava lo Stato (non per
caso l'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche pochi mesi prima
della tragica fine del socialista di Fratta Polesine aveva aperto
l'ambasciata a Roma senza invitare i socialisti). Un “letterato” ministro dell'Interno:Federzoni Proprio
l'assassinio di Matteotti fermò per qualche mese la deriva del Paese,
sospeso tra ripristino della legalità e vittoria del “Trucio”, come
Benito Mussolini era detto da Alberto Giannini nella rivista satirica
“Il Becco Giallo” (ristampata dal geniale Oreste Del Buono). Dinnanzi
all’immediata cattura degli squadristi responsabili della morte di
Matteotti (Amerigo Dùmini, Augusto Malacria...) e alle loro palesi
connivenze con la cupola del fascismo (Giovanni Marinelli, Cesarino
Rossi...), senza bisogno di farselo dire pubblicamente da Vittorio
Emanuele III (la cui biografia rimane da scrivere), Mussolini varò
subito il più importante rimpasto di governo dal suo avvento. Il
17 giugno cedette il ministero dell'Interno, posizione nevralgica, a
Luigi Federzoni, già titolare delle Colonie. Il 1° luglio l'Istruzione
passò dal filosofo Giovanni Gentile al liberale e cattolico Alessandro
Casati. Lo stesso giorno Gino Sarrocchi sostituì Gabriello Carnazza ai
Lavori Pubblici. Alla Guerra e alla Marina rimasero Antonino Di Giorgio
e Paolo Thaon di Revel, “uomini del Re”, mai teneri nei confronti
dell'incipiente regime, come il massone Aldo Oviglio alla
Giustizia. Il cambio più significativo fu appunto
l'avvento di Federzoni (Bologna, 27 settembre 1878- Roma, 24 gennaio
1967). Il suo nome oggi suona quasi senza eco. Eppure egli fu tra i
massimi protagonisti della storia d'Italia. Figlio di un amico e
cultore di Giosue Carducci, saggista, poligrafo e collaboratore del
“Giornale d'Italia”, nel 1910 Federzoni fu tra i fondatori
dell'Associazione nazionalista italiana con Enrico Corradini, Roberto
Forges Davanzati, Francesco Coppola e altri eredi del pensiero di
Alfredo Oriani. Promotore de “L'Idea Nazionale”, nel 1913 eletto
deputato nel prestigioso collegio Roma I, fautore dell'interventismo
nel 1914-1915, volontario in guerra e decorato al valore, rieletto alla
Camera nel 1919 e 1921, oratore facondo e acuto, nel febbraio 1923 egli
propiziò la fusione nel Partito fascista dell'Associazione
nazionalista, sorretta dalle Camicie azzurre, monarchiche, che tante
volte si erano scontrate con quelle Nere. Quale pegno, il Gran
Consiglio del fascismo (consesso ancora privato, ma certo influente)
poco prima aveva proclamato l'incompatibilità tra fasci e logge
massoniche. Membro del Gran Consiglio del fascismo dal 5 marzo
seguente, Federzoni costituì una garanzia per i monarchici all'interno
del governo e nel partito, alla cui vicesegreteria fu nominato
Maraviglia. La forma è sostanza: l'Aula Come può
essere classificato mezzo secolo dopo la sua morte? Il suo nome non
compare nel “Dizionario del liberalismo italiano” (ed. Rubbettino), che
del resto non ricorda neppure quello di Borzino, presidente del PLI.
Nondimeno Federzoni fu un protagonista del liberalismo in Italia. Il
Risorgimento italiano (1792-1860 circa) fu animato da società segrete
(carbonari, massoni, Giovine Italia...) ma non ebbe “partiti”. Era
impensabile in tempi di repressioni, condanne durissime e patiboli per
chi chiedeva costituzioni, libertà di culto, di pensiero, di stampa…
Neppure all'estero vi erano veri e propri “partiti” come poi sorsero
tra Otto e Novecento; neanche in Gran Bretagna (più celebrata che
davvero conosciuta), ove la contrapposizione tra conservatori e
liberali aveva molteplici sfumature. La sua peculiarità era connessa
alla forma dell'Aula che tutti vedono ma non tutti conoscono e pochi si
fermano a osservare. I “modelli” del “Parlamento” nel tempo
sono stati tre: il Senato di Roma, l'inglese e quello della Costituente
francese, imitato per entrambi i rami del Parlamento italiano. Per
quanto si sa, i “patres” dell'antica Roma sedevano in file ordinate su
gradini come in aula universitaria. In Gran Bretagna i deputati sono
distribuiti in due settori che si confrontano, con un fondale che sa di
“Oriente”. Al centro vi è un tavolino per il deposito degli atti.
Originariamente fu questa la foggia della Camera allestita a Palazzo
Carignano, diversa da quella, celebratissima della Camera “subalpina”.
Quest'ultima ebbe forma semicircolare, meno accentuata dell'attuale a
Montecitorio ma sufficiente per propiziare la caratteristica del
nascente liberalismo italiano: il trasformismo, che nacque dalla
coniugazione delle idee ma fu anche facilitato dal luogo fisico nel
quale crebbe, come accade per tutti i corpi viventi. Quel
liberalismo ebbe molteplici protagonisti e altrettanti volti, più e
meno noti. Va detto che la dirigenza unitaria e postunitaria fu di
primaria grandezza. Essa sfidò l'Europa. Di sette diversi staterelli
ormai stenti e succubi dei loro dominatori (gli Asburgo, i Borbone, il
papa-re), essa fece uno Stato che dal 1867 sedette nella
Conferenza delle potenze europee e mezzo secolo dopo registrò un
progresso civile, economico e sociale apprezzato da tutti gli
osservatori stranieri. Basti rileggere “Italy-today” di Thomas Okay. Il passo imperiale di Luigi Federzoni Certo
vi furono dall'inizio due-tre Italie. La prima non voleva fare il passo
più lungo della gamba (i conservatori). Un'altra allungava la gamba a
costo di farsela ferire (Garibaldi). Infine quella che puntava a
orizzonti infiniti. L'equilibrio fu raggiunto con Giolitti, cinque
volte presidente del Consiglio tra il 1892 e il 1921: lo statista che
unì ideali e pragmatismo. Ma proprio a lui si contrappose il
nazionalismo di Enrico Corradini e di Luigi Federzoni. I nazionalisti
erano un altro volto dell'Italia liberale, sulla scia della Sinistra
storica di Agostino Depretis e, ancor più, di Francesco Crispi.
D'Annunzio non scrisse le “Odi Navali” in omaggio Mussolini.
Espresse i turgori dell'Italia che aspirava al Mar Rosso, all'Oceano
Indiano, all'“Impero” quando al governo si alternavano Rudinì,
Giolitti, Crispi e Pelloux, mentre il socialista Antonio Labriola
predicava l'espansione coloniale quale volano per il progresso
economico e l'avvento dell'industria senza la quale il “proletariato”
non sarebbe mai nato. Marx dixit. Nel torbido clima
dell'estate 1924 fu dunque Federzoni a farsi carico di rimettere un po'
d'ordine tra Stato, Governo, partiti e movimenti in un'Europa in
subbuglio, tra colpi di stato qui e là tentati e regimi autoritari
(come quello di Miguel Primo de Rivera in Spagna). Finissimo letterato
prestato alla politica (fu anche il caso dei filosofi Benedetto Croce e
Gentile), Federzoni resse l'Interno sino a quando l'attentato a
Mussolini, attribuito ad Anteo Zamboni, proprio nella sua Bologna
scatenò l'inferno: pena di morte, la “seconda ondata”... Nel novembre
1926 il “duce” riprese l'Interno e relegò Federzoni alle Colonie.
Senatore dal 1929, presidente del Senato sino al 1939, quando venne
sostituito col più “devoto” Giacomo Suardo, al vertice delle principali
istituzioni culturali (dalla “Nuova Antologia” all'Accademia d'Italia)
nel luglio 1943 Federzoni fu con Dino Grandi e Giuseppe Bottai autore
dell'ordine del giorno che chiese al Re di riprendere i poteri
statutari e mise fine al regime. Braccato, riparò nell'ambasciata del
Portogallo presso la Santa Sede. Lì scrisse il “Diario” ora pubblicato
a cura di Erminia Ciccozzi dall'editore Pontecorboli (Firenze)
con ampio saggio introduttivo di Aldo G. Ricci. L'originale del
“Diario inedito, 1943-1944”, dopo lunghe traversie, è stato donato da
Francesco Sommaruga all'Archivio Centrale dello Stato. L'opera
di Federzoni ministro dell'Interno è sintetizzata dall'invettiva che
contro di lui venne lanciata dal ras di Cremona, Roberto Farinacci,
mentre l'ex gerarca era imputato con Galeazzo Ciano e altri per “alto
tradimento” e condannato a morte dal tribunale di Verona. Secondo la
Repubblica sociale aveva perseguito la “tendenza normalizzatrice”,
represso l'estremismo e mostrato “condiscendenza costante verso i
partiti antifascisti”. Purtroppo per lui, egli venne destituito da
senatore (come innumerevoli altri patres) e condannato all'ergastolo
proprio dagli antifascisti al potere. Dopo un breve soggiorno, sempre
in clandestinità, nel Pontificio collegio ucraino al Gianicolo, nel
maggio del 1946, vigilia del referendum, riuscì a riparare in Brasile,
donde nel 1948 passò in Portogallo ove insegnò nelle Università di
Coimbra e di Lisbona. Torno in Italia nel 1949 in forma riservatissima
e poi dal 1951. Federzoni fu aspramente nemico della
massoneria che considerava nociva per l'Italia contemporanea, ma questo
non basta a dichiararlo non liberale. Altrettanto si dovrebbe fare di
Benedetto Croce o di Luigi Einaudi. Sulla massoneria vi furono e
rimangono giudizi e pregiudizi. Proprio a dimostrare la superiorità di
alcuni massoni il “Diario inedito, 1943-1944” è uscito con il
contributo dell'Istituto intitolato al Gran Maestro Lino Salvini, che
ottenne il riconoscimento del Grande Oriente d'Italia da parte della
Gran Loggia Unita d'Inghilterra, e si è valso della competenza di un
massonologo qual è Guglielmo Adilardi. Il problema angosciante
dell'Italia odierna è la pochezza delle dispute su fascismo e
antifascismo e, persino, su unificazione nazionale e “guerra per il
Mezzogiorno”, che dà titolo al saggio in cui Carmelo Pinto dà veste
vagamente scientifica alle tesi propugnate da noti libelli
neoborbonici. Va ricomposta la visione unitaria della storia di questa
piccola porzione d'Europa mentre urge far ripartire la Comunità europea
(l'“Unione” verrà chissà quando) nell'ambito delle alleanze garanti
della sicurezza e della sua integrità territoriale (l'“indipendenza” è
acqua passata: ma vale per noi come per tutti i 27-28 componenti
dell'Unione Europea). Monarchici e monarchisti: Federzoni a Umberto II Perciò
è attualissima la lezione impartita in splendida lingua italiana da
Luigi Federzoni. A libro “Diario”chiuso al lettore vengono in mente i
busti degli italiani illustri al Pincio e i fregi dell'Altare della
Patria: rappresentazioni complesse della nostra storia, ove vi è spazio
per tutti, senza “damnatio memoriae”, nella consapevolezza che ognuno
ha fatto quel che meglio sapeva o gli venne consentito, e ognuno pagò.
Una sosta al Pincio merita il monumento levato da Edoardo Calandra a
Umberto I, assassinato a Monza da un anarchico estero-diretto. Ai piedi
del Re lo scultore subalpino pose il volto della Medusa: l'anarchia,
l'odio verso lo Stato. Anche da quell'evento tragico nacque il
nazionalismo, che contrassegnò i primi decenni del regno di Vittorio
Emanuele III. La sostituzione di Federzoni alla presidenza del Senato
coincise con l'inizio della guerra senza frontiere di Mussolini contro
la monarchia. Lo ebbe chiaro Federzoni che in una lettera nel primo
viaggio segreto in Italia (1949) al “Sire”, Umberto II”, distinse tra
monarchia e monarchismo, una piaga, quest'ultima, ancora aperta perché
tanti sedicenti monarchici vorrebbero il re a propria immagine e
somiglianza. Umberto Gentiloni Silveri, Pietro Scoppola e altri
vent'anni fa si domandarono perché non fosse nato in Italia un “partito
conservatore”. Il liberalismo italiano non ebbe mai un partito, né con
Cavour né con Giolitti. E poi non fu conservatore, se per tale si
intende difensore degli “interessi costituiti”. Fu sempre fautore di
profonde riforme, “popolari”. Lì fu la sua forza: progresso civile per
consolidare le basi delle Istituzioni. Quello fu anche il liberalismo
di Croce (che controvoglia accettò la presidenza del Pli nel
dopoguerra) e di Luigi Einaudi. È quanto occorre oggi. Perciò ogni
“parte” dovrebbe sacrificare un po' di se stessa e convergere in un
“cartello” nell'interesse supremo dell'Italia e dei cittadini. Ma il
motto “Italia innanzi tutto” non è dei partiti e dei movimenti. Era di
Umberto II che morì esule il 18 marzo 1983. Federzoni fu sino
all'ultimo il suo ascoltato consigliere.
Aldo A. Mola
L'ILLUSIONE DELL'IMPERO UNIVERSALE CARLO V E L'ITALIA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 12 maggio 2019, pagg. 1 e 11.
Il
mondo contemporaneo invita a riflettere su quello di mezzo millennio
addietro e a interrogarsi sulle prospettive venture. L'attuale è
imperniato su una potenza neo-europea, gli Stati Uniti d'America, in
contrapposizione a una asiatica, la Cina. Gli USA hanno nell'Unione
Europea un alleato politicamente sfrangiato, non sempre affidabile, e
militarmente piatto. Alcuni suoi membri trattano direttamente coi
cinesi accordi economici, quasi che questi non ne implichino altri,
politici e militari, connessi alle diverse e spesso distanti concezioni
dell'uomo e dei suoi diritti. Gli USA si confrontano con un altro
avversario, la Federazione Russa, che, di radici e cultura
indiscutibilmente europea, si pone militarmente come potenza “terza”,
anche se la sua effettiva forza economica e bellica in prospettiva di
lungo periodo appare declinante. “Plus ultra”: dal tallero al dollaro Cinquecento
anni or sono la Storia ebbe un guizzo e dette un saggio di meta-storia.
La concezione patrimonialistica della sovranità, in forza della quale
il sovrano disponeva di pieno dominio sulle terre avite e sui suoi
“mobili”, inclusi gli abitanti, si intrecciò con quella dell'Impero,
sacro perché ripeteva la sua identità dalla investitura del pontefice,
Vicario di Cristo. L'Impero era davidico. Il 24 febbraio 1500 nacque a
Gand, nelle Fiandre, Carlo d'Asburgo, figlio di Filippo il Bello, a sua
volta erede di Massimiliano I, imperatore, e di Giovanna “la Pazza”,
figlia del re di Spagna, Ferdinando il Cattolico, e di Isabella di
Castiglia. I loro grandi ammiragli proprio in quegli anni stavano
scoprendo le Indie Nuove e annettevano le Americhe, spartite tra Madrid
e Lisbona dalla “raya” tracciata dal lungimirante papa Alessandro VI
Borgia. Per una serie di legami dinastici ingarbugliati e di lutti
imprevedibili quel neonato si trovò a essere per mezzo secolo il perno
della storia d'Europa proprio nell'età dei grandi esploratori e
conquistatori, oggi deplorati da chi guarda la storia come un ventaglio
chiuso. “Plus Ultra”, l'insegna poi assunta da Carlo d'Asburgo
e tuttora distintiva del regno di Spagna, indica la volontà di andare
non solo “oltre le colonne d'Ercole” che per millenni avevano
delimitato lo spazio verso Occidente, ma anche al di là della
visione particolaristica comune agli Stati sorti in Occidente
dopo la catastrofe dell'Impero romano. Il suo obiettivo ultimo fu la
“Renovatio imperii”, che è universale o non è. Altrettanto enuncia il
dollaro, sintesi del programma imperiale degli USA. Come noto, il suo
simbolo ($) è la stilizzazione dell'emblema personale di Carlo V e
tuttora del regno di Spagna (le due colonne d'Ercole intrecciate dal
Serpente). D'altra parte il dollaro statunitense nacque da quello
ispano-messicano a sua volta derivante dal tallero europeo. Non
si svela nulla di arcano ricordando la congerie di segni, cifre e motti
che affollano il dollaro ed evocano l'ideario dell'impero: la piramide
sormontata dal triangolo, la stella di Davide racchiusa tra le ali
dell'Aquila bicipite, la lettera G fiammeggiante e le divise “in god we
trust”, “e pluribus unum”, “Novus Ordo seclorum” (anziché
“secolorum”, con voluto errore affinché stia in 17 anziché 18 lettere)
e “annuit coetpis”, comune al Rito scozzese antico e accettato. Carlo d'Asburgo dalla Borgogna alla Corona imperiale La
Grande Visitatrice in pochi anni portò con sé i genitori del
piccolo Carlo d'Asburgo, che già titolare dei Paesi Bassi e della
Borgogna, regione strategica nell'Europa centrale, divenne erede
del regno di Spagna, quale nipote maggiore di Ferdinando il Cattolico.
La Falce (che mieté i più dei suoi sei figli legittimi, tranne Filippo
II, re di Spagna, e molti dei cinque illegittimi riconosciuti),
risparmiò suo fratello minore, Ferdinando. Ripercorrere il repertorio
cronologico dei titoli via via acquisiti da Carlo sin da bambino
richiederebbe un qui impossibile “trattato” della storia europea.
Merita invece individuarne la profonda contraddittorietà intrinseca.
Più aumentavano potere e responsabilità, più le basi stesse della
sacralità imperiale venivano intaccate e corrose. Nel 1516, con la
morte del nonno materno, Ferdinando il Cattolico, Carlo assunse la
corona di Spagna, dall'ormai vastissimo impero extraeuropeo. Visitò
subito il regno. Cresciuto tra Malines e Bruxelles con “governatori” e
consiglieri di vaglia scelti dalla zia Margherita d'Austria,
perfettamente padrone del fiammingo, del francese e del latino, Carlos
Primero vi ebbe accoglienze fredde. Al trapasso del nonno paterno,
Massimiliano I (1519), Carlo affidò la Spagna al saggio e austero
Adriano di Utrecht (poi papa Adriano VI nel 1522-1523) e tornò nelle
Fiandre per seguire da vicino l'elezione del successore alla corona
imperiale, che veniva assegnata da sette principi, tre dei quali
ecclesiastici. Se le Cortes dei singoli “regni” spagnoli accampavano
antichi privilegi e nel 1520 i Comuneros scatenarono una rivolta
generale repressa con spietata durezza, la “Germania” era incendiata
dal verbo di un teologo, Martin Lutero, al quale inizialmente papi come
Leone X (figlio di Lorenzo il Magnifico, 1513-1521; e Clemente VII,
altro de' Medici, 1523-1534) non prestarono particolare attenzione.
Grazie a giganteschi “doni” e a concessioni varie ai principi elettori
il 18 giugno 1519 Carlo ottenne lo scettro imperiale come Carlo V .
L'impero di Carlo Magno aveva compreso Francia, Italia
centro-settentrionale (il Mezzogiorno era in parte dominato dai
bizantini e in parte bersaglio degli islamici) e lembi della Germania.
Quello di Carlo V spaziò dall'Europa centrale alle Americhe e agli
arcipelaghi nell'Estremo Oriente, sino alle Filippine e alle Marianne.
Che su di esso il sole non tramontasse mai non fu un suo modo di dire
ma realtà. A sorreggerne le sorti cominciarono a giungergli oro e
argento dalle Americhe e i proventi dalla vendita delle indulgenze ai
peccatori in cerca di perdono per sé e per gli antenati, abilmente
orchestrate dai banchieri Fuegger ai quali ne era stato concesso il
monopolio, con enorme scandalo di chi predicava contro il Papato. Roma
era marchiata come Nuova Babilonia, sentina del peccato e dei più turpi
commerci a tutto vantaggio della edificazione di San Pietro, non già
cattedrale della Chiesa cattolica apostolica romana ma
ricettacolo di “idoli” e pretesto per sperperi che finivano nei mille
rivoli della perdizione di una città che contava almeno ventimila
prostitute. Il 23 ottobre 1520 Carlo d'Asburgo fu incoronato
imperatore in Aquisgrana, sacro alla memoria di Carlo Magno e all'
“idea di Europa”. Però il suo antagonista nella gara alla corona
imperiale, Francesco I di Francia, re “cristianissimo”, non rinunciò
affatto a contendergli lo scettro. La posta in gioco fu anzitutto il
ducato di Milano, per il quale entrambi vantavano titoli. Francesco,
che già nel 1515 aveva valicato le Alpi e additato al suo esercito la
pianura padana quale la terra più propizia per guerreggiare,
ricca qual era di biade, di armenti e di abitanti da soggiogare alle
sue turpi voglie, invase nuovamente l'Italia. Il 24 febbraio 1525 Carlo
V festeggiò il proprio 25° compleanno con la vittoria di Pavia, ove
l'esercito francese venne disfatto. Francesco I cadde prigioniero e fu
deportato a Madrid. Ne dette egli stesso notizia col messaggio famoso:
“tutto è perduto fuorché l'onore e la vita che è salva”. La “pace delle
dame” non risolse il différend tra l'imperatore e il rivale, che
riprese a intrigare. Da “cristianissimo” non si alleò con i riformatori
luterani né con i seguaci di Giovanni Calvino, attestato a Ginevra,
però si spinse a segrete intese con gli islamici. Nel 1526 i turchi
sottomisero l'Ungheria, giunsero ad assediare Vienna e imposero agli
Asburgo una pace molto onerosa. Francesco di Francia agì come se oggi
l'Unione Europea odierna rivendicasse un proprio primato contro gli
Stati Uniti alleandosi con la Cina, accampando il pretesto di vantaggi
commerciali e magari cedendole anche porti e controllo delle
comunicazioni sensibili... L'Italia di Carlo V Il
groviglio di contese e di guerre in Italia culminò con il saccheggio di
Roma (1527) da parte di un esercito mercenario (i lanzichenecchi)
capitanato dal connestabile di Borbone e dal luterano Frundsberg e con
la rassegnata capitolazione del papa, Clemente VII. In una fastosissima
cerimonia a Bologna il 22 febbraio 1530 il pontefice incoronò Carlo Re
d'Italia (con tanto di Corona ferrea) e il 24 imperatore. Fu l'ultimo
successore di Carlo Magno a essere direttamente consacrato dal
pontefice. Dopo di lui il titolo di Re d'Italia fu assunto da Napoleone
I (che si auto-incoronò a Milano il 26 maggio 1805) e da Vittorio
Emanuele II (14/17 marzo 1861) per sé e i successori, sino a Umberto
II. Quale suggello della pace con la Santa Sede Carlo V fece abbattere
in Firenze la repubblica (invano difesa da Michelangelo e da Francesco
Ferrucci) e ripristinare il ducato, affidato ai de' Medici, poi con
rango di granduchi. Nel 1529 Genova, piazza di transito dei metalli
preziosi dalle Americhe (via Spagna) verso Piacenza e Milano, era
passata con Andrea Doria a fianco dell'imperatore. Ne beneficiò
per quasi due secoli. Il suo declino iniziò quando a Madrid gli Asburgo
furono sostituiti dai Borbone, che a quelli della Superba anteposero
gli interessi dei porti franco-spagnoli. A garanzia
dell'esclusione della Francia dall'Italia Carlo V impose agli stati
ancora indipendenti (Venezia e Roma) una lega, che era pallida ombra di
quella un tempo proposta da Lorenzo il Magnifico in funzione anti-turca
o da papa Giulio II col motto “fuori i barbari”. Ormai l'Italia era
quasi del tutto direttamente o indirettamente sottomessa
all'imperatore. Quel baluardo, tuttavia, era necessario per arginare
Francesco I di Francia, che riprese la guerra contro Carlo V, dapprima
in combutta con Kair-ad Din “Barbarossa” (il “pirata” che si impadronì
di Tunisi e minacciò la Sicilia) poi in sfacciata alleanza con la
Sublime Porta, dopo la sconfitta di Andrea Doria a Prevesa (27
settembre 1538). A subire le conseguenze del conflitto fu
soprattutto il Ducato di Savoia. Nel 1543 Nizza venne assediata e
devastata dai turchi. Il Piemonte fu ripetutamente invaso e
saccheggiato dai francesi. Carlo III il Buono (1486-1553) morì
mentre lo Stato era preda del nemico. Dal 1548 i francesi si
erano impadroniti del Saluzzese, il cui ultimo marchese, Gabriele, già
vescovo, fu condotto prigioniero a Pinerolo e avvelenato. Non era
scritto in alcun libro del destino che un giorno lo Stato sabaudo
sarebbe tornato indipendente e protagonista della storia. Un Principe sabaudo restauratore del Ducato Occorreva
un Principe. Lo ebbe in Emanuele Filiberto (“Testa di Ferro”), figlio
di Carlo III. Comandante dell'esercito spagnolo, il giovane
Savoia (1528-1580 )sbaragliò i francesi nella battaglia di San Quintino
(1557) aprendo ai “tercios” la via di Parigi e si meritò la gratitudine
del re di Spagna, Filippo II. Con la pace di Cateau Cambrésis (aprile
1559) gli Asburgo e il re di Francia, Enrico II (succeduto nel 1547 a
Francesco I ) riconobbero a Emanuele Filiberto il ducato di Savoia come
bene dotale della consorte, Margherita di Valois, sorella di Enrico II.
Per precauzione i francesi continuarono a occupare Torino,
Chieri, Chivasso e altre piazze strategiche mentre gli spagnoli tennero
Asti e Vercelli. Era dura risalire la china. La riconquista vera
e propria del ducato da parte di “Testa di Ferro” richiese molti anni e
la capacità di conciliare il governo assoluto con la mediazione. Ne
dette esempio con l'accordo di Cavour (1561) che concesse ai valdesi
libertà di culto in luoghi deputati: un caso pressoché unico
nell'Europa dell'epoca, contrassegnata da intolleranza e guerre di
religione improntate al fanatismo più cieco. La riorganizzazione del
Ducato fu impresa titanica. Guerre di religione e frantumazione dell'Impero Proprio
le guerre di religione avevano corroso il sogno universalistico di
Carlo V. Dopo anni di lotta contro la lega di Smalcanda formata dai
principi luterani (sconfitti nel 1547 a Muelbergh) con la pace di
Augusta (1555) l'imperatore ratificò il principio “cuius regio ejus et
religio”: i sudditi dovevano professare la confessione cristiana del
loro sovrano o andarsene. A taluni parve un'alba di tolleranza. In
realtà era la tregua tra settarismi. Comportò comunque la morte del
Sacro Romano Impero. Il papa, infatti, cessò di rappresentare
l'unità del cristianesimo in Occidente, mentre perdurava la divisione
tra questo e la Chiesa d'Oriente. Carlo V ne trasse la
conclusione. Nel 1556 abdicò. Cedette la corona imperiale al fratello
Ferdinando, deputato a fermare l'avanzata dei turchi da Oriente. La
Spagna con il vastissimo impero coloniale e i domini in Italia andarono
al figlio Filippo II, che gli eresse per mausoleo il Monastero di San
Lorenzo dell'Escorial. Dal ritiro a Cuacos de Yuste Carlo V visse in
spartana semplicità. Seguì con crescente distacco le vicende del suo
tempo sino alla morte (21 settembre 1558). Durante il suo sessantennio
di vita si susseguirono dieci papi, metà dei quali posero mano al
Concilio più volte suggerito dall'imperatore, ansioso di trovare una
via d'uscita alla crisi della cristianità in Occidente, aggravata
dall'ex “Defensor fidei” Enrico VIII d'Inghilterra che istituì la
chiesa anglicana. Carlo V non riuscì a pacificare l'Impero, né a
metterlo al sicuro dal massimo nemico esterno, l'impero ottomano, né a
indurre la Francia alla coesistenza. Questa venne raggiunta solo nel
1598 con la “pace dei Pirenei”, che si risolse in breve tregua tra
molti e lunghi altri conflitti. Impero universale: un sogno svanito? Quale
sorte attende il mondo contemporaneo? Gli Stati Uniti vantano successi
economici (crescita del prodotto interno e occupazione in termini
inconfrontabili con quelli europei e specialmente dell'Italia), ma
vivono con la psicosi dello stato d'assedio, fra rivendicazione del
primato dei loro abitanti, elevazione di barriere fisiche verso
immigrazione irregolare e diffusa paura di “invasioni”. Al tempo
stesso, mentre la questione di Cuba rimane aperta, mostrano incapacità
crescente a risolvere conflitti in spazi remoti, con preoccupante
inclinazione a lasciare che la storia faccia il suo corso. Ne sono
esempio i casi, recenti e per molti aspetti sconcertanti, della Libia e
del Venezuela. L' “impero” è sogno impossibile? Lo aveva già spiegato
Daniele a Nabucodonosor nella visione profetica dei quattro regni, le
“quattro bestie”, destinati a crollare uno dopo l'altro, dopo aver
causato rovine, sofferenze e lutti infiniti. L'Impero sopravvisse a
Carlo V, ma ormai dimezzato e ridotto a potenza meramente continentale,
in lotta perenne su tutti i fronti. Il conflitto con quello turco si
risolse solo quando la Grande Guerra, quando, paradossalmente, Vienna e
la Sublime Porta combatterono affiancati ed entrambi vennero sconfitti:
un paradosso della storia.
Aldo A. Mola
LA VERA SICUREZZA? ESTERI E DIFESA LO STATO D'ITALIA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 5 maggio 2019, pagg. 1 e 11.
Stati e lunga durata degli interessi dei cittadini Gli
Stati sono la loro politica estera e militare. La loro forma
(monarchia, repubblica, federazione, cessione consensuale o forzata di
poteri ad altri ...) può mutare. Gli interessi generali permanenti dei
loro cittadini invece rimangono nel tempo. Sono la “lunga durata”
insegnata da Fernand Braudel. E questa non si riduce a contabilità
pubblica e privata. Sono la certezza del futuro, la sicurezza
politico-militare, fondata su coerenza, continuità, affidabilità. La
vera sicurezza non si difende sulla soglia di casa ma ai confini dello
Stato. Quella degli italiani del terzo millennio si difende a migliaia
di chilometri dai loro confini geo-politici, grazie alle politiche
comunitarie, ad alleanze collaudate da decenni ed a costosissimi
sistemi d'arma in via di perfezionamento. Vale soprattutto per gli
Stati deboli per la posizione geostorica e per la loro fragilità
genetica. Essi stanno al mondo venturo come i piccoli potentati e i
borghi italiani vissero quindici i secoli dalle invasioni barbariche
all'unificazione nazionale: facile preda di eserciti e “bande” di
passo. È il caso dell'Italia. La sua politica estera e conseguentemente
militare nel corso dei neppure 150 anni dall'unione del regno con Roma
risultò di sua scelta complessivamente discontinua, volubile e povera
di risultati, sino alla sconfitta catastrofica nella seconda guerra
mondiale, il cui passivo fu e sarà scontato per molte generazioni. Gli
errori compiuti nel quinquennio 1935-1940 (la guerra d'Etiopia, la
sbandata di Mussolini a fianco della Germania, dettata da calcoli di
politica interna e finita con la resa senza condizioni del settembre
1943 e con la pace mortificante del 10 febbraio 1947) ebbero però la
premessa nella politica estera dal 1914 al 1919. Il suo centenario
scivola via, sommerso da fatue dispute sulla “difesa della storia” ora
accampata anche da chi ha solitamente subordinato la ricerca
storiografica a interessi partitici ed elettorali, mentre tanti
studiosi anziché poco corrivi a firmare appelli lavoravano negli
archivi. Ma l'Italia, con buona pace degli “appellisti”, è il Paese dei
“manifesti degli intellettuali”, oggi come nel 1925. Le “ragioni” dell'intervento dell'Italia nella Grande Guerra Perciò
meritano un rapido sguardo i catastrofici errori del 1919, quando,
vinta la guerra da parte dei militari (da Cadorna e Capello a Diaz,
Giardino e Badoglio), l'Italia la perse per insipienza dei “politici”,
cioè del governo dell'epoca, incardinato sul presidente del Consiglio,
Vittorio Emanuele Orlando, e sul ministro degli Esteri, Sidney Sonnino,
apprezzato cultore di Dante (come tanti a quel tempo),
protomeridionalista acuto ma privo di lungimiranza e di
senno politico, che poi è tutt'uno con il “senso dello Stato”, di cui
rimane esempio sommo l'insuperato Giovanni Giolitti. Cent'anni
orsono l'Italia sprecò gran parte delle ragioni con le quali aveva
motivato l'intervento nella Grande guerra a fianco dell'Intesa
anglo-franco-russa. Il 18 gennaio 1919 si aprì a Parigi il Congresso
per la pace. Dopo mesi di schermaglie procedurali e di liti tra le
gareggianti ingordigie, il 24 aprile la delegazione italiana lasciò
polemicamente i lavori per protesta contro gli alleati, specialmente
contro il presidente degli Stati Uniti d'America, Woodrow Wilson, che
rifiutavano di assegnare all'Italia Fiume, la seconda città portuale
dell'Adriatico settentrionale, strategica per tutta l'area dell'Europa
centrale. Il 24 maggio 1915, con Antonio Salandra presidente e Sonnino
già agli Esteri, il governo aveva spinto il Paese in guerra puntando al
dominio sull'Adriatico. Fra le tre possibili opzioni (annessione delle
terre notoriamente italofone; richiesta del confine naturale, ovvero la
displuviale alpina, comprendente ampie aree a larga maggioranza
germanofone o slave; espansione oltre il confine naturale, con
acquisizione di isole e città dell'antica Dalmazia) con l'accordo di
Londra del 26 aprile 1915 Roma puntò sulla terza: il sogno di una
talassocrazia circoscritta all'Adriatico mentre già molto faticava a
tenere le briglie di un dominio coloniale troppo costoso per le sue
risorse, dall'Eritrea alla Somalia alla Libia. Le sue “ragioni” furono
ripetutamente messe in discussione durante il conflitto, in specie
nell'estate 1917, quando il congresso della massoneria dei Paesi
alleati e neutrali (28-30 giugno) approvò lo Statuto della Società
delle Nazioni e subordinò a plebiscito la demarcazione dei confini
nelle zone mistilingue. Tale principio (propriamente massonico) avrebbe
comportato per l'Italia il ripiegamento sulla soluzione minimalistica,
cioè la rinuncia al Brennero e alle terre a est di Gorizia e di
Trieste, per non parlare del lungo elenco di isole e basi sulla costa
adriatica orientale minuziosamente elencate nell'arrangement di Londra. 1918-1919: gli USA ignorarono gli accordi preesistenti tra alleati L'intervento
degli Stati Uniti in guerra, il 6 aprile 1917, venne salutato anche in
Italia con motivato entusiasmo, nella convinzione che Washington
avrebbe concorso alla vittoria senza mettere in discussione i patti
corsi tra gli alleati. All'opposto, gli USA non riconobbero affatto né
l'Intesa né gli accordi via via stabiliti tra questa e i nuovi alleati
e/o associati europei ed extraeuropei. Ai suoi occhi il groviglio di
trattati e patti pregressi avevano l'imperdonabile inconveniente di
essere “segreti”. Essi, inoltre, comportavano modifiche largamente
condivise (evacuazione dei tedeschi dalle aree invase, a cominciare dal
Belgio, ritorno dell'Alsazia-Lorena alla Francia, ricostituzione della
Polonia e della Boemia indipendenti e italianità di Trento e Trieste),
ma risultavano opachi sulle sorti dell'immenso impero turco,
sull'Austria-Ungheria, sulle colonie germaniche e sul destino dei
Balcani, incluso il confine tra regno d'Italia e lo stato
serbo-croato-sloveno, la cui costituzione venne proclamata nel convegno
di Corfù all'indomani del congresso massonico parigino, con la
benedizione di Parigi. Anche gli osservatori meno sospettosi compresero
che i nuovi Stati, come la Boemia e la Jugoslavia, nascevano sotto
tutela della Francia, i cui obiettivi postbellici risultavano dunque
del tutto contrastanti con quelli italiani. Il divario degli USA
rispetto all'Europa venne accentuato dai Quattordici punti l'8 gennaio
1918 enunciati da Wilson e dalle Proposte complementari (12 febbraio)
quali basi della pace ventura. Essi dissero chiaro che gli USA erano
entrati in guerra a causa delle violazioni del diritto che li avevano
direttamente colpiti. Oltre alla libertà di navigazione sui mari in
pace e in guerra e alla piena libertà di commercio, Washington non
tenne in alcun conto gli “accordi internazionali privati di
qualsivoglia natura”, cioè i “patti” tra gli alleati, da sostituire con
“pubblici trattati di pace, conclusi apertamente”. L'opinione
internazionale era sotto l'impressione suscitata dalla pubblicazione
del protocollo costitutivo dell'Intesa e dell'accordo italo-intesista
del 26 aprile 1915, rinvenuto dai bolscevichi di Lenin negli archivi
segreti dello zar e pubblicati dal quotidiano del partito, “La Verità”,
con grande scandalo e irritazione dei loro autori e fautori e
indignazione di quanti scoprirono che “lavoravano per il re di
Prussia”. Fu il caso dei cattolici dinnanzi all’esclusione della Santa
Sede dal Congresso di pace. Il 9° punto di Wilson allarmò il governo di
Roma: “Una rettifica delle frontiere italiane dovrà essere effettuata
secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili”. Mentre
ricalcava le conclusioni del Congresso massonico parigino, esso si
intrecciava col punto 10°: la garanzia di sviluppo autonomo dei popoli
dell'Austria-Ungheria, ai quali gli USA intendevano salvaguardare un
posto tra le nazioni. Al riguardo l'Italia era lontana da una posizione
univoca. Mentre per Sonnino la duplice monarchia doveva essere tenuta
in vita quale antemurale verso l'avanzata degli Slavi, altri erano per
la sua totale dissoluzione a vantaggio dei popoli “oppressi” ascendenti
a Stati, in un quadro politico-militare reso confuso dalla rivoluzione
in corso nell'ex impero zarista. Inizialmente esaltato come sicuro
interprete del pensiero democratico, quando compì il viaggio in Italia
Wilson fu accolto da manifestazioni popolari deliranti, assecondate da
giornali e riviste che lo dipinsero quale novello Giuseppe Mazzini.
Poiché i suoi progetti erano criticati dalla Santa Sede, Wilson fu
anche spacciato quale campione della massoneria universale. In realtà,
non lo era affatto, a differenza del suo predecessore, Theodore
Roosevelt, e di suoi successori quali William Howard Taft (celebre come
“isolazionista”), Warren G. Harding, Franklin D. Roosevelt, in carica
dal 4 marzo 1933 alla morte, il 12 aprile 1945, ed Harry Truman.
Nell'entusiasmo, miscuglio di disinformazione, miopia e calcoli
infondati, gli vennero intitolati vie, piazze, bar, ristoranti e locali
cinematografici. Come tanti innamoramenti focosi per una persona invero
sconosciuta, quello per il presidente degli USA presto volse in
delusione cocente. Se Parigi era in serrata competizione con Roma,
dalla Cecoslovacchia al Mediterraneo orientale, agli interessi
dell'Italia Wilson antepose quelli della Jugoslavia e, ignaro,
superficialmente informato o per la sua inclinazione al misticismo, si
dichiarò fiducioso nell'evoluzione democratica della rivoluzione in
Russia. In Italia il quadro quadro politico non poteva essere più
caotico. Dopo la fondazione del partito popolare italiano (19 gennaio),
Mussolini costituì a Milano i fasci di combattimento (23 marzo), dal
programma polivalente e labile. Il 1° maggio 1919 Antonio Gramsci,
Angelo Tasca, Palmiro Togliatti e altri fondarono a Torino l'“Ordine
Nuovo”, ferocemente antigiolittiano. Lo Statista stava elaborando il
progetto più avanzato della borghesia riformatrice, incardinato su
restaurazione della finanza pubblica, politica estera scevra da
tentazioni imperialistiche, progressività delle imposte e rilancio
dell'istruzione in tutti gli ordini e gradi, a cominciare da quella
tecnica e professionale. Incombevano tre urgenze concatenate: drastica
riduzione delle dimensioni delle forze armate, sia perché
sproporzionate agli obiettivi politici perseguibili dall'Italia
inchiodata da un debito pubblico spaventoso, il passaggio dalla
produzione di guerra a quella di pace e l'adeguamento di salari e
stipendi alla svalutazione del potere d'acquisto della moneta, che
anche in Italia metteva in ginocchio la media e piccola borghesia. Era
scontato che questo accadesse nei paesi vinti (a cominciare
dall'Austria e dalla Germania, precipitate in una crisi economica,
sociale e morale avvilente) ma era inconcepibile che avvenisse anche in
Italia, Paese formalmente vincitore. Per di più in ottobre il Partito
socialista, guidato da Giacinto Menotti Serrati, sterzò a favore della
Terza Internazionale bolscevica per “fare come in Russia” Dinnanzi
al rifiuto degli Alleati di riconoscere all'Italia Fiume in aggiunta ai
compensi previsti dall'accordo di Londra, come detto il 24 aprile la
delegazione italiana lasciò Parigi. Il gesto, che voleva scuotere gli
alleati, cadde nella loro indifferenza generale. Seguirono giorni di
frustrazione e di polemiche roventi. Il gran maestro del Grande
Oriente, Ernesto Nathan, che nel 1915 aveva rappresentato l'Italia
all'inaugurazione del Canale di Panama e all'Esposizione universale di
San Francisco, il 25 aprile lanciò un appello agli italiani contro
Wilson. Però a Parigi i lavori proseguirono come nulla fosse. Anzi,
venne approvato lo statuto della Lega delle Nazioni (da non confondere
con la massonica Società delle Nazioni), con sede a Ginevra (anche
perché il Congresso avrebbe di lì a poco ribadito la neutralità della
Svizzera) e una serie di clausole lontane dalle aspirazioni
dell'Italia. L'art. 21 della Lega fu però il più emblematico: il
dominio planetario degli USA. Mentre spazzava via la diplomazia
segreta, che per secoli era stato il metodo ordinario delle relazioni
interstatuali nella Vecchia Europa (anche in forma di accordi tra i
suoi singoli Stati e il nemico principale della cristianità: la Sublime
Porta di Istanbul, vezzeggiata per calcoli inconfessabili), lo statuto
della Lega adottò la “Dottrina Monroe” del 1823, sintetizzata nella
formula sbrigativa ma chiara “l'America agli Americani”, senza
reciprocità per gli europei. L'amara via francigena Dopo
dieci giorni di aventinismo diplomatico al governo di Roma dovette bere
l'amaro calice: riprendere la via francigena. Il 2 maggio Sonnino
riassunse lo stato della crisi: non rimaneva che “invocare per ora il
puro e semplice trattato di Londra, come sta, e senza modificazioni
(cioè rinunziando per ora a Fiume). All'infuori di ciò non resta che
rassegnarsi alle imposizioni di Wilson, attenuate in parte, se
possibile, dalle proposte degli alleati”. Dopo una “riunione
tempestosa” con Orlando, presente Armando Diaz, già Comandante Supremo,
la delegazione italiana radunata a Roma prese atto dell'oggettiva
ostilità degli alleati dinnanzi alle loro richieste: non avrebbe
ottenuto la sovranità su Zara, Sebenico e le tre terre agognate. Le
avrebbe ricevute “pro tempore” come “mandato” da parte della Lega che a
sua volta avrebbe assunto la sovranità su Fiume. Tornata a Parigi il 5
e ai lavori congressuali dal 7 maggio 1919, la delegazione passò da una
delusione all'altra: una situazione insostenibile non solo a Parigi ma
anche in Parlamento. Il nodo della vertenza tornò a essere il vincolo
non aggirabile di indire il plebiscito nelle terre mistilingue, che vi
avrebbe messo “in istato di maggiore inferiorità la nazionalità
italiana”. Il 19 giugno la Camera respinse a larghissima
maggioranza (appena 78 “si” contro 262 “no”) la proposta di Orlando di
adunarsi in comitato segreto per discutere le comunicazioni del governo
sulla politica estera. Il “presidente della Vittoria” non aveva ancora
capito che era finita per sempre l'epoca delle trattative segrete e dei
segreti sulle trattative. Lo aveva spiegato due anni prima Giolitti nel
famoso discorso del 13 agosto 1917 da presidente del Consiglio
provinciale di Cuneo, con sei mesi di anticipo sui 14 punti di Wilson:
“Sarebbe pericolosa illusione credere che si possa riprendere con poche
varianti l'andamento della politica estera a base di trattati segreti”. Sonnino: firmò la pace, ma ormai decaduto dalla carica Il
23 giugno a Roma si insediò il nuovo governo presieduto da Francesco
Saverio Nitti con agli Esteri il giolittiano Tommaso Tittoni. Il 28
giugno fu solennemente firmato il trattato di pace contro la Germania.
Per l'Italia esso venne sottoscritto da Sonnino, rimasto appositamente
a Parigi, ma ormai privo della carica di ministro. Non fu una gran
figura, né per lui né per il suo Paese. Quelle peripezie vanno
ricordate non solo per vezzo antiquario ma per porre con fermezza la
domanda che da un anno incalza senza risposta: qual è la politica
estera dell'Italia attuale? Essa va discussa nell'unica sede
istituzionale appropriata: il Parlamento. Il 17-21 maggio 1915 esso
venne plagiato dal governo. Ma all'epoca il governo era “del re”, in un
sistema istituzionale scaleno, sbilanciato a favore del monarca e del
“suo” esecutivo. Quel regno però era uno Stato pienamente sovrano. Perduta
politicamente la Grande guerra e sotto tutti i profili la seconda, oggi
lo Stato d'Italia è vincolato a trattati che non consentono ambiguità
né “giri di walzer”. Per quanto riguarda la politica estera l'esecutivo
oggi in carica rimanda alle parole dell'Evangelista: “E gli uomini
hanno amato più le tenebre che la luce” (Giovanni, 3, 19). In Libia
come sugli altri fronti internazionali “caldi” il governo balbetta,
come fosse fuori dal mondo. Non può contare all'infinito sul pronto
soccorso assiduamente prestato dal Presidente della Repubblica, Sergio
Mattarella, per rimediare ai grossolani svarioni di ministri, capi
politici, portavoce... Senza una politica estera (e conseguentemente
militare) chiara e condivisa, discussa e approvata in Parlamento, non
il solo governo ma lo Stato stesso perde quella “sovranità” di cui
tanti parlano senza sapere che cosa si dicano perché, appunto, ne hanno
una visione inguaribilmente localistica, “rurale”.
Aldo A. Mola
DONATO ETNA (1858 -1938) IL “VECIO ALPIN” CHE VESTÌ IN GRIGIOVERDE L'ESERCITO ITALIANO
Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 28 aprile 2019, pagg. 1 e 11.
Dal blu al
grigioverde: sempre “Avanti Savoia” e viva l'Italia.
Con la
visita all'Altare della Patria e a Vittorio Veneto, il Milite Ignoto e
la città sacra alla Vittoria del IV novembre 1918, ancora una volta il
Capo dello Stato Sergio Mattarella ha indicato, col linguaggio dei
simboli e dei luoghi memoriali, la parabola della vera storia d'Italia
nel giorno convenzionale della liberazione dalla guerra e dell'inizio
della Ricostruzione. Questa voleva, doveva e dovrebbe essere l'unità
Stato-Nazione e della fratellanza tra i popoli nella giustizia
internazionale: “pax in iure gentium”, la divisa della “Corda Fratres”.
A un mese dall’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo il
mònito del Presidente giunge puntuale. Ricorda l'abissale differenza
tra l'Europa attuale, da quasi 75 anni in pace (sia pure “armata”)
dall'Atlantico a Vladivostok, e quella del 1919-1920, gli anni delle
paci sbagliate, o quella del 1945-1946, che videro l'inizio della
guerra fredda, greve e opprimente negli Stati sotto giogo dell'URSS, ma
sempre meglio che sotto le bombe atomiche. Nei cento anni
dalla Grande Guerra a oggi lo “strumento militare” è profondamente
mutato in ogni suo aspetto, come ricordano la “Storia dell'esercito
italiano” del generale Oreste Bovio e il succoso “Esercito italiano.
Storia e Tradizioni” editi dall'Ufficio Storico dello SME (Roma, via
Etruria 23). Per secoli gli eserciti sono andati in battaglia con abiti
e vessilli sgargianti. I colori facevano la differenza. Distinguevano
dai nemici e mostravano la superiorità dei corpi organizzati rispetto
alle truppe raccogliticce. Sull'esempio delle legioni romane (con
labari e aquile), Napoleone I coniugò arte militare e genio politico e
dedicò massima cura alle divise perché, contrariamente a quanto
solitamente si dice, esse fanno il guerriero, proprio come la tonaca fa
il monaco nelle parti consacrate (la testa e le mani). Gli ussari
dell'Impero napoleonico rimangono i cavalieri più eleganti della storia
di Francia. Sicuramente costosi, furono anche i più valorosi. Un'élite
nell'ambito dell'immensa Armata giunta a contare 600.000 uomini su 30
milioni di abitanti. Per stare alla pari, l'Italia odierna dovrebbe
avere in linea un esercito di circa 1.200.000 effettivi. Invece la sua
politica estera (che è anche militare) tragicamente annaspa. Né vale
obiettare che oggi ogni soldato è un concentrato di tecnologia bellica
d'avanguardia. Lo erano anche i militari di allora, bardati e armati di
tutto punto, nei confronti della forza dei “civili”. Il perfezionamento
delle armi da fuoco mutò lo scenario dei campi di battaglia. Un
tiratore scelto di primo Ottocento non sempre centrava un albero a
cinquanta metri. Le bombarde facevano più rumore che danni. Poi la
canna rigata, i cannoni a retrocarica e a tiro rapido e, infine, la
mitragliatrice cambiarono tutto. All'avanguardia fu la guerra di
secessione degli USA: il primo grande massacro con “ferri nuovi”. Per
la maggior parte degli eserciti europei la svolta venne con la
conflagrazione del luglio-agosto 1914. Andare all'assalto o anche solo
appostarsi ai margini di un bosco o sul ciglio di una trincea
indossando pantaloni rossi, bianchi o giallini e giubbe azzurre o
scarlatte significava far da bersaglio al fuoco nemico. Bisognò
cambiare, e in fretta. Molto prima che s’imponesse la severa lezione
della grande guerra, a voltar pagina in Italia ci aveva pensato un
ufficiale degli alpini, Donato Etna. D'intesa con il presidente della
sezione milanese del Club Alpino Italiano, Luigi Brioschi, egli propose
di passare almeno per gli alpini dal “blu”, comune a tutta la fanteria,
al grigio, il colore delle rocce. In molti ambienti la proposta non fu
affatto gradita. Non era facile separarsi dai colori consegnati alla
memoria dai celebri quadri di Fattori, Induno, Segantini e narrati
dalla sterminata memorialistica e narrativa delle guerre risorgimentali. I
primi a vestire il nuovo colore furono 40 alpini della brigata
Morbegno, comandata da Etna. Il “Plotone Grigio” nell'ottobre 1906
montò la guardia al Palazzo Reale di Milano in occasione di una visita
di Vittorio Emanuele III. Pensoso e riflessivo, il Re lo passò in
rivista. Poco più di un anno dopo, il 4 dicembre 1908, con la
disposizione 458 fu ordinata l'adozione del grigioverde per l'intero
Regio Esercito Italiano. Presidente del Consiglio era Giovanni Giolitti
(Mondovì, 1842-Cavour, 1928), che fondeva senso dello Stato e buon
senso antico e col Re parlava in piemontese. Ministro della Guerra, per
la prima volta dall'unità nazionale, era un borghese: Severino Casana,
ingegnere torinese, poi sostituito dall'alessandrino Paolo Spingardi,
già comandante generale dei carabinieri. Il “cambio” non
riguardò solo l'abito. Dieci anni dopo la repressione delle
“insurrezioni” a Milano, Pavia e in Toscana, seguite di sei anni ai
“fasci siciliani”, e dopo il suo ricorrente impiego nel ripristino
dell'ordine pubblico messo in forse da scioperi politici sovversivi,
l'esercito doveva non solo essere ma sentirsi tutt'uno con il Paese,
come lo avevano vaticinato Francesco De Sanctis, Edmondo De Amicis,
Giosue Carducci e capi di stato maggiore che arrivavano dalle file del
volontariato garibaldino, come Enrico Cosenz, già allievo della
“Nunziatella” di Napoli. Avanzava una generazione di ufficiali di
volitivi, studiosi, attenti a quanto avveniva non solo oltralpe ma
anche in terre lontane: dalla feroce guerra anglo-boera in Sud-Africa
(Churchill vi fece la sua “prova del fuoco”) a quella russo-giapponese
del 1904-1905. Il ruolo delle forze armate come espressione della
Nazione era nelle prime pagine dei quotidiani all'epoca più
diffusi. Donato Etna di sangue reale Donato
Etna ebbe più influenza di quanto generalmente si sappia. Nel 1906, a
quarantotto anni, venne promosso colonnello. Aveva alle spalle un lungo
servizio. Volontario con ferma permanente dal 1877, quando aveva 19
anni, sottotenente degli Alpini dal 1880, temporaneamente assegnato al
corpo di stato maggiore, nel 1898, dopo la sconfitta subita dagli
italiani ad Adua (1 marzo 1896) era andato alpino in Eritrea, la terra
ove erano caduti i piemontesi Pietro Toselli, di Peveragno, Giuseppe
Galliano, di Vicoforte, Giuseppe Arimondi, di Savigliano... Come lui,
partì una legione di militari italiani (lo fece anche il giovane Pietro
Badoglio) sulla traccia del cardinal Massaia. Visionari? Colonialisti?
Imperialisti? Altrettanto facevano da molto più tempo i loro coetanei
inglesi, francesi, olandesi e da poco anche belgi e tedeschi nei
rispettivi possedimenti. Altri Stati europei non avevano colonie ma
dominavano con altri mezzi non meno convincenti degli “scarponi sulla
terra”: la finanza e la bilancia commerciale. Gli Stati Uniti erano il
modello. Difficile stabilire se il commercio seguiva la bandiera o
viceversa. Al di là del grado nell'Esercito, Donato Etna
aveva una carta in più per risultare convincente. Alla nascita, in
Mondovì, il 15 giugno 1858, fu registrato figlio di genitori ignoti.
Nel suo caso, però, mentre della “madre” si vociferò fosse una “maestra
di Frabosa” (non si sa se Soprana o Sottana) il “pater” fu subito
certo, come riferisce un appunto nell’archivio storico dello Stato
Maggiore. Era Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, che se ne occupò
con discrezione e affetto. Il nome e il cognome furono un
riconoscimento e un programma. Donato nacque poche settimane prima
degli accordi di Plombières tra Napoleone III e Camillo Cavour,
premessa sostanziale e poi formale dell'alleanza tra impero francese e
regno di Sardegna contro l'Austria per l'ingrandimento sabaudo
nell'Italia settentrionale. Sin dal 1713 la Sicilia aveva recato la
corona regale a Vittorio Amedeo II, come narra Tommaso Romano,
componente della Consulta dei senatori del regno: una decisione
ribadita nel 1848. A Torino il possesso del Vulcano dell'Isola del Sole
più che una speranza era e rimaneva un programma. La famiglia “allargata” di Vittorio Emanuele II Re
Vittorio aveva una vita privata più lineare, persino monocorde, di
quella solitamente narrata. La Consorte, Adelaide, era morta nel 1855
nel travagliato ottavo parto in soli 11 anni dalle nozze. Dei figli
maschi le sopravvissero Umberto, principe di Piemonte, duca di Savoia e
poi Re di Sardegna e d'Italia; Amedeo, duca di Aosta e poi Re di
Spagna; e Oddone, duca di Monferrato (1846-1866). Duca di Savoia, dal
1847 Vittorio Emanuele aveva instaurato un rapporto uxorio con la
quattordicenne Rosa Vercellana. A suo modo le rimase fedele “usque ad
mortem” al di là degli “incontri casuali”, all'epoca consueti non solo
per sovrani ma per militari di terra e di mare, commercianti,
esploratori e anche per politici, sia stanziali (Cavour ne è un
esempio) sia erratici (come Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi e
Francesco Crispi...). Dalla “Bella Rosina” (dall'11 aprile 1859
contessa di Mirafiori e di Fontanafredda) Re Vittorio ebbe Vittoria ed
Emanuele Alberto Guerrieri (che lo seguì nella campagna del 1866 contro
l'Austria). In pericolo di vita, il 7 novembre 1869 il Re sposò Rosa
con rito religioso e il 7 novembre 1877 con rito civile: matrimonio
morganatico, cioè senza senza effetti dinastici, benché la sposa avesse
titolo di “Altezza”. Esclusa dal Pantheon (“tomba” provvisoria del Re,
come poi di suo figlio, Umberto assassinato a Monza a soli 56 anni)
Rosa venne poi deposta nel “piccolo Pantheon” appositamente fatto
edificare dai suoi eredi a Mirafiori (16 metri di diametro). Molti
trovarono curiosa l'insegna scritta sul suo frontone, “Dio, Patria,
Famiglia”, sia poiché essa era cara a Mazzini, sia perché Re Vittorio,
come Cavour, era stato scomunicato per la “debellatio” dello Stato
Pontificio e la sua famiglia era un po' “allargata”. La figlia,
Vittoria, sposò il primo aiutante di campo del Re. Alberto impalmò la
figlia del dovizioso conte di Larderel e si affermò come enologo di
fama europea, come già il marchese Tancredi Falletti di Barolo. Sulla
sua traccia proseguì Gastone Guerrieri di Mirafiori, deputato
nazionalista e senatore. Il “vecio” Etna a Carzano, dopo Caporetto... Già
decorato durante l'“impresa di Libia”, asceso a generale Donato Etna si
condusse con valore nel corso della Grande Guerra. Legò il nome a due
sue battaglie, una azzardata (rimasta nell'oblio), l'altra (la ritirata
dall'Isonzo al Piave), ove nel disastro generale rifulse il suo valore.
La prima fu il “sogno di Carzano”, più volte narrato come possibile
“sfondamento in Trentino” un mese prima di Caporetto, “occasione
perduta” secondo il “memoriale” di Cesare Pettorelli Lalatta. In
sintesi, per quanti già non conoscano la vicenda, dall'agosto 1917 un
militare sloveno prese contato con Pettorelli per informare sui piani
austro-ungarici e caldeggiare un'offensiva italiana in quello che era
ritenuto settore debole della difesa austro-ungarica. Dopo ulteriori
contatti e tergiversazioni, il piano venne proposto al Comandante
Supremo, Luigi Cadorna, che ci rifletté e infine autorizzò l'azzardo.
La filiera fece capo proprio al generale Etna, comandante della XVIII
Divisione, che però ebbe al seguito ufficiali nominati da poco nei
rispettivi ruoli. Mancò un vero progetto. A ben vedere su quel tratto
non si sfondava proprio nulla per due motivi chiarissimi a Cadorna: in
primo luogo lì l'Austria poteva essere ferita ma non penetrata e vinta.
In secondo luogo ormai si era esaurita l'offensiva generale d'agosto
sulla Bainsizza. Lo sforzo era stato enorme. Come l'anno prima, anche
nel 1917 l'Italia era stato l'unico Paese ad avanzare in territorio
nemico. L'Austria-Ungheria fu sull’orlo del collasso. A salvare gli
Imperi Centrali fu il crollo della Russia, in preda alla rivoluzione
bolscevica innescata da Lenin trasferito dai tedeschi in vagone
piombato dalla Svizzera, con le trame del “Grande Parvus”. Cadorna,
stratega autentico come ha documentato suo nipote Carlo in “Caporetto.
Risponde Cadorna” (ed. BCSMedia), aveva una visione europea della
guerra. La “missione Carzano” finì come prevedibile. Il primo a non
crederci fu proprio Etna, che appesantì le truppe con i “fardelli” per
attestarsi quale eventuale “testa di ponte” in attesa di rinforzi che
però il Comando Supremo non poteva inviare perché li avrebbe distolti
dal fronte principale. A conclusione la VI Armata venne sciolta e fusa
con la I. Il “Capo” aveva ragione. Proprio sull'alto Isonzo alle 2 del
mattino del 24 ottobre 1917 si scatenò l'inferno che costrinse
all'arretramento del fronte come narrò Luigi Cadorna in “La guerra alla
fronte italiana” (BastogiLibri, 2019). Tra i migliori comandanti nella
lunga sanguinosa e spesso eroica battaglia di arresto del nemico vi fu
proprio Donato Etna, molto apprezzato dal nipote, Vittorio Emanuele
III, che stimava quello “zio”, gli era sinceramente affezionato e gli
conferì decorazioni e riconoscimenti. Del resto proprio Etna era stato
tra i migliori nell'organizzazione delle difese del Monte Grappa,
fulcro della difesa italiana contro l'avanzata nemica e della riscossa
del 1918. Il 14 ottobre il sessantenne generale Etna guidò
l'avanguardia dell'Esercito italiano nella battaglia finale di Vittorio
Veneto e meritò la medaglia d'argento. Poi al comando del corpo di
armata di Torino, nel 1919 fu esonerato perché intimò perentoriamente
il rilascio degli ufficiali che si erano dichiarati favorevoli
all'impresa di d'Annunzio a Fiume. Candidato alla Camera senza successo
per la Lista della Vittoria nelle elezioni del novembre di quell’anno,
il “Vecio Etna” guadagnò ampio seguito tra gli alpini e quanti temevano
la rivoluzione rossa, che non era una fiaba ma una minaccia vera, come
si vide con l'attacco della Russia di Lenin e Stalin alla Polonia in
coincidenza con l'occupazione delle fabbriche nel triangolo industriale
Torino-Milano-Genova. Prefetto ad Alessandria (febbraio-luglio 1923),
piazza strategica sull'asse Torino-Genova all'avvento del governo
Mussolini (31 ottobre 1922), e commissario al Comune di Torino nel
1925, nel 1933 Etna fu creato senatore del Regno. Così raggiunse
alla Camera Alta i Principi del sangue e tanti generali, ammiragli,
politici e imprenditori che avevano avuto ruolo protagonistico
dall'intervento alla Vittoria. ...e per fermare lo spopolamento delle aree montane Al
centro della sua attenzione rimasero le ripercussioni negative dello
spopolamento delle montagne sull’efficienza delle truppe alpine e sulla
difesa della frontiera montana. Nel 1930 ne parlò al I congresso
piemontese di “economia montana”: un assillo che non è né di destra né
di sinistra. Era ed è un problema vero e serio. Lo divenne ancor più
dopo la guerra del 1940-1945 quando le valli furono teatro di tanti
conflitti: quello italo-francese del 1940-1943, il franco-italiano del
1944-1945, il germano-francese del 1943-1945 e, non ultimo, quello
fratricida tra italiani dal 1943 al 1945. Un groviglio che richiede
pazienza e pacatezza per essere districato in tutte le sue implicazioni
e conseguenze. Gli “americani”, pochi ma in posizione chiave, stavano a
guardare. Scrivere di storia è facile trincerati fra libri.
Altra cosa è farla. Costa lacrime e sangue. Perciò chi scrive deve
sentire rispetto per le Persone di cui scrive. A distanza di tanto
tempo si possono indicare tra gli eredi morali di Donato Etna uomini
che si batterono per la liberazione del Piemonte da invasori di ogni
genere e per la restaurazione dello Stato. In Piemonte la “nazione”
esisteva da secoli, proprio grazie a Casa Savoia che aveva inoculato il
senso di appartenenza e di condivisione. Le sue antiche insegne vennero
rialzate dall'eroico generale Mario Perotti, fucilato al Martinetto di
Torino, da Enrico Martini “Mauri”, Icilio della Rocca, Edgardo Sogno,
Alessandro Trabucchi e da Aldone Quaranta, comandante militare della I
Divisione “Giustizia e Libertà”, massone, figlio e nipote di illustri
“Fratelli”. Fu lui a scrivere l'ordine di scioglimento della IV Armata
dettato dal generale Mario Vercellino, grazie al quale i subordinati
non poterono essere accusati di diserzione. A differenza dei
conti di Mirafiori, Donato Etna, non prese moglie. Sposò l'esercito.
Dopo la caduta della monarchia, non ebbe neppure “eredi morali”.
La sua Italia, grande e generosa, andava dimenticata. Motivo in
più per ricordarlo ottant'anni dopo la morte. Fu il “vecio” che vestì
gli alpini di verde, poi mutato nel grigioverde. Col suo vulcanico
cognome insegnò la continuità montana dell'Italia, dalle valli
dell'Italia settentrionale alla dorsale appenninica, dagli Abruzzi e
Molise, bacino storico di truppe alpine, ai monti siciliani. Donato
Etna, figlio di Vittorio Emanuele II e della “maestrina di Frabosa”,
insegna che l'unità orografica della “Saturnia Tellus” è tutt'uno con
quella morale della “itala gente da le molte vite”.
Aldo A. Mola
“25 APRILE 1945” CONTI, RACCONTI E STORIA DELLA LIBERAZIONE DALLA GUERRA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 21 aprile 2019, pagg. 1 e 11.
Una guerra mondiale fa Dalle
ore 14 del 2 maggio 1945 scattò la resa dei tedeschi in Italia agli
anglo-americani, presente il generale Aleksei Kislenko per conto di
Stalin. Il “rito” era stato celebrato il 29 aprile nella Reggia di
Caserta. Fu un “patto” tra militari, tutti consci del
loro duro “mestiere”. I germanici s’impegnarono a deporre le armi nei
“campi” indicati dai vincitori, ove vennero trattenuti per anni. A
trattare sottobanco per conto loro era da mesi il comandante delle SS
in Italia, Karl Wolff. Le guerre sono così. Gli Stati le dichiarano.
Tocca ai militari farle. Chi prevale detta le condizioni. I “nemici” si
scambiano i prigionieri. Poi si ricostruisce. Nella generalità dei casi
i “guerrieri” si conoscono, di persona, per intermediari o per studi.
Portano sulle spalle il corso della Storia. Quanti, ignari, ne vengono
travolti soffrono e ricordano la loro personale esperienza,
circoscritta nel tempo e nei luoghi. È quanto accade dal 1945. Da quel
tempo le guerre non si dichiarano nemmeno. Si fanno. Senza preavviso
per nessuno. Perciò quando se ne scrive o parla è difficile passare
dalla “memoria” individuale alla visione generale degli eventi e, ancor
più, dalla storia alla metastoria, dalla somma dei fatti alla
percezione del loro significato ultimo, recondito, impenetrabile. Lo
accennò Socrate quando venne condannato a bere la mortale pozione di
cicuta. I “provvidenzialisti” (alla Alessandro Manzoni) “giustificano”
le sofferenze (altrui). Gli storici se ne astengono. Non hanno neppure
la debolezza di credere alla hegeliana (poi marxiana) “filosofia della
storia”. Si riconoscono in Giacomo Leopardi che dette voce al canto
notturno di un pastore errante sui monti dell'Asia e contemplò lo
“sterminator Vesevo”, le catastrofi naturali, al cui confronto la
capacità distruttiva degli umanoidi è piccola cosa, con buona pace
degli “ambientalisti”, con o senza treccine, dimentichi che per
millenni i loro simili si sono uccisi con selci levigate e coltelli,
utili anche a decortirare corpi vivi, se ben maneggiati. Quel
2 maggio 1945 in Italia la guerra finì. Da pochi giorni gli
anglo-americani avevano fatto irruzione in Emilia-Romagna per superare
il Po, spingersi verso il confine orientale e fermare le straripanti
ambizioni degli jugoslavi, ancora a mezza via tra Stalin e il troppo
celebrato Churchill. Per loro la guerra in Italia era finita da giorni.
Il “resto”, cioè le divisioni tedesche ancora attestate in Italia,
soprattutto a ovest, sarebbe caduto “per manovra”. Erano in una
tenaglia: gli americani (pochissimi) al di là delle Alpi, la Germania
ormai nel caos. Secondo la cronologia, che è l'“attaccapanni” della
Storia, Berlino cadde e Hitler si uccise quando la 34^ divisione
germanica era ancora attestata sul versante orientale delle Alpi
Marittime. Si ritirò in assetto di combattimento. Non si arrese ai
“partigiani” ma agli anglo-americani e represse attacchi inconsulti
secondo le leggi di guerra. Il trauma dell'Italia settentrionale Nel
frattempo il Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia (CLNAI)
diramò la direttiva “Aldo dice 26 x 1”, cioè l'insurrezione generale
delle forze partigiane organizzate nel Corpo Volontari della Libertà
(CVL), ribadito dai CLN regionali. In alcune città importanti i
partigiani precorsero l'avanzata degli anglo-americani. Fu il caso di
Genova, ove ottennero la resa dei tedeschi. I germanici in ritirata
lasciarono con le spalle al muro la Repubblica sociale italiana, sorta
sotto la loro tutela nel settembre 1943 con a capo Benito Mussolini,
tornato al suo originario socialismo repubblicano. Il passaggio dalla
guerra al dopoguerra nell'Italia settentrionale fu traumatico e in
molte regioni centro-meridionali tuttora non è compreso. È ingenuo
pensare di rimuoverlo affermando che parlare di fascismo e comunismo è
anacronistico. Ogni persona davvero adulta fa i conti quotidianamente
con la propria vita. Del pari, un popolo che non la l' “esame di
coscienza” è condannato a rimbambire. Perciò almeno una volta l'anno è
necessario riflettere sulla “via crucis” di fine aprile-inizio maggio
1945 e con l'arrivo degli Alleati, che insediarono la loro
amministrazione militare a controllo dei Comitati di liberazione (tema
scabroso, poco studiato, di solito obliato). La macabra “conta” dei caduti Fra
le molte stranezze di questo anniversario della fine della guerra in
Italia irrompe la “conta” di quanti italiani combatterono
effettivamente contro l'occupazione germanica e il governo della RSI.
Il primo a parlarne senza bisogno di archivi e cattedratici fu
Ferruccio Parri, comandante delle formazioni Giustizia e Libertà, al
Teatro Eliseo di Roma il 13 maggio 1945. La mera esposizione di numeri
è però irrilevante se non si accompagna alla loro almeno sommaria
contestualizzazione. Perciò giova una sintesi degli eventi,
forzatamente rapida. Nel 1942 gli iscritti al Partito nazionale
fascista raggiunsero l'apice. In Italia era diffusa la convinzione che
l'Asse Berlino-Roma-Tokyo avrebbe piegato l'Unione sovietica e vinto la
guerra. Si dimenticava che l'Urss e il Giappone non si erano affatto
dichiarati guerra. Ognuno faceva la propria. Come già nel 1915-1918, il
governo Mussolini non ebbe affatto chiaro quale fosse la sua o ne
coltivò una visione minimalistica. Malgrado le ristrettezze imposte e
la perdita dell'intera Africa Orientale, la partita contro la Gran
Bretagna sembrava ancora aperta nell'Africa settentrionale, grazie a
Rommel, il “camerata Richard, benvenuto”. Germania e Italia avevano
anche occupato la Francia meridionale, in tanta parte
“collaborazionista”. Pochi mesi dopo, la svolta: la riscossa della
“guerra nazionale” russa, lo sbarco anglo-americano in Mauritania in
Marocco e Algeria, la rovinosa ritirata dall'ARMIR dal fronte russo, il
primo sciopero nelle grandi fabbriche dell'Italia settentrionale,
l'annientamento delle residue forze italiane oltre mare, la richiesta
del Gran Consiglio del Fascismo al Re di riprendere tutti i poteri
statutari, la sostituzione di Mussolini con il Maresciallo Pietro
Badoglio, le rumorose manifestazioni di piazza contro il fascismo,
ormai in liquidazione e infine la fatua illusione che il Paese fosse
ormai uscito dal conflitto. Al governo Badoglio toccò la partita più
difficile: ottenere che l'Italia potesse arrendersi “senza condizioni”,
cioè in termini così umilianti da essere coperti dal segreto. Mentre
Badoglio trattava, i tedeschi la occuparono in forze, per sfruttarne
risorse e uomini e tener lontana la guerra dai loro confini.
L'armistizio del 3-29 settembre 1943 stabilizzò la linea di
combattimento poco a nord di Napoli, anche perché gli anglo-americani
già programmavano lo sbarco in Normandia, chiesto perentoriamente
dall'URSS, e non volevano rimetterci altro. Lo raccontano “La Pelle” di
Curzio Malaparte e le “Am-lire”. Dopo l'annuncio
dell'armistizio, il trasferimento del re e del governo in Puglia e la
costituzione dello Stato repubblicano d'Italia (poi Repubblica sociale
italiana) sotto ruvido controllo germanico, quanti (pochissimi) si
erano schierati pubblicamente contro il regime si trovarono in pericolo
di vita e dovettero darsi alla clandestinità. Rafforzati da militari
fedeli al giuramento al re e da sbandati delle disciolte armate
impossibilitati a rientrare nell'Italia centro-meridionale, i politici
dettero vita a bande che, secondo la valutazione più ottimistica
nel tardo autunno del 1943 ascesero a circa 8-9.000 uomini. L'inverno
non ne aumentò la forza, anche perché la repressione politica della RSI
risultò subito efficiente. Anche al Sud e persino in Roma tedeschi e
repubblicani sapevano come e dove cercare il “nemico interno”. Fu il
caso del monarchico Giuseppe Cordero di Montezemolo, capo del fronte
militare clandestino, e del massone Placido Martini (ne scrive
Francesco Guida nel saggio sui massoni assassinati alle Ardeatine).
Molti suoi futuri protagonisti entrarono nella guerra partigiana solo
dopo lo sbarco americano ad Anzio, nella certezza che sarebbe stato
risolutivo. In “Un romano fra i ribelli” Aldo Sacchetti, resistente dal
settembre 1943, ricorda che Nuto Revelli aderì a “Giustizia e Libertà”
solo a metà febbraio del 1944, dopo lo sbarco
anglo-americano tra Nettuno e Anzio, che lascio erroneamente
presagire chissà quale avanzata. Le vicissitudini delle “Bande” I
“rastrellamenti” della primavera 1944 misero a dura prova le “bande”. I
tedeschi non incalzarono perché impegnati sul fronte sud. Il 4-5 giugno
Clark tentò di “rubare la scena” ad Eisenhower anticipando di un paio
di giorni l'ingresso in Roma rispetto allo sbarco in Normandia. Ne
scrive Gabriele Ranzato in “La liberazione di Roma. Alleati e
Resistenza” (ed. Laterza). A inizio estate le valli si riempirono di
giovani senz’armi né preparazione bellica. Dilagava la certezza della
liberazione imminente, grazie a un secondo sbarco sulla costa
settentrionale italiana. Ma questo avvenne a metà agosto e in
Normandia. Nei mesi seguenti l'avanzata degli Alleati ristagnò. Si
fermò sul crinale appenninico. Il maresciallo britannico Harold
Alexander invitò i partigiani alla “stasi invernale”. La “bande” (che
avevano assunto nome di brigate e di divisioni senza aumentare di molto
gli effettivi) in gran parte si dissolsero. Il rientro degli “ometti”
nella vita ordinaria fu favorito dalla “amnistia” promulgata da
Mussolini il 28 ottobre 1944. Dall'aprile di quell’anno
Vittorio Emanuele III era stato costretto ad annunciare che avrebbe
trasferito tutti i poteri della Corona, nessuno escluso, al quarantenne
Umberto di Piemonte, la cui consorte Maria José dal settembre 1943 era
riparata in Svizzera con tre figlie e Vittorio Emanuele principe di
Napoli: “riserva aurea” della continuità della monarchia, ovvero dello
Stato che aveva ottenuto di arrendersi sul fianco meno doloroso per il
futuro degli italiani. Raffaele Cadorna al comando del Corpo Volontari della Libertà Al
termine di complesse alchimie il governo stipulò l'intesa con il
Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia (comprendente i
rappresentanti di liberali, democristiani, socialisti, comunisti e
partito d'azione). Le formazioni partigiane avrebbero ricevuto ingenti
soccorsi finanziari e aumento di aviolanci di armi ma sarebbero state
agli ordini di un Comando, comprendente, sì, i rappresentanti dei
partiti, ma affidato al generale Raffaele Cadorna (Pallanza, 1889-1973). In
questo anniversario del 25 aprile 1945 merita ricordare che suo nonno,
Raffaele, aveva comandato l'Esercito italiano che irruppe in Roma il 20
settembre 1870. Suo padre, Luigi, era stato Comandante Supremo nella
Grande Guerra (ne ha scritto Carlo Cadorna nel recentissimo “Caporetto.
Risponde Cadorna”, BCSMedia). Il suo elogio venne pronunciato da
Ferruccio Parri nel citato discorso del 13 maggio: alla guida del
movimento di liberazione rappresentò “quello che c'era di migliore, di
salvabile e di onorevole nelle vecchie tradizioni militari italiane.
Per assumere il compito di “consigliere militare” e poi di comandante
del CVL, non esitò a farsi paracadutare in Val Cavallina,nel
Bergamasco, ove era atteso da Fiamme Verdi, che lo scortarono a Milano.
La “guerra fratricida”. Come Giovanni Agnelli finì alle “Nuove” Nei
mesi seguenti la lotta tra fascisti e antifascisti divenne più mirata,
implacabile, atroce. Guerra fratricida. Vi si mescolarono “questioni
private” (come narrò Beppe Fenoglio), geometrie variabili ideologiche e
giganteschi intrecci per la tutela degli impianti industriali (a
cominciare dalla produzione di energia elettrica) in vista del
dopoguerra. Migliaia di militanti delle opposte fazioni si scontrarono
e si eliminarono nei giorni del “furore”: formula di Giorgio Agosti, il
magistrato torinese, pro tempore questore di Torino, che auspicava una
“San Bartolomeo dei repubblichini”. Secondo Gianni Oliva (“La grande
storia della resistenza, 1943-1948”, ed. Utet) i “repubblichini”
(talora spacciati per tali) eliminati nei giorni cruciali furono circa
25.000. Un “regolamento di conti” affiancato dalle sentenze dei
tribunali partigiani che irrogarono fucilazioni con appello e riesame
entro sei ore dalla sentenza. Nel marzo 1945 in forma del tutto
arbitraria il comunista Giorgio Amendola annunciò in una sala mensa
della Fiat che il CLN regionale del Piemonte aveva decretato la pena di
morte per Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta. Nei giorni dello
“sfascio totalitario” gli Alleati avvertirono il CLN che avrebbero
assunto il controllo di Torino il 5 maggio e che da quel giorno non ci
dovevano essere cadaveri per le strade. Benché la sua villa in via
Giacosa fosse vegliata da un drappello di “Giustizia e Libertà” il
fondatore e presidente della FIAT trascorse la notte alle “Nuove” di
Torino, perché, paradossalmente, il carcere era il luogo più
sorvegliato a sicuro. Oltre i racconti, la Storia, Oltre i nazionalismi l'Europa. Quegli
eventi vanno ricordati tutti, anche perché incisero sui decenni
seguenti, che in molti passaggi nuovamente furono di terrorismo
politico, drappeggiato e persino “giustificato” con visioni (o meglio
deliri) millenaristici, salvifici, comunque estremi. Bastarono manciate
di venturieri, spesso eterodiretti, per tenere l'Italia sulla corda
lungo un ventennio. Altrettanto era accaduto e durò in Spagna con l'Eta
e in Irlanda con l'Ira, le cui connessioni con centrali di
destabilizzazione dell'Occidente sono ampiamente documentate. A
conclusione va osservato che l'estremismo è sempre pronto ad alzare la
testa. Lo si è veduto in Catalogna, col pretesto dell'indipendentismo
nazional-repubblicano in nome di un mai esistito “stato” catalano”. Lo
si registra altrove. Chi però osservi pacatamente il flusso della
storia constata che la generalità degli abitanti dell'Italia nel
1943-1945 agognò sopravvivenza, cibo e pace, senza farsi incantare da
chimere ideologiche. Era la immensa “zona grigia” la cui storia rimane
da scrivere. I cittadini ne dettero conferma il 18 aprile 1948, quando
Raffaele Cadorna venne eletto senatore come indipendente nelle file
della Democrazia cristiana. Fu un plebiscito a favore dell'Occidente,
dei principi costitutivi dell'Italia di Cavour, Azeglio, Sella,
Giolitti, Einaudi.... Anche in questi giorni gli italiani stanno
celebrando un grande referendum. Mentre la “politica” è rissa
quotidiana, i cittadini vanno al mare, in montagna, in viaggio
all'estero e/o persino nel proprio Bel Paese, così definito dall'abate
Antonio Stoppani, un prete patriota. È un segno del rifiuto della
“narrazione” di un'Italia rissosa, sprofondata nello psicodramma
radio-televisivo. Gli abitanti del Paese Italia ne hanno viste tante.
Ora dicono la loro: confidano nel Colle delle Beatitudini. Al timone la
società odierna ha la “Generazione Erasmus”, la moltitudine di giovani
che dagli Anni Ottanta si affacciò alla realtà internazionale quando
ormai il bipolarismo stava crollando e che ora pensa in europeo, senza
tentazioni provinciali né tardo-nazionalistiche.
Aldo A. Mola
L'EDITORIALE L'ITALIA RICONOSCE IL GENOCIDIO DEGLI ARMENI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 14 aprile 2019, pagg. 1 e 11.
Meglio tardi che mai: il Genocidio degli Armeni denunciato dalla Camera Finalmente la Camera
dei deputati della Repubblica italiana (seduta 158, lunedì 8 aprile
2019) ha approvato la mozione Formentini, De Carlo, Dalmastro, della
Vedova, Quartapelle, Colucci e altri che impegna il governo a
“riconoscere ufficialmente il genocidio armeno e a darne risonanza
internazionale”. Voti a favore 382, contro 0, astenuti 43 (i deputati
di Forza Italia), applauso finale unanime. Un evento storico? Vedremo.
Con il coraggio e l'unanimità che lo contraddistingue in politica
estera (e non solo), il governo Conte-Di Maio-Salvini si era rimesso al
giudizio dell'Aula. Che cosa farà adesso? Nel frattempo il presidente
Recep Tayyip Erdogan ha convocato l'ambasciatore d'Italia ad Ankara per
esprimergli il “dispiacere” per il voto della Camera: un “altolà” nei
confronti di Roma. In Turchia dire che gli Armeni furono vittima di
genocidio è reato punibile con arresto e reclusione sino a tre anni. Ne
è stato vittima anche il più illustre scrittore turco, Orhan Pamuk,
premio Nobel per la letteratura, che in un'intervista deplorò quello
che gli Armeni bollano “grande crimine”. Il testo della mozione
approvato dalla Camera è scritto in italiano approssimativo. Non dice
infatti che il genocidio degli armeni (non “armeno”) fu opera
dell'“impero turco”. Eppure basterebbe un po' più di precisione
linguistica e di dati storici per scongiurare polemiche o mettere in
evidenza la doppiezza di chi le solleva. In attesa di vedere quanto
farà il governo e, soprattutto, come agirà lo Stato, ricordiamo che
l’uno e l’altro sono ben distinti: i ministeri passano, gli Stati
durano, con i loro obblighi, assunti non solo per calcolo di
costi/benefici, scambi di fichi e noccioline, ma sulla base di principi
morali, enunciati dalla Costituzione e dai documenti condivisi
dall'Italia, a cominciare dalla Dichiarazione universale dei diritti
dell'uomo del 10 dicembre 1948, dalle Convenzioni e dai Trattati che ne
discesero. Il lungo silenzio dell'Italia La
solenne condanna del genocidio degli Armeni pronunciata dalla Camera
dei deputati è subito scivolata via come acqua sulle pietre: nonostante
la sua importanza, infatti, non se ne sono occupati né la Rai (pagata
dai cittadini), né i principali quotidiani. D’altro canto il voto
parlamentare suona tardivo. Un lungo elenco di Stati condannò, da molto
tempo, quel genocidio: Austria, Argentina, Bolivia, Cipro (per metà
ancora sotto giogo turco), Francia, Germania, Grecia (secoli di
dominazione ottomana), Russia, Svezia, Svizzera, Uruguay e persino il
Venezuela. L'Italia arriva solo ora: “Ultimo viene il corvo...”. In
attesa del pronunciamento di Parlamento e governo, molti consigli
comunali, anche di città non proprio irrilevanti (Roma, Milano,
Venezia, Firenze...), già condivisero la risoluzione del Parlamento
europeo che aveva esortato il governo di Ankara a riconoscere il
genocidio quale premessa per una nuova relazione con gli armeni. Il 23
aprile 2015 la presidente della Camera, Laura Boldrini, ricordò in Aula
che quello degli Armeni fu il primo genocidio del Novecento. Lo aveva
fatto poco prima papa Francesco (12 aprile 2015), ricalcando la
dichiarazione del lontano 2001 di Giovanni Paolo II e del patriarca
armeno, e lo ripeté nel corso del suo viaggio apostolico in Armenia nel
2016. Papa Francesco deplorò anche le molte persecuzioni in atto nel
mondo contro i cristiani che “vengono pubblicamente e atrocemente
uccisi – decapitati, crocifissi, bruciati vivi - oppure costretti ad
abbandonare la loro terra”. Tutte “stupidaggini” secondo Erdogan. Erdogan per un nuovo Califfato turco-centrico? Il
voto della Camera dei Deputati offre motivo di riflessione sulle due
facce di una stessa medaglia. Esso deplora lo sterminio degli Armeni
attuato da militari turchi su ordine del governo del Sultano-Califfo
della Sublime Porta nel 1915. Non chiama però in causa lo Stato sorto
dopo la Grande Guerra né l'attuale governo di Ankara. È quest'ultimo,
invece, a sentirsi correo e a respingere con fermezza la taccia
infamante di genocidio attuato dall'antico impero turco-ottomano. La
storiografia cammina sul filo del rasoio della verità dei fatti. Chi
perde l'equilibrio rischia grosso. Per comprendere la doppiezza di
Erdogan va ricordato che la Turchia attuale non ha alcuna continuità
logico-cronologica con il Califfato durato a Istanbul dal 1527 al 1924,
quando esso venne abolito da “Ataturk” (massone), fondatore della
Turchia moderna, basata sull'adozione dell'alfabeto latino e dei
principi fondamentali di libertà propri dell'Occidente. Da tempo,
però, Erdogan ha fatto e fa rimuovere i ritratti di Ataturk e ne oscura
la memoria. Si propone successore di Maometto II e di tutti i Sultani
dell'impero turco sino ad Abd-ul-Hamid? Alla radice del suo disegno vi
è la rivendicazione del Califfato turco-centrico prospettata dal
coltissimo Ahmet Davutoglu, già ministro degli Esteri dal 2009 e primo
ministro dal 2014 al 2016? La partita è molto più complicata di quanto
venga percepita a Montecitorio e da “farfalloni amorosi” in tutt'altre
faccenda affaccendati. Lo ha fatto intendere Mattarella nei “messaggi”
mandati dalla Giordania e in specie da Petra: Luce dopo le
Tenebre. Per comprenderne la complessità giova una ripassata rapida ai “fatti”. Le radici remote della tragedia armena Il
genocidio degli Armeni da parte del governo turco dell'epoca ebbe
inizio con la razzia della loro classe dirigente, consumata a
Costantinopoli la notte fra il 23 e il 24 aprile 1915, allorché un
migliaio di politici, scrittori e artisti furono arrestati, deportati
ed eliminati. Per la Sublime Porta di Istanbul gli Armeni avevano due
“vizi” di fondo. Erano di una “razza” diversa dalla loro, ed erano
cristiani, una religione incompatibile con l'islam, che annienta gli
infedeli e impone la “sottomissione” a quanti vengono temporaneamente
risparmiati. Malgrado secoli di dominazione e di repressione, spesso
feroce, gli Armeni non si erano mai piegati. Perciò andavano eliminati.
Dovevano sparire dalla loro terra. La Turchia doveva essere dei turchi.
Il Sultano non poteva sterminare gli europei da “Cos-poli”, ma era
deciso a farlo in Anatolia. Fu genocidio. Il primo attuato con le
procedure poi usate contro altre minoranze etniche (i gitani, gli ebrei
e i “devianti”). I Giovani Turchi (che si erano affacciati alla storia
come modernizzatori: alcuni erano anche iniziati e/o infiltrati in
logge massoniche) agirono in combutta con ufficiali germanici, nel
quadro della Grande Guerra in corso anche nell'antica Mesopotamia,
teatro del conflitto tra gli inglesi, comandati da Townshend, e i
tedeschi agli ordini del maresciallo von der Goltz. Con una differenza
sostanziale. Per questi ultimi, infatti, gli Armeni rappresentavano un
pericolo militare, per i turchi essi erano invece un’“infezione”. Col
nemico ci si batte e si tratta. Il “virus” va invece azzerato. Nei
secoli gli Armeni erano stati bersaglio di sanguinose rappresaglie da
parte del governo turco. L'Europa stava a guardare. Era avida e vile.
Voleva spartirsi l'Impero turco-ottomano, che andava dai Balcani alla
Persia, dal Vicino e Medio Oriente alla “Libia”, dall'Eritrea alla
Somalia, ma non sapeva come farlo. La diplomazia dell'epoca (inclusa
quella italiana) riempiva scatoloni di carte geografiche e di
frenetiche corrispondenze per la fatua contesa di pochi chilometri
quadrati di coste, isolotti, quisquilie, ma non andava al dunque. Il
“grande malato d'Oriente” faceva comodo a chi voleva comunque impedire
alla Russia di affacciarsi sul Mediterraneo, uscire dagli Stretti e
addirittura arrivare all'Adriatico tramite i serbi. All'epoca come
oggi. Meglio il Sultano che lo Zar. Gli Armeni furono vittime
del cinismo della Santa Alleanza (1815), alla quale (va ricordato) non
aderì il Papato proprio perché non non ne condivideva metodi e scopi:
il mercato dei popoli. Quale fosse la sua miseria morale emerse
dall'abbandono dei cristiani alla vendetta dei turchi. Lo scrisse
Giovanni Berchet (1783-1851) nell'appassionato poemetto I
profughi di Parga, pubblicato a Parigi nel 1823. Il lungo
Ottocento (segnato dalla guerra anglo-franco-turca, con ex post
celebrata adesione del regno di Sardegna, contro la Russia) fu
costellato da tentativi di imporre alla Sublime Porta un minimo di
rispetto dei cristiani. Alcune plaghe (Romania, Bulgaria...) da secoli
sottoposte al suo dominio ebbero indipendenza con sovrani catapultati
dall'Europa centrale quali garanti di equilibrio tra le potenze. Spesso
non conoscevano la lingua dei loro “sudditi” e allestirono residenze
reali di stile avito, con materiali fatti venire dalle loro terre.
Comunque erano meglio dei turchi e dei loro segugi. Al proprio interno
Istanbul continuò a fare quel che meglio credeva per circoscrivere e
quando necessario estirpare la “malapianta” armena. Allo scopo
organizzò anche corpi speciali di curdi. Alimentare la gara famelica
tra sottoposti è sempre stata arte del “padrone”. Gli Armeni furono
vittime designate, malgrado la “costituzione” garantista promulgata dal
Sultano nel 1876 con il consiglio dell'armeno Midhat Pascià. Un mero
paravento. Il loro “irredentismo” fu ripetutamente schiacciato, nel
1860, nel 1887-1890 e nel 1895-1896 quando ne vennero massacrati almeno
100.000. Nel 1897 lo denunciò Giosue Carducci, poeta e vate della Terza
Italia, in versi attualissimi, “La mietitura del turco”: “Il Turco
miete. Eran le teste armene/ che ier cadean sotto il ricurvo acciar:/
ei le offeriva boccheggianti e oscene/ a i pianti dell'Europa a
imbalsamar// Il Turco miete. E al morbido tiranno/ manda il fior de
l'elleniche beltà./ I monarchi di Cristo assisteranno/ bianchi eunuchi
a l'arèm del Padiscià”. Nell'ottobre del 1911, su impulso di
Vittorio Emanuele III, il governo presieduto da Giovanni Giolitti
dichiarò guerra all'impero turco per tutelare gli italiani di
Tripolitania e Cirenaica. L' “impresa di Libia” fu e rimane l'apice
della Terza Italia. Roma decise senza chiedere permesso né agli alleati
(Vienna e Berlino), né alla Francia e neppure, caso unico, alla Gran
Bretagna. Tre giorni dopo l'inizio delle operazioni Vittorio Emanuele
III domandò al presidente del Consiglio Giolitti che cosa ne avrebbe
pensato l'Inghilterra. Ormai era fatta. E così andò avanti, con la
liberazione di Rodi e del Dodecanneso dal secolare e mai rimpianto
giogo ottomano. Poi, con l'avvento di Salandra e di Sidney Sonnino, la
politica estera divenne miope e opaca. Lo rimase a lungo. È sintomatico
il silenzio della stampa italiana dell'epoca sull'ecatombe degli Armeni
nel 1915-1916. Non se ne trova traccia nella “Illustrazione Italiana”,
la più patinata e prestigiosa rivisita dell'epoca, una sorta di
“televisione” della borghesia: che apprende solo quel che le viene
detto. Il 13 ottobre 1921 la micro-repubblica di Armenia fu
riconosciuta da Mosca quale componente della Unione delle repubbliche
socialiste sovietiche, spacciata da Lenin come liberazione dei popoli e
finita con la repressione sia di quelli compresi negli antichi confini
dell'impero zarista sia di quelli via via soggiogati sino alla oggi
dimenticata “cortina di ferro” scesa da Stettino a Trieste all'indomani
della seconda guerra mondiale. Agli Armeni non rimase che la
diaspora, sorte analoga a quella di altre minoranze etniche e religiose
perseguitate nel corso del tempo. In Italia una loro importante
comunità prese stanza nell'isoletta di San Lazzaro, a Venezia. I flutti
chi si adagiano sul suo bordo sono gli stessi dell'amarissimo mare
della loro indimenticabile terra. L' “isola” è un “destino” in attesa
dell'Apocalisse. Ankara e Tursun Bey: gli Armeni paradigma della Storia Secondo
Ankara gli Armeni non sono mai stati bersaglio di persecuzione etnica
e/o religiosa. Furono semplicemente “trasferiti” quando costituivano
una minaccia per la sicurezza nel corso della guerra. Molti morirono di
fame e di sete solo perché non si erano organizzati per la “marcia”
attraverso il deserto. Colpa loro. L'imponente documentazione
della sorte agghiacciante alla quale andarono incontro venne
cancellata. Le fotografie delle impiccagioni, delle fucilazioni, degli
altri orrori furono quasi tutte distrutte. Ankara si spinse a vantare
di aver salvato gli Armeni dall'odio dei bizantini novecento anni
prima. La magnanimità degli islamici nei confronti degli
infedeli è bene espresso da Tursun Bey in “La conquista di
Costantinopoli” nel 1453 (Mondadori). Sterminati i
difensori, i vincitori capitanati da Maometto II “spinsero nella strada
e nei mercati giovinetti greci e franchi, russi e ungheresi, cinesi e
tartari: rubacuori, schiavi belli come la luna e fanciulle
dall'ombelico di cristallo”. Tra i militari prigionieri i più vennero
“passati al filo della spada della legge”. Altri vennero lasciati vivi
“per essere sfruttati nel lavoro”. In onore del dio clemente e
misericordioso dell'islam. Lo stesso che nel 1822 dettò la sorte degli
abitanti di Chio (isola greca) ove vennero uccisi i bambini inferiori
ai tre anni e superiori ai dodici, tutti gli uomini e le donne con più
di 40 anni. Il resto era “utile”. Sta ora al governo, a
questo governo Conte, tradurre in atti dello Stato la mozione votata
dal Parlamento che riconosce e proclama il genocidio degli Armeni da
parte dei turchi: quelli del 1915, non gli attuali, a loro volta
vittime del regime di Erdogan, indurito dopo il farsesco “colpo di
Stato” di una notte di agosto di molti anni addietro. Ma non fa molto
sperare la miriade di leggi che rimangono da attesa di norme attuative. In
Italia gli Armeni sono poche migliaia. Motivo in più per dichiararsi
solidali con loro come con tutte le minoranze discriminate, per
tutelarne identità e memoria: sono paradigma della “cristianità” cara a
Cesare Balbo, della Storia universale, di “popoli dimenticati”. Uno
specchio dell'Italia di ieri e della sorte che incombe su chi dimentica
il passato.
Aldo A. Mola
IL “CASO CADORNA” PARADIGMA DEL “DIFFEREND” IN ITALIA TRA “POLITICI” E FORZE ARMATE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 7 aprile 2019, pagg. 1 e 11.
Nel 70° della NATO il presidente degli USA, suo “socio di maggioranza”,
richiama ruvidamente l'Italia a investire il dovuto per la difesa, come
richiesto dal Trattato. Incontra il consenso del Presidente Mattarella,
capo delle Forze Armate, come lo era il Re, che comandava le forze di
terra e di mare. I “militari” tacciono. I “politici” si voltano da
un'altra parte. Nulla di nuovo sotto il sole italiano. Dall'Unità i
governi hanno sempre speso il meno possibile per lo “strumento
militare”, salvo imporgli imprese al limite dell'impossibile. Crispi
pretese troppo nella prima rovinosa guerra d'Africa (1893-1896),
Giolitti sottovalutò la durata dell'impresa di Libia (1911-1912).
Peggiori furono Salandra e Sonnino che nell'aprile-maggio 1915
gettarono l'Italia nella grande fornace della guerra europea sbagliando
tutte le previsioni. Anch'essi chiesero al Capo di Stato Maggiore,
Luigi Cadorna, di farsi carico di condurre una guerra offensiva, senza
mettergli a disposizione lo stretto necessario: armi, magazzini,
crediti... e, ciò che più conta, una condotta lineare della politica
estera, indispensabile per un Paese che nel conflitto entrò dopo essere
stato per una settimana alleato di tutti, salvo poi denunciare
un'alleanza che durava dal 1882. Elevato
a Comandante Supremo, Cadorna era destinato a divenire il primo e
principale capro espiatorio in caso di sconfitta o anche solo di
qualche ripiegamento. Il “caso Cadorna” è il paradigma del secolare
“différend” tra “politici” e Forze Armate. Perciò è stato ancora una
volta demonizzato nei molti recenti libri sulla Grande guerra o
largamente eluso, a parte alcune relazioni del convegno “La Guerra di
Cadorna”, i cui Atti sono ora pubblicati dall'Ufficio Storico dello
SME. A gettare più luce sulla vicenda è la “Giornata Cadorna”,
organizzata dai Comuni di Verbania e di Miazzina con la collaborazione
della Associazione di studi storici “Giovanni Giolitti” (Cavour), in
programma oggi, 7 aprile 2019, al Mausoleo e nel salone di Villa
Giulia, a Pallanza, culla della Famiglia Cadorna, le cui vicende sono
state minuziosamente ricostruite da studiosi illustri, quali Marziano
Brignoli e Silvia Cavicchioli. Verbania è
un luogo unico nella geostoria d'Italia. Altre aree del Paese sono una
sorta di vivaio di militari illustri. È il caso dell'Alessandrino, che
dette i natali, fra altri, ai Capi di Stato maggiore generale e
marescialli d'Italia Pietro Badoglio, originario di Grazzano, e Ugo
Cavallero, di Casale Monferrato, mentre di Spigno Monferrato fu Paolo
Spingardi, comandante del Corpo dei Carabinieri
e ministro della Guerra con Giolitti. Verbania fece di più. In due sue
frazioni nacquero i due militari più emblematici dell'Esercito italiano
nella prima guerra mondiale: Luigi Cadorna, appunto, e Luigi Capello.
Difficile immaginare due personalità così diverse, unite dalle
Stellette nella devozione allo Stellone d'Italia, ma al tempo stesso
differenti per formazione e vocazione. Cadorna, di schiatta patrizia,
nacque in una famiglia che aveva dato al Regno di Sardegna suo zio
Carlo, avvocato liberale, apprezzato da Camillo Cavour, ministro,
senatore, e suo padre, Raffaele, generale, comandante dell'Esercito che
il 20 settembre 1870 irruppe in Roma e debellò lo Stato
Pontificio. Avviato alla carriera militare da quando entrò a
soli dieci anni nella Scuola Theulié di Milano, monarchico e liberale,
Luigi Cadorna fu cattolico osservante ed esigente verso sé stesso e i
suoi stretti collaboratori, sempre nella rigorosa separazione tra Stato
e Chiesa, in linea con i Re d'Italia. Luigi Capello, di famiglia
piccolo borghese, a sua volta fu allievo da adolescente in un
Convitto militare, e poi scrisse articoli e saggi pesantemente critici
contro l'ordinamento dell'Esercito, proponendone la sostituzione con la
“nazione armata”, antico sogno più mazziniano che garibaldino. Entrambi
si guadagnarono gradi e ruoli grazie alle competenze e al valore
mostrati “sul campo”. Come per congiunzione astrale i due si trovarono
nei ruoli apicali dell'Esercito italiano nel corso della Grande Guerra.
Cadorna, come già detto, da capo di Stato maggiore e poi da Comandante
Supremo; Capello quale generale divisionario, poi di corpo
d'armata e infine della II Armata, la più grande mai esistita
dall'Unità a oggi: circa 900.000 uomini, un’immensa “città militare”.
Cadorna (come bene argomenta suo nipote Carlo in “Caporetto, risponde
Cadorna”, ora edito da Cesmedia) era lo stratega: vedeva l'esercito
italiano nell'ambito della guerra europea. Ne conosceva a fondo ogni
minimo aspetto. Quando gliene venne addossato il comando esso aveva
750.000 fucili modello 1891 e 1.200.000 altri arnesi antiquati, con
scarse munizioni. L'unica fabbrica abilitata a produrne, la Terni, ne
sfornava 2.500 al mese. In vista dell'intervento bisognò armare oltre
800.000 uomini in poche settimane; nel prosieguo, ne vennero inquadrati
cinque milioni e mezzo. In quotidiano conflitto con il governo, che gli
lesinava tutto, Cadorna fu l'artefice dello “strumento militare”.
Poiché fu l'Italia a dichiarare guerra all'impero austro-ungarico egli
dovette condurre l'offensiva, con riserva di arretrare quando
necessario perché il confine, risalente al lontano 1866, era
lunghissimo e svantaggioso: un cannone ogni chilometro, mitragliatrici
del tutto insufficienti, uomini esposti al fuoco del nemico arroccato
su posizioni munitissime e pronto da mesi a rintuzzare ogni assalto. Capello,
invece, era ansioso di “agguantare” l'avversario e di batterlo.
Proiettato all'offensiva: tattico molto più che stratega.
La diversità di vedute fu all'origine di quello che Cadorna
definì il “disastro” di Caporetto: la sconfitta nella dodicesima
battaglia dell'Isonzo, costata circa 30.000 morti, altrettanti feriti,
300.000 prigionieri, 400.000 sbandati e l'arretramento del fronte sino
“alla Piave e al Grappa”: non una “rotta” (a differenza di come è stata
e ancora viene narrata), ma una battaglia come tante se n’erano
combattute nella Grande Guerra. In venti giorni, il 9 novembre, essa si
risolse nell'arresto del nemico, grazie alle misure da tempo studiate
da Cadorna, nella lunga riorganizzazione delle file e nella riscossa
dell'anno seguente, culminata nella vittoria, coronata con la resa
degli austro-ungarici il 3 novembre 1918. Nelle
settimane precedenti l'offensiva austro-germanica (24 ottobre 1917)
Cadorna impartì ordini perentori: il passaggio alla difensiva in vista
della possibile stasi invernale; ma Capello continuò a rimanere sino
all'ultimo sbalestrato in avanti, pronto a scatenare la
contro-offensiva. L'immagine del generale Luigi Cadorna
è in massima parte debitrice di quanto ne scrisse Angelo Gatti nel
“Diario”, dall'autore lasciato inedito e pubblicato nel 1964 a cura di
Alberto Monticone (il Mulino). Collaboratore della “Gazzetta del
Popolo” di Torino e poi del “Corriere della Sera”, conferenziere
brillante e saggista di successo, Gatti (Capua, 1875-Milano, 1948)
aspirò a scrivere una storia della partecipazione dell'Italia alla
Grande Guerra, un'opera su Caporetto (prima avallata poi vietata da
Mussolini, perché “non era tempo di storia ma di miti”) e una biografia
del Comandante Supremo, che nel marzo 1917 lo aveva chiamato a dirigere
l'ufficio storico dell'Esercito. Dopo l'improvvisa morte della giovane
moglie, Emilia Castoldi (1927), Gatti passò dalla storiografia alla
narrativa, con romanzi autobiografici di successo (Ilia e Alberto,
1931; Il mercante del sole, 1942; L'ombra della terra, 1945). Non
sappiamo se e come avrebbe dato alle stampe il “Diario”, talora
indulgente ad affermazioni molto più che discutibili e persino a
pesantissime insinuazioni, per esempio a proposito della “non riuscita
del matrimonio” di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. Nella
sua superiore discrezione lo avrebbe certo emendato dal superfluo e dal
vano. Indigna leggervi il ritratto di Vittorio Emanuele III (“piccolo,
magrolino, bianco-grigio, come un uccellino scodinzolante”, con
“salterelli improvvisi di cutrettola” e l'infame cenno alla regina
Elena (“non è la donna che ci vuole per lui, e, forse, non è nemmeno
una buona donna”), su cui Monticone ricamò. Sappiamo invece con
certezza che il suo racconto non sempre risponde ai fatti, com’è ovvio
per chi vive gli eventi da un osservatorio circoscritto anziché da
storico. Mentre Gaetano Salvemini, esigente quanto umorale, lo valutò
“mirabile per equilibrio e chiarezza” (come viene ripetuto in Angelo
Gatti, E' la guerra. Diario. Maggio-Agosto 1915, ed. il Mulino, 2018),
nel “Diario” egli risulta non di rado ridondante, omissivo e vago. Per
esempio non fa alcun cenno alla sua occulta iniziazione alla loggia
“Propaganda massonica” (Grande Oriente d'Italia) il 28 giugno 1917,
pochi giorni dopo aver affidato un impegnativo “Promemoria” a Cadorna,
al generale Luigi Capello (massone) e al colonnello Roberto Bencivenga
(anni dopo iniziato da Domizio Torrigiani nella Loggia clandestina
“Carlo Pisacane” a Ponza, ove erano entrambi confinati). Cadorna lo
ignorò. Il colonnello vi scrisse: “C'è bisogno di rinnovarci nella
guerra (...) di ricominciare da capo. È necessario inculcare un nuovo
spirito; fare nuova organizzazione; studiare una nuova tattica;
trasformarci col tempo (....) È tutto l'insieme che non va. C'è
qualcosa di intimo, di profondo, che si rompe. La guerra è vecchia:
bisogna farla con questa vecchiaia, tener conto di essa; guardare le
compagini in faccia come composte d'uomini, non come materia”. Parole.
Parole di chi passava ore a scrivere, mentre il Comandante aveva
dinnanzi agli occhi la strategia complessiva della guerra che da
europea, dopo la rivoluzione in Russia e con l'intervento degli Stati
Uniti d'America, era divenuta mondiale. La “tattica”, sulla quale Gatti
si disperde, andava inquadrata in quell'ambito, nei calcoli
politico-militari dei franco-inglesi che ritirarono dal fronte italiano
il loro avaro centinaio di cannoni quando l'offensiva si arenò sulla
Bainsizza e il 28 settembre Cadorna ordinò il passaggio alla difensiva.
La lunghissima narrazione della tragica giornata del 24 ottobre
1917 da Gatti affidata al “Diario” è del tutto contrastante con quanto
emerge dalle carte ufficiali di Cadorna e dalle sue lettere ai
famigliari, pubblicate nel 1967 dal figlio, Raffaele, già Comandante
del Corpo volontari della libertà. Mentre Gatti “scoprì” l'avanzata
austro-germanica solo dopo essere andato a cena e al cinema (sic!), da
molte ore Cadorna dettava le misure per contenere a oltranza
l'offensiva nemica e, se del caso, per ripiegare sulla destra del
Tagliamento o, se necessario, sul Piave, come subito previsto anche da
Vittorio Emanuele III (proprio il Re lo confidò a Gatti
nell'“intervista” concessagli al Quirinale, ora pubblicata in Luigi
Cadorna storico della grande guerra, prefazione alla nuova edizione di
Luigi Cadorna, La guerra alla fronte italiana, ed. Bastogilibri, 2019). L'influenza
del “Diario” di Gatti nel giudizio negativo che si è stratificato sul
Comando Supremo dagli Anni Sessanta dello scorso secolo è paragonabile
alla versione cinematografica di Un anno sull'altipiano di Emilio
Lussu: il famigerato “Uomini contro”, visione obbligatoria per le
scolaresche come poi “Il delitto Matteotti” e altre “narrazioni”
filmiche di momenti drammatici della storia nazionale, che manipolarono
i fatti ed elevarono un bastione invalicabile tra ricerca storica
innovativa, documenti alla mano (liquidata come “revisionismo”), e
pregiudizio, spacciato per “verità”. Oltre mezzo
secolo dopo la pubblicazione del “Diario” di Gatti curato da Monticone
tempo è venuto di riaprire il cantiere della ricerca, con una domanda
preliminare: come mai tuttora non esiste una biografia scientifica del
Comandante Supremo? Eppure i materiali non mancano affatto. Qualche
luce emerge proprio dalle “interviste” raccolte da Gatti per scrivere
la storia dell'Italia nella grande guerra o del Comando Supremo, il cui
“ufficio storico” gli era stato affidato nel marzo 1917. Tra le molte è
sconcertante quella rilasciatagli da Vittorio Emanuele Orlando, che
rivendica a proprio merito la defenestrazione di Cadorna e la anticipa
al 28 ottobre, dieci giorni prima dell'“incontro” di Rapallo (5-6
novembre) tra i vertici politico-militari italiani e quelli
anglo-francesi, preludio a quello, parimenti celebre, di Peschiera, ove
l'8 seguente Vittorio Emanuele III orgogliosamente garantì che l'Italia
avrebbe resistito: un’affermazione molto sminuita da Orlando, al quale
il re affidò il governo del Paese durante l'arretramento del fronte
dall'Isonzo al Piave (v. box). Il “caso Cadorna” risulta più che mai
attuale, proprio per cogliere le radici remote della perdurante
ritrosia dei “politici” a onorare i trattati ai quali lo Stato italiano
è vincolato e a investire adeguatamente per la saldezza e le fortune
dello strumento militare.
Aldo A. Mola
LA SOSTITUZIONE DI CADORNA 28 OTTOBRE 1917 VITTORIO EMANUELE ORLANDO AD ANGELO GATTI (*)
La
sostituzione avvenne il 28 di ottobre. Il Re domandò a Orlando – che
gli aveva proposto di sostituire il Cadorna per quello che stava
preparando la Camera – se aveva candidati. “No, gli disse Orlando e
Vostra Maestà?” “Io ne avrei uno, ma non glielo dico. Tocca a lei
proporre.” “Non conosco nessuno.” “Cerchi.” “Ci vorrebbe un uomo di
fama indiscussa, di sopra di tutti, noto, accettato dal paese. Mi pare
che l’unico sarebbe il Duca d’Aosta.” “Aosta non può essere
nominato, i tempi sono tremendi, può succedere qualche cosa, che
travolga anche me. Aosta dovrebbe allora prendere le redini dello
Stato, anche solo come reggente.” “Giusto, ma allora non so.” “Non
conosce neppure?” “Nessuno. Ah, sì, uno, che mi ha fatto buona
impressione.” Bisogna dire che qualche tempo prima di Caporetto,
Orlando s’era trovato a colazione al Comando Supremo, seduto tra
Cadorna e Diaz. Finita la conversazione col Cadorna, Orlando s’era
messo a parlare col Diaz, il quale, con la sua chiarezza d’esposizione
e d’idee, era piaciuto ad Orlando. Avendogli specialmente quest’ultimo
parlato del grande consumo di risorse d’uomini fatte da Cadorna (“non
crede che sia il pozzo di San Patrizio?” Aveva detto Orlando) il Diaz
aveva convenuto con lui; e l’Orlando aveva detto: “Ecco finalmente un
generale che parla con buon senso”. “Io dirò il mio nome a V.M.,
disse Orlando; ma, dopo, V.M. deve promettermi di dirmi il suo.” “Sta
bene.” “Diaz.” “È anche il mio nome”, disse il Re. E raccontò
all’Orlando che conosceva già il Diaz, ma che l’aveva veduto ad una
azione del suo Corpo d’Armata, e là gli era piaciuto moltissimo. “I
generali in questa guerra si vedono al telefono” disse il re ad
Orlando.“Allora, Diaz.”“Diaz.” Ma bisognava tener segreta la nomina.
Perciò Orlando, temendo che Cadorna se avesse subodorato la
sostituzione avrebbe ripetuto il colpo di testa di Baratieri
[Un’ipotesi assurda e maligna, mentre Cadorna ordinava il ripiegamento
del fronte: nota di Aldo Mola], fece quei telegrammi e quelle lettere
di piena fiducia in Cadorna. “Quando si mentisce, bisogna mentire bene”
disse a me. Perciò non è affatto vero che la sostituzione di Cadorna
fosse voluta dagli Alleati. (…). Il cambio fu così del tutto italiano.
(…). Della intenzione di sostituire il Cadorna Orlando non parlò
con nessuno salvo che al Sonnino e all’Alfieri, ministro della Guerra;
il quale – mi dice Orlando – io scelsi, sapendo che era una mediocrità:
ma tutti i generali bravi erano al fronte. Circa il Convegno
di Rapallo e di Peschiera, [Orlando] dice che tutte le risoluzioni
furono prese a Rapallo, non a Peschiera. Egli aveva preparato il
proclama. E lo portò al Re; il Re cambiò alcune parole del primo
periodo, e tolse due o tre aggettivi: Ojetti, perciò, anche qui non
c’entra per niente. Il discorso del re, in inglese, per dire che aveva
grande fiducia nell’esercito italiano, avvenne veramente; ma non fece
che confermare ciò che si era inteso, non cambiò la situazione, come
può far credere anche qualche parola di Lloyd George; il soccorso agli
Italiani era già stato concordato. Il telegramma di Orlando che
costrinse Diaz alla battaglia di Vittorio Veneto fu terribile:
“Preferisco una sconfitta all’inazione” (ma questo me l’ha detto
Giardino).
(*) Intervista rilasciata da Vittorio Emanuele
Orlando ad Angelo Gatti, che annotò “Dettomi a casa sua”. Manoscritto
in Fondo Angelo Gatti, Archivio storico del Comune di Asti, ora in
Luigi Cadorna, “La guerra alla fronte italiana”, a cura di Aldo Mola,
BastogiLibri, 2019. FIUME: UN CENTENARIO INDIMENTICABILE FRATELLI D'ITALIA CON D'ANNUNZIO ALLA “RIVOLUZIONE” (1919-1920)
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 31 marzo 2019, pagg. 1 e 11.
Fu
il torinese Giacomo Treves, ebreo e massone (1882-1947), l'artefice
segreto della “marcia di Ronchi” capitanata da Gabriele d'Annunzio
nella notte del 12 settembre 1919 per affermare l'italianità di Fiume.
Dall'origine l'“impresa” è al centro di giudizi controversi. “Festa
della rivoluzione” secondo Claudia Salaris; “una delle più buffonesche
italianate della nostra Storia” per Indro Montanelli, che però
(confessò) se avesse avuto vent'anni forse vi si sarebbe divertito.
Già, perché Fiume fu… un fiume in piena, Verbo che si fa Carne, con
volontari, legionari, ammiratori, spregiatori, morti e feriti. E
soprattutto tanti delusi. Com’era stata la Repubblica romana del 1849,
morta proprio quando la sua Assemblea ne approvò la costituzione. A
Fiume il Verbo si fece anche carnascialesco. “Severità e goliardia,
gioco e guerra, amore e violenza”, la “città martire” divenne un'icona
in un Paese dalla memoria labile. Lo scrive Giordano Bruno Guerri in
“Disobbedisco. Fiume 1919-1920” (Mondadori) sulla scorta dell'imponente
Archivio della Fondazione del Vittoriale degli Italiani da lui diretto
(Gardone Riviera, www.vittoriale.it). D'Annunzio ebbe il torto di
morire nel 1938, quando Benito Mussolini sterzò decisamente verso
l'alleanza con la Germania di Hitler, dal Vate sprezzantemente
liquidato quale “Attila imbianchino”, “ridicolo Nibelungo truccato alla
Charlot”. Da quell'anno, anche con le “leggi razziali” (da d'Annunzio
ritenute folli, anche perché la “vita orizzontale” è “aperta”, non ha
né tessere di partito né “razze”), Mussolini puntò a isolare Vittorio
Emanuele III per abbattere la monarchia. Dopo funerali solenni,
d'Annunzio venne relegato nei ricordi del tempo che fu, osannato dai
suoi cultori, anche giovanissimi, ma ormai incompatibile col “regime”.
L'11 febbraio 1929 Mussolini aveva firmato il Concordato con la
Santa Sede e spazzato via tutti i Guido da Verona d'Italia. D'Annunzio
svaporò in fantasma letterario in un Paese dalla memoria a corrente
alternata, corriva all'osanna e al crucifige. Nel decennio seguente
(tra “Patto di Acciaio” e vittoria di Alcide De Gasperi contro il
Fronte popolare) dai semplificatori “analfapreti” e da tanti sinistri
d'accatto (spesso dannunziani pentiti: i più pericolosi) il Vate fu
demonmizzato quale colluso col fascismo. Anche chi aveva letto
l'edizione nazionale delle sue opere e si era inebriato recitandone i
versi o intere pagine di romanzi e di “orazioni” ormai lo detestava. Si
vergognava di averlo “amato”. Come Norberto Bobbio si vergonava delle
sue “petizioni “al duce. Mancò l'“esame di coscienza”. Nino Valeri storico, massone, dannunziano occulto I
primi due storici a fare i conti con il d'Annunzio vero, ricorda Guerri
in “Disobbedisco”, furono Paolo Alatri, anni prima costretto a
pubblicare opere finissime con pseudonimo perché ebreo, poi comunista,
in realtà illuminista, e Nino Valeri. Di famiglia coltissima, Valeri
affondò il bisturi nella piaga. D'Annunzio, egli scrisse, è il campione
del “disprezzo per gli ordini costituiti, di disinteresse per il
passato e per l'avvenire, di irridente spregio per la virtù e per il
risparmio, per la famiglia, per gli avi, per la religione, per la
monarchia e per la repubblica: di nichilistica aspirazione, in fondo,
di finirla in bellezza questa inutile stupida vita, in una specie di
orgia eroica”. Sono sentimenti, aggiunse, “che giacciono anche nel
remoto sottofondo di molti benpensanti, ma normalmente repressi e
condannati in nome della rispettabilità”. D’Annunzio evidenziò le
contraddizioni profonde e perpetue del farisaismo italico, del
perbenismo, dei “sepolcri imbiancati”. I “cinquecento giorni di
rivoluzione” (sottotitolo dell'importante Opera di Guerri) confermarono
che l'Italia è una terra di cospirazioni, sommosse, moti incomposti,
guerre “di” o “per” bande, di delitti e persino di guerriglie
eterodirette (sanfedisti contro giacobini; il “grande brigantaggio” del
1860-1867, evocato da opportunisti e plaudito da “neo-barbonici”
odierni; la cosiddetta guerra civile del 1943-1945, con la sua
stucchevole “conta dei morti”) ma geneticamente incapace di
rivoluzioni. Socio dell'Accademia delle Scienze di Torino,
direttore della splendida collana di biografie “La vita sociale della
Nuova Italia” per la Utet e di classici come La lotta politica in
Italia, Valeri scrisse capolavori su d'Annunzio. Aveva le sue
motivazioni occulte. Prima che storico era stato un artista. Anche sul
suo capo era scesa la fiammella dello Spirito, forse mentre volava nei
cieli quando morirne era altamente probabile. Era stato al seguito del
Comandante. Non solo. Nino Valeri venne iniziato massone nella stessa
loggia”Dante Alighieri” di Roma, accanto al figlio del Vate,
Gabriellino d'Annunzio, un cammeo della Serenissima Gran Loggia
d'Italia. Futuro storico di inarrivabile classe, all'epoca Valeri era
direttore artistico cinematografico. Fiume gli rimase nel sangue. Non
potendo scrivere subito del “suo” Reggente del Carnaro (all'epoca era
“politicamente scorretto”), narrò le vicende di Facino Cane e di altri
Signori sino a quando l'Italia crollò sotto le dominazioni straniere.
Strizzava l'occhiolino al lettore. Finì con la biografia di Giovanni
Giolitti, l'anti-d'Annunzio, ma, al tempo stesso, il più dannunziano
degli statisti perché capì la politica estera meglio dei diplomatici.
L'Italia è alternanza di saviezza e di follia. Chi governa deve tenerne
conto per reggerne le briglie. Giolitti lo fece: mite con i deboli (gli
scioperanti per motivi economici), duro con gli arroganti, come gli
industriali torinesi che nel settembre 1920 gli chiesero di liberare le
fabbriche ma misero la coda tra le gambe quando egli si disse pronto a
farle bombardare. Il disastro perpetuo della politica estera italiana Guerri
ha il merito di aver acceso i fari sulla poliedricità della genesi
dell'impresa di Fiume. Essa ebbe moltissimi padri nella sua fase
apicale e gloriosa. Presto, però, iniziarono i “distinguo” e le
defezioni. Infine il Comandante si trovò pressoché solo alla guida di
pochi disperati, guardati come avessero la peste sia dalla popolazione
(ormai alla fame e alle prese con i bombardamenti e sempre atterrita
dal ritorno degli slavi: quanto non solo a Fiume accadde nel 1943 e
dopo il 1945) sia dall'Esercito italiano, schierato attorno alla città
come cordone sanitario per impedire il contagio rivoluzionario, e
infine anche dal vasto arco di governativi e antigovernativi. Se per
pochi giorni nel settembre 1919 il Vate era riuscito nel miracolo di
mettere d'accordo quasi tutti gli italiani a sostegno dell'italianità
di Fiume, un anno dopo ottenne il risultato esattamente opposto: gli
italiani non ne potevano più. Bisognava chiudere quel capitolo, a
qualunque costo, compresa, se necessaria, la sua eliminazione fisica.
D'Annunzio sapeva tanto, troppo anzi; e quindi era ormai scomodissimo
per tutti. In pochi gli rimasero fedeli oltre il crollo della Reggenza
e la sconfitta del suo disegno politico. Per comprenderlo occorre
vedere il ventaglio politico mondiale entro il quale l'impresa nacque e
quello, del tutto diverso, dei mesi nei quali essa si avvolse nel
sudario di morte, tra il settembre e il dicembre 1920. In estrema
sintesi, nel 1919 l'Italia ricevette due batoste in pochi mesi: il
Congresso di pace di Versailles negò seccamente la richiesta di Roma di
aggiungere Fiume al “bottino” previsto dall'accordo di Londra del 26
aprile 1915. L'Italia lo aveva onorato con sleali riserve mentali. Ora
le sue aspirazioni cozzarono contro tre avversari: anzitutto
l'espansionismo francese nell'ex impero austro-ungarico, in gara di
velocità con gli italiani, a loro volta impegnati a procacciarsi il
massimo di vantaggi. Lo documenta Antonino Zarcone nella corposa
biografia di Roberto Segre pubblicata dall'Ufficio Storico dello Stato
Maggiore dell'Esercito. Malgrado le premesse e promesse, all'amicizia
con l'Italia Parigi anteponeva quella con lo stato
serbo-croato-sloveno, fondamentale per l'espansione francese
nell'Europa orientale dopo il tracollo dello zar. Il governo di Parigi
aveva pieno appoggio del Grande Oriente e della Gran Loggia di Francia,
il cui gran maestro, generale Paul Peigné, scrisse la prefazione alle
“Rivendicazioni” di Belgrado, che chiedeva il confine all'Isonzo e ad
ovest di Trieste. Per gli jugoslavi 680.000 morti e 1.200.000 feriti
italiani erano un affare interno di chi aveva dichiarato guerra
all'Austria. Per loro l'italianità di Fiume non era neppure
sull'orizzonte. Perciò vi mandarono un piccolo contingente. Per gli
inglesi, che in duecento anni avevano gettato il cavo d'acciaio della
loro talassocrazia da Gibilterra a Malta, da Suez a Cipro, il “Mare
Nostrum” era solo un lago dalla Manica verso l'Oceano Indiano. Non
consideravano affatto l'Italia come partner nel dominio sul
Mediterraneo Orientale. Anche gli Stati Uniti d'America di Woodrow
Wilson erano filoslavi. Il passaggio dal governo Orlando-Sonnino a
quello presieduto da Francesco Saverio Nitti col giolittiano Tommaso
Tittoni agli Esteri (23 giugno 1919: cinque giorni prima della
proclamazione della “pace” con la Germania) non migliorò il quadro
diplomatico. Il 10 settembre venne firmata la pace di Saint-Germain tra
Italia e Austria. Fiume rimase “corpus separatum” in attesa delle paci
seguenti, in specie con l'Ungheria, l'altro “erede” della “duplice
monarchia” asburgica. A quel punto bisognava agire o rinunciare per sempre. “Marciare, non marcire”: tra Mussolini e il Vate Fu
dunque proprio Giacomo Treves a imprimere accelerazione alla trama
imbastita da quasi un anno, come egli stesso narrò in un analitico
memoriale denso di documenti. Il 18 dicembre 1918 lui e altri otto
massoni di varie logge italiane dettero vita in Trieste a una nuova
“officina” del Rito Simbolico Italiano, all'obbedienza del Grande
Oriente d'Italia. “Riconosciuta l'urgente necessità di costituire un
primo nucleo massonico” Odoardo Pesaro (eletto venerabile), Edoardo
Viterbo, Eugenio Bianchi d'Espinosa, Giulio Regis, Camillo Sclavo,
Angelo Scocchi, Enrico Liebmann e Adolfo Ciampolini alzarono le colonne
della loggia “Guglielmo Oberdan”, sacra alla memoria di chi nel 1882
(in risposta al Trattato Roma-Vienna-Berlino) aveva attentato alla vita
di Francesco Giuseppe, l'“imperatore degli impiccati”, ed era stato
puntualmente condannato a morte e suppliziato. Treves fu eletto 1°
sorvegliante. La decisione di riattivare in Trieste l'officina che per
anni vi aveva operato segretamente fu assunta ignorando l'invito a
soprassedere formulato dal gran maestro del Grande Oriente, Ernesto
Nathan, secondo il quale nella città tergestina vi erano fratelli
sufficienti per creare due logge (ne voleva una sotto suo controllo; la
“Oberdan”gli sfuggiva). Roma annaspava. Trieste faceva. Il 20 dicembre
la “Oberdan” uscì allo scoperto con un manifesto, cofirmato dalla
consorella “Alpi Giulie”. A Nathan non rimase che approvare, promettere
aiuti per la costruzione del nuovo tempio e inviare statuti e rituali.
Lo stesso 20 dicembre la “Oberdan” organizzò la rievocazione del
martire con un oratore d'eccezione: Benito Mussolini. Nell'invito ai
cittadini il manifesto ammonì: “Nessuno deve mancare”. Il futuro duce
era all'epoca espressione dell'interventistmo intervenuto. Come ha
sintetizzato Renzo De Felice era l'“uomo in cerca”. Non aveva ancora
individuato il proprio cammino. Dall'adunata nel circolo
industre-commerciale di piazza San Sepolcro messogli a disposizione il
23 marzo 1919 dal massone ed ebreo Cesare Goldman non scaturì un
“manifesto”. Il “racconto” dell'adunata (lo documentò Chiurco nella
“Storia della Rivoluzione fascista”) si limitò a elencare i
partecipanti e i vari temi toccati. Solo molto dopo i fasci di
combattimento si dettero un programma sommario, di tono accesamente
repubblicano, socialisteggiante e aspramente anticlericale. Esso
stava nell'ideario massonico come il meno sta nel più. All'epoca,
infatti, il Grande Oriente stava elaborando un progetto di riforma
sociale ispirato alla “democrazia del lavoro”: molte idee, parecchio
confuse e di impossibile immediata realizzazione, com’è tipico dei
“partiti d'azione”. Nel volgere di pochi mesi i suoi capisaldi si
riassunsero in lotta al capitalismo e al bolscevismo, cooperazione dei
“produttori” e sostituzione del regime vigente con un altro (cioè la
repubblica al posto della monarchia: quanto bastava per non esser presi
sul serio da Londra, ove sin dalla nascita massoneria fa rima con
monarchia). A elaborare lo Stato Nuovo sarebbe stata una
Costituente. Dall'estate 1919 Mussolini si mise in proprio, in
vista del rinnovo della Camera dei deputati. Per la circoscrizione di
Milano formò una lista comprendente, fra altri, Filippo Tommaso
Marinetti, autore del manifesto dei futuristi, Arturo Toscanini, già
celebre direttore d'orchestra, Ugo Podrecca, ex direttore dell'“Asino”,
il settimanale satirico più mangiapreti d'Italia. Il futuro “duce” non
era disponibile per progetti altrui. Perciò Treves e altri “fratelli”
individuarono in d'Annunzio il vessillifero del colpo di mano: la
“marcia su Fiume”. D'Annunzio a Treves: per Fiume italiana, Alalà Preso
contatto diretto con il Vate il 7 settembre, grazie a ufficiali
iniziati in loggia e a una rete di massoni operanti nei servizi
ferroviari, telefonici, telegrafici e postali vennero gettate le
premesse dell'azione. Benché febbricitante, d'Annunzio accettò. Il 9
settembre mandò a Treves una cassa di bottiglie di spumante con il
cartiglio: “Bevete coi compagni questo fervido vino italiano alla
salvezza di Fiume che è oggi l'eroina della libertà del mondo folle e
vile. Per Fiume italiana. Alalà”. Non era la prima volta. Già nel 1915
d'Annunzio era stato trascinato a pronunciare il celebre Discorso per
il monumento dei Mille a Quarto di Genova (5 maggio) dall'oscuro
Ettore Cozzani, come ricorda Carlo Sburlati, per anni demiurgo del
Premio Acqui Storia. Tramite fra i massoni di Trieste,
Padova, Milano, Torino, Bologna e la città erano gli iniziati alla
loggia “Syrius” (tutta da documentare: ma le carte non mancano), a
cominciare dal sindaco di Fiume, Antonio Vio. Anche parecchi tra gli
ufficiali al seguito del Vate erano stati o ancora rimanevano in logge
pullulanti da un capo all'altro del Paese. Era il caso di Eugenio
Coselschi (di altri diremo). Circa la loro vitalità basti ricordare che
nel 1919 i nuovi iniziati furono circa 4.000 e che l'anno seguente
crebbero a quasi 5.000. Nell'impossibilità di seguire passo
passo la vicenda, per cogliere la centralità del ruolo svolto da Treves
basti dire che egli venne munito del permesso speciale di entrare e
uscire dalla città a suo piacimento. Portava denari, armi e quanto
serviva alla “rivoluzione”. Membro di un Comitato segreto, il 26
ottobre 1919 con Angelo Scocchi ed Ercole Miani approntò il
progetto di una “Marcia da Fiume su Roma” passando per Trieste. Ma a
Trieste arrivò il nuovo gran maestro, Domizio Torrigiani. Al termine di
una lunga drammatica seduta, il Grande Oriente recise i ponti con il
programma del Vate. Alla vigilia delle elezioni, una “marcia” verso
l'Italia avrebbe suscitato l'insurrezione dei socialisti e la risposta
delle Forze Armate: un nuovo governo militare, dopo quelli di Menabrea
(1867-1869) e di Luigi Pelloux (1898-1900), l'eclissi delle libertà.
Come si sarebbero schierati i neonati “popolari” di don Sturzo? Il crepuscolo di un dannunziano Nel
marzo 1920 Treves lasciò Trieste. La sua trama svaporò. Rimase
nell'azione dell'Unione spiritualista dannunziana, di un partito
socialista democratico (da lui abbozzato sin dal 1923), di squadre
dannunziane contrapposte a quelle mussoliniane e a quelle nazionaliste
di Luigi Federzoni e Alfredo Rocco: il microcosmo clerico-reazionario
con il quale egli non volle mai avere nulla da spartire. Nell'estate
1920 Treves promosse la raccolta di fondi per canali diversi da quelli
fagocitati da Mussolini. Anche il Vecchio Piemonte vi concorse con
aristocratici, borghesi e popolani, perché Fiume continuava a essere
emblema della Grande Guerra. Lo rimase anche dopo la cacciata di
d'Annunzio dalla città martire, metodicamente cannoneggiata dalla
“Andrea Doria” su disposizione del presidente del Consiglio, Giovanni
Giolitti. Il “Natale di sangue” 1920 chiuse la cronaca. Rimase
l'epopea. Merito del corposo volume di Guerri è di aver riproposto al
centro dell'attenzione quell'Italia di passione: niente miope
sovranismo ma universalismo. Utopia per i tempi, come si evince dalla
Carta del Carnaro, stesa dall'anarco-sindacalista Alceste De Ambris e
perfezionata dal Vate, comprendente, tra l’altro, il divorzio, che in
Italia vigeva dall'antica Roma, e tante altre forme di libertà che
ancor oggi sono privilegio di minoranze pensanti. A quell'epoca, con
quegli uomini, l'Italia era crogiuolo di Grande Storia. Anche le due
Comunità massoniche lo erano. Non per caso d'Annunzio, ricevuti
brevetto e insegne di grado 33° della Gran Loggia d'Italia, frequentò
anche il venerabile della “XXX ottobre” Attilio Prodam: una vicenda che
meriterà di essere ampiamente documentata. Alla morte, nel 1947,
GiacomoTreves, iniziato nella loggia “Ausonia” di Torino ( 17 giugno
1913, matricola 42.904, e dalla “Oiberdan” transitato nella “Syrius”)
fu commemorato nella rivista “Lumen Vitae”. Rimane in attesa di una
biografia. Ne emergerebbe “La Fenice” della Terza Italia, che era ed è
europea, anzi “mondiale”, anche grazie al Poeta Soldato.
Aldo A. Mola
PEDRO SANCHEZ NON VALE UN FRANCO IL FANATISMO DEI NEOSOCIALISTI SPAGNOLI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 24 marzo 2019, pagg. 1 e 11.
Pedro Sánchez il becchino “Quieta
non movère” è un saggio mònito degli antichi. Invece il chiodo fisso
dei neosocialisti spagnoli, da Zapatero a Pedro Sánchez, è rimuovere la
salma di Francisco Franco dal Valle de los Caídos per trasferirla nella
cripta più nascosta di Spagna. Zapatero ci provò per anni, invano.
Sánchez ripete la litania. Ha persino strappato il tacito consenso
delle Cortes, con silenzi opachi e astensioni del Partito popolare e di
Ciudadanos, sempre affetti dall'orticaria quando si parla di Franco e
del Franchismo, quasi arrivino da un altro pianeta anziché dalla
lunghissima transizione che vide alternarsi al governo senza traumi i
socialisti di Felipe González e i popolari di Aznar. Da quando è stato
battuto in Parlamento e ha dovuto indire elezioni anticipate per il
prossimo 28 aprile, Sánchez ne sta facendo una questione di vita o di
morte. Poiché spera che la nascita di un nuovo governo vada per le
lunghe, ha fissato al 10 giugno il giorno nel quale, costi quel che
costi, la salma imbalsamata di Francisco Franco y Bahamonde va
assolutamente rimossa, malgrado l'opposizione del priore dell'Abbazia
benedettina di Santa Cruz, Santiago Cantera, dipinto come bieco
reazionario. Contro la pretesa di Sánchez e dei suoi accoliti sono
schierati all'unanimità i sette nipoti di Franco (Carmen, Mariola,
Francis, Merry, Cristóbal, Arancha e Jaime), l’Associazione per la
Difesa del Valle de los Caídos e un ventaglio di organizzazioni sempre
più decise a difendere la memoria autentica del Paese. In attesa che il
Tribunale Supremo dello Stato si pronunci sui molti ricorsi pendenti,
Sánchez fa della estumulazione uno dei cavalli di battaglia della
campagna elettorale. Il suo vero obiettivo, però, non è rimuovere quel
che resta del Caudillo di Spagna (come Franco venne detto ai tempi
della sua sanguinosa ascesa) ma intimidire Popolari e Ciudadanos,
ricattarli con l'accusa di paleofranchismo, di “fascismo eterno” (il
“vangelo” di Umberto Eco, ora riecheggiato da Francesco Filippi in
“Mussolini ha fatto anche opere buone”, ed. Bollati-Boringhieri). In
realtà Sánchez mira a “provocare” e ad infoltire le file di “Vox”, il
movimento sorto proprio contro l'estremismo neosocialista e la
flebilità dei “moderati”. In tal modo calcola di frantumare il fronte
avversario in tre corpi separati e di batterli alle elezioni, grazie
alla legge elettorale vigente, pensata per il bipartitismo, non per il
caleidoscopio di partitelli e partitini (autonomisti come i “canarini”,
indipendentisti, separatisti, federalisti, repubblicani senza se e
senza ma...), causa sicura della deflagrazione se non vi fosse lo scudo
della monarchia. Le radici dell'ascesa di Francisco Franco al potere Ma
perché mai l'ossessione neosocialista ispanica per la salma di Franco?
Come tutte le “idee fisse”, anche questa non è affatto un mistero. A
ben vedere è una sorta di franchismo uguale e contrario.
Riassumiamo. Il Caudillo nacque in una famiglia di liberi
pensatori. Lo era suo padre, che gli preferiva il fratello, Ramón,
massone accanito come altri consanguinei, poi da Francisco abbandonati
alla furia dei reazionari. Il futuro Jefe del Estado fece una brillante
carriera nell'esercito, conseguì successi Oltremare e divenne il più
giovane generale d'Europa. Però non avrebbe mai avuto spazio politico
se la Spagna fosse stata capace di darsi un governo parlamentare
stabile. Il dramma del Paese arrivava dal suo passato remoto: secoli di
“reconquista cristiana” dal giogo dei “moros” e, nel Cinquecento, la
lotta per la “limpieza de sangre”, che impose a islamici e a ebrei di
andarsene o di travestirsi da moriscos e da marranos, convertiti ma
sospettati. La pace di Utrecht (1713), dopo la guerra di successione
sul trono di Madrid, segnò il passaggio dagli Asburgo (“Los Austria”)
ai Borbone di Francia. Nel 1808 Napoleone I invase la Spagna e impose
re suo fratello maggiore, Giuseppe, “don José Primero”. La feroce
guerriglia per l'indipendenza, sorretta dagli inglesi, non finì con la
cacciata degli invasori ma con l'annientamento degli “afrancesados”,
uccisi o costretti all'esilio. Era la vendetta contro la repressione
bonapartistica immortalata da Francisco Goya nel “Dos de Mayo”,
rivendicazione popolare contro i metodi insopportabili degli occupanti
(gli aristocratici in buona parte si erano “accomodati”). L'Ottocento
in Spagna fu un secolo di moti liberali (quasi sempre guidati da
militari), di sette segrete e di guerre tra opposti rami della dinastia
(uno, reazionario, guidato da don Carlos, contrario alla successione
femminile sul trono di Madrid), e di complotti che finirono con
l'assegnazione della corona a un re designato dalle Cortes: Amedeo di
Savoia, Duca d'Aosta, secondogenito del re d'Italia,Vittorio Emanuele
II. Don Amadeo Primero regnò poco più di un anno, col beneplacito del
“concerto europeo”, ma dovette fare i conti con il malcontento (locale
ed eterodiretto) culminato in vari attentati. Dopo un'effimera
repubblica e il ritorno dei Borbone con Alfonso XII e la perdita di
Cuba e delle Filippine (1898), lacerata da movimenti rivoluzionari
anarco-socialisti (ne fu campione e vittima Francisco Ferrer y
Guardia, fucilato quale promotore della “semana trágica”), la Spagna
parve appartarsi dalla storia d'Europa. Evitò di immischiarsi nella
Grande Guerra. La sua economia crebbe, come documenta Fernando García
Sanz in opere tradotte anche in italiano. Dalle turbolenze postbelliche
uscì non con dittature più o meno totalitarie come avvenne dalla Russia
all'Italia e alla Germania ma con un governo autoritario e fattivo,
presieduto da Miguel Primo de Rivera. Stanco di opposizioni querule, de
Rivera si dimise e si trasferì a Parigi. Nel 1931, all'indomani del
successo delle sinistre nelle elezioni amministrative, Alfonso XIII di
Borbone lasciò la Spagna senza rinunciare alla Corona. A Madrid venne
proclamata la seconda Repubblica. Iniziarono anni di travagli. Si
scatenò l'anticlericalismo serpeggiante nel Paese come fiume carsico.
Furono dati alle fiamme chiese e monasteri e vennero perpetrate infamie
ai danni dei cattolici, documentate da Arturo Mario Iannaccone
nell'inoppugnabile “Persecuzione. La repressione della Chiesa in Spagna
fra Seconda Repubblica e guerra civile, 1931-1939” (ed. Lindau). Dopo
cinque anni di disordini, in risposta al brutale assassinio del
monarchico José Calvo Sotelo da parte dei “rossi”, con l'alzamiento di
quattro generali nel luglio 1936 la Spagna precipitò nella guerra
civile. Accordi sovraordinati indicarono nel generale José Sanjurjo,
già promotore di un colpo di stato militare contro la Repubblica, il
capo di una giunta comprendente Emilio Mola, vero “direttore del
golpe”, Franco e Queipo de Llano. L'aereo che riportava Sanjurjo dal
Portogallo in Spagna cadde, forse per il peso eccessivo del bagaglio.
Il suo potenziale successore, Mola, repubblicano, sospettato a torto di
affiliazione massonica, nel 1937 a sua volta morì in incidente aereo.
Queipo era un sanguinario succubo del fascino femminile e dell'alcol,
privo di fiuto politico. Rimase Franco, che pazientemente raccolse via
via al suo seguito tutti i nemici della Repubblica di Madrid: i
falangisti di José Antonio Primo de Rivera, figlio di Miguel, i
requetés (monarchici “carlisti”) e un ventaglio di movimenti e
personalità. Tutti vennero benedetti dall'alto clero spagnolo e da papa
Pio XI, che condannò il nazionalsocialismo pagano di Hitler, il
bolscevismo materialistico di Stalin e non aveva certo motivo di
avversare chi, come Franco, in Spagna combatteva contro atei dichiarati
e anticlericali fanatici. La guerra civile fu orrenda. Franco era
vendicativo e crudele. Oltremare aveva utilizzato reparti speciali “di
colore” contro i marocchini. Altrettanto fecero tutti gli eserciti
coloniali dell'epoca. Mescolò motivazioni di varia genesi. Tra le sue
vittime emblematiche rimane Federico García Lorca, che agli occhi dei
conservatori rappresentava l'“Anti-Spagna”, anti-nazionale e più
“scostumata” che libertina. Eppure da mezzo secolo in Spagna cresceva
l'appello alla modernizzazione. Ne erano stati portavoce e interpreti
letterati, storici e politici di alto profilo come Miguel Azaña
(massone per un giorno), Alcalá Zamora, Alejandro Lerroux, Diego
Martínez Barrio, più conservatori che rivoluzionari. Della vera Spagna
furono interpreti Miguel de Unamuno e i tanti militari “di loggia” che
passarono a fianco dei Quattro generali. Non fu Franco a
semplificare il conflitto e a ridurlo a lotta mortale tra le tenebre e
la luce. In realtà, e lo documentano l'inglese Paul Preston, Juan Pablo
Fusi e Fernando Cortázar, vi erano non due ma tre Spagne: la
rivoluzionaria, la reazionaria e quella che aspirava a liberarsi dalla
taccia di “Spagna invertebrata” e a farsi Europa, liberale,
democratica, non senza influssi massonici come si legge in
“L'integrazione europea e la penisola iberica” (a cura di Romain H.
Rainero, ed. Marzorati). Era la Spagna che aveva alle spalle il
filosofo e pedagogista tedesco Krause, l'“ideario spagnolo” di Angel
Ganivet e Ortega y Gasset. La massoneria ebbe un ruolo
specifico nel dramma? Ne hanno scritto storici di vaglia come Maria
Dolores Gómez Molleda, José Antonio Ferrer Benimeli e Juan José Ruiz
Morales, autore di “Palabras asesinas” e di poderosi saggi sulla
repressione di comunisti e massoni da parte di Franco. I fatti però
dicono che molti “fratelli” di alto rango, militari, politici e
“intellettuali”, si schierarono con il Caudillo. Franco era
massonofago. Lo mostrò negli articoli pubblicati tra il 1947 e il
1950, con lo pseudonimo di J. Boor (una contraffazione delle “lettere”
incise sulle colonne dei Templi: J. B.). Secondo Franco le logge
erano al servizio degli stranieri, anzitutto i francesi, i sovietici e
le brigate internazionali che portarono migliaia di volontari in Spagna
a fianco della Repubblica. Per vincere davvero la Spagna, “faccia al
sole e camicia nuova”, doveva eradicare l'altra, la rivoluzionaria, e
spazzare via la “terra di mezzo”. Lo fece con la benedizione del
Pontificato. Pio XII scomunicò Juan Perón (caso unico di un capo di
Stato cattolico nella storia moderna della Chiesa) e conferì l'Ordine
del Cristo a Franco, suscitando l'indignazione di tanti fedeli, anche
in Italia. Non solo per il papa, da quindici anni Franco era divenuto
il simbolo della lotta contro il “comunismo”. Se questo fosse prevalso
a Madrid, l'Europa centro-occidentale avrebbe visto cancellato forse
per sempre illuminismo, liberismo, diritti dell'uomo. Per quanto
paradossale, proprio in Spagna venne combattuta una battaglia decisiva,
che vide anarchici, liberali e molti socialisti spazzati via non da
Franco ma dai moscoviti ortodossi, come Palmiro Togliatti, Longo e
Vidali. Verso la Spagna attuale: Opus dei e instaurazione della monarchia. Ma
Franco non è né può essere ridotto solo al Caudillo della guerra
civile. Ne hanno scritto Edgardo Sogno e Nino Isaia in “Due fronti”
(ed. LibriLiberal) che meriterebbe di esser ripubblicato e meditato
mentre divampano fatue chiacchiere sul ”fascismo”. Franco ebbe tre
meriti indiscutibili, che si impongono anche a chi non ne apprezza la
personalità, la sua “retranca”, astuzia del contadino gallego, uso nei
secoli a celare i suoi propositi. In primo luogo tenne la Spagna al di
fuori della Seconda guerra mondiale, malgrado le pressioni di
Mussolini, che lo considerava ingrato nei confronti dell'aiuto datogli
dall'Esercito italiano nella guerra civile con il Corpo Truppe
Volontarie: il CTV che gli spagnoli traducevano in “Cuando ten vas?”.
Dopo aver inutilmente tentato di circuirlo in un lungo esasperante
colloquio a Endaya, Hitler disse che mai più lo avrebbe incontrato.
Franco era sfuggente, indecifrabile. In realtà pensava alla sua terra.
Ebbe la saggezza di lasciarvi approdare silenziosamente gli
anglo-americani: un garanzia sulla vita non sua personale ma della
Spagna Eterna. In secondo luogo favorì la modernizzazione propugnata
dall'Opus Dei, che formò una classe dirigente di tecnocrati. Parlavano
anche inglese ma pensavano in spagnolo. Al suo interno ripresero spazio
antichi propositi del falangismo di José Antonio: una visione
“popolare”, a correzione del ritorno in forze dell'aristocrazia
arcaica. Infine il Caudillo ebbe chiaro che il suo potere personale era
transitorio: doveva passare dalla “Jefatura del Estado” alla monarchia.
Il cambio non poteva però ridursi a puro e semplice ritorno al passato.
Di mezzo vi erano stati i molti enormi errori dei Borbone, la condotta
di Juan, conte di Barcellona, da lui ritenuta poco lineare e infine la
guerra civile. Per essere davvero punto di equilibrio e garanzia per il
futuro la monarchia non andava “restaurata” ma “instaurata”. Anche
Umberto II, in esilio, si adoperò per convincere don Juan a passare la
mano al figlio, Juan Carlos, designato Re. Iniziò il processo che ebbe
protagonisti Manuel Fraga Iribarne, Adolfo Suárez e altri uomini della
“transizione”, coronata con la Costituzione del 1978 redatta da
giuristi anche socialisti come Gregorio Peces Barba. Alla
morte Franco poté ritenere aver ricostruito la Spagna “una, grande,
libre”, membro delle Nazioni Unite dal 1955, lo stesso anno nel quale
l'Italia vi venne ammessa. Il Valle de los Caìdos, simbolo di pacificazione. La
salma del Caudillo non appartiene solo alla sua famiglia e alla Spagna.
Essa rappresenta un capitolo della storia d'Europa. Non solo. L'immensa
croce ritta sul colle sovrastante la cupa Basilica vuol essere un
simbolo di pace eterna, un invito alla meditazione sulla storia
universale. Quando pure le sue spoglie venissero rimosse, l'opera di
Franco rimarrebbe consegnata alla storia: anzitutto di un'Europa che ha
troppo a lungo ostacolato l'ingresso della Penisola Iberica nella
Comunità Economica, accampando violazioni dei diritti dell'uomo, per
ostacolarne, in realtà, le esportazioni e ritardarne la
modernizzazione. Chi ha visitato la Spagna durante la dittatura o
all'indomani della morte di Franco e la confronta con l'attuale conosce
bene i passi da gigante compiuti dal Paese grazie alla dirigenza
cresciuta negli anni del franchismo. Unì senso dello Stato e memoria
del Passato. Il Passato che non deve passare. E' il futuro. Anche
Sánchez sa che i “monumenti” sono come la storia. Non si cancellano. Lo
ha ricordato Francesco Rutelli contro certe manie dilaganti oltre
Atlantico e anche in Italia, ove imperversa la smania di rimuovere,
abbattere, obliare. Tuttavia conduce la sua lotta disperata per la
estumulazione: vuole svellere la pietra angolare degli avversari,
seminare la zizzania tra i suoi rivali, dividerli e sconfiggerli alle
urne, per riportare la Spagna all'indietro, a fianco di Maduro, della
Cuba perennemente castrista. Senza alcuna nostalgia personale del
massonofago Caudillo (che finse di non sapere quante logge
anglo-americane proliferassero nel suo Paese malgrado i divieti
ufficiali), i quarant'anni del suo dominio hanno diritto a un giudizio
storico pacato, libero dai precetti di “leggi sulla memoria” che sanno
di censura ideologica e di fanatismo, contrario ma esattamente uguale
al suo.
Aldo A. Mola
PRIMA E DOPO CAPORETTO? RISPONDE CARLO CADORNA CON DOCUMENTI
Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 17 marzo 2019, pagg. 1 e 11.
Gli Uomini che fecero la Storia: Giolitti, Cadorna, Diaz Il 1928 in pochi
mesi portò via Armando Diaz (classe 1861), Giovanni Giolitti (1842) e
Luigi Cadorna (1850), tre massimi protagonisti della storia d'Italia:
lo Statista e i due Comandanti Supremi dell'esercito nella Grande
guerra. Diaz non lasciò memorie. Le sue carte sono state studiate e
valorizzate dal generale Luigi Gratton (2001), fiero di essere stato
alfiere del Tricolore al rientro dell'Italia a Trieste nel 1954.
Giolitti pubblicò le Memorie della sua vita nel suo 80° compleanno, il
27 ottobre 1922. Nei sei anni seguenti non aggiunse nulla, né rilasciò
interviste. Ma il 16 marzo 1924, vigilia delle elezioni vinte dal
“listone nazionale” filofascista che candidò Enrico De Nicola a Napoli
e Vittorio Emanuele Orlando in Sicilia, Giolitti deplorò la deriva
precipitosa dalla democrazia liberale di Azeglio, Cavour e Sella al
“partito unico”, sempre con l'avallo della Camera dei deputati, pronuba
dinnanzi al “duce”, che ripetutamente la umiliò con parole sferzanti.
Dal canto suo Cadorna non tenne un “Diario” né pubblicò
“memorie”. Però cent'anni orsono fece di più e di meglio. Nel
1919, vergò la sua opera fondamentale: “La guerra alla fronte italiana
fino all'arresto sulla linea della Piave e del Grappa (24 maggio 1915-9
novembre 1917)”. Non generici “ricordi” personali ma Storia, densa di
documenti e di atti ufficiali. L'opera è la “biografia” dell'Italia
dalla Conflagrazione europea (luglio1914) alla sostituzione di
Cadorna con Armando Diaz a capo dell'Esercito italiano (9 novembre
1917). Quando scrisse, il Generale viveva a Firenze, in un
villino acquistato per festeggiare il suo 68° compleanno: una residenza
appartata, modesta, senza riscaldamento. Chi lo visitava nei lunghi
mesi del freddo lo trovava alla scrivania “intabarrato e inguantato”,
intento a compulsare documenti. Posava la penna e conversava. Limpido,
chiaro, tutto “fatti”, dati, luoghi. A volte s'accendeva, alzava la
voce, batteva il pugno sulla scrivania, come gli accadde mentre
conversava con Olindo Malagodi. Aveva sempre dinnanzi agli occhi le
sterminate carte militari “della fronte” e l'“ordine di battaglia”
aggiornato per anni, le 35 divisioni iniziali, via via cresciute di
numero e di capacità, ma sempre periclitanti per carenza di mezzi e la
sorda ostilità serpeggiante malgrado l'attivismo del “fronte
interno”. In “La guerra alla fronte italiana” il Generale
ampliò quanto aveva dichiarato alla Commissione d'inchiesta “sugli
avvenimenti dall'Isonzo al Piave (24 ottobre-9 novembre 1917)”, titolo
pudico della Relazione pubblicata in due volumi nell'estate 1919. Per
capire il canone della sua opera occorre ricordare i drammatici mesi
vissuti da Cadorna dal giorno stesso dell'arretramento dalla conca di
Caporetto alla destra del “fiume Sacro”, quando fu rimosso dal comando
della macchina militare da lui costruita con determinazione, grazie
all’intelligente collaborazione di militari di alte capacità, di
“militari senza divisa” e dell'apparato industriale, a cominciare
dall'Ansaldo di Genova, che si valse, tra altri, delle competenze
scientifiche di Federico Giolitti, figlio dello Statista. Dal
dicembre 1917 rappresentante dell'Italia nell'appena costituito
Consiglio superiore di guerra interalleato con sede a Versailles
(carica accettata con spirito di servizio, dopo iniziale riluttanza),
il 20 gennaio 1918 Cadorna fu chiamato “a disposizione” della
Commissione d'inchiesta come un teste qualunque, quasi non potesse
essere “audito” diversamente, come invece avvenne al migliaio di altre
persone chiamate a deporre. Qualcosa non gli tornava. Né torna a chi
studi il “caso” senza preconcetti. Il Generale nella tempesta scrive la verità dei “fatti” Tirava
vento pessimo. L'antico Comandante Supremo ne colse le prime folate, ma
non avvertì la bufera. Nel luglio 1918 fu drasticamente collocato a
disposizione “in sovrannumero”, con riduzione di rango e assegni.
All'estero il provvedimento venne inteso come punizione, “una vera e
propria destituzione”. “Ma le porcherie e le vessazioni – egli scrisse
il 1° agosto al figlio, Raffaele, futuro comandante del Corpo Volontari
della Libertà - hanno sempre disonorato chi le commette e non chi le
subisce”. Protestò col presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele
Orlando, da anni suo fierissimo nemico, lo stesso che in quei giorni
incalzava Armando Diaz affinché scatenasse l'offensiva contro
l'esercito asburgico e, secondo il vicecomandante Gaetano Giardino,
arrivò ad affermare: “Preferisco una sconfitta all'inazione”, quasi che
il Paese potesse permetterselo. In realtà, un eventuale sciagurato
disastro (la storia insegna che nessuno sa “prima” come finiscano le
battaglie né le guerre) avrebbe fatto crollare il regno d'Italia, senza
speranze di riscossa, com'era accaduto in Russia e poi avvenne in
Bulgaria, Austria, Turchia e Germania. Il 21 novembre 1919
Cadorna aveva già terminato i primi quattro dei dieci capitoli del
libro “Dalla Bainsizza al Piave”. Contava di terminarlo entro l'anno e
di mettere subito mano a un secondo tomo “Dall'origine alla Bainsizza”.
Non aveva ancora deciso se pubblicarli separatamente o fonderli in un
unico volume. Nel frattempo cominciarono a uscire le memorie di altri
generali, come le “Note di guerra” di Luigi Capello, già comandante
della II armata, travolta dall'avanzata austro-germanica dell'ottobre
1917, e il memoriale di Luigi Nava, da lui rimosso da comandante della
IV Armata. “L'affare di Caporetto – scrisse Cadorna al figlio – è
come una pentola che bolle e che ogni tanto solleva il coperchio e poi
si chiude. Figurati che pandemonio accadrà quando se ne parlerà sul
serio” (14 marzo 1919). Il governo Orlando-Sonnino era alla resa dei
conti. La delegazione italiana alla conferenza di pace di Versailles
non fu all'altezza del compito, né dell'alto prezzo pagato dal Paese
per la vittoria finale. Lo ammise Orlando nelle “Memorie” (lasciate
incompiute per motivi fabulosi), in cui polemizzò aspramente ex post
con il presidente degli Stati Uniti d'America, Woodrow Wilson, “arbitro
di fatto dalla forza irresistibile della sua potenza” e al tempo stesso
succubo di “una forza occulta”, degli jugoslavi e (venne insinuato)
delle loro “attiviste”. Fantasie. Non avendo ottenuto Fiume in aggiunta
a quanto previsto dall'arrangement con il quale il 26 aprile 1915 il
governo Salandra-Sonnino aveva aderito all'Intesa (senza però entrarvi
organicamente: imperdonabile errore strategico di politica
diplomatica), la delegazione di Roma lasciò il Congresso di Parigi
(“non conferenza di pace” ma arbitrato secondo Orlando),
nell'indifferenza degli altri partecipanti, che si affrettarono ad
approvare lo statuto della Lega delle Nazioni e a fissare i preliminari
del diktat contro la Germania. Non le rimase che riprendere la via
francigena. Il 23 giugno la Camera rovesciò il governo Orlando-Sonnino,
pochi giorni prima della firma del Trattato di pace nel Castello di
Versailles nel quinto anniversario del mortale attentato di Sarajevo,
motivo scatenante della conflagrazione. Anche il nuovo presidente
del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, alimentò la canea nei confronti
di Cadorna, in vista della pubblicazione della Relazione della
commissione d'inchiesta. Questa gli attraeva i consensi degli
antimilitaristi. Per lui il generale era solo un “brutto ricordo”.
Perciò Cadorna venne messo nell'oggettiva impossibilità di rispondere
pubblicamente con la necessaria efficacia e abbandonato al
“crucifige” di una “piazza” da oltre un anno aizzata e assetata del
sacrificio di un capro espiatorio. I due volumi di “La guerra alla
fronte italiana” rimasero inediti sino all'aprile del 1921. Cent'anni
dopo escono (BastogiLibri, Roma, con prefazione di Gianni Rabbia) in
vista della Giornata Cadorna in programma a Pallanza il 7 aprile
prossimo. Facit indignatio versum Mentre
scriveva l'Opus magnum, come fosse due persone in una, con due teste e
quattro mani, il generale intraprese l'“altro libro”. Il primo era la
Storia, il secondo una sorta di lunga “nota a pie' di pagina”, puntuale
e puntuta, meticolosa e rigorosa, sempre documenti alla mano. Man mano
che i lavori della Commissione d'inchiesta procedevano, egli sentiva
sempre più impellente e doveroso “testimoniare” dinnanzi all'opinione
nazionale e internazionale. Doveva illuminare i passaggi fondamentali
del différend tra la sua opera di Comandante supremo e i governi
susseguitisi dalla conflagrazione alla sua rimozione: Salandra-San
Giuliano e Salandra-Sonnino sino al 10 giugno 1916, il ministero
Boselli, rovesciato il 25 ottobre 1917, e gli esordi di quello
presieduto da Orlando, sempre con Sonnino agli Esteri, anello di
congiunzione fra le trame diplomatiche del 1914 e il rovescio del 1919.
Neppur Sonnino lasciò “Memorie”. Solo un “Diario”, molto frammentario e
lacunoso proprio nei passaggi cruciali, e lettere. Sin dai
primi mesi dell'intervento dell'Italia in guerra Governo e Comando
Supremo giunsero ai ferri corti su molti versanti sostanziali delle
rispettive competenze. Lo aveva anticipato il ministro della Guerra
Domenico Grandi quando, consultato proprio Cadorna, il 23 settembre
1914 aveva avvertito Salandra: il governo era l'unico titolato a
valutare lo spirito pubblico e le esigenze politiche e a stabilire se
“il Paese” avrebbe condiviso e assecondato, o no, l'ingresso nella
fornace ardente, con tutti i rischi derivanti dalla impreparazione
dello “strumento bellico”. Poiché non era allineato con gli scopi
occulti del governo, Grandi venne sostituito. Ad aggravare la tensione
sull'inizio del 1916 intervenne la decisione dell'Esecutivo di
intraprendere un'azione militare in Albania. Attestarsi a Vallona (come
all'epoca si diceva) per Salandra e Sonnino significava fare
dell'Adriatico il “lago italiano”, come a grandi linee
tratteggiato dall'“accordo” (non patto né trattato, a differenza di
quanto molti scrissero e ripetono) siglato a Londra il 26 aprile 1915
in vista dell'adesione all'Intesa anglo-franco-russa. Secondo
Cadorna l'apertura di quel fronte bellico sulla “quinta sponda” era
invece del tutto fuorviante: avrebbe distratto mezzi e uomini
dall'unico vero campo di battaglia e, in prospettiva, assorbito risorse
sempre più ampie, in uno scenario politico-militare colmo di incognite
e di possibili sorprese negative. Lo stesso valeva per le truppe
italiane Oltremare, dalla Tripolitania al Mar Rosso, Ve n'era invece
urgente e prioritario bisogno sul lunghissimo sinuoso fronte
italo-austriaco. L'Italia, egli soleva ripetere, avrebbe riconquistato
la Libia sul Carso, ove, diversamente, rischiava di perdere tutto.
Anche Londra si disperdeva in imprese azzardate su teatri diversissimi,
ma da secoli era un impero. All'opposto l'Italia doveva invece
concentrare tutte le sue risorse per sfondare il fronte austro-ungarico
a est, arrivare a Lubiana e Zagabria e aggirare da sud l'impero
asburgico, suscitandovi l'insorgenza delle “nazioni senza Stato” o,
come poi si disse, dei “popoli oppressi”. La sua visione potrebbe
essere classificata mazziniana o garibaldina se non fosse che sin dal
1864 Vittorio Emanuele II aveva caldeggiato un'azione italiana di quel
tenore, per destabilizzare l'Austria. Come scrive suo nipote Carlo nel
succoso saggio introduttivo a “Caporetto. Risponde Cadorna” (BCSMedia,
Grottaferrata, aprile 2019), il Comandante era “un generale del
Risorgimento italiano”. Il “differend” tra governi allo sbando e il Comandante Supremo La
risposta del governo ai suoi mòniti e, presto, alle sue rimostranze,
consegnate anche al carteggio con il titolare degli Esteri, Sonnino, fu
quanto di più deludente e assurdo. Lo documenta il verbale della seduta
del Consiglio dei ministri del 26 febbraio1916, firmato da Antonio
Salandra e da Salvatore Barzilai, sinora inedito: “Presenti tutti i
ministri. Si autorizza la pubblicazione di un decreto relativo
all'avvio delle azioni militari in Albania, in sostituzione del decreto
1 dicembre 1915”. Il governo avocò a sé il comando dell'impresa. Così
l'Italia condusse due guerre separate, una con la regia del Comandante
Supremo, un'altra “gestita” direttamente da Roma. Quella delibera
comportava due diverse politiche estere, perché (lo aveva insegnato
Clausewitz) le armi sono la prosecuzione della diplomazia con altri
mezzi. Ma era appunto la politica estera il “ventre molle” del governo
italiano. Lo si vide anche con l’esecutivo Boselli, quando Roma non
poté più esimersi dal dichiarare guerra alla Germania, che si era
impegnata a combattere sin dal 26 aprile 1915. Dopo la “spedizione di
primavera” (o “punitiva”) austroungarica del maggio 1916 e la
controffensiva abilmente allestita da Cadorna, culminata con l'ingresso
in Gorizia il 10 agosto, la guerra mutò volto e “ragione sociale”: non
poteva più essere confinata nel recinto del “sacro egoismo” accampato
da Salandra, il cui vero e miope obiettivo era annientare Giolitti. La
guerra dell'Italia andava inquadrata nell'ambito di una visione
europea, delle alleanze e delle loro prospettive postbelliche, come da
Cadorna scritto e ripetuto sin dal luglio 1914, con lungimiranza
superiore a quella dei “politici”. Solo il 24 agosto 1916,
presenti tutti i ministri, il governo Boselli fece mettere a verbale il
passo fatale: udita la relazione del ministro degli Esteri, deliberò
“in conformità degli impegni assunti con gli alleati, di proporre a Sua
Maestà la dichiarazione di guerra alla Germania, [autorizzando] il
Presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri di
determinare il momento opportuno per dar seguito alla deliberazione
presa”. Roma doveva però motivare una decisione così gravida di
conseguenze. Lo fece con argomenti di basso profilo: gli aiuti militari
germanici all'Austria-Ungheria sua alleata, la consegna agli asburgici
di militari italiani evasi dai campi di prigionia, la sospensione del
pagamento delle pensioni dovute a operai italiani: contenziosi da
sottoporre a commissioni paritetiche, non alle armi. La dichiarazione
di guerra venne comunicata alle 13.40 del 27 agosto con efficacia
dall'indomani. Lo stesso giorno la Romania scese in campo a fianco
dell'Intesa. A quel punto Cadorna chiese a Sonnino di farsi almeno
comunicare “i patti interceduti fra gli alleati circa la sorte
eventuale dell'impero turco: Costantinopoli, gli Stretti, l'Asia
Minore, questioni di primaria importanza per la preparazione della
pace, a cui bisogna pure pensare quando non ci sia altra guerra da
dichiarare”. Sonnino si chiuse a riccio. La politica estera era suo
riservato dominio. Di più e di peggio fece Boselli col sostegno del
ministro dell'Interno, Orlando. Lungo tutto il 1917 e specialmente dopo
la rivoluzione in Russia, l'ingresso degli USA nella guerra e il
rischio di un'offensiva austro-germanica, come bene documenta Carlo
Cadorna, il Comandante Supremo incalzò il governo con ben quattro
lettere per chiedere il potenziamento del “fronte interno” e la lotta
contro il disfattismo che dal paese contagiava l'Esercito. Non ebbe
alcuna risposta. Il 27 marzo e il 28 settembre Cadorna partecipò a due
sedute del governo. Della prima non v'è alcuna traccia nei verbali del
Consiglio dei ministri; la seconda è riassunta in poche righe, elusive,
senza alcun cenno al dibattito. Cadorna non compare. Secondo una
postuma Dichiarazione di Orlando, il Comandante supremo gli condensò il
programma in poche parole a seduta ormai terminata: “Lei pensi ad
assicurarmi le retrovie, che ai soldati ci penso io”.
La vera storia di quei drammatici
mesi non si comprende appieno dunque né dalle Memorie di Orlando o dal
carteggio di Sonnino né, tanto meno, dall'Inchiesta su Caporetto, ma
emerge invece a luce meridiana da “La guerra alla fronte italiana” e
dal volume ora pubblicato da Carlo Cadorna per riaprire il dibattito su
pagine fondamentali della storia d'Italia.
Aldo A. Mola
FEDERZONI, UOMO DEL RE? ESCE IL SUO DIARIO INEDITO (1943-1944)
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 10 marzo 2019, pagg. 1 e 11.
Comunione e confessione prima del Gran Consiglio
La mattina del 24 luglio 1943, un sabato, Luigi Federzoni (Bologna, 27
settembre 1878- Roma, 24 gennaio 1967) andò a confessarsi e a
comunicarsi. Lo ricordò egli stesso in “Italia di ieri per la storia di
domani”, il “memoriale” pubblicato un mese dopo la sua morte.
Altrettanto fecero Dino Grandi e “forse qualcun altro” componente del
Gran Consiglio del Fascismo, convocato a Palazzo Venezia per le 17 in
piena calura estiva. Quei gerarchi, ricorda Emilio Gentile nel saggio
più recente sul 25 luglio (ed. Laterza), erano “consapevoli del rischio
mortale, ma sereni per la certezza di combattere una battaglia forse
decisiva per la salvezza del Paese”. Alcuni alla riunione andarono
“bene armati”. Federzoni narra che uno lo “rimorchiò in un cantuccio e
con aria alquanto spaccona trasse di sotto la palandrana di
prescrizione due bombe a mano”. Era forse il pugnace Cesare Maria De
Vecchi, conte di Val Cismon, pluridecorato al valore, quadrumviro della
marcia su Roma del 31 ottobre 1922, fiduciario di Vittorio Emanuele
III. Il Gran Consiglio, organo supremo della Rivoluzione fascista” dal
1928, non si riuniva da oltre quattro anni. Contava e non contava. I
suoi poteri effettivi erano e rimangono dispute tra costituzionalisti.
Ne ha scritto recentemente Guido Melis in “La macchina imperfetta” (ed.
il Mulino), Premio Acqui Soria 2018. A volte gliene vengono attribuiti
molti più di quanti ne avesse, in specie sulla successione al trono,
nel quale non ebbe mai alcun potere determinante. Poteva solo esprimere
“pareri”. Quanto poco Mussolini lo tenesse in considerazione si era
visto negli anni successivi all'abbraccio mortale tra lui e Adolf
Hitler, Fuerher della Germania e del suo partito unico, il
nazionalsocialista. Esondando dai poteri di capo del governo, il duce
del fascismo aveva deciso l'alleanza militare con la Germania, la “non
belligeranza” e poi la dichiarazione di guerra (10 giugno 1940) contro
Francia e Gran Bretagna, Unione Sovietica e, davvero esagerando, conto
gli Stati Uniti d'America senza mai consultarlo. D'altronde nessuno dei
suoi componenti si era sentito in dovere di chiederne la convocazione.
Anche per loro il Duce aveva sempre ragione. Tre anni dopo lo
sciagurato ingresso in guerra, perduta in pochi mesi l'intera Africa
Orientale (Eritrea, Somalia ed Etiopia, conquistata appena sei anni
prima) e poi l'intera Libia e l'ultimo ridotto in Tunisia, anche la
Sicilia dal 10 luglio era stata invasa dagli anglo-americani, i cui
comandanti impartirono alle truppe direttive poco tenere nei confronti
degli italiani, civili compresi. Molte piazzeforti si arresero senza
opporre resistenza. Gli “alleati” in molti casi furono accolti come
liberatori. A quel punto occorreva salvare il salvabile. Federzoni avverte il re, che già sapeva tutto Federzoni
concorse con Dino Grandi alla redazione dell'ordine del giorno da
proporre al Gran Consiglio, per proclamare “il dovere sacro di tutti
gli italiani di difendere ad ogni costo l'unità, l'indipendenza, la
libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro
generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l'avvenire del popolo
italiano”. Lo pensavano e lo ripetevano da anni quel che rimaneva di
liberali, democratici, popolari, socialisti, antifascisti in forzato
esilio o da molti anni incarcerati, militanti del neonato partito
d'azione e il repubblicano Randolfo Pacciardi, massone. Il Risorgimento
non era affatto monopolio dei nazionalisti, meno ancora dei fascisti,
che lo avevano confiscato e ridotto a retorica. L'Italia era e doveva
tornare a essere degli italiani, come avevano spiegato a loro tempo
tanti patres della Terza Italia, quali i “fratelli” Francesco De
Sanctis, Giosue Carducci, Giovanni Pascoli e una legione di studiosi
che non si erano fermati alla contemplazione letteraria del Paese ma si
erano immersi negli studi di statistica, scienze sociali ed economia.
Non avevano mai formato un partito, ma una “opinione nazionale”, sulla
scia di Cavour e di Massimo d'Azeglio, nel solco di Giuseppe Garibaldi,
Francesco Crispi e via via sino a Giovanni Giolitti, capofila del
“senso dello Stato”. Federzoni ebbe il merito di far arrivare
clandestinamente il testo dell'ordine del giorno a Vittorio Emanuele
III, che ne aveva già notizia indiretta, così come lo ebbe
anticipatamente il demolaburista Ivanoe Bonomi tramite Domenico
Maiocco, socialista, antifascista e massone. Chi davvero aveva il
potere di fare ebbe quindi modo di muovere le falangi di un ordine di
battaglia predisposto da tempo. Al Re i poteri statutari per salvare l'Italia Con
breve interruzione la seduta del Gran Consiglio durò oltre le due del
mattino e si concluse con l'approvazione dell'ordine del giorno
Grandi-Federzoni, al quale avevano aderito anche Giuseppe Bottai,
Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, mesi prima defenestrato da
ministro degli Esteri e nominato ambasciatore presso la Santa Sede
(così poté tramare con maggior sicurezza), e altre personalità eminenti
del “regime”. Ciascuna di esse poi narrò in memoriali o a
intervistatori quanto ricordava. I Grandi Consiglieri del Fascismo
tradirono il partito o addirittura l'Italia? Volevano la eliminazione
del duce? Anche il verbale redatto da Federzoni molti giorni dopo la
seduta conferma che persino i più strenui fautori della “svolta” in
realtà si limitarono a “invitare il Capo del Governo a pregare la
Maestà del Re (…) affinché egli voglia per l'onore e la salvezza della
Patria assumere con l'effettivo comando delle Forze Armate (…) quella
suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui
attribuiscono...”. L'appello era necessario giacché gli anglo-americani
preparavano l'assalto alla penisola, le armate italiane erano disperse
all'estero, dalla Provenza alla Jugoslavia e alla Grecia, e, dopo anni
di stolida autarchia e di razionamento, la maggior parte della
popolazione, specialmente nelle città, era ormai alla fame, preda della
”borsa nera”. Gli scioperi del marzo 1943 proprio nei centri
industriali avevano suonato il campanello d'allarme: “pane e pace”. Una
settimana prima della seduta del Gran Consiglio, nell'incontro di
Feltre Mussolini per l'ennesima volta non riuscì a far capire a Hitler
che l'Italia non ce la faceva più. Il Fuerher comprese invece che
doveva farvi affluire subito divisioni in assetto di guerra per
prenderla sotto controllo prima dell'invasione angloamericana. In
quelle ore Roma stessa subì un devastante bombardamento aereo
“pedagogico”: una brutale esortazione a muoversi, a disfarsi del
fascismo e del suo duce prima di essere sistematicamente schiacciata
dal cielo, come sin dal 1940 era accaduto a tante sue città, da
Torino a Genova e Cagliari…, in un crescendo di rovine e di orrori. Del
resto era stata l'Italia a dichiarare guerra. La mattina del 25
luglio 1943, una domenica, Roma si destò come poteva. Alternava
speranza e angoscia. Mussolini, dopo una mattinata di lavoro ordinario
(ricevette persino l'ambasciatore del Giappone, al quale assicurò che
l'Italia avrebbe “tirato diritto”: qualcuno ha favoleggiato che
stesse approntando la richiesta di pace separata all'Urss staliniana),
alle cinque del pomeriggio andò in udienza dal re, che gli revocò la
carica di capo del governo, lo fece fermare (non “arrestare” o
“incarcerare”) dai carabinieri, “nei secoli fedeli”, e tradurre al
sicuro sotto sorveglianza. Poche ore dopo, il maresciallo Pietro
Badoglio, duca di Addis Abeba, annunciò per radio la sua successione al
“cavalier Mussolini”, che in effetti dal 1924 era insignito dell'Ordine
della Santissima Annunziata, “cugino del re”. Nella seduta, in
alcuni momenti concitata ma mai tumultuosa, Federzoni, Grandi, Bottai e
gli altri firmatari dell'ordine del giorno avevano chiesto quanto da
tempo il re aveva deciso da sé: il cambio al vertice dell'Esecutivo in
vista dell'uscita dell'Italia da una guerra ormai insostenibile, al
costo minore possibile. Iniziava una partita difficilissima tuttora
poco capita dalla storiografia e dall'opinione comune. Non era la prima
volta nei secoli di Casa Savoia. Quel che contava era salvare la
continuità dello Stato, sulla base della ribadita unione tra
Istituzioni e Paese: “Italia e Vittorio Emanuele”, secondo la formula
cara a Garibaldi. L'Italia fu pervasa da manifestazioni di giubilo per
la caduta del regime. Non si registrarono mobilitazioni significative a
favore di Mussolini né del Partito nazionale fascista, che pochi giorni
dopo venne sciolto per decreto legge, come la Milizia volontaria per la
sicurezza nazionale, un tempo onnipotente ma che non mosse un dito a
favore del “Capo”. Tacquero anche i celebrati “battaglioni M”. Dai
cortei nessuno inneggiò a Federzoni, Grandi, Bottai, Ciano o al altri
firmatari del poi famoso ordine del giorno. La storia aveva mutato
corso senza attenderli. I gerarchi uscirono di scena. Entrò in campo il
governo di militari e di tecnici (come Raffaele Guariglia agli esteri)
che sin dal 1925 Giovanni Giolitti aveva vaticinato quale unica
alternativa alla deriva dell'Italia verso il “partito unico” e le sue
nefaste conseguenze interne e internazionali. Qualcuno lamenta che
Badoglio impiegò 45 giorni a ottenere la “resa senza condizioni”. Che
cosa fa oggi il governo in 45 giorni? Il regime Il
partito unico ebbe la premessa il 23 febbraio 1923 con la confluenza
dei nazionalisti nel partito nazionale fascista, previo un solenne rito
sacrificale: la dichiarazione di incompatibilità tra fasci e logge
massoniche, deliberata dal Gran Consiglio del fascismo con la
partecipazione, in via eccezionale, di uno spretato massonofago, che
già aveva pubblicato in Italia i Protocolli dei Savi anziani di Sion e
da un decennio faceva da rompighiaccio dell'estremismo contro
liberalismo e democrazia parlamentare. Se il giovane Federzoni aveva
deplorato la germanizzazione del lago di Garda, quell'ex reverendo
aveva scritto un libello su la Germania alla conquista dell'Italia,
denunciando i complotti di banche (come la Commerciale di Milano) e di
grandi industrie a favore dello straniero. A quel punto i
nazionalisti ritennero di mettere le briglie al fascismo, ancora un
arcipelago di correnti, dissidenze e pulsioni mai giunte a sintesi. Di
fatto nell'ambito del regime essi rimasero una frangia autorevole per
cultura giuridica e letteraria ma scarsamente influente nell'apparato
del partito che era un caleidoscopio di “ras” e di personalità dagli
itinerari disparati, ben lontani da qualunque sintesi nella guida
politica del Paese. I nazionalisti avevano avuto maggior peso
quando erano la piccola avanguardia dell'opposizione di estrema destra
e, sulla scia delle generose visioni di Alfredo Oriani, si erano
attribuiti il ruolo di antesignani del grande ritorno a una storia mai
esistita. Di fatto avevano funto da mosche cocchiere nella guerra per
la sovranità dell'Italia su Tripolitania, Cirenaica e
occupazione/liberazione di Rodi e delle Sporadi. Questa venne decisa da
uomini pragmatici come il re, Giolitti e San Giuliano, pronti a tirare
le somme di vent'anni di trattative diplomatiche. Del pari si
considerarono avanguardia dell'intervento dell'Italia nella Grande
guerra, ove però furono anticipati dal loro principale contendente, il
Grande Oriente d'Italia capitanato da Ettore Ferrari, e si
pronunciarono per la guerra contro l'Austria quando Alfredo Rocco
(l'unico nazionalista con alto senso dello Stato) ancora guardava con
ammirazione all'impero di Germania quale modello da replicare in
Italia. Nel corso del conflitto, che tra gli interventisti registrò la
prevalenza di sindacalisti rivoluzionari, socialisti riformisti come
Leonida Bissolati, socialmassimalisti alla Mussolini e repubblicani,
sempre pronti a minacciare “guerra o rivoluzione”, i nazionalisti
ebbero un ruolo marginale, sino alla fase estrema, dopo Caporetto,
quando tornò preminente il Grande Oriente guidato da Ernesto Nathan,
per il quale bisognava schiacciare i pacifisti come serpenti. Il Nazionalismo e la Nazione “Nipote”
in senso ideale di Giosue Carducci (suo padre, Giovanni, ne era
discepolo e cultore), Federzoni dovette il successo del suo esordio
politico proprio al declino di Nathan quale sindaco di Roma, non per
sua incapacità amministrativa (gli assessori erano competenti e
valorosi) ma per la “crociata” da lui incautamente lanciata contro la
Chiesa cattolica il 20 settembre 1910. Eletto deputato a soli 35 anni
il 2 novembre 1913 nel prestigioso collegio Roma I in ballottaggio
contro Antonino Campanozzi (4322 voti contro 3872) Federzoni parve
stella cometa di una Quarta Italia. In realtà l'affluenza dei cattolici
alle urne era ormai dilagante in tutta Italia in attuazione del “patto
Gentiloni” che sommò cattolici moderati, liberali temperati e massoni
lungimiranti. Nessuno sentiva bisogno di clericalismo, estraneo
all'Italia e soprattutto al suo Re, che aveva da poco scoperto la
statua equestre del Padre della Patria e rimaneva scomunicato come i
suoi antenati, colpevoli di aver debellato il potere temporale di papi. Federzoni
assunse dunque un ruolo divisivo. La sua ascesa era fatalmente
subordinata all'annientamento di un “nemico interno”: il giolittismo e
la massoneria, il socialismo riformistico e la democrazia liberale. Non
conseguì affatto l'obiettivo. Sulla fine dell'ottobre del 1922 il
governo presieduto da Luigi Facta (il sesto in appena tre anni, il
peggiore per inconcludenza) fu spazzato via ma non venne sostituito da
una compagine nazional-moderata guidata, per esempio, da Antonio
Salandra, ma da una compagine di costituzionali capitanata da
Mussolini, che andò da Alberto De Stefani al filosofo Giovanni Gentile,
da Colonna di Cesarò, demosociale, al giolittiano Teofilo Rossi di
Montelera e fu vegliata da Armando Diaz e da Paolo Thaon di Revel,
grande ammiraglio. Il quarantaquattrenne Federzoni fu assegnato alle
Colonie in successione a Giovanni Amendola, teosofo e massone. Quella
del 31 ottobre 1922 non fu Rivoluzione fascista ma continuità dello
Stato. Dopo le elezioni del 1924 l’Italia visse la stagione del
rapimento e assassinio di Giacomo Matteotti (l'unica certezza sulla sua
fine è che morì, ha osservato il suo documentato biografo, Enrico
Tiozzo) e dei quattro attentati alla vita di Mussolini, usati quale
acceleratore della storia, quasi fosse un paese balcanico. Chiamato a
sostituire Mussolini al ministero dell'Interno nella fase più oscura
della guerra civile nuovamente strisciante, Federzoni constatò
l'ingovernabilità del caos con mezzi ordinari. L'Italia passò allora
alle leggi fascistissime, alla reintroduzione della pena di morte per i
reati contro lo Stato e al Tribunale Speciale. Il governo aumentò il
consenso, ma imboccò il viottolo della repressione di ogni forma di
opposizione partitica e, ben presto, di dissenso culturale. Il
nazionalismo prevalse solo riducendosi a uno spicchio della Nazione,
negando e conculcando la verità della storia. Dal 1925 le Comunità
liberomuratorie d'Italia, che facevano da tramite con le democrazie
parlamentari più avanzate (monarchie e repubbliche, quali Gran
Bretagna, Francia, Stati Uniti d'America, Svezia, Olanda...), furono
costrette ad sciogliersi. Il Paese si era avviato alla decrescita
civile. Per frenarla Mussolini stesso chiamò al governo strenui
avversari del nazionalismo, quali i massoni Giuseppe Belluzzo
all'Economia e all’Educazione nazionale Balbino Giuliano iniziato
massone nella loggia “Valle del Chienti” di Camerino quando vi era
giovane docente universitario. Ad Alberto Beneduce, grande oratore del
GOI, fu affidato il nascente Istituto per la Ricostruzione Industriale.
Quella era l'Italia vera. Federzoni: un umanista di grande talento Dopo
l'avvento del regime di partito unico Federzoni ebbe ruoli eminenti
prima da nuovamente ministro delle Colonie, poi come componente del
Senato, di cui fu per dieci anni presidente, e soprattutto quale
presidente di istituzioni accademiche benemerite, promotrici di opere
emblematiche. E' il caso dell'edizione nazionale delle opere di
Garibaldi e di Carducci che firmò con lo pseudonimo “Enotrio
Romano” i carmi più antivaticaneschi usciti da penna italiana
(più ancora di quelli di Lorenzo Stecchetti, l'Argia Sbolenfi ben
noto nella Bologna cara al giovane Federzoni). Per tutti
questi motivi era importante dare alle stampe l'edizione critica del
vero Diario scritto da Federzoni nei mesi durante i quali fu ospite
dell'ambasciatore del Portogallo presso la Santa Sede. Riuscì
così a scampare alla Repubblica sociale che nel gennaio 1944 condannò a
morte e fucilò come traditori Ciano e altri quattro sfortunati
firmatari dell'ordine del giorno del 24-25 luglio 1943. E'
significativo che a promuovere l'edizione del Diario inedito di
Federzoni, impeccabilmente curata da Erminia Ciccozzi, funzionaria
dell'Archivio Centrale dello Stato, e da Aldo G. Ricci, suo
sovrintendente emerito, sia l'Istituto Lino Salvini di Firenze, per i
tipi dell'editore Angelo Pontecorboli: un modello di cultura e di
serena contemplazione della grande storia di un'Italia che seppe essere
e deve tornare “universale”, lontana dal provincialismo spacciato come
sovranismo. Dal Diario, Federzoni emerge quale aspirante uomo del
Re. Ma Vittorio Emanuele III volle essere Re di tutti gli italiani,
senza pregiudizio di tessere di partito, di opinioni politiche e di
culto religioso. Il carteggio tra l'antico “gerarca” e Umberto II esule
in Portogallo documenta la coscienza adamantina e la profonda passione
di Federzoni per l'Italia. Cinquant'anni dopo la sua morte, merita di
essere conosciuto e riconosciuto nella sua identità di patriota.
Aldo A. Mola
ANDREA CAMILLERI, IL “LATO C” DI FRANCESCO CRISPI E ROSALIA MONTMASSON, L'ANGELO CADUTO
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 3 marzo 2019, pagg. 1 e 11.
Il neo-meridionalismo siculocentrico di Andrea Camilleri... “Maxima
debetur puero reverentia...” dicevano gli antichi. Altrettanta se ne
deve agli anziani. Con una differenza. Dal “puer” non ci si attendono
lezioni di storia. All'anziano, invece, si concede volentieri che narri
il “suo” buon tempo andato, spesso rivisto con occhiali deformanti atti
a cancellare i cattivi ricordi e a salvare i gradevoli. Ma se il
vecchio parla del tempo “di tutti”, se s'impanca a sentenziare sui
massimi sistemi dell'universo, allora si espone a obiezioni e a
correzioni come chiunque altro. È il caso di Andrea Camilleri, che ha
fustigato Francesco Merlo con una lettera a “Repubblica” intrisa di
commosso elogio dell'Isola del Sole, a suo avviso terra felice
sino a quando venne saccheggiata, come tutto il Mezzogiorno, da
“piemontesi” e “nordisti”. La reverenza verso la verità storica ha la
meglio su quella per l'anagrafe. Camilleri ha un'età invidiabile,
ma questo non è un merito particolare. Accade a un numero sempre più
elevato di abitanti del Paese Italia proprio grazie al progresso
sociale, economico e civile dovuto all'unificazione nazionale del
1859-1860 e al suo inserimento nel circuito mondiale che ha sommato
scienza e diffusione del benessere, superando i particolarismi. Per
buona sorte (il suo provvidenziale Stellone) e di alcune ondate di
classe dirigente vera susseguitesi nel tempo, sia pur con cesure e
discontinuità, l'Italia fece e ancora fa parte dell'“Occidente”. E'
avvenuto per merito della unione, che fa aggio sulla deflagrazione e
sulla temuta balcanizzazione implicita nei propositi pseudo
federalistici, antitetici al senso complessivo della sua storia
millenaria. Camilleri gode del plauso per la trasposizione filmica dei
suoi racconti, in specie la serie televisiva del Commissario
Montalbano, dovuta alla speciale bravura di Luca Zingaretti, anche più
delle “storie”, il cui pregio letterario esula dalle presenti
considerazioni. Quando appunto si è autorevoli, quando si parla “erga
omnes”, si assumono speciali responsabilità. Anzitutto la “reverentia”
che tutti dobbiamo alla verità dei fatti. Orbene, secondo Camilleri
intorno al 1100 la Sicilia già aveva un parlamento mentre l'Italia
settentrionale “brancolava nel buio del medioevo”. Forse dovrebbe
rileggere alcune opere sicuramente a lui ben note, da “Gli arabi in
Sicilia” del suo conterraneo Michele Amari all'“Italia moderna”
dell'abruzzese Gioacchino Volpe. All'epoca, come nei secoli
precedenti e in quelli successivi, l'Italia fu un crogiolo di genti e
di conseguenti apporti di civiltà. Solo sull'inizio del Novecento, poco
più di un secolo fa, una conventicola fanatica, imbevuta di
nazionalismo, inventò il mito della “razza italiana”. I suoi apologeti
non ne furono mai pienamente consci, ma nell'insieme ebbero l'intento
di superare i “popoli d'Italia” e le loro rispettive vicende in un
“unicum”, una “nazione” storicamente mai esistita, come ripetutamente
spiegato, fra altri, da Giuseppe Galasso nell'insuperato “L'Italia come
problema storiografico”. … e la “razza italiana” di uno spretato massonofago. Un
famoso spretato, massonofago come tanti clericali dei tempi suoi,
quando riuscì a farsi nominare Ispettore della razza nella Repubblica
sociale italiana da Benito Mussolini (che per note ragioni cercava di
vederlo meno possibile e solo con le mani in basso) impostò la legge
che riconosceva “italiani” quanti fossero stati in grado di indicare
gli antenati almeno dall'inizio del secolo XIX. Scordava che tra il
1800 e il 1814 mezza Italia dipendeva direttamente da Parigi, l'altra
metà era governata dal figlio adottivo di Napoleone o da suo cognato,
Gioacchino Murat, la Sardegna aveva per re il francofono Vittorio
Emanuele I di Savoia e la Sicilia era sotto controllo di lord William
Bentinck, che convinse Ferdinando IV di Borbone a liberarsi
dall'ingombrante moglie Maria Carolina d'Asburgo, farfallona amorosa, e
gli dettò la Costituzione dell'isola. Al confronto con lo spretato
Telesio Interlandi, il razzista di complemento biografato da Giampiero
Mughini (ed.Marsilio) pare un dilettante. A sostegno del
neo-meridionalismo siculocentrico Camilleri cita con orgoglio alcune
città monumentali della Trinacria: Agrigento, Erice, Monreale, Noto,
Siracusa, Taormina... Sono tutti capolavori di altrettante e diverse
civiltà e della loro sovrapposizione e, talvolta, fusione nel corso del
tempo: fenici, greci, romani, bizantini, arabi, normanni, aragonesi,
spagnoli, asburgici d'Austria, Borboni di Spagna e loro progenie. Lì è
il fascino dell'Isola: un “continente”, uno straordinario mosaico, che
affascinò nel tempo i suoi visitatori. Il “viaggio in Sicilia” divenne
un classico attestato da Wolfgang von Goethe. Esso propiziava
l'incontro con i suoi uomini, così unici e così fantasmagorici, dallo
sguardo intenso come nei ritratti di Antonello da Messina. A proprio
conforto Camilleri cita anche, in ordine molto sparso, le eccellenze
politico-culturali siciliane: Vincenzo Bellini, Finocchiaro Aprile
(Camillo, ministro della Giustizia con Giolitti e massone come suo
figlio, Andrea: con la differenza che il primo fu tenacemente
“unitario”, il secondo focosamente separatista), lo scrittore Giuseppe
Tomasi di Lampedusa (precorso dall'insuperabile Federico De Roberto),
Salvatore Quasimodo, massone e premio Nobel per la letteratura, e
Vittorio Emanuele Orlando, giureconsulto insigne. Quando, dopo
Caporetto, questi ascese a presidente del Consiglio il 30 ottobre 1917
la deputazione siciliana gli propose di barattare l'abolizione del
servizio militare per gli isolani con l'autonomia economica. Unitario
sino al midollo, Orlando respinse sdegnosamente un' “offerta” che
sapeva di ricatto, se non di tradimento. Naturalmente Camilleri
esalta il presunto primato economico del Regno delle Due Sicilie alla
vigilia della nascita del regno d'Italia (1861): marina, commerci,
cantieri, riserve d'oro... “Laudator temporis acti”, lo scrittore
dovrebbe però spiegare come mai, se il Mezzogiorno viveva in amorosi
sensi, come egli sostiene, la Sicilia insorse ripetutamente in armi
contro Napoli, nel 1820 e nel 1848, e la sua ribellione fu
sanguinosamente repressa “manu militari” da Ferdinando I di Borbone (ex
IV) e poi dal nipote, Ferdinando II di, che si meritò l'epiteto di “Re
Bomba” per quanto fece sulla pelle di Messina. Va anche ricordato che
nel 1713 re di Sicilia divenne il duca Vittorio Amedeo II di Savoia e
che nel 1848 i siciliani offrirono la corona dell'isola a un altro
Savoia, a conferma che non volevano proprio saperne di Napoli. Il
dualismo tra la Sicilia e le terre “al di qua del Faro” fu pari solo a
quello tra Sicilia occidentale e Sicilia orientale, tema che esula da
queste poche righe. Camilleri dovrebbe anche spiegare perché la
“Borbonia Felix” con tutto il benessere da lui decantato avesse pochi
chilometri di ferrovia in Campania e nessuno nel resto del regno,
Sicilia inclusa. Dovrebbe dire come mai la popolazione di Calabria,
Basilicata, Abruzzo fosse per l'80-90% analfabeta, la rete stradale
quasi inesistente (il traffico commerciale costiero superava quello per
via interna) e mancassero decenti collegamenti terrestri tra Tirreno e
Adriatico, come del resto nello Stato Pontificio. I “fatti” sono
nelle statistiche, nell’ingente massa di ricerche esperite da politici
indipendenti, quali Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, che a proprie
spese condussero la celebre “Inchiesta” sulla Sicilia, perno del
meridionalismo un tempo fiorente ma oggi soffocato dalla
confusione tra polemica spicciola e storia (è il caso dei libelli e
della pletora di articolesse di Pino Aprile e dei suoi imitatori,
corrivi ai ditirambi in onore di briganti e brigantesse). Per un
ritratto veridico della sua terra, Camilleri dovrebbe infine ricordare
i tanti siciliani e, più in generale, meridionali suppliziati,
detenuti, costretti all'esilio da sovrani spergiuri e imbelli: gli
Illuministi “napoletani” (in realtà rappresentanti di tutto il
Mezzogiorno, come ampiamente documentato da Benedetto Croce e Franco
Venturi), i costituzionalisti del 1820-21 e quelli del 1848: Vincenzo
Cuoco, Pietro Colletta, benefattore di Giacomo Leopardi, Luigi
Settembrini, Pasquale Stanislao Mancini (intrinseco di Camillo Cavour e
docente di Giolitti a Torino) e il grande Francesco De Sanctis, il cui
“Discorso ai Giovani” (1848) è stato ripubblicato dal presidente
dell'Associazione ex Allievi della Nunziatella, Giuseppe Catenacci, in
memoria del grande storico della letteratura italiana e ministro della
pubblica istruzione, già docente nella Scuola militare dalla quale
uscirono Enrico Cosenz, Domenico Primerano e Alberto Pollio, capi di
stato maggiore dell'Esercito italiano, e Salvatore Pianell, tra i
migliori in campo nella guerra del 1866. Francesco Crispi: rivoluzione, riforme e un matrimonio volante Esuli
siciliani furono anche Giuseppe La Farina, Francesco Ferrari e
Francesco Crispi, detto “Ciccio” in famiglia e per gli amici, come
Camilleri appella Francesco Merlo. “Albanese” come Bettino
Craxi, il siciliano Crispi (Ribera, provincia di Agrigento, 1818 –
Napoli, 1901) con Giovanni Giolitti è e rimarrà tra i massimi Statisti
della Nuova Italia. Studiato da Arturo Carlo Jemolo, Sergio Romano e
vent'anni addietro da Christopher Duggan, col passare degli anni Crispi
emerge sempre più nel suo vero valore di uomo di Stato. Al suo
principale governo (1887-1891) si debbono riforme fondamentali:
l'istituzione dei sottosegretari di Stato, il nuovo codice di diritto
penale, che abolì la pena di morte e pose l'Italia all'avanguardia nel
mondo, l'elezione dei sindaci dei comuni con più di 10.000 abitanti e
dei presidenti delle deputazioni provinciali, la trasformazione degli
enti di carità in istituti di pubblica assistenza e beneficenza,
l'accelerazione di gigantesche opere pubbliche e una politica estera
fondata sull'alleanza difensiva di Roma con Berlino e Vienna e sulla
convergenza con Londra per la stabilità del Mediterraneo, a tutto
vantaggio dell'espansione italiana, tarpata dall'imposizione francese
del protettorato sulla Tunisia. In termini solo apparentemente diversi
la sua linea venne proseguita e riaffermata dal “grande ministero”
Giolitti- Antonino di San Giuliano, catanese, che si sublimò nella
sovranità dell'Italia su Tripolitania e Cirenaica e nella liberazione
di Rodi e del Dodecanneso dal feroce dominio secolare di quella Turchia
che oggi qualcuno, pretendendo ci bendassimo gli occhi dinnanzi a un
regime oggettivamente liberticida e negatore delle conquiste civili
introdotte dal “fratello Ataturk”, vorrebbe nell'Unione Europea. Molti
uomini politici (ma vale anche, se non di più, per capitani
d'industria, finanzieri, artisti, scrittori, scienziati e persino per
ecclesiastici perché “tous les hommes sont hommes et les moines
sourtout...”) hanno pagine più e meno commendevoli. Quelle di “don
Ciccio” Crispi sono ora narrate da Marco Ferrari nel gustoso e
informato Rosalia Montmasson. L'angelo dei Mille (Mondadori). Nata nel
1823, di origini savoiarde (ovvero dell'allora Regno di Sardegna),
migrata a Marsiglia per trar di che vivere dal suo mestiere di
lavandaia, Rose (Rosalia) vi “conobbe” (nel senso biblico) il giovane
Crispi, esule politico. Di avventura in avventura il giovane “don
Ciccio”, avvocato senza reddito, la prese in moglie in un forzato
soggiorno a Malta: un matrimonio celebrato il 27 dicembre 1854 da un
sacerdote forse non abilitato all'amministrazione del rito e con due
testi a loro volta esuli, Giorgio Tamajo e Luigi Dario Depreti. Il “lato C” di “don Ciccio”. Un
giorno a Torino, ove dimorava in via Vanchiglia, Rosalia ebbe la
sgradevole sorpresa di aprire la porta a una precedente moglie di
Crispi, Felicita Vella, detta Ciuzza, accompagnata dal figlio, Tommaso.
Fu poi col marito nella garibaldina spedizione dei Mille (5 maggio
1860), unica donna a bordo, poi a Palermo (ove “don Ciccio” subì
l'attentato che lo convinse a rifugiarsi in una loggia massonica il 13
febbraio 1861), e ne assecondò passo passo il corso politico, segnato
dalla scelta fondamentale enunciata nel settembre 1864: “La monarchia
ci unisce, la repubblica ci dividerebbe”. Crispi ormai rifiutava di
essere classificato mazziniano o garibaldino. Era Crispi. E lo mostrò
nel tempo, sino all'elezione a presidente della Camera dei deputati e
all'ascesa a ministro dell'Interno e a presidente del Consiglio. Dopo
i due figli avuti dalla “segretaria” del suo ormai fiorentissimo studio
forense, Luisa Del Testo, egli ebbe l'ultimo incontro fatale, con
la giovane Filomena (Lina) Barbagallo. Ottenuto un “accordo” con
Rosalia (1875) e l'annullamento del precedente matrimonio “per vizio di
forma”, formalmente libero dall'imputazione di bigamia sposò Lina. La
loro figlia, Giuseppa Ida Marianna, era ormai grandicella. Andò in
sposa al principe di Linguaglossa ed ebbe l'onore di un carme di Giosue
Carducci, dalla vita “sentimentale” abbastanza disordinata. Il
“lato C” della vicenda umana di Crispi riserva dunque pagine
sconcertanti, ma non troppo diverse da quelle del “birichino” Cavour e
dei primi due re d'Italia. Umberto I lo liquidò come “un porco”, ma ne
aveva bisogno e ne condivise la politica estera, specie la coloniale,
perno del suo secondo governo (1893-1896), alla cui guida venne
chiamato benché fosse implicato fino al collo nello scandalo della
Banca Romana. A distruggerlo non furono i romanzi scollacciati di Léo
Taxil e di Domenico Margiotta, né i “fasci siciliani”, né socialisti
rivoluzionari e anarchici. Proprio Crispi, precursore della
Conciliazione Stato-Chiesa, presente Guglielmo Sanfelice, arcivescovo
di Napoli, invitò al patto “Con Dio, con il Re, per la patria”. Egli fu
travolto dalla sconfitta del corpo di spedizione italiano contro
Menelik, negus d'Etiopia (1° marzo 1896). Al governo salì un altro
siciliano, il marchese Antonio di Rudinì, dalla vita privata
altrettanto sfortunata. “Sunt lacrimae rerum...”. Malgrado le
loro sorti individuali, quegli uomini fecero l'Italia. È emblematico
che un dibattito sul bel libro di Ferrari venga promosso ad Alessandria
(alle 17 del 9 marzo, Museo della Garbarina) dal centro studi
presieduto da Marco Mensi e intitolato a Urbano Rattazzi, altro
statista dalla vita privata parecchio turbinosa: un cognome, un
destino. Così fu e per molti aspetti è la Storia d'Italia...
Aldo A. Mola
UN CONCILIO TIRA L'ALTRO 1869-1870 QUANDO IL PAPA RISULTO' INFALLIBILE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 24 febbraio 2019, pagg. 1 e 11.
Lo Spirito e la Terra tra due mari
Il Papa è infallibile solo da 150 anni? Tanti ne sono passati
dal Concilio ecumenico vaticano, aperto a Roma l'8 dicembre 1869 da
papa Pio IX dopo lunghissima preparazione, e dall'Anticoncilio
organizzato a Napoli il 9 dicembre da mangiapreti, liberi pensatori,
razionalisti e qualche massone. La chiesa cattolica voleva e doveva
fare i conti con il Tempo. Vi è la quotidianità. Vi è quello della
Storia. Vi è lo Spirito. Il papa, Pio IX, non solo era ma si sentiva
Vicario di Cristo: nella gloria e della sofferenza. Da settant'anni i
Sommi pontefici erano l'Agnello di Dio “qui tollit peccata mundi”. A
differenza di quanto solitamente si crede, non significa affatto “che
toglie (cioè candella, perdona) i peccati dal mondo”. Vuol dire,
invece, che “prende su di sé” i peccati del mondo e si offre per il
Sacrificio supremo. Non “toglie” affatto i peccati. Li stigmatizza e li
condanna. Ma al tempo stesso ha misericordia per i peccatori.
Offrendosi capro espiatorio suggella il Patto. De settant'anni i
Papi erano stati spazzati via quali sovrani di un'ampia area di
un'Italia dominata da potenze straniere, gli Asburgo e i re di
Francia che, Valois o Borbone, da secoli se la giocavano tra guerre
feroci e tregue provvisorie. Mentre Venezia era ormai crassamente
assopita e il re di Sardegna, vicario del sacro romano imperatore,
aveva sbarrato l'accesso al Ligure dalla Repubblica di Genova, lo Stato
pontificio andava dal Volturno alla Toscana, da Marche e Umbria a
Romagna ed Emilia, dal Tirreno all'Adriatico. Ma la sua forza non era
nell'estensione territoriale. Rimaneva quella di successore di Pietro.
Clemente XIV nel 1773 non esitò a sciogliere la Compagnia di Gesù per
fronteggiare l'offensiva dei Borbone, sospinti dai “Lumi”, di cui poi i
re di Francia rimasero vittime. Per salvare il salvabile Pio VI non
esitò a recarsi a Vienna, “pellegrino apostolico”, per impetrare
comprensione dall'imperatore Giuseppe II, protettore del massone
Wolfgang Mozart. Impresa vana. Alla sua morte per la prima volta dopo
secoli il conclave non si tenne in Roma ma a Venezia. Il Creator
Spiritus molto tempo impiegò a scendere sul capo di Pio VII, il mesto
Barnaba Chiaramonti, povera foglia frale nel turbinio tra incoronazione
di Napoleone a Parigi, prigionia a Savona e Restaurazione. Evitare la mala sorte: papa sotto tutela La
Chiesa aveva bisogno di riforme profonde dal suo interno: ritrovare la
missione. La Compagnia di Gesù, rianimata dal 1814 guidò la ripresa, a
fianco degli scolopi, che ne contendevano l'egemonia sull'insegnamento,
specie in Italia, ove erano apprezzati da ogni ceto. Sul crepuscolo del
1848, nel quadro del turbinio rivoluzionario europeo, Pio IX, sul Sacro
Soglio da poco più di due anni, ritenne prudente lasciare Roma e
riparare a Gaeta, all'epoca dominio borbonico. Il costituzionalista
liberale nel quale aveva riposto fiducia, Pellegrino Rossi, liberale e
settario era caduto vittima di un attentato mortale, eseguito in forma
“rituale”. Tirava pessima aria. La conferma venne poco dopo, il 9
febbraio 1849, quando Carlo Luciano Bonaparte principe di Canino e
Giuseppe Garibaldi in Roma proclamarono la Repubblica, che si aggiunse
a quella di Venezia, ormai agonizzante. Il papa lasciò fare alle
potenze europee. Nessun sovrano parteggiava per i repubblicani. Neppure
Luigi Napoleone Bonaparte, antico carbonaro, rivoluzionario, scrittore
di talento, eletto presidente della Repubblica francese col sostegno
dei moderati e proteso a ricalcare le orme del grande zio, Napoleone I.
Per salire sul trono imperiale doveva però spazzare via la Repubblica
dalla Città Eterna e riportarvi il Pontefice. Lo fece e la tenne sotto
tutela. Per ostacolare l'Austria e il Borbone di Napoli, pronti ad
allungare i tentacoli nello o sullo Stato pontificio, ma soprattutto
perché doveva consacrare il proprio potere. Il “fosco figlio di
Ortensia” come Luigi Napoleone Bonaparte (come venne lapidariamente
ritratto da Giosue Carducci), non poteva fidarsi di nessuno. Non certo
di protosocialisti, repubblicani (un groviglio di sette), né nella
fungaia di monarchici. Non gli rimanevano che i “moderati”: militari,
cattolici e, dopotutto, i massoni, che realisticamente preferivano un
Napoleone III al caos permanente. Era il protettore del papa? Tanto
meglio. Voleva dire che il pontefice non poteva interferire nella vita
interna della Francia gallicana dai tempi di Francesco I di Valois e
dei suoi domini diretti e indiretti. A conti fatti, grazie a Napoleone
III il potere temporale papale sarebbe sopravvissuto, ma avrebbe pesato
meno anche sull' Italia e in Italia. Toccava agli italiani rimboccarsi
le maniche e risalire la china dopo il fallimento della prima guerra
per l'indipendenza dall'Austria (1848-1849). Lo intuirono e ci
lavorarono il disincantato Massimo d'Azeglio (il cui gigantesco
“Epistolario”, curato da Georges Virlogeux per il Centro Studi
Piemontesi, volge al termine), Camillo Cavour, Urbano Rattazzi
(studiato da Rosanna Roccia) e una miriade di innovatori che ripresero
a tessere la tela imbastita con i Congressi degli scienziati italiani
nei quali il lungimirante cancelliere imperiale Metternich aveva
intravveduto il fumus della rivoluzione. Dal canto suo papa Gregorio
XVI, benché meno gretto di come veniva descritto (e lo ha documentato
Romano Ugolini in saggi esemplari), non si lasciò mai incantare
dalla musa della modernità. Sul suo solco marciò spedito Pio IX.
Appena eletto papa nell'enciclica Qui pluribus denunciò la massoneria
quale artefice del complotto contro la Chiesa di Cristo, depositaria
della Verità e della Salvezza. Di anno in anno ribadì condanne e
scomuniche di ogni forma di “eresia”. La sintesi venne racchiuse nel
Syllabus (8 dicembre 1864, decennale della proclamazione del dogma
dell'Immacolata Concezione), raccolta degli “errori” dai quali la
chiesa prese drasticamente le distanze. All'origine di tutti i mali
(comunismo, socialismo, democrazia,...) vi era il liberalismo, un virus
che si presentava nelle forme allettanti di tonico ma in realtà era
tossico. Alla pars destruens Pio IX affiancò la costruzione:
il Concilio. Non se ne tenevano dal remoto 1545-1563, quando a Trento
la Chiesa di Roma ruppe definitivamente con evangelici e luterani e
intraprese la Riforma cattolica, con una moltitudine di santi e
missionari non solo nei Nuovi Mondi ma anche all'interno delle aree che
cristiane erano (e in gran parte sono) solo di nome. La
convocazione del Concilio vaticano era dunque nell'aria da tempo.
Presieduto da Luigi Federico Menabrea, un generale, scienziato e
fautore delle infrastrutture indispensabili per fare dell'Italia un
Paese europeo (e quindi ferrovie e trafori alpini, sulla scia del
grande Camillo Cavour), il governo del regno, allogato a Firenze, non
aveva responsabilità diretta di quanto sarebbe avvenuto in Roma, sulla
quale semmai vegliavano gli zuavi di Napoleone III, orgogliosi delle
perdite inflitte ai garibaldini a Mentana nel novembre 1867 (non
mancavano di celebrare i loro caduti e i loro trionfi in San Luigi dei
Francesi a Roma). Però il governo d'Italia doveva garantire l'afflusso
di centinaia e centinaia di vescovi da ogni parte del mondo, in specie
dagli Stati cattolici che garantivano l'incolumità del papa: l'impero
austro-ungarico, la Francia, la Spagna, l'America centro-meridionale,
la Baviera e persino la calvinistica Svizzera. Con seguito sfarzoso, il
vescovo di Ginevra fece tappa a Modena per visitare campioni
dell'aristocrazia papista e filoasburgica: una vera provocazione mentre
la pianura padana era in rivolta contro la tassa sulla macinazione
delle farine, sfociata in scontri armati e arresto di molinari, chiusi
tra l'incudine dei “contatori automatici” imposti da Quintino Sella e
il martello di contadini, panettieri e consumatori affamati e
furiosi. Tesi (Concilio), antitesi (Anticoncilio di Napoli), sintesi... Se
il governo era riuscito a scontentare le “masse popolari”, l'indizione
del Concilio sparigliò i “laici”, divisi in tre ampie frange. La prima,
era formata da mangiapreti senza se e senza ma, quasi sempre con
trascorsi giovanili in seminari e convitti religiosi. Ne fu alfiere
Pietro Sbarbaro (Savona, 1838-Roma,1893), già allievo del collegio
degli Scolopi, laureato in giurisprudenza a Pisa, ma già a
vent'anni direttore di giornali e riviste, docente di economia
politica a soli 26 anni, prima a Pisa poi a Modena. Geniale e polemico,
oratore brillante, indiziato venerabile di loggia e politicamente
caotico, Sbarbaro propose l'adunata dei “liberi pensatori” a Loreto, la
città della miracolosamente traslata Casetta di Nazareth. Spalleggiato
da massoni celebri, come il perugino Francesco Guardabassi, chiese
imperiosamente l'abolizione dell'articolo 1 dello Statuto: “La
religione cattolica apostolica e romana è la sola religione dello
Stato. Gli altri culti ora ammessi sino tollerati conforme alle leggi”.
Come poi argomentarono docenti insigni di diritto ecclesiastico e
storici, quali Francesco Ruffini e Arturo Carlo Jemolo, la tolleranza è
virtù se praticata dai privati ma è vizio se dipende dal diritto
pubblico, che deve invece assicurare la piena parità dei culti o delle
associazioni e degli Ordini, se non violano la legge penale. Era ed è
il caso della Massoneria, sempre perseguitata da chi non la conosce e
per ignoranza la teme. Del resto lo Statuto dichiarava i regnicoli
uguali dinnanzi alle leggi, quindi a prescindere dalla loro professione
di fede, liberi di non averne alcuna, nel rispetto delle altre.
Sbarbaro fece leva sull' apostolato religioso di Giuseppe Garibaldi,
una sorta di pontefice massimo del laicismo italiano, atei compresi. Ne
aveva dato un saggio anche nei suoi primi romanzi, “Cantoni il
volontario” e “I Mille”, che avevano come protagonisti gesuiti e un
“monsignor Corvo”. Di polemica in polemica, più volte eletto deputato
Sbarbaro fu destituito dalla cattedra universitaria dal confratello
ministro della pubblica istruzione, Guido Baccelli (o “Guido dei miei
baccelli”, come egli sarcasticamente scrisse). Finì e condannato al
carcere per diffamazione. Onestissimo, morì in miseria. Molto più
efficace fu la convocazione dell'Anticoncilio lanciata da Giuseppe
Napoleone Ricciardi (Nappli, 1808-1882). Secondogenito del ministro
della giustizia di Gioacchino Murat, il re di Napoli che dalla sua
nicchia sulla facciata di Palazzo Reale in Piazza del Plebiscito fa il
saluto massonico ai passanti, a soli 24 anni fondò la rivista “Il
progresso delle scienze”. Mazziniano, cospiratore, esule in Francia e a
Londra, finanziatore della sfortunata spedizione dei fratelli Attilio
ed Emilio Bandiera, fucilati nel vallone del Romito a Cosenza (1844),
tornato a Napoli nel rivoluzionario 1848, dopo la revoca della
costituzione da parte dello spergiuro Ferdinando II di Borbone
Ricciardi scampò alla forca riparando prima Corfù poi in
Piemonte. Collaborò alla rivista “La Ragione” diretta dal massone
Ausonio Franchi (già don Giuseppe Bonavino). Sotto influsso dei
socialisti utopisti Saint-Simon, Fourier e altri, tra i primi in Italia
il napoletano Ricciardi propugnò il “reddito di cittadinanza”: lo Stato
doveva garantire a ognuno il lavoro o, in carenza, assicurargli di non
morire di fame. Al suo appello risposero decine di logge italiane,
circoli di liberi pensatori, scrittori, artisti. Invece il Grande
Oriente di Francia rifiutò di aderire (143 logge contro 111)
perché aveva gran maestro il maresciallo Magnan, mai iniziato in loggia
ma imposto da Napoleone III, che non voleva screzi col papa. A sua
volta il Grande Oriente d'Italia respinse l'invito. Il suo gran maestro
Ludovico Frapolli (che poi finì in manicomio per le dolorose cure della
lue, la “malattia del secolo”, e si sparò) rispose che la massoneria
avrebbe fallito la sua missione se si fosse preoccupata “di ciò che un
caposetta qualunque dispone coi suoi fedeli”. Non era gentile verso Pio
IX, ma serviva per tenere a distanza gli anticlericali più facinorosi,
soprattutto i francesi come Victor Hugo, Edgar Quinet (che bollò il
papa come “cadavere vivente”), Emile Littré e Jules Michelet, che
propose di far presiedere l'Anticoncilio dall'ombra di Jan Hus,
l'eredito boemo arso vivo gli inizi del Quattrocento (e fu biografato
dal socialrivoluzionario Benito Mussolini in “Hus l'eretico”). In onore
dell'Anticoncilio Giosue Carducci ristampò l' Inno a Satana e
digrignò i denti: “Noi siamo satanici...”, suscitando l'indignazione
del massone teista Quirico Filopanti e dello stesso Frapolli, che, per
evidenziare la lealtà della massoneria verso le Istituzioni, si premurò
di inviare auguri di pronta guarigione a Vittorio Emanuele II,
gravemente malato. A Napoli accorsero anche molte mopse, cioè
massonesse, come la contessa Enrica Caracciolo e altre dame dai fogli
clericali irrise quali “femmine libere”. Le spregiava anche Frapolli
secondo il quale era “utopia il pretendere che la donna
possa o voglia emanciparsi di per se stessa al punto di far parte della
Massoneria senza il consenso e l'appoggio dell'uomo, che sta a capo
della famiglia, sia esso il padre, il fratello, il marito...”. Ognun per sé... La
terza frangia fu dei laici pensosi, contrari a immischiare il giovane
regno sia nel Concilio sia nell'Anticoncilio. L'8 dicembre 1869 parlò
per tutti Giambattista Bottero, fondatore e direttore della influente
torinese “Gazzetta del Popolo”: “Oggi i delegati del Pontefice a
sciogliere e a legare nel mondo cattolico si riuniscono a Roma in
Assemblea, dalla quale il clericalismo si aspetta la proclamazione di
principii che la ragione dimostra inesistenti...”: l'infallibilità del
pontefice quando parla “ex cathedra”, cioè sulla dottrina della Chiesa
e ne enuncia i “dogmi”. I liberi pensatori non dovevano dare
alcuna importanza alle decisioni interne delle varie chiese esistenti.
Perciò sconsigliavano “ dimostrazioni di qualunque natura”. I cattolici
romani erano liberi di decidere se il papa fosse infallibile, anche
contro l'opposizione dei “vecchi cattolici” di Germania. Anticlericali
e mangiapreti erano liberissimi di riderne, ma senza infastidire i
credenti. Libertà per ciascuno, nei limiti della legge. Era la Nuova
Italia. Ma nel luglio 1870 avvenne l'imprevedibile. Stolidamente
Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia, che non aspettava di
meglio, assalì la Francia e sconfisse l'imperatore francese a Sedan.
Nel frattempo, sotto un uragano, nel luglio 1870 il Concilio approvò il
disputato dogma dell'infallibilità e si sciolse in tutta fretta. Ad
assicurare la pax romana arrivò l'Esercito italiano agli ordini di
Raffaele Cadorna. Il garibaldino Nino Bixio venne messo in ultima fila.
A sparare la prima cannonata contro il Vaticano il 20 settembre 1870 fu
un ufficiale di artiglieria, il piemontese Giacomo Segre, dal nome
molto allusivo. Dunque la “debellatio” del potere temporale dei papi
era tutto frutto di un “complotto” giudaico-massonico? Era la vittoria
dell'Anticoncilio? Molti lo scrissero. Pio IX bollò la Massoneria
come “sinagoga di Satana”. Forse il suo successore dovrebbe dire
qualcosa...
Aldo A. Mola
TORNA LA “LINEA GOTICA”? NON CE LO CHIEDE L'EUROPA
Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 17 febbraio 2019, pagg. 1 e 11.
Centralismo e pluralismo L'Italia
è uno Stato ancora giovane. Dalla sua unificazione (1861-1918) è
dilaniata da opposti egoismi, malattia infantile vissuta, ma quasi
ovunque superata, da tutti i grandi Paesi non solo d'Europa ma del
mondo intero. Non ve n'è uno, dall'Asia alle Americhe, che non abbia
alle spalle conflitti tra potere centrale e realtà particolari,
emarginate e spinte a incattivirsi sino alla ribellione. Altrettanto
avvenne nei tempi andati, segnati dalla contrapposizione spesso
violenta tra centralismo tirannico e sudditi. Per dominare i popoli più
riottosi i sultani turchi li affidarono a “governatori” usi a spolparli
e a immiserirli. Avevano per modello gli onnipotenti satrapi dominanti
sulle province dell'impero persiano, multietnico e plurireligioso,
felice un'unica volta nella sua lunga storia con Ciro il Grande,
elevato dagli Illuministi a campione di tolleranza. Solo i Romani
seppero bilanciare la Maestà dell'impero con il pluralismo, concedendo
larghe autonomie vegliate da proconsoli e procuratori. Ma anch'essi
ebbero il famelico Verre in Sicilia e il discusso Ponzio Pilato a
Gerusalemme. Plinio il Giovane, proconsole in Bitinia ai tempi di
Traiano, colto e sensibile anche verso le “minoranze, compresi i
cristiani, fu e rimane esempio inarrivabile. A conferma di
quanto lo Stato italiano sia ancora adolescente, basti dire che solo
l'anno venturo verrà festeggiato (o almeno ricordato, speriamo) il 150°
dell'annessione di Roma, dieci anni prima proclamata capitale d'Italia
per iniziativa di Camillo Cavour (27 marzo 1861). Le regioni: da Augusto e Napoleone... Se
lo Stato d'Italia è giovane le sue Regioni sono invenzione recente e
artificiosa. A parte quelle a statuto speciale, varate nella temperie
della sconfitta e nel timore di separatismi armati, dalla Sicilia alla
Valle d'Aosta, le ordinarie hanno appena mezzo secolo. Furono
introdotte nel 1969-1970 contro la strenua opposizione del Partito
liberale e del Movimento sociale che vi intravidero la decomposizione
dell'unità e la “finanza allegra” moltiplicata per venti, quante ormai
erano le regioni d'Italia. Gli studiosi non prevenuti osservano che
queste portano molto male i loro cinquanta-settant'anni anni, anche a
causa della polverizzazione della giustizia amministrativa che ha
generato la babele dei “poteri” con i Tribunali amministrativi
regionali, sovrastati dal minossiano TAR del Lazio, e dei
particolarismi, in perenne conflitto. In un Paese perennemente bambino,
la litigiosità fu e viene esaltata come “orgoglio identitario” o
persino “valoriale”, come dicono quelli che parlano difficile e
incartano in parole di stagnola rilucente il vuoto del pensiero. Poiché
in un Paese più incline alle invenzioni linguistiche che capace di
costruire strade, ponti e ferrovie tanto si discorrerà (forse invano)
di regioni “ad autonomia potenziata”, uno sguardo al passato aiuta a
capire di cosa si stia parlando. Alle radici dell'Italia attuale vi
sono i sette Stati preunitari, nessuno dei quali coincideva con le
regioni odierne. La sua prima suddivisione amministrativa risale al 2
avanti Cristo. Fu Caio Ottaviano Augusto a ripartire l'Italia,
finalmente pacificata dalle Alpi al Faro (Reggio Calabria) in undici
regioni, dalla I (Lazio e Campania) all' XI, la Transpadana (dalla
sinistra del Po all'attuale Svizzera, comprendente Aosta, Torino,
Milano e Bergamo, ma non il Piemonte occidentale odierno). La Liguria,
IX Regio, si estendeva dalla destra del Po a Nizza e fino al confine
con l'Emilia e l'Etruria. Questa arrivava alle porte di Roma. La X
Regio andava da Brescia all'Istria. Lasciava fuori il golfo del
Carnaro, Fiume e la Dalmazia, con buona pace dei posteri. Corsica,
Sicilia e Sardegna (ove i prigionieri erano condannati “ad metalla”)
non erano Italia. Dopo vicissitudini inenarrabili,
dalla fine dell'Impero romano in Occidente alla pace di Cateau
Cambrésis (1559) ed ai rivolgimenti del Settecento, l'Italia divenne un
mosaico di potentati (signorie, comuni, staterelli...), parte soggetti
agli Asburgo di Vienna, titolari del Sacro Romano Impero, parte ai
Borbone di Spagna. I Savoia, duchi e poi re di Sardegna, erano
giustamente orgogliosi del titolo di Vicari dell'Imperatore in Italia.
L'età franco-napoleonica (1798-1814/15) introdusse in Italia
innovazioni importanti (codici, ammodernamento amministrativo, opere
pubbliche, potenziamento dell'istruzione...) ma rischiò di annientare a
tempo indeterminato ogni sogno di unione o unificazione “nazionale”,
perché incorporò Piemonte e Liguria direttamente nell'Impero dei
francesi (che già possedeva la Corsica), mentre il Regno d'Italia (da
Milano e Venezia alle Marche) ebbe per sovrano Napoleone I e un viceré
di sua scelta (Eugenio di Beauharnais, suo figlio adottivo). Prima il
fratello, poi il cognato di Napoleone regnarono a Napoli, uno Stato
nominalmente indipendente, ma di fatto sorvegliato dall'imperatore dei
francesi. Altre terre (come la Toscana e lo Stato pontificio dopo la
deportazione di Papa Pio VII) finirono direttamente sotto controllo di
Parigi. Per chiudere il cerchio e mostrare alla Storia la soggezione
dell'Italia alla Francia, Napoleone conferì a suo figlio, Francesco
Carlo Napoleone, il titolo di Re di Roma. Sicilia (in mano al Borbone)
e Sardegna (estremo fortilizio dei Savoia) rimasero fuori portata. A
Napoleone interessava la Terraferma. Anzi, quella propriamente europea,
dall'Atlantico agli Urali. Perciò non esitò a vendere la Louisiana agli
Stati Uniti d'America. Benché dai confini più ampi
rispetto a quelli del Settecento, gli Stati italiani in età
franco-napoleonica non furono ripartiti in regioni ma in dipartimenti,
secondo il modello francese, e presero nome dalla geografia,
prevalentemente dai fiumi: Torino divenne Erìdano, Vercelli Sesia,
Milano Olona... Fu un modo più drastico per rimuovere il passato,
cancellare la memoria, segnare la discontinuità tra la storia “sacra”
(il potere viene da Dio) e quella nuova (viene “dal popolo”, dalla
“rivoluzione”, da una “piattaforma Rousseau”). Di fatto, dipartimenti,
circondari (arrondissements), mandamenti (cantons) e comuni (mairies)
ricalcarono suddivisioni precedenti. Passata la tempesta, con la
Restaurazione del 1814-1815 gli Stati italiani mutarono i nomi delle
ripartizioni, che però rimasero pressoché identiche. Il regno di
Sardegna, per esempio, ebbe intendenti e sotto-intendenti,
corrispondenti ai prefetti e sottoprefetti di età napoleonica.
Altrettanto avvenne nel regno delle Due Sicilie. La realtà di fondo
erano e rimasero le “province”. Al Congresso di Vienna (1815) a nessuno
passò in mente di riesumare i micro-stati di cent'anni prima.
Altrettanto accadde in Germania, passata comunque da quasi 400 “stati”
ai soli 39 membri della Confederazione, comprendente l'Austria. Però
alcune marchiane dicotomie sopravvissero. Agli occhi di Vienna, Venezia
e Milano continuarono a rimanere mondi diversi. Ancor più distanti
furono Trento e Trieste. L'Emilia tornò a contare i ducati di Modena e
Reggio (asburgico), Parma e Piacenza (a noleggio: prima a Maria Luisa,
moglie subito consolabile di Napoleone relegato a Sant'Elena) e le
legazioni pontificie, da Bologna alle Romagne. ... al Regno d'Italia Quell'assetto
resse sino al 1859-1860 quando in pochi mesi avvenne il miracolo:
l'avvento del regno d'Italia con Vittorio Emanuele II di Savoia re
costituzionale. A differenza della Carta repubblicana vigente, lo
Statuto promulgato da Carlo Alberto di Sardegna nel 1848 e divenuto
costituzione del nuovo Stato non conferì alcun potere antagonistico
alle amministrazioni locali. L'art. 74 lapidariamente recita: “Le
istituzioni comunali e provinciali e la circoscrizione dei comuni e
delle province sono regolati dalla legge”. L’organizzazione statuale
sarebbe stata disciplinata dal Parlamento. Senza mettere in discussione
la “legge fondamentale, perpetua e irrevocabile” dello Stato, a lungo
venne proposto un ordinamento per “compartimenti”, più o meno
rispondenti alle “regioni” oggi esistenti. A propugnarlo furono Marco
Minghetti e altri liberali unitari erroneamente classificati come
“federalisti”, mentre erano solo bene intenzionati fautori di un
assetto amministrativo attento ad appianare gli squilibri esistenti,
non a favorire l'arroccamento su privilegi e a rialzare steccati nello
Stato unitario. È singolare che essi affollassero soprattutto la linea
gotica, la saldatura/cesura indicata da Giuseppe Galasso in
l'“Italia come problema storiografico”, volume introduttivo alla
“Storia d'Italia” edita dalla Utet, contrapposta a quella diretta da
Ruggero Romano e Corrado Vivanti per la Einaudi e alla “Storia sociale
d'Italia” edita dalla Teti di Milano: grandi opere nate proprio in
risposta all'avvento delle regioni. Perché l'Italia non ebbe un assetto regionale Il
regionalismo incappò in tre ostacoli assolutamente insormontabili. In
primo luogo il regno d'Italia faticò a rendersi credibile dalle grandi
potenze. Era preda di spinte sovversive. come la spedizione garibaldina
“Roma o Morte” del 1862, e tardò a essere riconosciuto dalla Comunità
internazionale. Solo nel 1867 sedette “alla pari” in una conferenza
diplomatica. Per anni, e non solo all'estero, in molti avevano
diffidato della sua tenuta. Era nato troppo in fretta. In secondo
luogo, per sette anni il regno dovette fare i conti con il “grande
brigantaggio”, recentemente esaltato da giornalisti spacciantisi per
storici quale guerra civile, come “resistenza” del Mezzogiorno contro
il genocidio del Sud. Libretti intitolati “Terroni” o “Carnefici” hanno
montano grilli per la testa non solo nel Mezzogiorno. In ogni regione
una quota di laudatores temporis acti ha “scoperto” i torti subiti dal
Potere centrale e si è tuffata nell'elogio del passato remoto (in
realtà intriso di arretratezza, sottosviluppo, miseria, malattie,
analfabetismo...). Anni e anni di menzogne hanno alimentato il
rivendicazionismo che nel marzo 2018 si è versato nelle urne, sette
anni dopo la “celebrazione” del 150° della nascita del Regno, “sentita”
a Torino e a Genova, imbandierate di tricolore, molto più che a Venezia
e a sud della linea gotica, in un'Italia culturalmente disarticolata.
La terza palla al piede del regno unitario fu la lacerazione tra i
cattolici papisti e i cattolici italiani. L'elogio di Pio IX (per ora
solo beato) quale campione della fede verace è certo legittimo dal
punto della sua religione. Lo è molto meno sotto il profilo storico,
perché quel papa approfondì il solco tra la Chiesa universale e i
cattolici che si riconobbero nello Stato italiano, nelle sue
amministrazioni locali, nel progresso civile di un Paese ancora in
tanta parte arcaico, come documentano gli atti dei congressi degli
scienziati e le inchieste sui diversi ambiti della società e
dell'economia. Quella Nuova Italia aveva bisogno assoluto di potere
centrale per gettare i pilastri portanti dell'unità di un Paese per
secoli frantumato in staterelli ripiegati su sé medesimi in politica
estera e organizzazione militare. Essa puntò quindi sulla
valorizzazione dell'unico istituto rispondente alla storia: le
province. Ogni Stato preunitario le aveva e se ne era valso, perché
esse rifrangevano la realtà. Erano organiche soprattutto negli Stati
meno attrezzati di infrastrutture e di istituti di formazione. Era il
caso del regno dei Borbone, che “al di qua del Faro” contava su una
sola Università, quella di Napoli. Perciò il regno ridisegnò e
intese le “regioni” solo come “compartimenti”, per meri fini
statistici, senza alcun riconoscimento di potere
politico-amministrativo. La loro definizione geografica, tuttavia, non
fu affatto irrilevante. Lo si vide quando, uscita di minorità, l'Italia
poté intraprendere con lena l'unificazione effettiva. Fu la stagione
delle “leggi speciali” varate dai governi di primo Novecento, da
Giuseppe Zanardelli a Giovanni Giolitti, a beneficio di Basilicata (per
molti era ancora Lucania), Calabria, Puglia, Sardegna... All'epoca la
miseria, la sottoalimentazione e le pandemie per denutrizione o suoi
riflessi (la pellagra o “mal della rosa”, la malaria, il
“cretinismo”... ) affliggevano anche vaste plaghe dell'Italia
settentrionale, dalle valli alpine al Polesine. La modernizzazione
incontrava i maggiori ostacoli nel notabilato locale, arroccato nella
difesa di privilegi e di rendite di posizione, indifferente nei
confronti del “nuovo”, come deplorarono tanti meridionali (Giustino
Fortunato, Antonio Cefaly, Tommaso Senise, Pietro Rosano, Giuseppe
Saredo,...) che non avevano bisogno di proclamarsi meridionalisti. Si
sentivano ed erano italiani, come il fiore della cultura illuministica
del Settecento decapitato e afforcato nel 1799 dall'ammiraglio
inglese Horatio Nelson in combutta con Ferdinando IV di Borbone,
ripetutamente spergiuro e sua moglie, Maria Carolina d'Asburgo. Più senso dello Stato e più Europa L'Italia
aveva e ha bisogno non di “più Stato” ma di una dirigenza e di
cittadini con un più alto “senso dello Stato”: sentimento razionale che
conduce a porre l'interesse generale al di sopra del particolare, nella
consapevolezza che questo è meglio tutelato nell'ambito dell'altro. Si
vince e si perde tutti insieme. Non per caso i Paesi europei il cui
assetto economico-sociale risulta oggi più solido e trainante sono
quelli che da tempo hanno intrapreso la via della semplificazione
amministrativa. Valgono d'esempio Francia e Spagna. Parigi ha
ridotto a 7 le macroregioni (Alsazia, Aquitania, Alvernia, Borgogna,
Linguadoca, Nord e Normandia) puntando sui Dipartimenti e su ciò che
avvicina anziché su contrapposizioni arcaiche. Altrettanto ha fatto la
Spagna, ove le regioni davvero rilevanti sono una manciata (Andalusia,
Aragona, Castiglia e Leòn, Castiglia e la Mancha. Estremadura), altre
sono retaggio del passato ma territorialmente quasi irrilevanti
(Asturie, Cantabria, Murcia, Navarra, Rioja, la stessa Comunidad
valenciana ,..). In quel quadro balza evidente l'anomalia
dell'indipendentismo repubblicano della Catalogna: non federalismo, ma
sovversione dello Stato, inconciliabile con l'Europa del Terzo
millennio. Ed è appunto con il quadro europeo che va misurato ogni
ragionamento sulle regioni d'Italia, sia quelle, ormai antistoriche, a
statuto speciale, sia quelle aspiranti alla “autonomia potenziata”.
Tutto è possibile, ma tenendo sotto gli occhi la classifica del
prodotto lordo delle province fornita da Eurostat. Lì si vede che anche
le migliori fra le italiane si piazzano dal 200° posto in poi, mentre
molte ne affollano il fondo. Qualunque accentuazione del divario tra le
diverse aree avrebbe ripercussioni di portata molto prevedibile: la
deflagrazione del Paese. Orbene, non è l'Europa a chiederci di rifare
la linea gotica, di compromettere l'unità nazionale faticosamente
raggiunta dopo quindici secoli di dominio straniero e di forsennate
divisioni dell'“itala gente da le molte vite”. Semmai proprio
l'“Europa”, che ancora acquista immobili nell'Italia centro-meridionale
e imprese in quella settentrionale, ha interesse a relegarla in un
passato remoto di cui non si sente alcuna nostalgia. Va comunque
esclusa qualsivoglia tentazione di conferire alle regioni una sorta di
“politica estera”, camuffata da “relazioni internazionali dirette”. La
sovranità è una sola: quella dello Stato d'Italia. Chi la pensa
diversamente vada a Redipuglia ad ascoltare la voce che si leva dai
centomila caduti lì sepolti, come negli altri Sacrari dei caduti nella
Grande guerra: “Presente!”. È l'invocazione che arriva dalla pagina più
dolorosa e più alta della storia d'Italia, il sacrificio di giovani di
tutte le classi sociali giunti “alla fronte” (come scriveva Luigi
Cadorna) da ogni provincia del Paese per coronare l'unità nazionale. A
quel mònito anche oggi l'Italia deve rispondere “Presente!”. Non per
vuota retorica, ma per rispetto di sé e della “pax in iure gentium”,
interna e internazionale, che da lì doveva e deve nascere nella Nuova
Europa, simboleggiata anche dal sepolcro di Federico II Staufen a
Palermo, dalla statua di Carlo d'Angiò, scolpita da Arnolfo da Cambio,
dalla corona ferrea conservata nel Duomo di Monza, dall'Emanuele
Filiberto, Testa di ferro” che da Torino veglia non solo su Piazza San
Carlo, ma sull'Italia intera e, rivolto alle Alpi, insegna che da lì
non si passa più quali nemici. Si transita da fratelli, come Bernardo
di Chiaravalle,autore della Regola dei sempre attuali Cavalieri
Templari.
Aldo A. Mola
PARADIGMA PER LA MEMORIA FIUME ITALIANA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 10 febbraio 2019, pagg. 1 e 11.
Geografia e storia della sofferenza umana “Il
cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. È
l'epitaffio di Immanuel Kant, il filosofo della Ragione (1724-1804). Al
tempo suo la superficie terrestre non era ancora conosciuta nella sua
interezza. Assetati di sapere e avidi di possedere, gli europei si
stavano reciprocamente annientando in conflitti belluini, le guerre del
1792-1815 che esportarono la Rivoluzione francese, con prodotti e
sottoprodotti: non meno di cinque milioni di morti per cause belliche.
Ne pronunciò la condanna definitiva Lev Tolstoj in Guerra e Pace. Al
Grande Architetto dell'Universo dobbiamo la geografia. Gli ominidi, in
gran parte tuttora primordiali, ne fanno scempio. È difficile dire se
la sorte peggiore tocchi ai popoli dai confini appariscenti (come i
Pirenei e le Alpi, il canale della Manica...) o a quelli senza un
“limes” fissato nettamente dalla “natura”. Gli uni e gli altri sono
stati travolti da scorrerie, invasioni e dominazioni. Chiusi
nell'autocontemplazione del presente gli europei deplorano tragedie
recenti. Fanno bene, se però comprendono che queste sono l'epifenomeno
di millenni. È bene ricordare. Ma va ricordato tutto, non solo quanto di volta in volta vien comodo. Forse
la sorte peggiore è toccata nel tempo alle genti comunque “di confine”.
Con un'avvertenza, però: a segnare i confini non sono solo terre, mari,
monti e fiumi. Sono soprattutto gli uomini: gli imperi, gli stati, i
potentati, grandi o piccoli, con le loro articolazioni. Sono le
religioni ingessate in chiese (con i loro tribunali, le scomuniche, le
persecuzioni di eretici e non credenti), i fanatismi, le ideologie,
l'anarchia del potere finanziario, il terrorismo dalle “centrali”
insondabili e dai tentacoli occulti. Nulla è nuovo sotto il sole. Il
sacro romano imperatore affidò al banchiere Fuegger la vendita delle
indulgenze che spostò il consenso popolare dal Papato a Martin
Lutero. Fiume, emblema dell'Adriatico Amaro Tristissima
è la sorte di lande dai confini apparentemente sin troppo precisi ma al
tempo stesso incerti per la conflittualità degli interessi che vi
convergono. È il caso dell'Adriatico Amaro. Per esempio di Fiume, oggi
rigogliosa città della Croazia. La sua vicenda è emblematica. Va
ricordata con quella delle città dalmatiche, dell'Istria e del
Goriziano sottratte allo Stato d'Italia dal 1945: una sanguinosa
spoliazione, suggellata dal Trattato di pace del 10 febbraio 1947 e
resa definitiva dall'intempestivo Trattato di Osimo del 1975, quando
ormai l'Unione Sovietica e l'usurpatrice Jugoslavia erano tarlate e
condannate dalla storia. Sappiamo da decenni quali e quante atrocità
furono perpetrate ai danni degli italiani, sopraffatti da odio
alimentato da “razza”, lingua, classe, ideologia politica e dalla
barbarie che impregnò un conflitto enfiato da belluinità codificate con
direttive politiche e militari. ordini del giorno, circolari e misure
sbrigative. La seconda guerra mondiale registrò nella penisola
balcanica alcune tra le sue pagine più allucinanti, con rappresaglie
spinte all'esecuzione di cinquanta “nemici” (popolazione civile) per
ogni militare abbattuto, spesso martirizzato con efferatezza spietata.
Dal maggio 1945 Fiume fu teatro di feroce pulizia etnica ai danni degli
italiani. Vennero trucidati fascisti, antifascisti, autonomisti,
socialisti e comunisti non graditi a Tito. Furono ammazzati o infoibati
talora semivivi anche persone senza alcuna opinione politica, solo
perché italiani, solo per il piacere sadico di umiliare e annientare.
Previo stupro, nel caso di donne, di qualsiasi età, vittime sacrificali
come Norma Cossetto, il cui dramma è finalmente approdato alla
televisione pubblica con la proiezione di “Red Land. Rossi Istria” del
regista Maxilimiano Hernando Bruno. Era costume ancestrale. Quanto
avvenne nel 1943-1948 è orrendo, ma ancora peggiore fu la carneficina
scatenata in molte plaghe dell'ex Jugoslavia dopo il suo collasso, con
la spettrale “assistenza” dell'Europa occidentale, della Nato,
dell'Onu. Le macerie sono ancora lì. Non sempre nei muri, sempre nei
cuori. Un calvario di secoli Fra le tante tragedie
vissute nei secoli, forse la peggiore per Fiume fu quella del 1509,
quando venne saccheggiata per ordine di Angelo Trevisan, doge di
Venezia. La Serenissima non ne tollerava la concorrenza. Più perdeva
dominio nel Mediterraneo (Marcantonio Bragadin venne vinto e
suppliziato a Famagosta dai turchi sessant'anni dopo) più la Repubblica
del Maggior Consiglio si arroccava nell'Adriatico. Non era “Italia”.
Era Venezia. Non prestiamo al passato remoto “idee” e “sentimenti” dei
secoli successivi. Dal 1779 “autonoma” con Maria Teresa
d'Asburgo, Fiume conobbe una prima prosperità come porto franco
nell'ambito del Sacro Romano Impero, che nel corso di un secolo, tra il
1728 e il 1803 la collegò al retroterra con la strada “carolina” e con
la via “ludoviciana”, a conferma di quanto le infrastrutture, ieri come
oggi, facciano bene all'umanità. Dopo vicissitudini troppo
aggrovigliate da poter essere ripercorse in poche righe (l'occupazione
napoleonica, la restituzione all'Ungheria, sempre nel contesto
dell'impero d'Austria, l'irruzione dei croati nel 1848...), Fiume
divenne approdo normale del traffico dall'Europa centrale
all'Adriatico. Ne scrisse a lungo Leo Valiani, che vi nacque e
bene ne conosceva la complessità. Porto fiorente dell'Europa centrale Dopo
il 1866-1870 (guerra italo-prussiana contro l'impero d'Austria e
annessione di Roma) l'Italia ebbe motivo di imboccare una politica
estera di raccoglimento. Persa l'ingombrante amicizia di Napoleone III,
essa aveva poco da attendersi dalla Francia, sia conservatrice (e
filoclericale) sia incline a esportare la repubblica per indebolire gli
Imperi centrali e i suoi sodali, inclusa l'Italia inclusa dal 20 maggio
1882 alleata con Berlino e Vienna. Nel volgere di un quarantennio, tra
apertura del Canale di Suez (il cui 150° è passato inosservato nella
miope Italia) e colonizzazione accelerata degli spazi afro-asiatici il
commercio ebbe la meglio sulle ideologie politiche. Il benessere
normalizzava e univa. I contatti diretti tra ceti dirigenti culturali e
imprenditoriali relegò rapidamente ai margini le pulsioni nazionali e
gli irredentismi. Dalle relazioni pacifiche e dallo sviluppo
all'interno dei singoli Stati si poteva ottenere più che dalle tensioni
ideologiche e dai miti tardo romantici. L'incremento demografico ed
economico della città di Fiume ne fu esempio lampante. Dopo la
costruzione di Porto Baross (dal nome del ministro ungherese che lo
volle) in pochi decenni la città liburnica divenne il 10° porto
d'Europa per volume e valore di merci che vi transitavano. La politica estera italiana: di Stato, non di governo Nel
1910 Francesco Guicciardini, ministro degli Esteri dell'ultimo effimero
governo presieduto da Sidney Sonnino, dichiarò alla Camera che ormai la
politica estera dell'Italia non era solo “di governo” ma “di Stato”: la
fedeltà alle alleanze pattuite apriva spazio a iniziative
italo-centriche, accolte con benevola comprensione se non mettevano in
discussione i grandi equilibri e la pace europea. Fu il caso della
guerra del 1911-1912 per la sovranità dell'Italia su Tripolitania e
Cirenaica. Purtroppo (a conferma dell'opacità degli studi storici
nostrani) la serie dei Documenti diplomatici italiani continua a
mancare di volumi sugli anni “nevralgici”: dalla crisi bosniaca
all'incontro di Racconigi tra Vittorio Emanuele III e lo zar Nicola II
(24 ottobre 1909), osteggiata dai repubblicani. In quegli anni anche
nelle file dei nazionalisti italiani l'imperialismo prevalse
sull'irredentismo. Esso mirava a un governo più “forte”, all'incremento
delle armi, alla repressione dei nemici interni quale premessa
indispensabile per audaci ingrandimenti territoriali oltremare se non
ai confini. Venne messa la sordina alle rivendicazioni vent'anni prima
campeggiate da Lemmi, Crispi e Carducci: Trento, Trieste, Nizza, la
Corsica e la perla italiana nel Mediterraneo, Malta. Quel programma che
avrebbe comportato tensioni e conflitti non solo contro l'Austria di
Francesco Giuseppe, l'“imperatore degli impiccati”, ma anche contro
Parigi e Londra. Una follia. Perciò la frangia ideologicamente più
attrezzata dei nazionalisti mirò semmai a duplicare in Italia il
modello tedesco: somma della casta aristocratico-militare prussiana (o
borussica, studiata a fondo da Sergio Pistone) e socialismo nazionale
bismarckiano, positivamente volgente dalla rivoluzione alla
socialdemocrazia. Imperialismo di coccio tra imperialismi di acciaio Quel
realismo nel 1915 ispirò i compensi elencati nel memorandum avanzato
dal governo Salandra-Sonnino come contropartita per l'adesione di Roma
alla Triplice Intesa anglo-franco-russa. Roma chiese il confine dal
Brennero a Monte Nevoso, passando per Trieste e l'Istria, approdi
strategici e isole della costa dalmatica, ma non Fiume, assegnata
dall'articolo 5 dell'"engagement" di Londra alla Croazia, ai danni
dell'Ungheria, ma pur sempre nell'ambito dell'impero austro-ungarico
che in quel momento nessuno (men che meno Roma) metteva in discussione.
La dissoluzione della monarchia austro-ungarica non fu prospettata né
dal Congresso massonico parigino del 28-30 giugno 1917 (che propose
l'indipendenza della Polonia e della Boemia e la demarcazione sulla
base di plebisciti dei confini nelle zone mistilingue) né dai
quattordici punti enunciati dal presidente degli USA Wilson nel gennaio
1918, incardinati sull'“autodeterminazione” dei popoli. Solo nella
primavera di quell'anno si aprì la gara fra gli imperialismi ai danni
degli ormai probabili vinti. La “liberazione dei popoli oppressi”
evocata da Francesco Leoncini in “Alternativa Mazziniana” (Ed.
Castelvecchi) fu il paravento ideologico e sentimentale dietro il quale
si scatenarono gli appetiti di Parigi sull'Europa orientale e balcanica
e della Gran Bretagna nel Mediterraneo orientale profittando del
collasso della Russia e dell'impero turco. Da mezzo secolo l'obiettivo
vero erano il controllo degli Stretti, il libero accesso al Mar Nero e
quella Crimea che nel 1853-56 era stata teatro della guerra
anglo-franco-turca con l'aggiunta del regno di Sardegna contro la
Russia zarista. Nella fase terminale della Grande Guerra mutò
anche la prospettiva postbellica dell'Italia, a sua volta abbacinata
dalla talassocrazia. Per sostituire l'impero asburgico nel dominio
sull'Adriatico (come sin dal 1914-1915 ventilato da propositi
riservatamente enunciati da Paolo Thaon di Revel, futuro Duca del Mare)
l'Italia doveva però entrare in rotta di collisione con il nascente
Stato serbo-croato-sloveno, che non si affacciò affatto improvvisamente
nel 1918 ma era in nuce dal patto di Corfù, immediatamente seguente il
citato congresso massonico di Parigi: un disegno completato con
l'invenzione della Cecoslovacchia, che non nacque per partenogenesi ma
fu preparata a tavolino dalla somma tra Grande Oriente di Francia, Gran
Loggia di Francia e Quai d'Orsay, con il benestare di Londra. Indebitata
sino al collo per il costo della guerra, squassata dal crollo del
potere d'acquisto della moneta e dal dilagare di movimenti repubblicani
(quali furono, all'inizio, i mussoliniani Fasci di combattimento) e dei
socialrivoluzionari, infiltrati dai bolscevichi, l'Italia non aveva i
mezzi per sorreggere né macro né microimperialismo. Aveva assoluto
bisogno di stabilità ai confini e all'interno per passare dalla
produzione di guerra a quella di pace e riprendersi dal peso del
conflitto. La pretesa di ottenere comunque Fiume, agitata al congresso
della pace di Parigi nella primavera del 1919, alla vigilia e anche
oltre la firma del Trattato di Pace (28 giugno) fece figurare l'Italia
quale capofila del revisionismo mentre erano ancora aperte le
trattative poi approdate alle paci di Saint-Germain (con l'Austria),
Trianon (Ungheria), Neuilly (Bulgaria) e Sèvres (Turchia). Dall'impresa sediziosa di d'Annunzio all'annessione all'Italia La
Marcia di Ronchi e l'irruzione di Gabriele d'Annunzio in Fiume il 12
settembre 1919 palesò quella sedizione nell'Esercito che era sempre
stata scongiurata dal 1861 e nelle fasi più drammatiche della Grande
Guerra, quando il governo di Roma si spinse a organizzare una sorta di
guerra parallela in Albania, ruvidamente deprecata dal Comandante
Supremo, Luigi Cadorna, generale del Risorgimento, secondo il quale
solo vincendo sul Carso l'Italia avrebbe riconquistato la Libia e
affermato ogni altra sua legittima aspirazione. La lunga
impresa di d'Annunzio a Fiume, inizialmente caldeggiata dal Grande
Oriente d''Italia anche tramite Giacomo Treves, fondatore della loggia
“Oberdan” di Trieste e fiduciario di Domizio Torrigiani, fu ora
osteggiata e ora corteggiata dal presidente del Consiglio Francesco
Saverio Nitti. Venne chiusa dal suo successore, Giovanni Giolitti, con
i colloqui italo-jugoslavi di Pallanza e di Spa e con il trattato di
Rapallo del 12 novembre 1920, che costituì Fiume in Corpus Separatum,
territorialmente collegato con il regno d'Italia. L'8 settembre 1920
“Ariel” d'Annunzio aveva intanto proclamato la Reggenza di Fiume, forte
della Carta del Carnaro, frutto dei molti “fraterni” suggerimenti di
Alceste De Ambris: una forzatura destinata a risolversi tragicamente,
con la proclamazione dello stato di guerra (21 dicembre), il governo
provvisorio dell'altalenante Antonio Grossich, il cannoneggiamento del
Palazzo della Reggenza, la partenza del Vate e la vittoria
dell'“autonomista” Riccardo Zanetta alle elezioni comunali del 21
aprile 1921. Le turbolente elezioni politiche del maggio 1921,
quasi immediatamente seguite dalle dimissioni di Giolitti a cospetto di
una Camera politicamente caotica, riaprirono la partita sulla sorte di
Fiume sino al colpo di mano di fascisti, legionari e repubblicani (3
marzo 1922), la rinuncia di Giovanni Giuriati a presiedere un comitato
di difesa nazionale, la convenzione di Santa Margherita (23 ottobre
1922: canto del cigno del governo Facta, come documentato da GianPaolo
Ferraioli) e, in un quadro completamente diverso, il Patto di Roma che
il 27 gennaio 1924 assegnò Fiume all'Italia e Porto Baross alla
Jugoslavia. La tragedia del 1945 Quel caos
prolungato giovò poco a Fiume, che nel 1931 contava appena 3.000
abitanti in più rispetto al 1910. Alla sua effettiva ripresa concorse
la riapertura ai traffici con l'Europa centrale, dettata dalla
ritrovata armonia tra la geografia, la politica e la cultura. Tra
i suoi maggiori interpreti fu Riccardo Gigante, podestà, senatore,
prefetto della provincia di Fiume dal 21 settembre al 29 ottobre 1943,
proditoriamente sequestrato dall'Ozna (terroristi comunisti) e
assassinato il 4 maggio 1945: una delle tante, troppe nefandezze
perpetrate dal IX corpus di Tito, avanzante con il beneplacito degli
inglesi e tardivamente fermato dagli Stati Uniti d'America. Chi
contempli dall'alto la tersa avvincente costa liburnica vede un tratto
di quella che Dante Alighieri definì l'“aiola che ci fa tanto feroci” e
bene comprende che per l'Italia odierna, economicamente fragile, priva
di coerente governo politico, sull'orlo di un conflitto istituzionale
senza precedenti e dagli sbocchi imprevedibili, l'unica garanzia di
progresso è la Pax Europea, contro fatui nazionalismi, salti
all'indietro, il ritorno alla “guerra per bande” e al conflitto tra
Stati, tutti comunque superatissimi e impotenti dinnanzi alle vere
sfide del Terzo Millennio. Solo in quel contesto potranno essere
definitivamente ricucite le “lingue tagliate” e risorgeranno
liberamente gli “italiani dimenticati”, meritoriamente studiati e
riproposti in opere pionieristiche da Giulio Vignoli, Giuseppe Parlato
e da Luciano Monzali, finalista del Premio Acqui Storia che, su
iniziativa del suo presidente, Alessandra Terzolo, propone ad Acqui il
Giorno del Ricordo (10 febbraio, dalle 10 alle 17) su “d'Annunzio, uomo
dai mille volti” e su “Fiume attraverso secoli di occupazioni” con
interventi di Marco Cimmino e di Ruggero Bradicich. Per non dimenticare e per far memoria, ma a tutto tondo.
Aldo A. Mola
ITALIA A TOCCHI? METODO E MERITO DELLA POLITICA ESTERA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 3 febbraio 2019, pagg. 1 e 11.
Povera e nuda vai, Filosofia: l'Esecutivo allo sbando. L'Italia
odierna non ha un Governo vero, una filosofia concretata in progetto
coerente di lungo periodo. Alcuni suoi esponenti (con convinzione
decrescente) assicurano che rimarranno al potere cinque, dieci,
trent'anni. Ma è lo stesso
prof. Giuseppe Conte, presidente del Consiglio, a farfugliare
nell'orecchio del Cancelliere tedesco, Angela Merkel, che il ministro
dell'Interno, Matteo Salvini, è in polemico conflitto “contro tutti”,
compreso l'alleato di governo. Sic stantibus rebus, l'Esecutivo non
solo appare ma è allo sbando, corroso “ab origine” dal morbo della
contraddizione che, come il “punteruolo rosso” con le palme, lo infetta
e contagia lo Stato, svuotandolo rapidamente della sua linfa vitale. Ne
rimane solo la scorza. Lo si constata nell'abuso delle “divise” dei
corpi dello Stato da parte di un vicepresidente del Consiglio. Che cosa
diremmo se il titolare degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, girasse con
la feluca di ambasciatore o se Alfonso Bonafede, ministro di grazia e
giustizia, indossasse alternativamente il tocco e la stola di alto
magistrato o la toga di cassazionista? Indossare i “panni” dei Servizi
e farsi scudo dei Simboli della Res Publica significa abusare dello
Stato a mero beneficio di chi è nominato ad amministrarne pro tempore i
poteri. Vuol dire confiscarne la sacralità a vantaggio di un
particulare, “con-fondere” Entità nettamente diverse, quali lo Stato e
i partiti, che per la Costituzione vigente sono e debbono rimanere
separati, proprio per scongiurare la deriva verso il Regime
monopartitico, sciaguratamente sperimentato nel peggior ventennio della
nostra storia, quando la Corona, istituzione apicale dello Stato
d'Italia, risultò isolata, sotto assedio e depotenziata fino a quando
la sconfitta militare mise a nudo la fragilità di chi aveva confuso
Nazione e partito. Solo allora, nel luglio 1943, il nazionalista Luigi
Federzoni, unico vivente della pattuglia originaria, prese atto della
lunga serie di errori commessi e, con Dino Grandi e Giuseppe Bottai,
tentò di rimediare chiedendo al Gran Consiglio del fascismo di “pregare
la Maestà del Re di assumere la suprema iniziativa di decisione che le
nostre istituzioni a Lui attribuiscono”. Si scoprì allora,
come anche oggi accade, che le istituzioni supreme non sono una
variabile dipendente da una qualunque maggioranza parlamentare: o sono
lo Stato, o non sono. Esse coincidono con le persone che di volta in
volta le incarnano. L'armonia tra le istituzioni e chi ne riveste le
funzioni è un equilibrio delicato. Se si incrina sino a spezzarsi,
avviene la catastrofe, come accade alle opere prive di adeguata
manutenzione. Reggono non per forza propria ma per inerzia, quasi per
scommessa, e infine crollano di schianto quando meno ce lo si aspetta.
Il governo senza un vero Presidente La
perdurante conflittualità tra i due vicepresidenti del Consiglio, Luigi
Di Maio e Matteo Salvini (qui menzionati nell'ordine dei voti e dei
seggi ottenuti il 4 marzo 2018), non ha nulla a che vedere con la
storia dei governi susseguitisi dal 1943 in poi. Da allora l'Italia ha
avuto Esecutivi multicolori, formati anche da esponenti di forze e di
blocchi del tutto avversi. La cornice della loro genetica
conflittualità si scioglieva e veniva superata era lo Stato
(monarchia prima, Repubblica poi), nel quadro dell'assetto
politico-militare soprannazionale scaturito nella fase conclusiva della
seconda guerra mondiale, al cui termine nessuno mise seriamente in
discussione che l'Italia fosse (come in effetti fu e rimane)
“occidentale”, al riparo nell'area d' influenza (o egemonia) degli
Stati Uniti d'America e del suo unico vero alleato, la Gran Bretagna.
Per sintesi dei decenni fluiti da quella svolta bastano i nomi di
Alcide De Gasperi, democristiano, e di Palmiro Togliatti, comunista ed
emissario di Stalin; e di presidenti della Repubblica quali Giovanni
Leone e Francesco Cossiga, che non esitò far “schierare i missili” per
garantire la sicurezza del Paese nell'ambito della Nato. Da
troppi mesi il governo “recita a soggetto”. Ognuno dei suoi due
componenti improvvisa. Non pago di fare la propria parte, parla anche a
nome degli altri, spesso a ruota libera, come fosse anche titolare di
altri dicasteri o persino capo del governo. Il ministro dell'Interno a
volte ha esternato come fosse degli Esteri, della Difesa e di
altro ancora, senza suscitare immediate e doverose rettifiche.
Altrettanto ha fatto e fa il tuttologo Di Maio, che non perde mai il
filo delle parole pur in assenza di pensiero. Ora il presidente
assicura che il 2019 sarà bellissimo. Conte(nto)lui... La ritirata della ministra Trenta dall'Afghanistan Lo
sfascio dell'Esecutivo ha raggiunto il culmine in pochi giorni con due
eventi sconcertanti: la sortita della dottoressa Elisabetta Trenta,
ministro della Difesa, sul ritiro della Missione dell'Italia in
Afghanistan, e l'astensione al Parlamento europeo degli esponenti
giallo-verdi, cui si sono accodati alcuni del Partito democratico, sul
riconoscimento di Guaidò quale rappresentante della legalità
democratica nel Venezuela. Al ministro degli Esteri, Moavero,
che ha dichiarato formalmente di non esserne in alcun modo informato
della ventilata ritirata dall'Afghanistan la signora Trenta ha risposto
con tono risentito e irridente di aver “agito secondo le sue
prerogative” e di non essere certo obbligata ad avvisarlo. Ne aveva
parlato con “chi di dovere, tra cui (chi altri, dunque?) il presidente
del Consiglio ed il capo di Stato Maggiore della Difesa”, “alla luce
delle notizie che giungono da oltre Oceano” e quale “atto di
responsabilità istituzionale verso il Paese e verso i nostri militari”. Tra
il 17 e il 21 maggio 1915, lo sciagurato governo Salandra-Sonnino
precipitò l'Italia nella Grande Guerra, senza alcuna della sua durata e
del finanziamento dell'immane sforzo economico al quale il Paese venne
chiamato. Non solo. Non informò il Capo di Stato Maggior Luigi Cadorna
del contenuto effettivo dell'“engagement” firmato dall'ambasciatore
d'Italia a Londra il 26 aprile precedente: “accordo” politico e
convenzione militare. Fu un “colpo di governo”, come scrisse Giolitti
al suo diadoco calabrese Antonio Cefaly, secondo il quale si trattò di
un vero e proprio “colpo di Stato”, un gesto rivoluzionario destinato a
compromettere il Re e forse la Corona stessa in caso di sconfitta, come
avvenne in Russia, Germania, Austria-Ungheria e a Istanbul. Ora accade
l'inverso, ma in modo altrettanto grave. Un ministro della Res Publica
“annuncia” come cosa fatta una decisione che va molto oltre le sue
accampate “prerogative” e investe lo Stato stesso, vincolato da
Trattati internazionali (non meri “accordi”) dai quali dipende la sua
sicurezza. Non solo, in base a congetture sulle trattative in corso a
Doha tra il governo degli Stati Uniti d'America e i talebani la
dottoressa Trenta anticipa una decisione che va invece presentata,
discussa e approvata nell'unica sede competente, il Parlamento
italiano, in forza dell'articolo 11 della Costituzione. Di più: checché
ne pensino gli ambienti coinvolti nelle incaute esternazioni del
ministro della Difesa, i primi a valutare l'annunciato ritiro del
continente italiano saranno proprio i nemici sul campo, i temuti
talebani. Essi potranno fare ”ponti d'oro” o impartire a quello che per
loro è un invasore una severa “lezione” per dissuaderlo per sempre dal
tornarvi. La Russia ne sa qualche cosa. Aver scoperto le carte con un
anno di anticipo non solo interferisce con la responsabilità tecnica
dei militari ma costituisce soprattutto una imprudenza e mostra una
totale “mancanza di diplomazia”, di cui è depositario il ministro degli
Esteri. La questione è di tale gravità che è subito scomparsa
dai “media”, attratti dalla carta moschicida degli “sbarchi” e
dell'ormai scontatissima “recessione”, pudicamente denominata
“tecnica”, e dalle annose dispute sulla Tac (linea di treni “ad alta
capacità”, non “velocità”). L'evanescenza del prof. Giuseppe Conte, presidente silente.... Per
quanto possa riuscire sgradevole anche il solo accennarvi, la vicenda
Trenta-Moavero esige due chiarimenti inderogabili. In primo luogo
l'avvocato Conte dovrebbe precisare al Paese (cioè alle istituzioni
competenti e ai cittadini) se, quando e in quali termini sia stato
preavvertito dalla ministra non tanto dello “studio” (in sé ovvio)
dell'eventuale ritiro quanto del suo annuncio. La questione è centrale:
l'attuale presidente del Consiglio esercita o no il potere conferitogli
dall'articolo 95 della Carta, in forza del quale “dirige la politica
generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene la unità di
indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando
l'attività dei Ministri”? ...e il Presidente Mattarella? Di
più. Prima della sua sortita, la dottoressa Trenta ha informato il
Presidente della Repubblica che “ha il comando delle Forze Armate,
presiede il Consiglio supremo di Difesa costituito secondo la legge,
dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere”? Sappiamo con
quanta partecipe attenzione il Presidente Mattarella segue l'opera
delle molte, generose e apprezzate Missioni di pace italiane nelle
diverse aree calde del pianeta. E' da ritenere che, insieme con il
ministro degli Esteri, non gli tocchi apprendere da agenzie di stampa
l'annuncio della loro durata, con tutti i risvolti interni e
internazionali che ne discendono, a cominciare dalla credibilità dello
Stato d'Italia. Quale ne sia la affidabilità sul piano economico è
noto e non richiede commenti. Per mesi il governo si è incaponito a
presentare alla Commissione europea un piano triennale senza speranza
di approvazione e ha dovuto frettolosamente ripiegare su una trincea
arretrata, salvo trovarsi ora alle prese con l'incubo di una seconda
“manovra finanziaria” a breve termine (mentre torna a spirare il vento
di una “patrimoniale”). Stanco delle insinuazioni di sue presunte
responsabilità il ministro dello Sviluppo economico del precedente
governo, Pier Carlo Padoan, non ha esitato a tacciare il governo di
ignoranza e di malafede. Tra diritti umani e dittatura poliziesca l'Italia sta alla finestra Non
meno sconcertante è l'altra vicenda che mette in discussione l'immagine
dell'Italia nel mondo: la scelta tra Guaidò e Maduro in Venezuela.
Trattasi di un terreno sul quale non vi possono essere esitazioni, come
ha ricordato Re Juan Carlos di Borbone nel discorso pronunciato
all'Università Comillas di Madrid: una sede particolarmente emblematica
perché è l'Università dei Gesuiti, e quindi (vi è motivo di ritenere)
non in contrasto con il pensiero della Santa Sede. Da un canto vi è il
ritorno del Venezuela alla “normalità” istituzionale con elezioni
libere, garantite da osservatori internazionali indipendenti;
dall'altra vi è il prevedibile indurimento di un regime non militare ma
poliziesco. Dai governi autoritari, a forte presenza militare, i Paesi
ibero-americani sono sempre usciti, senza traumi soverchi. Fu il caso
del Brasile, dell'Argentina dopo la Giunta militare di Videla e persino
del Cile di Augusto Pinochet, sin dall'origine dichiaratamente
transeunte quale dolorosa parentesi verso il ritorno alla democrazia
parlamentare. Altra cosa sono i regimi polizieschi, nati da imprese
rivoluzionarie e fondate sul “partito unico”, dalla Cuba di Fidel
Castro al Venezuela di Chavez e del suo erede, Maduro. L'astensione
dei rappresentanti giallo-verdi e di alcuni esponenti del Partito
democratico in una votazione qualificante del Parlamento europeo pone
l'Italia fuori dal novero dei Paesi “importanti” dell'Unione
Europea proprio per quanto di meglio, pur con tutti i suoi noti limiti,
essa ha espresso e può esprimere: l'affermazione interna e universale
dei diritti umani. La lancetta della storia ormai vicine all' “ora X”: la guerra nucleare Questo
è il vero terreno di confronto per le ormai imminenti elezioni degli
europarlamentari, proprio perché la lancette verso la possibile guerra
totale si sta avvicinando pericolosamente all' “ora X”: il conflitto
nucleare. La Comunità internazionale è tornata preda dell'anarchia,
succuba della gara tra terrorismo e la “trappola di Tucidide”. Non è la
prima volta. Accadde un secolo fa, all'indomani della Grande Guerra,
quando la Lega delle Nazioni si ridusse a velo sdrucito e stinto degli
interessi imperialistici franco-inglesi. Per uscire dalla crisi
permanente si contrapposero due visioni globali. Da un canto i piani
quinquennali nell'Unione sovietica e il New deal nell'America di
Franklin D. Roosevelt, entrambi derivanti dalla filosofia della prassi
di origine germanica, più precisamente hegeliana: una concezione
“razionale”, propria del capitalismo e dei suoi studiosi, Marx incluso.
Dall'altro la visione mistica del pianeta, elaborata tra altri dal
massone Giuseppe Cambareri, a contatto con i confratelli Arturo
Reghini, Gino De Sanctis e Domenico Maiocco e con altri personaggi di
spicco sino a Pietro Badoglio, Guido Calogero, “filosofo del dialogo”,
e Federico Comandini, del partito d'azione. Ne scrisse Silverio
Corvisieri in “Il mago dei generali” (ed. Odradek). In tale
visione cosmologica, anziché che nell'economia la “salvezza” sta
nell'esoterismo, nell'uso politico dei suoni e dei colori, come poi
predicato con esiti deludenti da José Lopez-Rega, il “brujo” di Juan e
Isabelita Peròn. Non sappiamo quanto le due opzioni (l'hegeliana e
la mistica) siano presenti all'Esecutivo attuale. Di certo esso non
mostra alcun organica visione e previsione di politica estera e
militare, cardini di qualunque Stato, Res Publica o Principato.
Tristissimo per la terra di Niccolò Machiavelli.
Aldo A. Mola
“CORDA FRATRES” PER L'AMICIZIA ITALO-FRANCESE GOLIARDI CHE VEDEVANO LUNGO
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 27 gennaio 2019, pagg. 1 e 11.
Dalle incomprensioni... Italia
e Francia. A fine Ottocento, a parte le guerre dei secoli andati, le
loro relazioni calarono a picco. Dopo il linciaggio a colpi di vanga di
decine di migranti nostrani
ad Aigues-Mortes nell'agosto 1893 (ne ha scritto Gérard Noiriel in “Il
massacro degli italiani. Quando il lavoro lo rubavamo
noi”, ed. Tropea) e la “caccia all'italiano” a Lione nel 1894, Roma e
Parigi si scontrarono indirettamente nella “prima guerra d'Africa”,
chiusa con la sconfitta degli italiani ad Adua (1° marzo 1896). Il
negus Menelik ebbe assistenza militare diretta e indiretta di Francia e
Russia. A sostegno di Parigi nel 1892 papa Leone XIII dichiarò che la
chiesa non fa preferenze tra monarchia e repubblica ma solo sulla base
della condotta dei governi. La Francia era alle prese con l'affaire
Dreyfus, l'ebreo asceso a ufficiale di stato maggiore ma condannato per
alto tradimento a favore dell'odiata Germania, e sparò a zero i
romanzacci di Léo Taxil contro l'Italia dei “Tre puntini” Crispi, Lemmi
e Carducci, massoni in combutta col diavolo. Sin dalla guerra doganale
italo-francese del 1886 gli italiani migranti in Francia in cerca di
lavoro se la passavano malissimo. Lo sfruttamento anche sessuale dei
bambini italiani in vario modo attratti in Francia raggiunse livelli
preoccupanti. Traspare dal saggio di Romain H. Rainero “Les Piémontais
en Provence. Aspetcs d'une émigration oubliée” (Ed. Serre. 2000). Le
insurrezioni eterodirette in Lombardia e Toscana in coincidenza con le
feste (soprattutto torinesi) per il cinquantenario dello Statuto (1898)
e l'assassinio di Umberto I a Monza (29 luglio 1900) dettero la misura
dell'isolamento dell'Italia. Per uscirne bisognava salire faticosamente
la china: trattative diplomatiche sommesse, approdate agli accordi
segreti Prinetti-Barrère del dicembre 1900. Da sola, però, la
diplomazia non bastava. Occorreva moltiplicare le relazioni dirette in
ambienti capaci di fare opinione. ...Alle relazioni dirette: la Federazione Internazionale Studentesca Vi
si impegnò assiduamente il geniale Efisio Giglio-Tos (Chiaverano, 1870
– Torino, 1941). Autodidatta e plurilaureato, già impiegato al Club
Alpino italiano e all'Associazione universitaria torinese, il 9 aprile
1897 propose l'organizzazione di una “associazione universale” degli
studenti, varata nell'autunno 1898, quando 3.000 studenti universitari
affluirono da tutto il mondo a Torino e a Roma per fondare la
Federazione internazionale studentesca “Corda Fratres”. Due anni dopo,
il gran passo avanti: il 2° convegno dei “Cuori Fratelli” si svolse a
Parigi. Sull'esempio delle antiche università e per impulso del
presidente fondatore e del francese Jean Reveillaud furono istituite
sezioni sia degli Stati esistenti (Italia, Francia, Belgio, Spagna,
Germania, Gran Bretagna...) sia delle “nazioni senza Stato”: Polonia,
Boemia, Norvegia (all'epoca unita alla Svezia), Finlandia. La sezione
romena incluse gli studenti della Transilvania, rivendicata da
Bucarest, più volte visitata da Giglio-Tos quando Roma donò ai romeni
la Lupa Capitolina, a suggello del legame tra “sorelle latine”.
Ancora più emblematica fu la costituzione della “sezione
speciale”, presieduta da Léon Fildermann e comprendente gli ebrei
dei diversi Paesi in un corpus unitario. Da molti fu sospettata di
sionismo, anche se molti suoi iscritti non ritenevano affatto
indispensabile il ritorno di tutti gli israeliti in Palestina. Molto
prima della diaspora avevano abitato il mondo: potevano conciliare
Stato ebraico e Alleanza universale. Nel quinquennio seguente
Giglio-Tos infittì le relazioni italo-francesi, fondamentali in vista
del Cinquantesimo del regno, la cui regia venne affidata al senatore
Tommaso Villa e a Teofilo Rossi di Montelera, che vi si dedicò corpo e
anima come documentano Rosanna Roccia e altri nel denso volume
collettaneo curato da Tomaso Ricardi di Netro per il Centro Studi
Piemontesi. Più ferrovie, più strade, più vita...: Emile Loubet a Roma Come
emerge dai documentati studi di Giulio Vignoli e di Maurice Mauviel,
anche allora la normalizzazione dei rapporti italo-francesi passava
attraverso il potenziamento delle infrastrutture: meno sperperi per
corrucciate opere difensive a futura memoria e più investimenti in
strade e ferrovie, a cominciare dalla Cuneo-Ventimiglia-Nizza, avviata
quarant'anni prima ma sempre al palo nella decisiva tratta transalpina
(mezzo secolo dopo la riapertura è nuovamente in affanno). Giglio-Tos
ebbe chiaro che l'“amicizia” italo-francese era fatta anche di lunghi
silenzi. L'Italia doveva mettere la sordina a qualunque rivendicazione
non solo della Savoia (francofona) e della Corsica, ma anche di Nizza.
Al contrario, occorrevano discorsi, come quelli pronunciati il 17
agosto 1902 a Besançon nel centenario della nascita di Victor Hugo, il
romanziere caro a Garibaldi e vessillo dei democratici nella Terza
Repubblica. Ricevette le Palme d'argento. L'anno seguente plaudì al
viaggio di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena a Parigi,
preceduto dal conferimento del Collare della Santissima Annunziata al
presidente Emile Loubet. Nel frattempo organizzò a Nizza un festoso
incontro di studenti e studentesse: comunione e liberazione, anzitutto
dall'oscurantismo e dal farisaismo. Ne trasse lezione il giovane Orazio
Raimondo, socialista, massone, sindaco di Sanremo, profeta del Casinò
municipale. Quando nell'aprile 1904 il presidente francese ricambiò la
visita a Roma “senza vedere il papa”, Giglio-Tos allestì di fretta una
“Inchiesta italo-francese”, pubblicata tempestivamente nell'“Italia
moderna”. Vi raccolse le risposte di illustri personalità dei due
Paesi, come Achille Loria e Charles Beauquier, presidente della lega
franco-italiana, alla domanda sulla necessità di “alleanza fraterna e
indissolubile” tra le due “nazioni sorelle per razza e tradizione”,
nell'ambito delle Nazioni latine, anche a sostegno dei “popoli
oppressi” da giogo straniero, per assicurare “un'era di pace e di
fratellanza internazionale”. Come nulla fosse, mise in discussione la
carta politica d'Europa, risalente al Sei-Settecento e ribadita dal
Congresso di Vienna del 1815: i quattro imperi di Russia, Germania,
Austria-Ungheria e turco-ottomano si fondavano sulla spartizione di
Polonia, Boemia, penisola balcanica e su confini artificiosi degli
Stati sorti nell'Ottocento. Non solo Grecia, Bulgaria e Romania
“fratelli separati”; anche l'Italia aveva il suo irredentismo: Trento
(ove nel 1896 venne scoperto il monumento di Dante Alighieri) e
Trieste, col sottinteso della contea di Gorizia e dell'Istria. La
Grande Guerra era già tutta lì. Dopo le Palme d'Oro (1904) nel 1926
Giglio-Tos ebbe la Legion d'Onore... Cuori Fratelli e...Sorelle
Lo statuto della “Corda Fratres” prescriveva che i suoi iscritti, come
fossero in logge massoniche, non dovevano discutere di questioni
politiche e religiose, ma la libertà dei popoli e la loro fratellanza
erano principi filosofici, giuridici, morali e quindi avevano libero
campo. Organizzata in sezioni nazionali, a loro volta ripartite in
consolati, la Federazione ebbe il merito di dare ampio spazio alle
studentesse in un Paese ancora misogino. Solo nel 1892 per la prima
volta una donna venne ammessa alla Facoltà di medicina di Roma: Maria
Montessori, rompighiaccio della storia d'Italia, “rivoluzionaria” a
voce bassa, come Maria Teresa Bargis, prima ragazza vent'anni prima
ammessa in un liceo classico del regno, a Cuneo (poi fu la prima
laureata in lettere a Torino). Nell'età della Corda Fratres anche in
Italia cresceva la rivendicazione del diritto di voto alle donne e si
svolse a Roma il primo congresso femminile, con la partecipazione di
Enrichetta Giolitti, figlia del presidente del Consiglio e moglie di
Mario Chiaraviglio, “tre puntini” di Rito simbolico e deputato radicale. Nazionalità senza nazionalisti:liberare i “popoli oppressi” Il
20 settembre 1907 Giglio-Tos rievocò Garibaldi a Caprera e vi annunciò
la nascita della “Terza Italia”, associazione votata a coronare il
Risorgimento. L'inno della Corda Fratres era stato scritto dal
“fratello” Giovanni Pascoli, pacifista ma al tempo stesso patriota,
come il suo grande maestro Carducci. Ora bisognava guardare oltre.
Dovevano essere i Nuovi Goliardi, ardimentosi emuli di Golia, a varcare
il Rubicone della storia. Gli antichi “clerici vagantes” avevano
salmodiato sulla precarietà della vita: “Gaudeamus igitur, juvenes dum
sumus...”, precorrendo il Lorenzo Magnifico di “Quant'è bella
giovinezza/ che sen fugge tuttavia// chi vuol essere lieto sia/del
doman non v'è certezza...”. Altri universitari vivevano gli studi e
l'attesa della laurea come investimento per poi chiudersi in lucrose
professioni in mediocri città di provincia, con qualche scappatella nei
bordelli che all'epoca placavano i bollenti spiriti. Ben altra fu la
sfida dei Nuovi Goliardi, politicamente consapevoli. La espresse l'inno
degli studenti italiani, scritto da Giovanni Gizzi:“Di canti di gioia,
di canti d'amore/ risuoni la vita, ma spenta nel core/ non cala per
essi la nostra virtù”. //Dai lacci sciogliemmo l'avvinto pensiero/ch'or
libero spazia nei campi del vero;/e sparsa la luce sui popoli
fu.//Ribelli ai tiranni, di sangue bagnammo/ le zolle d'Italia; fra
l'armi sposammo/ il sacro connubio la patria al saper.// Ed essa
[l'Italia] faremo col core e coll'armi/ l'Italia dei padri sognata nei
carmi/ l'Italia redenta dal giogo stranier”. Reduce da un lungo
ciclo di conferenze a sostegno dell'intervento dell'Italia in guerra a
fianco dell'Intesa per la redenzione di Trento e Trieste, il 21 aprile
1915 Giglio-Tos si spinse a telegrafare al Re: “Per l'onore dei Savoia,
per l'amore dei fratelli che soffrono e vi anelano, scongiurate la
guerra civile, dichiarate guerra all'Austria e salvate la Patria”. I Goliardi d'antant: “Ifigonia” e impegno civile Quel
mondo complesso, gonfio di utopie e a volte contraddittorio è
ampiamente illustrato da Marco Albera e da Manlio Collino in
“Saecularia Sexta Album”, sontuoso volume sui sei secoli di studenti
universitari di Torino, al centro del gran pomeriggio di festa e di
cultura in programma alle 16.30 di martedì 29 gennaio 2019 al Casinò di
Sanremo con la regia di Marzia Taruffi, direttrice dell'Ufficio
Cultura. La città di Mario e Italo Calvino, sede del lungimirante
Istituto Internazionale di Diritto Umanitario, paradiso di profezie,
invenzioni e serenità, dette i natali al goliardo Antonio Rubino
(1880-1964), poeta, illustratore, tra i fondatori del “Corriere dei
Piccoli”. A Bordighera, due passi da Sanremo, Cesare Perfetto, ideatore
del Salone Internazionale dell'Umorismo apprezzato da Giulio Andreotti,
nel 1975 conferì la Rama di Palma d'Oro all'ormai anziano ma sempre
arzillo urologo Hertz De Benedetti (1904-1989), autore del celebre
poemetto “Ifigonia”, scritto nel 1928, presentato furtivamente sotto i
portici di Piazza Carlo Felice a Torino lo stesso anno e nel 1939 messo
fugacemente in scena per soli maschi adulti e vaccinati al Teatro
Alfieri di Torino dalla Compagnia Teatrale Goliardica Camasio e Oxilia,
animata da Ovidio Borgondo (detto Cavùr): un riconoscimento che sarebbe
piaciuto a due super-goliardi come Angelo Nizza e Riccardo Morbelli,
uniti fraternamente non solo dalle feluche. Strana sorte quella
dell'“Ifigonia”. Passato di mano in mano clandestinamente per
generazioni, vide le stampe solo nel 1969, un anno dopo il fatidico
Sessantotto. Stava per essere pubblicato nel centenario del regno
(1961) ma Roberto Vittucci Righini, all'epoca sovrano del Maximus Ordo
Victoriae Augusta Taurinorum, lo sconsigliò: in quell'Italia bigotta
gli editori rischiavano traversie giudiziarie per offesa alla “pubblica
decenza”. Poi uscì in edizione critica a cura di Roberto Brivio e
di Alfredo Castelli nei “Canti Goliardici” e persino come album a
fumetti. Liberi dal Sessantotto! Il Sessantotto,
completo di Potere studentesco, okkupazioni e la deriva verso la babele
delle lingue e l'ideologia elevata a regime, soffocò la goliardia, che
era l'humus della classe dirigente, come documentano imponenti volumi
sulla “Formazione della classe politica in Europa, 1945-1956" a cura di
Giovanni Orsina e Gaetano Quagliariello, con eccellenti capitoli
sull'Unuri, sull'Unione Goliardica e su miti, feste e simboli
dell'associazionismo studentesco. Da lì arrivarono Marco Pannella,
figlio del cordafratrino Leonardo, Paolino Ungari e tanti dirigenti dei
partiti di area laica. Dopo il Sessantotto prevalsero nuove forme di
bigottismo: i clerici non vagarono più. Vennero inquadrati e giurarono
fedeltà a scuole di partito e di chiese anziché alla libertà. Finì un
mondo. A Sanremo ne parla l'architetto e collezionista Marco Albera,
già Presidente dell'Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino,
accompagnato dai canti goliardici eseguiti dal chitarrista Gabriele
Danesin, anima musicale del Summus Taroccorum Ordo Taurinensis, e dal
fisarmonicista Ferdinando Rosso. La Goliardia culla delle élites Ma
perché mai occuparsi oggi di goliardi? Non è forse un tema
“politicamente scorretto” e persino scurrile? In realtà, nel dibattito
finalmente in corso anche in Italia sulle “élites” entra a pieno titolo
la storia dell'Università e degli studenti. In Europa la Scuola degli
Studi nacque come istituzione universale, protetta dai “Sovrani”
ma libera e inviolabile, con regole precise su riti d'iniziazione e sui
rapporti tra docenti e discepoli in arrivo da tutti i Paesi e studenti
di varie “lingue”. Qual era la sua “missione”? Formare
“umanisti”, “dottori” dagli orizzonti culturali aperti, pronti a
conquistare il mondo per migliorarlo. Nell'ambito dell'ecumene
cristiana gli studenti erano leali verso il loro Principe ma accomunati
nella ricerca al di sopra di ogni confine. In secoli di guerre
politiche e religiose l'Università rivendicò libertà, unità e progresso
del sapere. Il Sette-Ottocento fu l'epoca di tante “internazionali”
(Santa Alleanza, carboneria, massoneria, liberali, socialisti,
cattolici, persino anarchici e alta finanza...), ciascuna con programmi
politici o con obiettivi di dominio economico, inclini a metodi
bellicosi, rivoluzionari, spesso spietati. La ricerca scientifica venne
subordinata al Potere. Per chi sapeva leggere la storia, dopo la
guerra franco-prussiana del 1870-1871 fu chiaro che l'Europa, lanciata
nella seconda tumultuosa colonizzazione del pianeta, era al bivio:
affratellare le classi dirigenti o precipitare in conflitti devastanti
e disumani. Alla anarchia della Forza bisognava rispondere con
l'internazionale del Diritto. La Federazione studentesca ideata da
Efisio Giglio-Tos con l'adesione di ministri, politici, rettori,
docenti e studenti universitari anno dopo anno raccolse migliaia di
giovani nei congressi di Parigi, Venezia, Liegi, Marsiglia, Bordeaux,
L'Aja, Roma e negli Stati Uniti d'America (1913). Lì vennero accolti
dal presidente Woodrow Wilson. Volevano fermare la corsa verso l'abisso
della guerra generale, per non trovarsi di lì a poco al comando di
reparti armati, con le divise dei rispettivi Stati, anziché con
mantelli e feluche, e condannati ad annientarsi a vicenda dopo anni di
affratellamento nelle aule universitarie e nei congressi scientifici.
Era solo un'ingenua utopia o la meditata anticipazione della Società
delle Nazioni, dell'ONU, dell'Unione Europea, di una umanità finalmente
pacifica e progredita? Mentre il mondo è sempre sull'orlo
dell'abisso giova riflettere sulle grandi illusioni di un secolo
addietro: fermare la guerra, che è il colpo di coda dei vecchi, una
sorta di vendetta contro la vita che sfugge dalle loro mani. L'utopia
dei cordafratrini, giovani di spirito anche in tarda età, insegna che
il nazionalismo è la tomba delle nazioni e il sovranismo è la
caricatura degli Stati. Come tra Otto e Novecento, oggi tocca ancora ai
giovani riprendere il testimone della Storia, forti delle divise d'un
tempo: “i Goliardi hanno sempre vent'anni...”. “Quel che era torna, e
tornerà per sempre”: fratellanza, umanesimo, la Comunità
internazionale, comprendente Stati e Nazioni, l'immensa varietà degli
uomini, col loro millenario fardello di errori e di progresso, la lenta
marcia sul pavimento a scacchi bianchi e neri.
Aldo A. Mola
Il “PARTITO DEI CATTOLICI” GIOVO' ALL'ITALIA? Il Partito popolare italiano intralciò il Concordato (1919-1929)
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 20 gennaio 2019, pagg. 1 e 11.
Anche se “prigioniero” il papa era sovrano... “Un
re, anche prigioniero, è sempre un re, e se un giorno o l'altro avrà
modo di liberarsi, voi lo ritroverete a capo del suo esercito. E il
papa è ancora un re: ve lo afferma la legge delle famose guarentigie;
che ne fa sacra e inviolabile la persona, che gli dà diritto agli onori
sovrani nel territorio del regno, che dà ai suoi agenti diplomatici
le stesse prerogative che il diritto internazionale stabilisce per gli
agenti degli altri governi; che gli consente un corpo armato, che
assicura l'immunità del territorio apostolico e le comunicazioni
dirette e incensurabili con tutto il mondo. In forza di questa legge
non si può ammettere che il regno pontificio sia proprio scomparso:
esso è ridotto semplicemente, sia pure ai minimi termini, ma esiste.
L'Italia entrando in Roma dalla Breccia di Porta Pia avrebbe dovuto
issare sul Campidoglio la fiaccola del libero pensiero; vi entrò invece
facendo il segno della croce e baciò il piede al papa”. Il 30
novembre 1915 il massone Carlo Feder (che non figura nella matricola
del Grande Oriente d'Italia, nel quale “militava”) gettò il sasso nello
stagno con questo articoletto, pubblicato dalla “Rivista massonica”,
organo ufficioso della massoneria “di Palazzo Giustiniani”, diretta dal
suo proprietario, Ulisse Bacci. In poche righe pose un ventaglio di
problemi: qual era, in effetti, la posizione di papa Benedetto XV
dinnanzi al regno d'Italia e nel quadro della Comunità internazionale
squassata da quindici messi di guerra generale europea? Non era
solo il Vicario di Cristo, il vescovo di Roma, il capo spirituale della
chiesa cattolica apostolica romana. Era anche Capo di Stato, tanto
silente quanto effettivo. Feder non sapeva che l'accordo di adesione
dell'Italia all'Intesa firmato a Londra il 26 aprile 1915 impegnava gli
alleati a escludere la Santa Sede dal futuro Congresso di pace (art. XV
dell' arrangement): riconoscimento implicito della sua sovranità.
Il presidente del Consiglio, Antonio Salandra, conservatore, e il
ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, si erano premurati a quel modo
di calare la saracinesca su ogni possibile riapertura della “questione
romana”. Al corrente dell'accordo erano esclusivamente il re, Vittorio
Emanuele III, i sovrani dell'Intesa, i loro plenipotenziari e
l'ambasciatore dell'Italia a Londra, marchese Guglielmo Imperiali, che
alle tre del pomeriggio del fatidico 26 aprile, “invocato il santo nome
di Iddio” sottoscrisse lo “strumento”, suggellato dall'art. XVI, in
forza del quale esso doveva rimanere assolutamente segreto. E così fu
(caso quasi unico nella storia: fu tra le ragioni della permanenza di
Sonnino al governo con tre diversi presidenti del Consiglio) sino al
giugno 1919) sino a quando i bolscevichi di Lenin irruppero nel palazzo
d'Inverno, s'impadronirono delle carte segrete dello zar e dal 23
novembre 1917, un mese dopo la ritirata dell'esercito italiano da
Caporetto al Piave, iniziarono a pubblicarli (con strategia selettiva,
nell'interesse esclusivo della “Rivoluzione”: era la loro “verità”, la
Pradva), suscitando profondo imbarazzo e sgomento all'interno dei
singoli Stati. Il lungo armistizio tra Italia e Santa Sede Il
20 settembre 1870 i reparti dell'esercito italiano irrompenti in Roma
agli ordini di Raffaele Cadorna si fermarono sulla soglia della “Città
Leonina” e non profanarono le Basiliche e gli altri siti poi elencati
nella legge per le guarentigie, “possesso” del pontefice. Il governo
italiano considerò debellato il potere temporale del pontefice ma, come
ricordò polemicamente Feder, rispettò molte sue prerogative, proprie di
un Capo di Stato, quali l'accredito di rappresentanze estere presso il
Sacro Soglio e di suoi nunzi e amministratori apostolici (paragonabili
ad ambasciatori, ministri di stato e consoli generali) presso capitali
“amiche”. Il regno riconobbe al papato (e quindi ai cardinali, principi
della chiesa) l'inviolabilità della corrispondenza e a un ampio
ventaglio di privilegi propri di uno Stato sovrano, a cominciare,
appunto, dalla Guardia Svizzera e dall'invalicabilità dei Sacri
Palazzi, di cui, anzi, il governo italiano si fece garante. In passato
le potenze straniere avevano usato lo Stato Pontificio per reciproci
ricatti. Vienna aveva occupato Ferrara, suscitando la risposta della
Francia. Spazzata via la gloriosa quanto militarmente effimera
Repubblica romana, proposta da Carlo Luciano Bonaparte principe di
Canino prima che vi arrivasse Giuseppe Mazzini e strenuamente difesa da
Giuseppe Garibaldi (1849), Napoleone III aveva “protetto” il Papa non
per devozione ma contro le ingerenze degli altri Stati europei, a
cominciare dalla cattolicissima Austria, e, dal 1861, contro il regno
d'Italia che sin dal 27 marzo, su impulso di Camillo Cavour aveva
proclamato Roma capitale d'Italia. Dopo l'annessione e il plebiscito
confermativo del 2 ottobre 1870, recatogli da Michelangelo Caetani duca
di Sermoneta, poi membro della loggia “Universo”, i governi di Vittorio
Emanuele II e dei suoi successori difesero la libertà del papa (il
“possesso” temporale; la libertà della suo potere interno, come subito
si vide con il conclave che elesse Leone XIII; il magistero spirituale)
per difendere l'Italia stessa. Contro le proposte di tanti teologi ed
ecclesiastici favorevoli all'immediato riconoscimento del regno
d'Italia da parte della chiesa, Pio IX vietò ai cattolici di
partecipare alle elezioni dei deputati (“non expedit”). La realtà fu
tutt'altra: la stragrande maggioranza degli elettori (mediamente il
60-6% degli aventi diritto al voto) era di cattolici e gli eletti pure.
Non lo ostentavano perché la fede era (come dovrebbe essere in un paese
moderno) affare personale. Non solo: cattolici praticanti erano la
quasi totalità dei consiglieri comunali e provinciali, dei sindaci e
dei presidenti di provincia. Il “non expedit” ingessò un equivoco
polemico a tutto vantaggio degli estremisti: clericali fanatici e
una minoranza chiassosa di mangiapreti. Alla ricerca di parallele convergenti Per
quell'eterogenesi dei fini che serpeggia nel flusso della storia, con
apparente paradosso proprio i politici più anticlericali ripetutamente
cercarono “intese” con l'altra riva del Tevere. Vi si prodigarono i
presidenti del Consiglio della Sinistra storica e massoni attivi
Agostino Depretis e Francesco Crispi, mentre i conservatori Antonio
Rudinì e Luigi Pelloux si arroccarono sulla lezione di Cavour:
distinzione (non separazione) tra lo Stato e la Chiesa. Su questa linea
si attestò Giovanni Giolitti, che enunciò la “incompetenza” dello Stato
in materia di fede. Stato e chiesa erano e dovevano rimanere due
parallele, ciascuna con la propria identità e i propri compiti,
nell'ambito dell'ordinamento statutario che dal 4 marzo 1848 enunciò
l'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi. Al tempo stesso nel
1908 proprio Giolitti, contro socialisti, repubblicani, una parte dei
radicali e alcuni massoni propugnò la libertà dell'insegnamento
della religione nella scuola elementare (obbligatoria e gratuita) se
richiesto dalle famiglie. Non era opportunismo ma pratica della
libertà, che non è mai astratta ma misurata sulla realtà storica,
sociale e culturale dei Paesi nei quali prende corpo. In una
lettera alla figlia Enrichetta, Giolitti ricordò che quando taglia il
vestito il sarto deve tener conto del corpo che lo indosserà, incluse
le imperfezioni. Si dichiarò anche aspramente avverso all'avvento di un
“partito dei cattolici”. Sarebbe stato una sciagura perché avrebbe
rinchiuso il magistero spirituale in una gabbia fatalmente destinata a
moltiplicare le sbarre di interessi estranei al magistero cristiano e
avrebbe cozzato contro le libertà di cui lo Stato era e doveva essere
usbergo. Proprio durante il suo primo governo (1892-1893) era
albeggiata la prima Democrazia cristiana, su impulso di sacerdoti quali
Davide Albertario e Romolo Murri e di giovani militanti fautori di
roventi polemiche contro l'Italia nata dal Risorgimento, frutto, a loro
detta, di un complotto ebraico-massonico. Erano asserzioni
inammissibili per Giolitti, che nei suoi governi ebbe illustri massoni
alla Giustizia (Lorenzo Eula, Scipione Ronchetti, Camillo
Finocchiaro Aprile e Luigi Rava: tutti di straordinario equilibrio) e
agli Esteri. Proprio il massone Antonino di San Giuliano, a differenza
di Sonnino, mai iniziato al formativo dialogo di loggia, nella bozza
dell'accordo con l'Intesa non fece alcun cenno all'esclusione della
Santa Sede dal congresso di pace. In tacita sintonia con
Giolitti, dal 1904 papa Pio X sospese il “non expedit” che vietava ai
cattolici il voto politico. In pochi anni i deputati eletti
esplicitamente con il loro concorso passarono dai 3 del 1904 ai quasi
30 del 1909 ai 228 del 1913, senza che lo Stato venisse messo in
discussione. Nei suoi aspetti più laceranti la “questione romana” si
stava esaurendo da sé, tra conciliazione silenziosa e laicizzazione
altrettanto silenziosa, senza interferenze reciproche. I vani “sondaggi” del dopoguerra (1918-1920) Nel
dopoguerra la drastica opposizione governativa alla partecipazione
della chiesa al Congresso di pace fu il velo dietro il quale alcuni
primi ministri cercarono di aprire una trattativa con la Santa Sede per
riconoscerne la sovranità temporale. Come dal 1976 documentò il
giurista Giovanni Battista Varnier sulla traccia di Arturo Carlo Jemolo
e di Francesco Margiotta Broglio, furono Vittorio Emanuele Orlando e il
suo successore, Francesco Saverio Nitti, a tastare il terreno, con
esiti desolanti anche per la rigida contrarietà di Vittorio Emanuele
III, pronto a imbracciare il fucile per difendere l'assoluta integrità
territoriale del regno. D'altronde l'emissario della Santa Sede,
monsignor Bonaventura Cerretti, aveva proposto il riconoscimento di uno
Stato della Chiesa esteso dal Vaticano a Ostia: una sorta di
“corridoio” che da un canto avrebbe consentito via mare e lungo il
Tevere il passaggio diretto di uomini e merci (non venne valutata
l'importanza dell'aviazione), dall'altro avrebbe reciso la
continuità del Paese proprio in un tratto nevralgico della sua costa.
Sarebbe stato il ritorno alla Roma di Pio IX e di Napoleone III,
improponibile per l'Italia che nel 1872 si era opposta alla
partecipazione di un delegato della Santa Sede alla conferenza
internazionale sul “metro”, riaperta a Parigi dopo la sospensione
causata dalla guerra franco-germanica del 1870-1871. Il Partito “dei cattolici” ignorò la “questione romana” In
quel già tesissimo clima irruppe la fondazione del Partito popolare
italiano. Dopo alcune riunioni di esponenti del variegato mondo
cattolico (23-24 novembre e 16-17 dicembre 1918), don Luigi Sturzo, suo
promotore, il 18 gennaio 1919 ne enunciò il programma in dodici
articoli, appellandosi “a tutti gli uomini liberi e forti”. Con
sorpresa generale esso non fece alcun cenno alla “questione romana”.
Propose invece l'elezione del Senato, l'abolizione della coscrizione
obbligatoria (mai gradita nel Mezzogiorno, nell'ex Stato pontificio e
in Toscana) e contrappose allo Stato gli enti locali: comuni, province
e regioni (che all'epoca non esistevano e, quando sorsero, dapprima a
statuto speciale poi con vesti ordinarie, costituirono poi la causa
principale del declino del Paese). Alle elezioni del 16 novembre 1919
il PPI ottenne il 20,5% dei suffragi e 100 deputati. Come aveva
previsto il socialista Claudio Treves, i voti erano soprattutto di
contadini; gli eletti erano invece “notabili” (avvocati, docenti
universitari, ingegneri...). Nulla di veramente nuovo e diverso
rispetto a liberali, democratici, radicali... Nelle elezioni del maggio
1921 i suffragi scesero di poco (20,4); i seggi crebbero a 108. Ma il
loro “investimento politico” rimase opaco. Padre Agostino Gemelli
e Francesco Olgiati scrissero un opuscolo dal titolo chiarissimo (“Il
programma del PPI non è come dovrebbe essere”), proprio perché ignorava
il vero nodo storico, la soluzione della questione romana, fondamentale
per la Santa Sede. Perciò sia Benedetto XV sia il suo successore Pio XI
guardarono senza entusiasmo all'attivismo del “prete intrigante” (come
Sturzo venne bollato da Giolitti) e al suo programma e non lo difesero
affatto quando nell'aprile 1923 Benito Mussolini cacciò dal governo i
due ministri (Cavazzoni e Tangorra) e i sei sottosegretari che ne
facevano parte dal 31 ottobre 1922. Sturzo si dimise e si trasferì
negli Stati Uniti d'America. Il suo successore, Alcide De Gasperi,
capeggiò un partito ormai sfiduciato dalla Santa Sede. Alle elezioni
del 6 aprile 1924 ottenne appena 39 deputati, quasi tutti al Nord. In
Puglia il PPI racimolò appena lo 0,6% dei consensi. Erano tutti lì i
cattolici italiani? La soluzione della questione romana passò
alle trattative dirette tra il capo del governo, Mussolini, e il
segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Gasparri, Il
centenario della nascita del PPI (non ne rimane traccia se non nei
libri, come ormai della Democrazia cristiana postbellica) quasi
coincide con il 90° del molto più importante Concordato dell'11
febbraio 1929, meritevole di molta più attenzione. Il governo
italiano era consapevole di dover trattare con il rappresentante di un
Capo di Stato che era anche Sommo Pontefice, eletto dal collegio
cardinalizio, depositario permanente del potere di elezione su
ispirazione dello Spirito Santo. Stato e Chiesa dovevano trovare
soluzione all'antico conflitto temporale ma, ancor più, segnare con
chiarezza il “limes” delle loro rispettive giurisdizioni. Un partito
“dei cattolici”, coll'inevitabile gravame di miserie (tessere, bilanci,
ambizioni personali, compromessi d'ogni genere, spinti sino a pavide
doppiezze...) sarebbe stato come il meno sta nel più e quindi
d'intralcio per il Sacro Soglio non meno che per lo Stato, tanto più
nell'Europa inquieta uscita a fatica dalla catastrofe della Grande
Guerra.
Aldo A. Mola
IL “DICIANNOVISMO”:TUTTI CONTRO TUTTI LA SCIAGURA DELL'ITALIA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 13 gennaio 2019, pagg. 1 e 11.
Le “ingerenze straniere” di cent'anni fa. Il presidente USA Wilson Il
23 aprile 1919 il presidente degli Stati Uniti d'America, Thomas
Woodrow Wilson, si rivolse direttamente agli italiani sulla questione
che stava avvelenando il Congresso per la pace in corso a Parigi: la
sorte di Fiume. Pubblicata in un quotidiano francese e subito
rimbalzata in Italia, la dichiarazione passò alla storia come
“messaggio” e/o persino “appello”. Wilson arrivava da una famiglia di
predicatori. Combattuta la dislessia con la stenografia e afflitto da
gravi problemi di salute, come Franklin D. Roosevelt e altri presidenti
degli USA (e non solo), appartenne alla serie dei “malati che
governarono il mondo”. Profeta all'estero più che in patria, ove venne
sconfitto e sconfessato. In preda a un raptus imperialistico, il
governo italiano pretendeva la città di Fiume in aggiunta
all'applicazione integrale dell'accordo di Londra del 26 aprile 1915,
cioè il confine dal Brennero al Quarnaro. Ma anche il neonato Stato
serbo-croato-sloveno voleva Fiune con la Dalmazia e il confine a ovest
di Trieste e di Gorizia. A suo avviso l'Italia non meritava niente.
Belgrado contava sul sostegno della Francia: non solo l'irruento
Georges Clemenceau, “il tigre”, ma anche il gran maestro onorario della
Gran Loggia Paul Peigné, un generale che propugnò le “Revendications
nationales” serbe, in linea con la autodeterminazione delle nazionalità
“frantumate o oppresse” dagli Imperi Centrali (Germania e
Austria-Ungheria) ormai sconfitti. Il Messaggio di Wilson fu una
ingerenza clamorosa negli affari interni dell'Italia, che aveva
visitato suscitandovi l'entusiasmo delle solitamente stupide folle,
orchestrate da giornali e da élite che si credevano furbe. Ma
egli era abituato a ben altre “interferenze”. Con le tempie circonfuse
del Premio Nobel per la pace (Enrico Tiozzo documenta quante altre
sciocchezze vennero deliberate tra Oslo e Stoccolma) aveva alle spalle
micidiali missioni militari nel Messico e nell'America Centrale, mentre
gli europei erano intenti ad annientarsi a vicenda. Per protesta contro
il missionario d'oltre Atlantico la delegazione italiana abbandonò
Parigi. Il 25 aprile l'anglofilo e anglofono Ernesto Nathan, gran
maestro del Grande Oriente d'Italia e già sindaco di Roma, esecrò
Wilson in un Manifesto agli italiani perché negava “il ricongiungimento
all'Italia di Fiume e di quei territori sulla costa orientale
dell'Adriatico (la Dalmazia) che le spettano per antiche
imprescrittibili ragioni di diritto nazionale riconsacrato dal recente
sacrificio di innumerevoli suoi figli e dalla inflessibile volontà di
quelle popolazioni”. Retorica arcaica. Per certificarne la veridicità
vi era un solo modo: indirvi referendum tra gli abitanti, ma a Roma non
sarebbe convenuto affatto, perché le sue pretese sarebbero state
sconfessate alle urne dalla popolazione delle terre pretese. Infatti
anche l'annessione del Trentino e della Venezia Giulia avvenne per
effetto del Trattato di pace di Saint-Germain, senza alcun plebiscito. Wilson,
invero, invocò l'amicizia tra statunitensi e italiani e persino la loro
consanguineità, ma ribadì che, assegnata Trieste all'Italia, Fiume era
e rimaneva il porto degli Stati gravitanti verso l'Adriatico:
Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia. Alcuni chiacchieroni usi a
confondere la Storia con le macchie sulle lenzuola, insinuarono che a
convincersene fosse stato aiutato da fascinose dame jugoslave:
argomento riecheggiante la fiaba secondo la quale a promuovere
l'alleanza tra Napoleone III e Vittorio Emanuele II contro l'impero
d'Austria nel 1858-1859 sarebbe stata la usurata contessa di
Castiglione anziché, come di fatto fu, la decisione dell'imperatore di
mostrare all'Europa che la Francia non era più quella costretta
all'armistizio di Fontainebleau e poi sconfitta a Waterloo nel
1814-1815 ma una grande potenza che, mentre vinceva gli asburgici a
Magenta e a Solferino, entrava in Hanoi e protendeva le sue mire verso
il Siam (non per caso oggi si chiede con forza la traslazione della sua
salma dall'abbazia di Farnborough, vicino a Londra, agli Invalidi o
nella chiesa di Sant'Agostino, a Parigi). Malgrado l'assenza
dell'Italia, i congressisti proseguirono i lavori con l'approvazione
dello statuto della Lega delle Nazioni (18 aprile), la spartizione
dell'impero ottomano e la convocazione coatta dei tedeschi “ad
audiendum verbum”. Il 7 maggio Orlando e Sonnino tornarono silenti
sulle rive della Senna. Il 2 maggio nel lacunoso “Diario” Sonnino
ammise: “non resta che rassegnarsi alle imposizioni di Wilson,
attenuate in parte, se possibile, dalle proposte degli alleati”: i
quali, invece, erano d'accordo con il presidente degli USA, perché
avevano sì accettato l'Italia come “associata” nella guerra ma non ne
erano affatto amici. Il gioco dei quattro cantoni in assenza di Europa Quel
precedente di cent'anni addietro aiuta a valutare la pochezza delle
odierne scorribande di “capi” e “capitani” italiani in cerca di
“alleati” in partiti e movimenti di altri Stati dell'Unione Europea. E'
il gioco dei quattro cantoni. Ti cerco, ti tocco... E poi?
Oltralpe incontrano accoglienze gelide e talvolta (è il caso dei
Gilè gialli francesi a Luigi Di Maio) vengono considerate inammissibili
interferenze in affari interni, perché il livello di integrazione
politica rimane molto basso. Per molti aspetti, invero, gli affannosi
Guerin Meschini d'oggi giorno non costituiscono nulla di nuovo
rispetto a quanto praticato molto prima dell'assetto faticosamente
raggiunto dall'Unione con il Trattato di Lisbona. Al tempo del
bipolarismo planetario, vale a dire dalla Guerra Fredda al crollo
dell'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (1946-1990), era
scontato che i partiti dei singoli Paesi cercassero legittimazione da
parte dei rispettivi alleati preponderanti. Ma quelli erano partiti
dalla lunga storia: anzi, come nel caso del Partito comunista italiano,
a lungo erano stati sezione italiana della Terza Internazionale, un
tentacolo di un polipo con la testa a Mosca. Anche dopo lo scioglimento
del Komintern, i partiti comunisti “occidentali” partecipavano ai
congressi della Magna Mater Frugorum, il Partito comunista dell'Unione
Sovietica (PCUS). I loro delegati vi pronunciavano discorsi,
condividevano propositi e ne tornavano con direttive. Accanto al
fiancheggiamento “alla luce del sole” ve n'era un altro, occulto,
talvolta con un piede e mezzo nell'illegalità, a copertura di reati
continuazione degli schieramenti operanti nella seconda guerra
mondiale. Gli Alleati (USA e Gran Bretagna) e URSS avevano lottato
insieme contro Germania, Italia, Giappone e loro satelliti, ma con
obiettivi ultimi del tutto divaricati. Il “sistema” sovietico aveva
mutato l'abito ma non il il fine. Negli stessi decenni
postbellici i partiti “occidentali” non comunisti dei Paesi europei non
furono altrettanto intrinseci dell'unico vero garante della loro
libertà, cioè gli Stati Uniti d'America, perché gli USA non erano (come
non sono) un regime di partito unico, volto all'asservimento
ideologico e pratico delle dirigenze dei paesi amici o vassalli. Per
rimanere al caso dell'Italia, socialdemocratici, repubblicani ispirati
da Randolfo Pacciardi, liberali e democristiani non ebbero referenti
diretti nei congressi dei Democratici e dei Repubblicani d'oltre
Atlantico, le cui dinamiche spesso rimasero impenetrabili per chi le
osservava con gli occhiali italocentrici. Il vero discrimine era
costituito dall'invito ad assistere all'insediamento dei Presidenti che
via via si susseguirono alla Casa Bianca. Rimane emblematico il caso di
Licio Gelli, invitato alla Casa Bianca sia da Carter che da
Reagan. Il caos istituzionale: capiparito o ministri? Lo Stato dov'è? Lo
sconcerto della caccia al partito amico Oltralpe da parte di quelli
italiani sta nella asimmetria fra le loro aspirazioni e la
configurazione dei poteri istituzionali. È paradossale che un
vicepresidente del consiglio (Salvini) visiti un Capo di Stato, quasi
ne fosse egli stesso presidente, a caccia di un'alleanza elettorale e
che un altro vicepresidente (Di Maio) offra aiuto a un movimento che da
mesi organizza manifestazioni caotiche contro il presidente di un Paese
amico senza valutare le motivate ritorsioni non contro il suo movimento
ma contro lo stesso Stato italiano e i suoi cittadini. La condotta di
Luigi Di Maio, del suo socio Davide Casaleggio e del ministro Toninelli
al Quai d'Orsay offre occasione per rinfacciarci la pugnalata alle
spalle del 10 giugno 1940. Oltralpe ancora una volta gli italiani si
mostrano inaffidabili, voltagabbana e persino aizzatori di rivolte di
piazza, il cui retroterra molti italioti disconoscono per colpevole
ignoranza. I Gilè gialli sono i discendenti diretti dei francesi che ad
Aigues Mortes ammazzarono a colpi di vanga decine di terrazzani
italiani che lavoravano per un magro salario e che negli Anni Sessanta
sabotavano l'esportazione di vini e agrumi dall'Italia. E' la “Francia
profonda” simile all'”Italia profonda” vogliosa di sprofondare nel
baratro della decrescita felice: l'autoerotismo di un Paese per secoli
succubo di dominazioni straniere. L'Europa che ancora non c'è Questo
accade perché l'Europa odierna non si è ancora ripresa dalla fine della
Guerra Fredda in cui si cullò per decenni. Ha assistito da spettatrice
allo spostamento verso est del sistema difensivo verso la Federazione
russa e non ha varato alcuna politica davvero unitaria di Stato:
estera, militare, economica, nei confronti della decolonizzazione e
delle guerre condotte di cui è stata essa stessa protagonista diretta o
indiretta nel Vicino, nel Medio Oriente e nell'Africa settentrionale,
con la promozione sconsiderata delle immaginarie “primavere arabe”,
nell'illusione che a cambiare il mondo bastassero un po' di
messaggi sui cellulari. Al momento l'Europa ancora non c'è. È nelle sue
smagliature che certi capitani di ventura paiono condottieri e persino
statisti... Quando l'integrazione effettiva dei Paesi dell'Unione
farà seri progressi sarà normale che tornino a esistere partiti
continentali, al momento assenti: un grosso guaio proprio alla vigilia
del rinnovo del Parlamento europeo con quell'elezione diretta che
dovrebbe dargli forza decisoria ma potrebbe invece condannarlo alla
paralisi. Siamo a un nuovo “diciannovismo”.
Cent'anni dopo, non esiste una accezione condivisa del termine. Per
alcuni esso indica la fase aurorale del movimento fascista, che si
propose come un nuovo “sol dell'avvenire”. Per altri esprime
l'inquietudine dominante l'Europa in cerca di pace. A distanza di un
secolo esso sintetizza l'incapacità delle Potenze vincitrici di voltar
pagina con gli spiriti bellicosi dominanti sino al tardo autunno
dell'anno precedente. Più che di vittorie militari gli armistizi del
novembre 1918 erano stati frutto del collasso degli Imperi Centrali. La
dissoluzione dell'Austria-Ungheria e la deflagrazione dell'Impero di
Germania sconvolsero tutti i piani di vittoria coltivati per anni
dall'Intesa. Con l'uscita di scena dell'impero russo, risultò evidente
l'assenza di un progetto politico-militare condiviso almeno da Francia
e Gran Bretagna, le uniche due potenze dell'Intesa ancora in lotta, ed
emerse la divaricazione tre queste e l'Italia, che non era propriamente
“alleata”, ma “associata”. Perciò il governo di Roma non venne messo al
corrente degli accordi via via elaborati da Parigi e da Londra sulle
future sorti future dell'impero turco-ottomano. Secondo il congresso
massonico di Parigi del 28-30 giugno 1917 la pace andava fondata su
quattro pilastri: la restituzione dell'Alsazia e della Lorena alla
Francia, la ricostituzione della Boemia (scomparsa nel 1620 con la
vittoria del Sacro romano imperatore sui Boemi nella battaglia della
Montagna Bianca: una guerra politica e religiosa), la rinascita della
Polonia (ove anche i tedeschi aveva ventilato la nascita di un “regno”
vassallo) e i plebisciti delle popolazioni per definire i confini delle
terre mistilingue. Non accadde allora, non esiste oggi. Né in Europa né
altrove. Di lì la crema catalana... E in Italia il caos Mentre
a Parigi le aspirazioni italiane al dominio sull'Adriatico cozzavano
con ostacoli crescenti, il Paese era squassato da crisi sempre più
gravi e incalzanti: anzitutto le ripercussioni dell’enorme
indebitamento dello Stato (schizzato a 14 miliardi di lire dell'epoca),
la svalutazione della moneta, il divario tra costo della vita e
stagnazione di salari e stipendi, la carenza di rifornimenti alimentari
mentre l'epidemia detta “spagnola” divampava, favorita anche dalla
denutrizione, la conversione della produzione bellica in civile, la
smobilitazione dell'esercito, a danno soprattutto di ufficiali,
sottufficiali e corpi di élite, come gli Arditi, meno facili da
restituire alla vita ordinaria... Il governo Orlando venne messo in
minoranza e si dimise pochi giorni prima della firma del Trattato di
pace a Versailles (28 giugno). Il nuovo ministero fu presieduto da
Francesco Saverio Nitti che, inviso a Inghilterra e Francia, annaspò.
Mentre i giornali badavano ossessivamente al Congresso di Parigi, lo
scenario politico interno mutò profondamente. Il 18 gennaio don Luigi
Sturzo fondò il Partito popolare italiano, primo partito “dei
cattolici”. Esso segnò la svolta. Dopo quindici anni di collaborazione
tra moderati, i cattolici vennero schierati contro i liberali. In gran
parte erano contro la monarchia, contro lo Stato sorto dal
Risorgimento. Egemonizzati da Giacinto Menotti Serrati, al
congresso di Bologna i socialisti si schierarono a favore della Terza
internazionale varata a Mosca da Lenin, Trotzky e Stalin. A loro volta
erano contro lo Stato, contro la monarchia. Su quanto avveniva in
Russia i socialisti avevano sempre avuto informazioni approssimative.
Nel gustoso saggio “I fantastici 4 vs Lenin. Una missione della
massoneria italiana nella Russia del 1917” (ed. Odoya) Riccardo
Mandelli ha narrato le comiche vicissitudini di Innocenzo Cappa, Arturo
Labriola, Giovanni Lerda e Orazio Raimondo mandati dal governo
Boselli-Sonnino in Russia, con la benedizione del ministro
dell'Interno, Orlando, per accattivare all'Italia le simpatie dei
rivoluzionari. Nessuno dei quattro capiva il russo. Tennero fluenti
discorsi e furono applauditi come eseguissero romanze di opere
liriche. Raimondo venne soprannominato Titta Ruffo, il celebre cantante
cognato di Giacomo Matteotti. Il massone Ferdinando Martini nel Diario
annotò: “In che lingua hanno parlato al popolo? In italiano? E chi li
ha capiti? E come, senza capire, applaudirono? Che se han parlato alla
colonia italiana, tanto valeva che rimanessero a Roma...”. Nitti inconcludente e Mussolini inesistente Il
23 marzo Mussolini fondò a Milano i Fasci di combattimento. Nulla a che
vedere con il fascismo del 1921, del 1922, del 1929… eccetera. Era un
punto su una lavagna della storia. Nitti mise a segno due catastrofi in
pochi mesi. In agosto pubblicò il 2° volume dell'“Inchiesta su
Caporetto”, l'opera più distruttiva dell'immagine dell'esercito mai
pubblicata in Italia. I militari che avevano fermato l'avanzata
austro-germanica nell'ottobre-dicembre del 1917 e avevano sconfitto
l'Impero asburgico a Vittorio Veneto ne uscirono malissimo. Poi varò la
nuova legge che ripartì i seggi alla Camera in proporzione ai voti
ottenuti dai partiti nelle circoscrizioni elettorali, a tutto vantaggio
dei partiti “di massa”, popolari e socialisti e ai danni di
costituzionali e democratici. Dalle lettere confidenziali consta che
neppure Giolitti previde appieno le conseguenze nefaste di quella
riforma. Il 12 ottobre pronunziò a Dronero il discorso che nel 1950
Palmiro Togliatti valutò come il più avanzato della borghesia, ma dalle
elezioni uscì battuto. E il Re? All'inaugurazione della
legislatura i socialisti uscirono dall'Aula di Montecitorio, appena
restaurata, cantando l'Internazionale e irridendo al sovrano. Era
il diciannovismo. Il primo dei quattro anni di caos che il 31 ottobre
1922 vennero chiusi con il governo di unità costituzionale presieduto
da Benito Mussolini. Il quale nelle elezioni del 16 novembre 1919
capeggiò una lista comprendente il protonazionalista Filippo Tommaso
Marinetti, il libero pensatore Guido Podrecca e Arturo Toscanini,
maestro di musica (sic!) e ottenne un risultato miserabile: nessun
seggio alla Camera. La Storia, però, era ancora tutta da scrivere.
Anzi, da fare. Con la ricerca di alleanze all'estero e pesanti
ingerenze straniere, come sempre accade quando i governi sono deboli.
In quel momento Mussolini era solo un puntino sulla lavagna…
Aldo A. Mola
1919: LA PACE PUNITIVA FORIERA DI GUERRA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 6 gennaio 2019, pagg. 1 e 11.
In cerca di Europa Europa
invertebrata? Europa all'ultima spiaggia? Di sicuro, se l'Unione nelle
elezioni del Parlamento europeo affondasse trascinerebbe tutti nel
gorgo. Tutti. Da Berlino a Seborga. È già accaduto. Per l'Europa (e non
solo per l'Unione, anche per quella che va sino agli Urali, o a
Vladivostok) l'elezione diretta del parlamento europeo è la prova
d'appello. Ogni suo cittadino ha il diritto-dovere di deciderne le
sorti. Libero di affondare o di dare un colpo di pinne per risalire
alla superficie della Storia. Non è tempo di propaganda. È l'ora di
scegliere “ex informata conscientia” sulla base, indispensabile, della
Memoria. Mai dimenticare che, con tutti i suoi limiti e difetti, questa
Europa, cresciuta lentamente dalla CECA al MEC e via progredendo, per
la prima volta dopo millenni ha garantito settantacinque anni di pace
almeno al suo interno. Sonnambuli e giocatori d'azzardo nel 1914... Il
centenario del Congresso per la pace (Parigi, 1919) dovrebbe aprire gli
occhi sui pericoli oggi incombenti: o più Europa oppure il caos, con
danni imprevedibili per ogni cittadino. La sicurezza si basa sui
sistemi informatici integrati di livello supremo. Lo spiegò bene, a
futura memoria, il Generale Claudio Graziano alla vigilia di congedarsi
dal Comando dello Stato Maggiore delle Forze Armate. Sembra un secolo
fa, se si esaminano le chiacchiere dilaganti sulla “sovranità”, ignare
che l'Italia perse la seconda guerra mondiale e non ha alcuna difesa
“autonoma”, né in cielo né in terra né in mare. Riflettiamo.
Cinque anni di studi sulla Grande Guerra (1914-1918) hanno riportato il
giudizio storiografico al punto di partenza. La conflagrazione esplose
come conflitto inizialmente circoscritto in un'Europa governata da
sonnambuli e da giocatori d'azzardo. Imperatori, re, presidenti di
repubbliche, diplomatici, militari, banchieri, grandi industriali,
filosofi, storici, artisti, dame più o meno virtuose..., tutti i
protagonisti di quell'immane convulsione a distanza di tempo risultano
accomunati dall'incapacità di prevedere le conseguenze delle proprie
azioni, a breve e a lungo termine. Si condussero da irresponsabili, con
alto tasso di infantilismo, senza un progetto né una via alternativa al
tunnel della guerra. Dall'estate 1914 le proposte di armistizi
e le trattative sottobanco furono più numerose delle sempre più
sanguinose battaglie (a volte di dieci mesi con un milione di morti
l'una), ma fallirono sempre. La guerra si alimentò da sé. La pace fu
messa all'angolo. Da quando la conflagrazione divenne Grande Guerra
mancò un vero piano per uscirne prima che degenerasse in catastrofe
generale, per vinti e vincitori. Anche Carlo I d'Asburgo (1887-1922,
nel 2004 proclamato beato da papa Giovanni Paolo II e bene
biografato da Roberto Coaloa) fu del tutto al di sotto della difficile
missione storica. Non avrebbe concesso all'Italia un metro di terra dei
suoi avi, in linea con Francesco Giuseppe “l'ottuso”. A svuotare
l'irredentismo italiano (talora facinoroso) sarebbe bastato concedere
una Università al di qua delle Alpi o almeno corsi in lingua italiana
Oltralpe e qualche autonomia: piccole cose, oggi ovvie. Invece niente
di niente. Il “No”, figlio dell'aridità di spirito, genera astio e e
provoca la rivolta. Ne profittarono tanti occhiuti mestatori. All'origine di tre guerre mondiali striscianti Nell'ottobre-novembre
1918, dopo la caduta dell'impero turco e della Bulgaria, anche Germania
e Austria-Ungheria collassarono. A quel punto, però, erano iniziate
altre tre guerre mondiali. La prima era quella dei bolscevichi di
Lenin, Trotsky e Stalin, giunti al potere in Russia e decisi a
scatenare la rivoluzione planetaria. In caso diverso, il “comunismo in
un solo paese” (come poi il bolscevismo si ridusse) era condannato
all'involuzione economica, militare, poliziesca e alla sconfitta
politica: poteva durare cinque o cinquant'anni ma era comunque
destinato a divorare i propri figli, come Saturno, e se stesso, sino
all'estinzione. La seconda grande guerra era l'imposizione all'Europa
della pax americana. Suo regista fu il presidente degli USA, Woodrow
Wilson. Inizialmente venerato quale profeta di sublimi ideali
(venne persino creduto massone, mentre era privo di dubbi e di spirito
critico), nel cilindro nascondeva il suo vero disegno: l'applicazione
all'intero pianeta della dottrina Monroe (l'America agli Americani,
cioè agli USA), poi insinuata come articolo 21 nei trattati di pace
imposti non solo ai vinti ma anche ai vincitori. I Quattordici punti
enunciati da Wilson l'8 gennaio 1918 quale manifesto della pace
nascondevano il progetto vero di Washington: spacciare l'immane
conflitto come “guerra di religione”, epilogo di una lotta “di civiltà”
dei buoni contro il militarismo teutonico, la brutalità tedesca, la
barbarie germanica. Tutti luoghi comuni predicati dal 1914 in Europa
per giustificare la guerra “sino alla vittoria finale” e
sollecitare l'intervento dei paesi che via via entrarono nella
biblica “fornace ardente” (fu il caso dell'Italia, nel maggio 1915). La
terza guerra planetaria iniziò tra il 1917 e il 1918, dalla “rivolta
araba”, intuita nella sua vera identità dal colonnello Thomas Edward
Lawrence (è salutare rileggerne le opere, a cominciare dai “Sette
pilastri della saggezza”), a quella in India, dall'Egitto, ove Allenby
faticò a trovare un punto di equilibrio, al sanguinosissimo conflitto
nippo-cinese, con l'avanzata dei giapponesi in Manciuria e in Mongolia
condotta con i metodi arcaici: violenze inenarrabili e stragi
spaventose (ne scrisse Mario Appelius, a torto demonizzato e
dimenticato). La delegazione italiana allo sbando Quello
scenario apocalittico non venne affatto compreso dalle delegazioni
raccolte al Castello di Versailles il 18 gennaio 1919 per
l'inaugurazione del Congresso di pace. Eppure esso doveva risultare
chiaro ai rappresentanti delle Grandi Potenze (USA, Gran Bretagna,
Francia e Italia, che vi partecipò col presidente del Consiglio,
Vittorio Emanuele Orlando, e il ministro degli esteri, Sidney Sonnino)
come ai loro alleati di seconda e terza fila. La precipua attenzione
dei congressisti andava invece alla fungaia di conflitti piccoli e
grandi in corso dappertutto. Mentre in Russia le armate bianche
tentavano la riscossa contro i bolscevichi dall'Ucraina all'Estremo
Oriente (anche con soccorsi di “occidentali”), truppe anglo-francesi
erano, ma inerti, a Murmansk: attaccare o non attaccare i “rossi”? o
continuare a usarli come minaccia verso la Germania o quali
spaventapasseri per dividere i socialisti “occidentali” tra
riformisti, massimalisti e filobolscevichi? La Germania e l'ex
impero asburgico erano nel caos, preda di insorgenze rivoluzionarie
(gli spartachisti di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht ne costituivano
solo uno spicchio) e di corpi franchi nazional-reazionari. Le armi
abbondavano, il sangue scorreva, molto prima che Hitler sintetizzasse
il tutto nello “Svastika”. Altrettanto accadeva nell'ex impero
austroungarico, collassato per la fame e per l'epifania dei
nazionalismi eterodiretti dal Grande Oriente di Francia, proteso a
“repubblicanizzare l'Europa”, come spiegato da François Fejto,
presidente dei Comitates pro libertatibus, in “Requiem per un impero
defunto”. Nell'intervallo tra l'armistizio italo-asburgico (3
novembre, con efficacia il 4: lo ricorda Giuseppe Novero nella succosa
biografia del generale Gazzera, ed. Rubbettino) e quello tra Germania e
Intesa (11 seguente), il 7 novembre venne proclamato il regno di
Jugoslavia, assegnato al “fratello” Pietro Karageorgevic di Serbia, con
Alessandro per reggente. Esso coronò il patto di Corfù tra serbi,
croati e sloveni, siglato all'indomani del Congresso di Parigi delle
massonerie dell'Intesa (in realtà solo la francese e, in parte, la
italiana: fraternamente litigiose) e dei paesi neutrali (28-30 giugno
1917). La nascita del nuovo stato non comportò affatto la stabilità dei
Balcani, per le fatali ripercussioni della revisione di tutti i confini
a vantaggio dei vincitori (Romania) e dei Paesi di nuovo conio
(Cecoslovacchia) ai danni dei vinti (Bulgaria, Ungheria, a tacere
dell'Austria ridotta a una grande testa, Vienna, con un corpicino
gracile). “Fiume o morte...” Lo Stato
jugoslavo fece anche da bastione contro le aspirazioni dell'Italia ad
aumentare il già pingue bottino di guerra garantitogli
dall'applicazione dell'accordo di Londra del 26 aprile 1915. Con
l'intervento l'Italia poteva ripromettersi tre scopi: l'annessione
delle terre italofone (quasi tutti identificavano la lingua con la
razza: termine, questo, oggi “politicamente scorretto” ma all'epoca
usuale in diplomazia e nel giornalismo); il conseguimento del confine
naturale (il crinale alpino dal Trentino a Monte Nevoso); il dominio
sull'Adriatico, fatalmente in contrasto con l'Austria-Ungheria (quali
fossero gli Stati successori dell'impero asburgico) e gli slavi del
sud. Le prime due opzioni erano in armonia con la visione
“risorgimentale” della guerra (sia mazziniano-garibaldina, sia
liberal-liberistica: gli Stati Uniti, o Federazione, d'Europa,
propugnata da Luigi Einaudi Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati). Era
anche quella di Luigi Cadorna, uno stratega dalla visione politica del
conflitto. La terza aveva invece ispirazione e valenza imperialistica:
comportava di rimanere in tensione permanente nei confronti dei vinti e
degli alleati, anglo-francesi e “americani”, contrari ad accettare che
l'Adriatico divenisse un lago italiano. A Parigi la delegazione
italiana (ampliata con ideologi, quale Salvatore Barzilai, e
“tecnici” come Silvio Crespi e Aldrovando Marescotti) si arroccò sulla
rivendicazione di Fiume in aggiunta al già corposo bottino previsto
dall'accordo di Londra e ne fece la posta irrinunciabile per l'adesione
di Roma al trattato di pace. All'inizio del Congresso Wilson aveva
proposto e imposto lo statuto della Lega delle Nazioni, del tutto
diversa rispetto alla Società delle Nazioni a suo tempo configurata nel
congresso massonico di Parigi del giugno 1917 e molto più esplicita
sull’autodeterminazione dei popoli: una vera e propria confutazione
degli obiettivi bellici delle Potenze europee vincitrici. La
delegazione italiana non trovò di meglio che abbandonare Parigi (24
aprile), ove gli altri congressisti, sollevati da intralci, decisero in
sua assenza i termini della pace “contro” la Germania e l'Austria.
Orlando e Sonnino dovettero quindi tornarvi di corsa (5 maggio) per non
sfigurare e compartecipare alle conclusioni dei lavori. L'esito
di quella serie di errori mise a nudo la pochezza politica del governo
italiano, fatta di piazzate e di grida unilaterali. Orlando (poi
ricordato quale “presidente della vittoria”) venne messo in minoranza e
costretto alle dimissioni. Il 23 giugno si insediò il primo governo
presieduto da Francesco Saverio Nitti, con i giolittiani Tommaso
Tittoni agli Esteri, Francesco Tedesco alle Finanze, i massoni Carlo
Schanzer al Tesoro e Alfredo Baccelli all'Istruzione, Achille Visocchi
all'Agricoltura, Dante Ferraris all'Industria e Cesare Nava alle Terre
Liberate. Il diktat di pace venne imposto alla delegazione
germanica cinque giorni dopo, il 28 giugno 1919: esattamente sei anni
dopo il mortale attentato all'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo,
assassinato a Sarajevo con la moglie, Sofia Chotec: la scintilla che
aveva incendiato l'Europa e il mondo. Motivo in più per domandarsi chi avesse armato la “Mano Nera”... La pace cartaginese Come
noto la “pace” ebbe una premessa ideologica del tutto estranea alla
tradizione millenaria dei conflitti tra Stati: l'addebito ai tedeschi
della “responsabilità della guerra”, un giudizio metastorico,
moralistico, “religioso”. Su quella base la Germania (che non era più
l'Impero di Guglielmo II Hohenzollern ma la speranzosa e vacillante
repubblica di Weimar) fu condannata a pagare le “riparazioni”: 269
miliardi di marchi oro, da saldare in 42 annualità. Essa venne privata
dell'Alsazia e della Lorena (restituite alla Francia cui erano state
sottratte a conclusione della guerra del 1870-1871), di Posnania,
Prussia orientale e Alta Slesia, assegnate alla Polonia, dello
Schleswig (che andò alla Danimarca) e di un territorio meridionale
assegnato alla Cecoslovacchia. Dovette cedere quanto rimaneva della
flotta, compresa gran parte di quella commerciale, macchinari e
materiali, nonché, particolarmente bruciante, la sovranità sulle vie
d'acqua continentali e sull'aria, mentre la sinistra del Reno fu
cautelativamente occupata dagli alleati per quindici anni. Si comprende
perché Goering, cresciuto nella pattuglia del Barone Rosso, non abbia
nutrito gratitudine per i vincitori. Francia e Gran Bretagna si
spartirono le più vaste colonie tedesche in Africa, come poi l'impero
turco-ottomano. Il Ruanda-Urundi andò al Belgio, che vi si condusse in
maniera miserabile, come in Congo. L'Australia ebbe le ex colonie
germaniche nella Nuova Guinea e le isole Bismarck; la Nuova Zelanda
ottenne le Samoa occidentali; il Giappone incorporò Marshall, Caroline,
Palau e le Marianne, che la Spagna aveva venduto a Berlino per smacco
contro gli USA che nel 1898 avevano alimentato la rivolta di Cuba e
delle Filippine contro Madrid. Rissa continua Il
Trattato di Versailles, una “pace cartaginese”, nutrita da spirito di
vendetta, fu alla base dei successivi vent'anni di “revisionismo” e
della seconda guerra europea destinata a divenire a sua volta mondiale
(1939-1945). Nel 1918-1919 alcuni riuscirono a non perdere la guerra;
tutti, però, persero la pace e continuarono a battersi come gli
energumeni dipinti da Francisco Goya in “La rissa a bastonate”
(1819-1823): con i piedi e le gambe affondate nel fango (quasi fossero
in una trincea), spossati, sanguinanti, con gli occhi sbarrati e
tuttavia incapaci di fermarsi. Belluini. Dopo essersele date
“di santa ir-ragione” nel maggio prossimo i cittadini dell'Unione
Europea sono chiamati a ragionare, lontani da neonazionalismi
devastanti, in quello spirito di progresso civile e di fratellanza tra
i popoli che caratterizzò il primo Novecento. Irridere la Belle Epoque
come età di ingenui “buoni sentimenti”, di fatuo pacifismo
umanitaristico (lo fece persino Benedetto Croce) vuol anche dire
chiudere gli occhi dinnanzi a quanto poi avvenne davvero: due guerre
mondiali (con almeno 70 milioni di morti tra militari e civili, malati
a parte), i totalitarismi e i loro campi di sterminio: olocausto non di
un solo popolo ma di una civiltà, come intravvide Oswald Spengler in
“Il Tramonto dell'Occidente”. Un'ultima considerazione s'impone: con
l' “arrangement” del 1915 il governo Salandra-Sonnino aveva ottenuto
dall'Intesa l'esclusione della Santa Sede dal Congresso della pace. Era
convinto di aver fatto il colpo grosso. A quel modo, invece, fece sì
che papa Benedetto XV, non rimase immischiato in trattati che
avvelenarono le acque e generarono i disastri dei decenni seguenti.
Eterogenesi dei fini. Metastoria: là dove regna lo Spirito.
Aldo A. Mola
LOTTA PER IL PRIMATO: DEGLI ITALIANI O SUGLI ITALIANI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 30 Dicembre 2018, pagg. 1 e 11.
Un “Contratto di governo” senza capo né coda Dopo
due anni di tarantola elettorale e mentre incombono sei mesi di lotte
accanite per le “Europee”, l'Italia ha ancora un Arbitro vero: il Capo
dello Stato, Sergio Mattarella, che quotidianamente garantisce l'unità
di un Paese dalle crepe sempre più profonde. Il suo ruolo è
fondamentale perché per la prima volta da 160 anni il paese ha un
governo privo di un “Progetto”. Lo si
sapeva dal maggio scorso; ma ora è chiaro anche a chi finse di non
vedere. Il governo dice e disdice sulla portata generale della
“manovra”, cioè la prevedibile legge annuale di bilancio, e su tanti
suoi aspetti, dal raddoppio dell'Ires a carico delle associazioni “no
profit” alle mance maleodoranti celate nei suoi articoli e commi, come
documentato dall'inchiesta condotta dal “Sole-24 Ore”. Nessuna
sorpresa. Basta rileggere la premessa del famoso Contratto per il
Cambiamento e confrontarla con la realtà. I “contraenti” vi
affermarono: “Intendiamo incrementare il processo decisionale in
Parlamento e la sua cooperazione con il Governo”. Si è visto come è
finita. È accaduto l'opposto, sino alla paradossale richiesta di voti
di fiducia per approvare il nulla; e poi su una legge di bilancio che
nessun parlamentare ha potuto leggere né meno ancora discutere e
approvare “articolo per articolo e con votazione finale”, come
richiesto dall'articolo 72 della Costituzione. Il Legislativo è stato
ripetutamente umiliato. I parlamentari conniventi ne porteranno la
responsabilità dinnanzi alla Storia. Sono divisi su tutto tranne che
nell'occupazione del potere e nell'assalto a ogni possibile fonte di
prebende per amici, parenti e benefattori. Vigilia di “regime”? C'era una volta il “Partito unico” Recentemente
alcuni si sono domandati se la crisi politica in corso abbia affinità
con quella che nel 1924-1925 segnò l'eclissi del liberalismo. Le
differenze tra l'oggi e quel passato sono molte e profonde. La
principale difformità è il terreno di confronto/scontro odierno tra
maggioranza di governo e opposizione. Anzitutto, nel 1925 l'esecutivo
era sorretto da un partito unico, nato con le elezioni del 6 marzo
1924, quando la Lista Nazionale (nota come “listone”, comprendente
fascionazionalisti, liberali, cattolici, democratici ed ex socialisti
in libera uscita) ottenne circa il 66% dei voti validi e due terzi dei
seggi. Il governo attuale, invece, è sorretto da due partiti diversi
per origini e programmi, aspramente contrapposti nella campagna
elettorale conclusa con le votazioni del 4 marzo 2018 e rimasti in
perpetuo dissenso proprio sull'attuazione del programma frettolosamente
abborracciato nel poco radioso maggio 2018: flat tax, reddito di
cittadinanza, pensione di cittadinanza, “migranti”... In secondo
luogo nel 1925 il governo aveva un Progetto enunciato in forma chiara.
Si basava su una “idea dell'Italia”, coltivata dai nazionalisti e da
questi innestata sul tronco del fascismo (movimento prima, partito
poi), radicalmente opposta a liberalismo, socialismo e democrazia. Quel
governo propugnò un programma discutibile e per molti versi persino
repellente ma coerente e organico: la restaurazione dello Stato dopo
anni di guerra civile strisciante e l'attuazione di un disegno
pedagogico, incardinato sul ripristino del “dovere”. Anche quel
“regime” risultò spesso un sepolcro imbiancato (parecchi gerarchi di
varia levatura predicavano bene e razzolavano male) e condusse infine
alla disfatta militare del Paese, da taluni vissuta come “morte della
Patria”: formula, invero, storicamente errata perché nel settembre
1943, sia pure “divisa in due”, l'Italia sopravvisse e imboccò la via
della ricostruzione). Ora i “contrattisti” sono due, divisi su tutto A
differenza di quanto è avvenuto in passato, i capisaldi del Contratto
per il governo del cambiamento non investono le Istituzioni configurate
dalla Costituzione. Essi sono di natura meramente economicistica e
sindacale. Si sintetizzano in trattamenti pensionistici, elemosine di
sopravvivenza e altre piccole partite. Il Contratto dà per scontata la
contrapposizione tra i due firmatari. Perciò prevede il famigerato
Comitato di conciliazione “per giungere ad un dialogo in caso di
conflitti”, mai formalmente istituito ma praticato nei fatti con le
ripetute riunioni di emergenza di presidente del Consiglio (sempre più
patetico), capo politico del M5S, segretario federale della Lega,
taluni ministri ed eventuali “uditori”, a imitazione del Gran Consiglio
del Fascismo, che a metà febbraio del 1923 (quando ancora non era
“costituzionalizzato”) “una tantum” convocò un “esperto di massoneria”,
famoso come menagramo. Proprio per la sua inconsistenza
progettuale, all'origine il Contratto non ha costituito motivo di
allarme in chi (industriali, banche, sindacati... spesso tardigradi) ha
ritenuto che prima o poi la retorica giallo-verde avrebbe fatto i conti
con la realtà, come appunto è avvenuto dopo mesi di logoranti polemiche
contro l'“Europa”. Altrettanto era accaduto quando, a regime fascista
ormai ben saldo e dinnanzi all'involuzione dalle libertà statutarie al
regime di partito unico lento pede Luigi Einaudi arrivò a deplorare “il
silenzio degli industriali”. La contesa economicistica
contiene però, sia pure sottotraccia, il progetto di modifica radicale
dei rapporti tra esecutivo e legislativo, a tutto vantaggio del primo:
quindi un disegno politico, di quando in quando enunciato e subito
celato, tipico di chi allunga il braccio e nasconde la mano.
L'obiettivo è il discredito del Parlamento con la violazione
sistematica di procedure che non sono affatto formalità ma sostanza
della repubblica parlamentare. Perciò dovrebbero suscitare
allarme la retorica giallo-verde contro la pluralità dell'informazione
e la drastica riduzione del sostegno finanziario italiano alla vita
dell'ONU, passata sotto completo silenzio nella comunicazione (per
disinformazione colpevole o sottovalutazione del suo implicito
messaggio: due volti di una stessa medaglia). Quel taglio, però, non è
affatto un dettaglio. Per l'Italia, infatti, l'ammissione
nell'Organizzazione delle Nazioni Unite nel 1955 significò la
certificazione della svolta politico-culturale del Paese, grazie alla
de-fascistizzazione (altra cosa dalla “epurazione”, ispirata da
faziosità e attuata con storture e iniquità). L'ingresso nell'ONU
conclamò il suo ritorno a un ruolo protagonistico nella promozione dei
diritti dell'uomo, a una missione civile dopo gli anni del nazionalismo
più bellicoso, completo di motti ottusi (“Noi tireremo diritto”, “chi
se ne frega” e simili: rivelativi della dissociazione dalla realtà che
l'11 dicembre 1941 condusse Mussolini a dichiarare guerra agli Stati
Uniti d'America). La seconda profonda differenza tra l'Italia
odierna rispetto a quanto avvenne nel 1924-1925 sta nella mancata
risposta culturale alla pochezza del Contratto giallo-verde e al suo
insanabile contrasto con i diritti sanciti dalla Costituzione. Vale
d'esempio il curioso “codice etico dei membri del Governo” in forza del
quale non possono far parte dell'Esecutivo quanti “appartengano
alla massoneria”, senz'alcuna spiegazione di merito e in violazione
della Carta costituzionale. Il “silenzio degli intellettuali” forse è
stato ispirato dalla previsione della precarietà del governo per le sue
contraddizioni interne e dal calcolo che non valga la pena discutere
questioni troppo alte (come la violazione dei diritti di libertà
associativa) dinnanzi a chi, dopotutto, mostra quotidianamente la sua
pochezza culturale. Però questa indulgenza o compiacenza è un errore o
più probabilmente la rinuncia all'antico “Primato morale e civile”.
Gli intellettuali fascisti Perciò
merita riflettere sul 1925, un anno di profonda cesura nella storia
d'Italia. Il 3 gennaio lo aprì Mussolini alla Camera. Il duce rivendicò
il ruolo politico del fascismo (una “rivoluzione”), sfidò il Parlamento
e incriminarlo per attentato e, contrariamente a quanto scrivono tanti
biografi di Vittorio Emanuele III (come Frédéric Le Moal), respinse
sdegnosamente ogni responsabilità nella morte di Giacomo Matteotti, il
cui elogio anzi pronunciò. La vittoria politica doveva però
assumere forma storico-filosofica. Occorreva segnare netto il solco tra
il prima e il poi, tra il fascismo e i suoi avversari, veri o
presunti. Aprì il fuoco il “Manifesto degli intellettuali
fascisti agli intellettuali di tutte le Nazioni”, scritto da Giovanni
Gentile quale sintesi del primo Convegno degli istituti fascisti di
cultura, organizzato a Bologna (29-30 marzo) da Franco Ciarlantini, ex
sindacalista rivoluzionario, interventista, iscritto al PNF appena dal
1° febbraio 1923. Il filosofo rivendicò al fascismo,
“movimento recente ed antico dello spirito italiano”, il ruolo di
depositario dell'“idea di Italia” e di profeta per tutte le altre
nazioni. “Politico e morale”, il fascismo aveva carattere “religioso”,
intransigente, opposto al “liberalismo agnostico e adbicatorio” (sic).
Era il partito dei giovani, nel solco di Giuseppe Mazzini, “fede
energica, violenta”, volta a “instaurare una nuova legge”. Gentile
liquidò sprezzantemente con formulette paleo-hegeliane la “piccola
opposizione al Fascismo, formata dai detriti del vecchio politicantismo
italiano: democratico, razionalistico, radicale, massonico”, destinata
a soccombere per la “legge storica che non ammette eccezioni”: il
trionfo del principio superiore sull'inferiore, del totale sul
parziale. Il Manifesto degli intellettuali fascisti venne
pubblicato il 21 aprile, sacro alla fondazione di Roma, una data laica,
anzi neopagana, scippata alla Terza Italia massonica, come il XX
settembre (ma solo fino al 1929). Il fascismo di Gentile non era ancora
quello del Concordato con la Chiesa. Perciò il suo “Manifesto” ebbe
l'adesione di personalità molto lontane dalle successive involuzioni
dell'ideologia fascista: Gabriele d'Annunzio, Salvatore Di
Giacomo, Curzio Malaparte, Filippo Tommaso Marinetti, Ferdinando
Marini, Salvatore Pincherle, Luigi Pirandello, Margherita Sarfatti,
Ardengo Soffici, Ugo Spirito, Giuseppe Ungaretti, Guido da Verona,
Giulio Aristide Sartorio: massoni, liberi pensatori e persino
perseguitati dal regime. E quelli antifascisti Pochi
giorni dopo Benedetto Croce accolse l'invito rivoltogli dal teosofo,
massone e leader liberaldemocratico Giovanni Amendola a “parlare” e a
“rispondere”. Promise un testo breve “per non fare dell'accademia e non
annoiare la gente”. In realtà, letto a distanza di tempo, il manifesto
degli intellettuali antifascisti pubblicato il 1° maggio seguente,
risulta prolisso e spesso involuto. Croce respinse l'insinuazione che
gli antifascisti rifiutassero “la doverosa sottomissione degli
individui al tutto”, ma rivendicò la “sollecitudine per la libertà,
forza e garanzia di ogni innalzamento”, il “possesso di una tradizione,
diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale o morale”.
Non nascose “il favore col quale venne accolto da molti liberali, nei
primi tempi, il movimento fascista” foriero di nuove e fresche energie
entrate nella vita politica, “forze di rinnovamento e (perché no?)
anche forze conservatrici”. In Senato egli aveva votato a favore del
governo anche dopo l' “affare Matteotti”. Il manifesto crociano fu
sottoscritto da Sibilla Aleramo, Piero Calamandrei, Guido De Ruggiero,
Gaetano De Sanctis, Luigi Einaudi, Guglielmo Ferrero, Arturo Labriola,
Giorgio Levi Della Vida, Eugenio Montale, Giuseppe Rensi, Gaetano
Salvemini, Adriano Tilgher e tanti esponenti del pluralismo “liberale”,
nelle sue diverse radici e tendenze. Il Capo di uno Stato in confusione E
il Re? Quale fu la sua posizione dinnanzi a quella lotta per il primato
culturale e civile in Italia? Sovrano di tutti gli i cittadini,
Vittorio Emanuele III non manifestò mai alcuna propensione per
l'“ideologia” del regime e le sue molteplici enunciazioni, sino a
quella “canonica” consegnata all' “Enciclopedia italiana”, ove ne venne
ribadita la concezione spiritualistica, etica, religiosa, ecc.,
l'avversione per il liberalismo, il socialismo, la democrazia, il culto
della “schiatta (non razza) storicamente perpetuantesi”. Era
consapevole che il fascismo non aveva avuto all'origine alcun progetto
culturale. La sua dottrina (come scrisse lo stesso Mussolini) era stata
l' “azione”, scaturita dalla “ganga delle contingenze”. Il sovrano non
si erse dunque ad arbitro della tenzone tra intellettuali (dalle
differenze spesso assai labili), né del contrasto tra la maggioranza di
governo e le opposizioni che disertarono l'Aula arroccandosi
sull'“Aventino”. A chi gli chiese di intervenire, e quindi di
esercitare poteri non riconosciutigli dallo Statuto, si limitò a
ricordare che i suoi occhi e le sue orecchie erano i due rami del
Parlamento. E furono questi ad approvare nel corso dell'anno leggi
sempre più liberticide: con clamori assordanti a Montecitorio, nel
silenzio o con poche astensioni al Senato, ancora in massima parte
a-fascista e persino potenzialmente anti-fascista, ma ormai prono. Lo
si vide con l'approvazione della legge sull'appartenenza dei pubblici
impiegati ad associazioni. Seguirono il 24 dicembre 1925 l'elevazione
del presidente del Consiglio a “Capo del governo”; il 31 dicembre
l'assoggettamento dei giornali al controllo governativo e, infine, il
conferimento al governo della facoltà di emanare decreti con valore di
legge (31 gennaio 1926). Furono le Camere a creare il regime, ad abdicare giorno dopo giorno alla rappresentazione del Paese. E oggi? Il “silenzio degli intellettuali” In
quell'Italia neppure gli antimussoliniani più intransigenti ritennero
di addebitare al Re un alto tradimento dello Stato, a differenza di
quanto avvenne nel maggio 2018 quando due capipartito da sponde
contrarie minacciarono l'incriminazione del Presidente della Repubblica
per attentato alla Costituzione perché colpevole, a loro giudizio, di
intralciare l'avvento del governo di loro predilezione. Ne derivò uno
sconcerto che però non prese corpo in alcun “Manifesto” né di
“intellettuali” né di costituzionalisti: segno dell'opacità dell'anno
che si chiude e cattivo presagio per quello venturo. Amare
sorprese potrebbero attendere il Paese, stremato dall'aumento delle
tasse, dalla contrazione dei redditi, dall'impoverimento dei risparmi e
dalla riduzione del potere d'acquisto di stipendi e salari, quando, in
coincidenza con l'elezione del Parlamento europeo, si svolgerà la fase
agonica della lotta tra i “contraenti” dello scorso maggio per il
primato sugli italiani anziché per quello dell'Italia nel quadro
dell'Unione Europea e delle democrazie parlamentari. È giocoforza prepararsi a un anno difficile.
Aldo A. Mola
GRANDI UOMINI PER GRANDI OPERE L'ITALIA DEI GOVERNI MENABREA (1868-1870)
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 23 Dicembre 2018, pagg. 1 e 11.
Intuire i secoli dei secoli Il
costo e i benefici delle Grandi Opere, quelle che scandiscono la storia
dell'umanità, non sono soggetti a calcoli spiccioli. Le Egregie Cose
nascono dall'utopia, da intuizioni profetiche, dalla metastoria. Sono
l'unica vera alternativa all'altra Grande Opera dello spirito
universale: le guerre lunghe, devastanti, apocalittiche, di cui
l'umanità fu e sempre sarà capace. Le due opposte Grandi Opere, la
Costruzione e la Distruzione, non si computano con le miopi lenti di
possibili profitti e perdite per qualche anno o per un paio di decenni,
ma in termini di libertà e progresso civile nei secoli dei secoli: il
contrario di stasi e arretramento, della “decrescita”, ideale
mortificante e avvilente ma niente affatto nuovo sotto la volta del
Cielo. L'alternativa Luce/Tenebre va ricordata in tempi, come gli
attuali, di piccoli uomini chiusi alle grandi idee. Va evocata mentre
si avvicina il 150° dell'inaugurazione del Canale di Suez, aperto
ufficialmente il 17 novembre 1869, ma solcato la prima volta il 17
febbraio 1867: un Segnale passato sotto silenzio in un Paese sempre più
“provinciale” qual è l'Italia odierna. La Vera Luce arriva da
Oriente, ma è l'Occidente che la riceve e la riflette. Ne è esempio la
Natività. L'“Evento” avvenne all'incontro tra Asia, Mediterraneo e
Africa: un Triangolo perfetto. E dall'Estremo Oriente dell'epoca si
misero in cammino i Magi, alla ricerca della Rivelazione, che poi migrò
ad Atene e a Roma e solo lì, al centro del mondo, nell'Urbe dei Consoli
e dei Cesari (oggi in piena decadenza), divenne Istituzione perpetua. Quell“Evento”
è mònito per la grigia vicenda di genti inconsapevoli delle loro
fortune. La quotidianità sopraffà lo Spirito, che (insegna Giovanni
Evangelista, al quale è sacro il 27 dicembre) “soffia dove vuole”. Nel
Paese Italia oggi prevalgono foschie e confusione. Domina il
chiasso. Si divarica come non mai l'abisso tra cittadini e loro
rappresentanti “pro tempore”, parlamentari “per caso”, mentre il
Parlamento viene espropriato dei suoi diritti e doveri, enunciati dalla
Carta costituzionale. Che cosa si vuole? L'azzeramento delle Camere
come vaticinato da Casaleggio e &. La Lega è d'accordo? E' l'ora
della verità. Per meglio comprendere la torsione della
storia d'Italia oggi in atto giova il raffronto con l'Italia di 150
orsono. Con una premessa: nel 2011 venne festeggiata l'Unità d'Italia.
Storicamente non era esatto, perché l'Italia del 1861 mancava di
Venezia, Roma, Trento, Trieste e di tante altre terre, solo in parte
rivendicate e recuperate. Però era necessario far quadrato attorno
all'Idea d'Italia mentre troppi scalmanati e grulli rinnegavano il
tricolore, chiedevano la “secessione” e sognavano alleanze con chissà
quali feudi medievali. Scatenavano contro l'Europa la guerriglia della
Mucca Carolina e investivano in diamanti. Accadeva anche in Francia,
molti decenni prima dei gilè gialli. L'Europa era ancora in gran parte
da fare. Lo è tuttora. Ma non la si costruisce tenendo un piede nelle
Istituzioni e uno nell’incitazione contro tutto, “a prescindere”. I quadrupedi di lotta e di governo Se
poi i piedi divengono quattro e chi dovrebbe guidarli non sa più se
averli a destra o a sinistra il cammino diviene davvero difficile: il
quadrumane degrada a quadrupede. Mentre però i quadrupedi per natura
sanno bene come usare le loro articolazioni, tanti ministri odierni
stanno ancora apprendendo le regole elementari della democrazia
parlamentare. Nell'attesa, usano la legge della giungla: balzano da uno
all'altro ramo lanciando grida contro la Commissione Europea e i suoi
organi, la Bce, il Fondo monetario internazionale e i leggendari
“Poteri Forti”, o magari persino “Poteri Occulti”, che poi sono
sotto gli occhi di tutti 24 ore su 24: sono gli “Affari”. Non sono
Logge, men che meno Segrete; non sono la Trilaterale, Bildenberg et
similia. Gli Affari sono potenti perché sono anche pulviscolari, come
il danaro, le proprietà, le confessioni religiose. Hanno alcuni registi
(che viene da Rex), ma soprattutto una moltitudini di seguaci. Più
vasta è la loro platea, più vi affluiscono seguaci e fedeli. Un tempo
accadeva con la “chiamata alle armi” da parte dei Feudatari. Poi
avvenne con gli Stati sovrani. Ora sono i “social” a suonare la
“generala”; e sempre più lo saranno in futuro. A confronto della loro
forza suasoria non c'è sovranismo che tenga. Non certo in un Paese
frammentato, nel quale troppi “politici” esibiscono impudicamente
memorie domestiche e acrimonie partitiche, vera e propria
“profanazione”. Bruno Vespa e la costruzione dello Stato: sacrifici, si, ma per tutti Perciò
può consolare il raffronto tra questa e l'Italia di 150 anni orsono.
Come detto, non era l'Italia sognata da due generazioni di patrioti
morti sui patiboli, condannati a decenni di carcere, costretti
all'esilio e a vita in condizioni estreme. Però era un Regno, anzi “il”
Regno d'Italia, con tutti i suoi affanni e i divari secolari. Lo
documenta con ritmo incalzante Bruno Vespa in “Rivoluzione”
(RaiLibri-Mondadori), che insegna molto più di quanto lasci trasparire
il sottotitolo. Infatti vi ricorre costante il raffronto tra la
(supposta) Terza Repubblica odierna e il retroterra (molto meglio che
“retroscena”) del Risorgimento, dell'unificazione, del difficile
esordio dell’Italia nella Comunità internazionale, con la
partecipazione alla conferenza diplomatica di Londra nell'aprile 1867,
ben sei anni dopo l'annuncio della sua esistenza. Dalle
“leggi Siccardi” varate nel regno di Sardegna nel 1849 e dalla “legge
Sella” 21 agosto 1862, n. 794 la confisca dei beni ecclesiastici
costituì uno dei due pilastri portanti dell'assetto finanziario dello
Stato. L'altro fu la fiscalità tanto spietata quanto necessaria per dar
carne allo scheletro della Nuova Italia. L'hanno documentato storici
liberali quali Guido Pescosolido e Gianni Marongiu. A sua volta
Gianpaolo Romanato, membro della Pontificia commissione di scienze
storiche, ha ripercorso il cammino concluso con la legge 7 luglio 1866,
n. 3036 varata dal governo prima che fosse esaminata dal Senato, in
virtù dei poteri speciali derivanti dallo stato di guerra contro
l'Impero d'Austria (che all'Italia fruttò Venezia). Essa determinò il
gigantesco trasferimento di beni immobili, mobili e artistici (archivi,
libri...) dai loro proprietari alla “mano pubblica”. Dalla requisizione
furono esenti solo le abbazie di Montecassino, Cava dei Tirreni, San
Martino della Scala, Monreale e la Certosa di Pavia, “distinte per
monumentale importanza”. La legge 15 agosto 1867, n. 3848 applicò
un'imposta straordinaria del 30% a tutte le proprietà ecclesiastiche,
mettendo alle corde una quantità impressionante di opere di carità,
condannate a morte senza alcun riguardo per quanti ne traevano
sussistenza. Non stupisce che nel dicembre 1868, giusto 150 anni
addietro, un parroco abbia pubblicamente predicato che gli acquirenti
dei beni ex ecclesiastici erano ipso facto scomunicati e condannati
alle fiamme dell'Inferno. Due anni prima della “debellatio” dello
Stato Pontificio (20 settembre 1870) il conflitto Stato-Chiesa era
ormai irreversibile. Il Parlamento si limitava a “registrare” le
decisioni del governo. Quando si radunò per vagliarne gli ultimi
provvedimenti dell'anno, il regio Senato (la cui storia rimane ancora
da scrivere) contò appena 15 presenti, ma la seduta fu valida. Dal generale Menabrea alla lesina di Quintino Sella Dal
27 ottobre presidente del Consiglio era il generale Luigi Federico
Menabrea (Chambéry, 1809-1896), un savoiardo d'acciaio, che aveva
seguito il “suo” Re, come fecero i Pelloux. All'Interno ebbe ministri
il cavouriano Carlo Cadorna e il trentenne Antonio Starrabba di Rudimì,
che nel 1866 da sindaco di Palermo aveva duramente represso
un'insurrezione repubblicana proprio mentre l'Italia era in guerra
contro l'Austria. Di lui si disse che era un “infant prodige”, ma poi
il prodigio passò e rimase l'infante. I governi Menabrea, oggi
dimenticati, tolsero le castagne dal fuoco a quello, subito seguente,
di Giovanni Lanza con Quintino Sella alle Finanze, Visconti Venosta
agli esteri e alla Guerra l'astigiano Giuseppe Govone (1825-1872),
impazzito “a servizio dello Stato” (come ricorda Franco Contaretti
nella bella biografia scritta per il Centro Studi Piemontesi) e
sostituito il 7 settembre 1870 da Cesare Ricotti, uno dei grandi
artefici dell'Esercito italiano. Quei governi imposero la tassa sulla
macinazione delle farine, strenuamente propugnata da Quintino Sella e
sorretta dall'imposizione ai mugnai dei contatori meccanici, volti a
impedire che favorissero l'evasione fiscale, e l'aumento di quella sul
sale. Tasse “sulla fame”, in un Paese, però, fondato su una classe
dirigente impegnata nella politica della lesina, con tagli severissimi
di ogni spreco e persino sulla riduzione della lista civile del Re,
proprio nell'anno delle nozze di Umberto, principe ereditario con la
cugina germana, Margherita di Savoia (grazie a speciale dispensa
papale) celebrate solennemente nel Duomo di Torino. Circolò
una caricatura di onorificenza sabauda, una sorta di croce càtara, sui
cui bracci erano scritte le quattro piaghe del giovane Regno d'Italia:
“Imposte, Debiti, Brigantaggio, Questione Romana”. Suez. Il “Canale dell'Avvenir...” Però
quell'Italia non era ripiegata su se stessa. Aveva antenne dritte sulla
svolta in atto nel commercio mondiale con l'apertura del Canale di
Suez, ispirato da Prosper Enfantin, discepolo dal socialista utopista
Saint-Simon, “disegnato” dal trentino Luigi Negrelli e condotto in buon
porto da Ferdinand de Lesseps, il cui padre (come ricorda Yves
Hivert-Messeca) era stato venerabile di una loggia “ellenica”, quasi un
ponte gettato tra l'Europa dei Lumi e il mondo islamico, senza il cui
consenso il “taglio” dell'istmo” non sarebbe stato possibile. L'impresa
(ne riparleremo debitamente) fu possibile grazie alla genialità di
Pietro Paleocapa, stratega della rete ferroviaria del regno di Sardegna
e capofila della splendida trama degli ingegneri ferroviari presenti in
entrambi i rami del Parlamento, grazie ai quali il “Piemonte” si
candidò a guidare l'unificazione nazionale. Tra i suoi cardini ne va
ricordata l'ispirazione metastorica: al Canale non fu assicurata la
“neutralità”, che è sempre revocabile, ma la assoluta libertà di
navigazione per tutti i Paesi e sempre, anche se contingentemente in
guerra tra loro. Quello di Suez fu il vero “Sol dell'Avvenir”: un
canale navigabile che accorciò le distanze tra i continenti, le merci,
le Idee. A volerlo fu l'Utopia o, se si preferisce una visione meno
profetica (quella dei costi-benefici...), il patto lungimirante
dell'Europa continentale, dalla Francia all'Austria di Metternich
(personalmente favorevole alla sua realizzazione), passando per il
regno sabaudo, detto di Sardegna ma di fatto liguro-piemontese.
Fu un disegno acremente avversato dalla Gran Bretagna dell'epoca,
giunta persino ad asserire che il Canale avrebbe addirittura diffuso la
malaria... Da quell'Italia, da quell'Europa di grandi uomini per Grandi
Opere, molto vi è da apprendere anche oggi.
Aldo A. Mola
VITTORIO EMANUELE III UN ENIGMA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 16 Dicembre 2018, pagg. 1 e 11.
La sacralità della Corona Ferrea La monarchia
in Italia è antichissima. Numa Pompilio, secondo Re di Roma, al potere
politico-militare, incarnato e affermato da Romolo, sul modello dei
lucumoni etruschi aggiunse il “sacerdozio”, che non è complemento
secondario e variabile ma sostanza stessa della regalità, rappresentata
da una simbologia sempre più elaborata e arcana. Dalle macerie
dell'Impero romano, i cui titolari non cinsero il capo con corone
metalliche ma semmai con l'infula sacerdotale, in Italia la regalità
prese corpo nella Corona Ferrea, forma definitiva di sacralità. Essa
indicò che non vi può essere “imperium” senza riferimento alla
Rivelazione e allo “scandalo della Croce”, dalla quale, secondo la
leggenda consolidata, proviene il chiodo che ne salda le piastre (otto
all'origine, numero sacro, ridotte a sei dopo un furto, tenute insieme
da un anello d'argento). Per secoli l'Italia non ebbe un “suo” re,
perché essa era la terra giustificativa dell'Impero universale, fondato
sulla delega del potere temporale da parte del successore di Pietro e
Vicario di Cristo. Per entrare nella pienezza delle funzioni gli eredi
di Carlo Magno dovevano ottenere l'incoronazione pontificia, a Roma,
che suggellava le due precedenti: l'assunzione della corona di
Germania e di quella d'Italia. Per rivendicare la propria effimera
sovranità l'episcopicida Arduino, marchese di Ivrea, calcò sul capo la
Corona Ferrea. Sulla sua scia fecero altrettanto Corrado II, Corrado
III, Federico Barbarossa e suo figlio, Enrico VI, quando sposò la
normanna Costanza d'Altavilla, saldando insieme l'Italia settentrionale
e il Mezzogiorno, antico sogno del sassone Ottone III, che mirò al
ricongiungimento tra la prima e la seconda Roma, bastione contro la
sempre devastante avanzata islamica nel Mediterraneo e nell'Italia
stessa. La frattura con la Riforma luterana Con
la Riforma luterana d'inizio Cinquecento l'unitarietà dell'Impero,
ribadita nei secoli anche da avversari strenui dei papi, quali il
Barbarossa e suo nipote, Federico II, “stupor mundi”, fu infranta sul
terreno religioso, prima che su quello politico-militare. A differenza
dei principi luterani, proprio per la loro peculiarità teologica gli
evangelici (valdesi prima, metodisti poi e loro molteplici varianti)
non assunsero peso temporale rilevante. Da metà Cinquecento, invece, la
lacerazione dell'unità cristiana (già segnata dal grande scisma tra
Papato di Roma e chiesa d'Oriente, da Costantinopoli traslata a Mosca,
Terza Roma) fu codificata nel principio “cujus regio, eius et religio”:
rifiuto categorico di riconoscere il primato universale del Pontefice
di Roma. È paradossale, e al tempo stesso evoca la metastoria, che la
perdurante frattura si sia verificata proprio quando l'Europa stava
unificando il pianeta con le grandi esplorazioni e quasi in coincidenza
con la prima circumnavigazione del globo, gloria indiscutibile della
cristianità occidentale, propriamente della Chiesa cattolica, come
conferma l'impegno di papa Alessandro VI Borgia nella composizione
della contesa tra Madrid e Lisbona sull'America meridionale, con
lo spostamento della “raya”, conciliante i due imperi coloniali. L'esclusione
del primato universale del pontefice romano fu definitivamente
evidenziata nel corso della guerra dei Trent'anni: un conflitto tra
potenze, regolato infine da calcoli puramente politico-militari nella
laboriosa pace di Westfalia (1648). Il Sacro romano impero sopravvisse
ancora ma solo nominalmente, come un tronco ridotto a mera scorza,
privo di linfa vitale. Esso si protrasse da una all'altra mediazione
sino alla Guerra dei Sette anni (1756-1763), che assunse i caratteri di
guerra mondiale, quanto meno per il coinvolgimento e la nuova
spartizione degli spazi extraeuropei tra Francia e Gran Bretagna,
dall'India alle colonie nell'America settentrionale. Da quel conflitto
emerse il ruolo del regno di Prussia, antitetico all'Impero.
Destabilizzante sotto il profilo politico-militare, Federico II il
Grande, iniziato all'Arte Reale, fu invece costruttore sul piano
culturale. A differenza di quanto era accaduto nella prima
metà del Settecento, quando le tre guerre di successione ne sconvolsero
ripetutamente l'assetto politico con una ridda di assegnazioni delle
sue terre ora agli Asburgo, ora ai Borbone, l'Italia rimase estranea a
quella guerra. I “sovrani” dei suoi Stati di terraferma
continuavano a derivare il loro potere direttamente o indirettamente
dall'imperatore. Valeva per la Casa di Savoia, “re di Sardegna”, e per
il Borbone, re di Sicilia e di Napoli, in funzione vicaria del sovrano
di Spagna. Vale d'esempio Carlo, il migliore tra i Borbone del
Mezzogiorno, che fu Carlo VII di Napoli sino al 1759, poi III di
Spagna. Napoleone Re d'Italia... In
Italia la regalità tornò nelle forme compiute con l'incoronazione di
Napoleone I, imperatore dei Francesi, a Milano il 26 maggio 1805. La
Francia aveva annesso il Piemonte, XXVII Divisione dell'Impero, e
continuò ad inglobarne la “terraferma”. Lasciò la Sicilia a Ferdinando
IV, sotto tutela inglese, e la Sardegna a Vittorio Emanuele I (dopo
l'abdicazione di Carlo Emanuele IV, che optò per la pratica
devozionale, professata in Roma ove è sepolto). Napoleone si incoronò
sovrano del regno d'Italia (il Lombardo-Veneto e l'Emilia-Romagna),
affidato al figlio adottivo Eugenio di Beauharnais quale viceré. Nel
cingere simbolicamente la Corona Ferrea, recata da quello di Monza al
Duomo di Milano, presente l'arcivescovo Caprara, disse precisamente:
“Dio me l'ha data, guai a chi la tocca”, mònito non verso chi
insidiasse la sua persona ma la Corona stessa. La sontuosissima
cerimonia, studiata nei minimi dettagli, si sostanziò nella
consacrazione della nuova entità statuale. Nessun altro potentato
italiano dell'età napoleonica poté vantare altrettanto. L'istituzione
del regno d'Italia (sussunto nell'Impero) fu la risposta al triennio
repubblicano (o “giacobino”) di fine Settecento e, al tempo stesso,
l’estrinsecazione del rapporto di subordinazione temporale del
pontefice, già evidenziata nel “sacre” di Notre Dame. L'Uomo Nuovo,
rappresentato nella statua di Napoleone plasmata da Antonio
Canova, era anche il nuovo l'Ordine, la risposta dei Codici alla
sovversione. Il progetto filosofico si completò con la “debellatio” del
Sacro Romano Impero: Francesco II retrocesse a imperatore d'Austria. La
guerra dei simboli sormonta quella delle armi. In Europa non potevano
esistere due imperi, tanto più che da Oriente s'affacciava la Terza
Roma, incarnata da Alessandro I Romanov, Cesare di Russia. … e il passaggio del “testimone” da Carlo Alberto a Vittorio Emanuele II Il
retaggio ultimo di quella breve convulsa stagione fu il dono della
spada di Napoleone a Vittorio Emanuele, duca di Savoia, da parte di
Alessandro Saluzzo di Monesiglio, l'autore della Histoire militaire du
Piémont, apologia del ruolo delle Armi quali caposaldo del Paese e dei
suoi “popoli”: destino o fortuna, cioè sfida storica perpetua. La spada
napoleonica lampeggiò nei cieli della Storia come risposta
all'incoronazione di Ferdinando d'Asburgo, che a sua volta volle
cingere la Corona Ferrea, rivendicandosi successore di Carlo V che
l'aveva calcata a Bologna nel 1530, officiante papa Clemente VII de
Medici. Nel 1861, dopo due guerre per l'indipendenza dall'Austria e
per l'unificazione nazionale, nacque il Regno d'Italia: autocefalico.
Non ebbe alcuna “investitura” imperiale, nessun viatico dall'esterno.
Come a suo tempo indicato dal pensoso Carlo Alberto, l'Italia fece da
sé. La sua sacralità fu sintetizzata dalla legge (votata il 14 marzo e
pubblicata il 17, domenica, nel n. 1 della “Gazzetta ufficiale” del
regno), in forza della quale Vittorio Emanuele II assunse il titolo di
Re d'Italia, e dalla proclamazione di Roma capitale d'Italia (27
marzo). Come da Statuto, il re tale era “per grazia di Dio”. In forza
della legge del 17 aprile avrebbe intestato gli Atti di governo con la
formula “Re per grazia di Dio e volontà della nazione”: conciliazione
fra Legittimità e Rivoluzione, Ordine Nuovo. Nel 1848-1849 in Italia
non esisteva alcun regno autenticamente e pienamente sovrano se non
quello sabaudo. Per scrollarsi di dosso ogni ipoteca del passato, Carlo
Alberto (già conte dell'Impero napoleonico e tormentato dalla
riflessione sul proprio Destino) aveva motu proprio abdicato al rango
di vicario dell'Impero (vanto plurisecolare della Casa) anche perché
quell'Impero non esisteva più. Il vicariato era ormai un orpello. Fu la
premessa per la candidatura alla sovranità nazionale, implicita nella
scelta del tricolore italiano (marzo 1848) al posto della bandiera
azzurra (indicata dallo Statuto) e di altri gesti tanto sommessi quando
lungimiranti. Negli anni seguenti il neonato Regno d'Italia fu
troppo impegnato fra insorgenze interne (il grande brigantaggio nel
Mezzogiorno, la malavita dilagante nelle Romagne, la criminalità
diffusa in tutte le regioni...) e guerre generali (1866, 1870-71) per
dedicarsi a esplicitare la sua missione. Occorreva anzitutto
“amministrare”, unificare i codici (1865), allestire esercito e marina,
avviare un sistema fiscale in armonia con le urgenze di uno Stato
costretto al corso forzoso della moneta cartacea e all'imposta sulle
farine, tassa sulla fame, indispensabile per dotare lo Stato del minimo
necessario per fronteggiare le urgenze di un Paese dalle profonde
disuguaglianze: dalla rete ferro-stradale alle aule scolastiche, dalle
caserme agli ospedali. Occorreva provvedere anzitutto ai “corpi”,
senza però dimenticare l'“anima” del nuovo Stato: la convalida
dell'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi. Umberto I
(1878-1900) fu a sua volta troppo assorbito dai venti di guerra, dalle
tempeste rivoluzionarie e dagli attentati “anarchici” (orchestrati da
un'unica regia) serpeggianti in Europa per potersi dedicare a fondo
alla costruzione dell'Idea di Italia. Nondimeno i Palazzi del potere
edificati a Roma dopo il 1870 come nelle principali città del Regno
parlarono un'unica lingua, quella della Terza Italia. Vittorio Emanuele III: autocefalia del Re d'Italia Col
regicidio del 29 luglio 1900 venne l'ora di Vittorio Emanuele, principe
di Napoli, nato da Umberto I e la cugina prima Margherita: quasi
endogamia sacra, segno dell'isolamento del regno e al tempo stesso sua
massima capacità di autorappresentazione. Come già per il funerale di
Vittorio Emanuele II, anche per quello di Umberto I venne recata in
corteggio la Corona Ferrea. Anzi, ne venne forgiata la copia in bronzo
per il monumento funebre nel Pantheon, dirimpetto a quello del Padre
della Patria. Il trentunenne terzo Re d'Italia comprese in un
corpo minuto, persino infelice, un patrimonio filosofico, storico e
morale immenso. Forse era proprio necessario il suo strazio fisico per
sublimare la Monarchia in Italia. Taciturno, refrattario a ogni gesto
superfluo, fu un enigma nell'enigma. Se la Corona era autocefalica,
egli sommò le spinte disparate dei due secoli, sintetizzati nella
formula “Viva l'Italia! Ora più che poi!!” ricorrente nell'“Itinerario
generale dopo il 1° giugno 1896” manoscritto nel raccoglimento di
Alessandria d'Egitto. Lo aveva capito bene Giosue Carducci. Erano
stati mazziniani e garibaldini a sospingere i Savoia da Torino a Roma.
Perciò proprio a loro, più che ad altri, toccava far quadrato attorno
alla Corona. Se Carlo Alberto (scrisse poi Giovanni Pascoli) era stato
il “Re dei Carbonari”, il nuovo sovrano era di tutti gli italiani.
Senza più bisogno di “sette segrete”. Lo dichiarò Vittorio Emanuele
stesso nel discorso della Corona (ripubblicato da Tito Lucrezio Rizzo
in “Parla il Capo dello Stato”, ed. Gangemi), quando giurò fedeltà allo
Statuto: l'Atto previsto dall'art. 22 del “patto irrevocabile” tra il
sovrano e i regnicoli, promulgato motu proprio dal Re. Lo sentì appieno
il “buzzurro” Giovanni Giolitti che nelle pause del lavoro al ministero
delle Finanze (con Marco Minghetti e Quintino Sella) andava a
passeggiare nel Foro romano, con in tasca la Divina commedia di Dante,
per avvolgersi nel senso profondo dello Stato nuovo. Vittorio
Emanuele III assecondò i corpi e cementò gli spiriti. Leggeva e
annotava tutte le novità storico-politiche e letterarie, in specie
quelle estere per cogliere i venti nuovi. Non gli sfuggirono
l'“Inchiesta sulla monarchia” di Charles Maurras, né i saggi di Enrico
Corradini (sottolineati e annotati a margine) e di Luigi Federzoni,
figlio di un carducciano. Il suo apparente grigiore era la luce
possibile in un Paese che solo nel 1911 festeggiò il primo
cinquantenario di storia unitaria e aveva nemici implacabili
all'interno e all'estero. Dalle sue prime apparizioni in pubblico il
sovrano parve enigmatico. Ascoltava. Parlava di rado. Comunicava con i
fatti: la presenza alle grandi manovre, al varo di navi,
all'inaugurazione di congressi di storia e di mostre d'arte e una
miriade di gesti come il dono della lastra di alabastro per il mausoleo
di Galla Placidia a Ravenna. Da un anno, poco prima del 70° della
sua morte (28 dicembre 1947), la salma di Vittorio Emanuele III è stata
traslata dalla chiesa di Santa Caterina in Alessandria d'Egitto nel
solenne Santuario-Basilica di Vicoforte. Vi arrivò due giorni dopo
quella della Consorte, la Regina Elena, giuntavi da Montpellier, ove
era sepolta dalla morte (28 novembre 1952). Le due arche sovrastanti
gli avelli recano incisa la Stella d''Italia: quale luce irradia? Dopo
le molte e a volte pregevoli sue biografie (Bertoldi, Bracalini,
Argenteri e altri) forse tempo è venuto di auscultarne la
filosofia politica, di sondarne il messaggio complessivo, di andare
oltre le cronache e cogliere la sua lunga opera di affermazione
dell'Idea di Italia lungo mezzo secolo di regno, sintetizzato nello
Scudo sabaudo, la “bianca croce di Savoia” cantata da Giosue Carducci.
Aldo A. Mola
70 ANNI DI “DIRITTI UMANI” (IN ATTESA DEI “DOVERI FUTURI”)
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 9 Dicembre 2018, pagg. 1 e 11.
I Diritti umani: settantenni di belle speranze Appena
settantenne la Dichiarazione universale dei diritti umani da molti è
considerata decrepita. Da scordare. Perciò il suo compleanno scivola
via senza eco soverchia. Eppure non è affatto “anziana”. “Diversamente
giovane”, essa ha generato molteplici Carte e Convenzioni e ha ispirato
e anima una miriade di “rivendicazioni” che ancora attendono
riconoscimenti da parte dell'Assemblea delle Nazioni Unite o almeno da
Unioni di Stati, a cominciare da quella europea, ferma al Trattato di
Lisbona. A quanti (sempre più numerosi, purtroppo) sbuffano appena
sentono accennare a “diritti umani” va rivolta una domanda semplice:
senza di essi l'umanità starebbe forse meglio? Tra altri, la
Dichiarazione include anche il diritto al dissenso e a sbuffare, di
dire e di far prevalere la propria opinione, ma nel confronto
razionale, senza urla né insulti. Con il libero voto, perché senza il
loro esercizio i diritti rimarrebbero parole al vento, retorica. La
seconda domanda è: ma chi propiziò l'avvento dei “diritti umani”, quale
“cultura” ne generò l'avvento? Al di fuori di ogni apologia, essi
albeggiarono con la Massoneria moderna, catena fraterna di uomini
liberi e di buoni costumi. Per millenni l'umanità visse di doveri, di
obblighi, precetti..., succuba di poteri politici e religiosi. I pochi
dissenzienti dell'età greco-romana (Epicuro e Lucrezio) ebbero e ancora
hanno pessima fama. Furono liquidati come predicatori di un naturalismo
bollato come degrado bestiale. All'opposto, essi proposero di
fondare la libertà personale sulla ragione, al di fuori di incubi
artificiosi, della manipolazione delle coscienze. In punta di piedi
Marco Tullio Cicerone, che traghettò a Roma il pensiero greco,
riconobbe che la legge è “ratio summa, insita in natura”. Non ebbe
fortuna. Fu assassinato per motivi politici. La sua testa, mozzata dal
busto, venne recata lugubre trofeo alla moglie di Marco Antonio, che
gli conficcò uno spillone nella lingua finalmente inerte. Diritti rivoluzionari ed equilibratori La
Dichiarazione dei diritti umani fu solennemente approvata
dall'Assemblea dell'Onu che in via eccezionale si radunò non a New
York, sua sede dalla fondazione (25 giugno 1945), ma a Parigi, ove nel
1789 era stata proclamata quella dei Diritti dell'uomo e del cittadino,
sulla scia della Dichiarazione d'indipendenza della Nuova dalla Vecchia
Inghilterra. Il 4 luglio 1776 (tutt'oggi festa degli Stati Uniti
d'America) quest'ultima enunciò che “tutti gli uomini sono creati
uguali” e “sono dotati dal Creatore di diritti inalienabili”, quali “la
vita, la libertà e la ricerca della felicità”. Aggiunse che il popolo
ha diritto di mutare il governo, se questo conculca i diritti
irrinunciabili dei suoi cittadini. A perfezionamento
dell'entusiastica Dichiarazione del 1789, la Costituzione francese del
3 settembre 1791 precisò che “gli uomini nascono liberi e rimangono
uguali nei diritti: (...) la libertà, la proprietà, la sicurezza e la
resistenza all'oppressione”. La Convenzione repubblicana francese il 24
giugno 1793 legittimò la rivoluzione permanente: “Quando il governo
viola i diritti del popolo, l'insurrezione è per il popolo e per
ciascuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più
indispensabile dei doveri”: “lotta continua”, con tutte le conseguenze
prevedibili, quali il Terrore, la legge sui sospetti, le esecuzioni
sommarie..., il caos. La Costituzione francese del 1795 ripristinò
l'ordine morale: “la libertà consiste nel poter fare ciò che non nuoce
ai diritti degli altri (…) Quanto non è vietato dalla legge non può
essere impedito (…) Nessun individuo, nessuna riunione parziale di
cittadini può avocare la sovranità”. L'ordine sociale, aggiunse, fonda
sul mantenimento delle proprietà. Quei principi vennero ribaditi
dagli articoli basilari delle numerose Carte costituzionali
dell'Ottocento. La loro enunciazione non significò affatto che
divenissero realtà effettuale. Però essi rimasero, quasi luci di fari
intermittenti per la lunga navigazione dal buio dei secoli andati verso
un futuro luminoso, di fratellanza tra i popoli e di pace all'interno
sei singoli Stati. Malgrado quei buoni propositi, la storia
imboccò tutt'altro corso. Da una parte gli Stati, con le loro “logiche”
interne e le loro ambizioni di potenza, di dominio assoluto sui loro
cittadini, retrocessi a sudditi non di un monarca in carne e ossa ma di
una Idea (ovviamente sussunta dal titolare del Potere e imposta
attraverso la macchina formativa). Dall'altra parte il Manifesto nel
1797 scritto da Sylvain Maréchal su impulso di “Gracco” Babeuf: “La
Rivoluzione francese non è che l'avanguardia di un'altra rivoluzione
più grande, più solenne, l'ultima rivoluzione”, la Repubblica degli
uguali, basata sull'abolizione della proprietà privata quale premessa
della “abolizione della povertà”, sull'obbligo universale del lavoro e
sulla perfetta uguaglianza fra governanti e governati. Un sogno
paradisiaco: spazzati via i “piaceri solitari e degli agi personali”
era l'ora dell'“uguaglianza di fatto”. Uno vale uno... Le nuove frontiere dei diritti: la riservatezza La
Conflagrazione europea dell'agosto 1914, precipitata in Grande guerra e
poi in Guerra mondiale, suscitò per antitesi molteplici propositi di
rifondazione della pace. L'antico regime della Santa Alleanza e dei
Trattati fra le potenze era sepolto per sempre. Dal seggio di
presidente del Consiglio provinciale di Cuneo, unico “pulpito”
rimastogli, il 13 agosto 1917 lo statista liberale Giovanni Giolitti
affermò che era chiuso per sempre “l'andamento della politica estera a
base di trattati segreti”. Dai fronti di guerra “milioni di lavoratori
delle città e della campagna, la parte più virile della nazione”
sarebbero tornati “con la coscienza dei loro diritti” e avrebbero
reclamato “ordinamenti improntati a maggiore giustizia sociale”. L'8
gennaio 1918 il primo dei Quattordici punti enunciati dal presidente
degli USA, Woodrow Wilson, quale programma mondiale fu: “Pubblici
trattati di pace, conclusi apertamente, dopo i quali non vi saranno più
accordi internazionali privati di qualsivoglia natura; la diplomazia
procederà sempre francamente e pubblicamente”. Era l'azzeramento della
diplomazia segreta, altra cosa dal segreto diplomatico. La prima è la
palude popolata da serpenti; la seconda è il riserbo generale che deve
circondare cognizioni particolari, a garanzia di interessi superiori
quali, per esempio, il controllo delle armi distruttive di massa, la
lotta contro terrorismo politico, fanatismo religioso e criminalità
organizzata. Il “segreto” è l'esile diaframma tra il progresso
scientifico e il suo uso “contro” anziché “per” l'umanità. Per
funzionare davvero, gli accordi tra gli stati debbono evitare
l'utilizzo improprio del progresso in tutti i campi. La nuova frontiera
è l'informatica: uno spazio ancora in gran parte incognito, denso di
rischi. Basti domandarsi se e quanto essa sia garantita la segretezza
della corrispondenza, che costituisce un antico pilastro delle libertà
personali. Il diritto della proprietà è un delitto? La
seconda Guerra mondiale fu segnata da un crescendo di orrori causati
dalla subordinazione della scienza al potere, sino alla costruzione e
all'impiego della bomba atomica, spartiacque della storia. Dopo Wilson,
un altro presidente degli USA, Franklin Delano Roosevelt, il 6 gennaio
1941 enunciò i principi della pace futura: libertà di parola (non solo
pensata nel foro interiore ma esposta pubblicamente), di religione, dal
bisogno e dalla paura della guerra, poi fondamento della Carta
Atlantica (14 agosto 1941).Quattro anni dopo il Preambolo dello Statuto
dell'Organizzazione delle Nazioni Unite riaffermò “la fede nei
fondamentali diritti dell'uomo, nella dignità e nel valore della
persona umana, nella uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne
e delle nazioni grandi e piccole”. A guerra ancora in corso (la
Germania si arrese l'8 maggio, ma il Giappone ancora resisteva
all'offensiva presto concentrica per l'intervento dell'URSS: né va
dimenticato che anche il governo italiano presieduto da Ferruccio Parri
nel luglio 1945 dichiarò guerra al Giappone) lo Statuto dell'ONU
rispose ad accadimenti storici circostanziati ma rimase vago sui
capisaldi dei diritti. Per esempio ignorò quello di proprietà.
Incombeva ancora Jean Jacques Rousseau, utopista velenoso. Fu
invece la Dichiarazione dei diritti umani del 10 dicembre 1948 a
definire i “diritti, uguali e inalienabili, fondamento della
libertà, della giustizia e della pace nel mondo”, la libertà di parola
e di credo, dal timore e dal bisogno, “senza distinzione alcuna per
ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di
opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di
ricchezza, di nascita o di altra condizione”. A firmare la
Dichiarazione furono i rappresentanti di Stati componenti delle Nazioni
Unite, consapevoli che il cammino della sua applicazione
effettiva sarebbe stato lungo. Richiedeva l'impegno a imprimere una
svolta effettiva dell'umanità dopo due guerre mondiali, i totalitarismi
e le sanguinose guerre civili che avevano devastato tanti paesi. Per
dare corpo ai propositi, in specie all'uguaglianza dei diritti
dell'uomo e della donna, occorrevano “l'insegnamento e l'educazione”:
una “missione” quotidiana come intuito nel Sette-Ottocento dai
grandi pedagogisti (quasi tutti massoni) fautori dell'istruzione
elementare obbligatoria e gratuita, della scolarizzazione universale,
della libertà della ricerca scientifica e dell'investimento delle sue
conquiste a beneficio dell'umanità anziché di potentati
politico-militari o finanziari. La Dichiarazione Universale fu
sottoscritta da Stati che ancora non erano né poi divennero modelli di
libertà e civismo: Afghanistan, Birmania, Cina, Cuba, Iran, Pakistan,
Siria e Turchia. Che la Dichiarazione fosse molto più coraggiosa del
Preambolo e dello Statuto dell'Onu fu confermato dalla polemica
astensione di otto Paesi di grande peso quali l'URSS e i suoi satelliti
(Ucraina, Bielorussia, Cecoslovacchia, Polonia e Jugoslavia; Bulgaria e
Germania orientale erano tra i vinti, come l'Italia, e quindi escluse
dall'ONU), contrari al riconoscimento del diritto alla proprietà
privata quale libertà, il Sudafrica (ove dominava l'apartheid) e, per
tutt'altri motivi, l'Arabia Saudita. L'Italia all'avanguardia nei diritti umani... L'Italia
non vi ebbe alcuna parte diretta, ma la sua Carta costituzionale, in
vigore dal 1° gennaio 1948, aveva già enunciato i suoi capisaldi, sia
nei Principi fondamentali (articoli 1-12) sia nei Diritti e doveri dei
cittadini. Tra altro l'articolo 10 sancisce che “lo straniero al quale
sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà
democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d'asilo
nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla
legge”: un principio di civiltà che non può certo essere messo in
discussione. ...molto avanti ai Diritti islamici L'astensione
dell'Arabia Saudita fu la premessa della lunga elaborazione della
Dichiarazione islamica dei diritti dell'uomo in 23 articoli. I suoi
principi vennero anticipati dall'iranico Said Khorasani. Ripetutamente
rielaborata essa prende le distanze da quella dell'ONU, considerata di
ispirazione giudaico-cristiana, mentre è di matrice
greco-romana-illuministica. Secondo la Dichiarazione islamica i diritti
sono indicati dal Creatore, sono quindi “legge divina”. L'articolo 12
stabilisce che “ogni persona ha il diritto di pensare e di credere e di
esprimere quello che pensa e crede, senza intromissione alcuna da parte
di chicchessia” ma solo “fino a che rimane nel quadro dei limitI
generali che la legge islamica prevede a questo proposito”. Tale
caposaldo evidenzia la distanza secolare tra la concezione
“occidentale” dei diritti umani e quella musulmana: un divario spesso
non percepito nello stesso Occidente perché questo ha da secoli
affermato e poi via via attuato la separazione tra Stato e Chiesa,
proprio in nome della libertà di religione e quindi della spiritualità
stessa, che si può manifestare nei modi e nei riti più disparati o non
prendere affatto corpo in “organizzazioni” e rimanere “foro interiore”. Gli “onusiani”: Utopisti benefici In
Italia la promozione dei diritti umani e dei principi enunciati nella
Costituzione faticò molto ad affermarsi. Occorreva liberarsi dalla
camicia di Nesso della concezione dello Stato etico, portata all'acme
da Giovanni Gentile e da Alfredo Rocco, e recuperare nelle coscienze e
nella legislazione il liberalismo di quel Benedetto Croce che aveva
votato contro il Concordato Stato-Chiesa in nome di chi ritiene che
“Parigi non vale una messa”: la libertà di coscienza, cioè, è un valore
non negoziabile. Nel settantesimo della Dichiarazione dei diritti
umani va dunque tributato il doveroso omaggio a quanti in Italia si
prodigarono per creare il clima nuovo attraverso la Società Italiana
per l'Organizzazione Internazionale (SIOI, promotrice degli ideali
dell'ONU), che ebbe tra i suoi alfieri giuristi e storici insigni, in
specie all'Università di Torino, quali Alessandro Passerin d'Entreves e
Giorgio Cansacchi. Ne ha scritto anni addietro il sempre entusiasta
Alfonso Bellando in “Quei ragazzi del Caffè Florio” e lo ricorda uno
dei loro discepoli, Gianfranco Gribaudo, in “Dal borgh al BIT. Tra
Torino e Nazioni Unite: fatti e pensieri di un piemontese
internazionale” (Chieri, Gaidano & Matta), a conferma che sono le
minoranze a dare impulso alla storia. Piantano alberi che serviranno
alle generazioni future. Queste hanno il dovere di ricordare e di
inculcare nel tempo il senso dei doveri nell'età delle nuove libertà.
Ne scrissero due italiani di fama universale (fore più all'estero che
in patria), antichi e sempre attuali: Silvio Pellico e Giuseppe
Mazzini. Da evocare nel 70 della Dichiarazione di Parigi.
Aldo A. Mola
OTTO MILIONI DI GREMBIULINI? LA MASSONERIA TRA “SOSPETTO” E ACCUSA DI “COMPLOTTO”
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 2 Dicembre 2018, pagg. 1 e 11.
La “massoneria” in
Italia non è mai stata in odore di santità. Anzitutto per la
“scomunica” comminatale per ragioni politiche e senza spiegazioni
dottrinali da papa Clemente XII sin dal 28 aprile 1738. Questa, però,
fu un'aggravante solo negli Stati che le conferirono efficacia penale.
La condanna pontificia ebbe peso modesto in quelli prevalentemente
evangelici e riformati (come la Prussia nel massone Federico II il
Grande) e venne accolta con indifferenza Oltralpe sia da sovrani
“cristianissimi” (come i Borbone di Francia, ove non fu mai
“registrata”), sia da quelli “cattolicissimi” (come gli Asburgo
d'Austria: Francesco Stefano di Lorena, marito di Maria Teresa, era
massone; suo figlio Giuseppe II legittimò la rete di logge nell'ambito
del Sacro romano impero). Ma nel Settecento anche in molti Stati
italiani le logge vissero con discrezione in prossimità del Potere. Fu
il caso del regno di Sardegna e, a fasi alterne, di quello di Napoli,
ove aristocratici, militari, scienziati e qualche ecclesiastico
convissero nello “spazio bianco/nero massonico”, accampamento di una
milizia a servizio del progresso civile e della coesistenza pacifica
dopo secoli di atroci guerre di religione e laboratorio dei diritti
dell'uomo e del cittadino, oggi condivisi da tutti gli Stati aderenti
all'ONU e dalle ONG riconosciute. In quel secolo tra i “fratelli
italiani” più famosi a livello europeo spiccarono il savoiardo Joseph
de Maistre, autore dell'acuto saggio sulla massoneria in vista del
Convento (o conferenza internazionale) di Wilhelmsbad che avrebbe
dovuto certificare le origini templari della Libera Muratoria (o quanto
meno la sua discendenza dai crociati), e lo scienziato pinerolese
Sebastiano Giraud. Nel Mezzogiorno furono altrettanto celebri il
principe Raimondo Sangro di San Severo (la Cappella del suo palazzo
gentilizio è un corso accelerato di simbologia massonica) e l'“abate”
Antonio Jerocades, che raccolse le sue poesie muratorie in “La lira
focese” (1783, ripubblicate a cura di Antonio Piromalli per la Bastogi
nel 1986), purtroppo ignorato dall'Encyclopédie de la
Franc-Maçonnerie diretta da Eric Saunier, a dimostrazione di quanto
lavoro occorra per far meglio conoscere all'estero la storia dei
massoni italiani. Con la Rivoluzione francese l'immagine della
massoneria, un Ordine iniziatico, venne completamente stravolta e
falsata, specialmente per opera del gesuita Agostino Barruel
(1741-1820), secondo il quale il “giacobinismo” fu orchestrato dalle
“arrières loges” (logge segrete) contro i troni e l'altare per
vendicare lo sterminio dei Templari da parte di Filippo IV il Bello in
combutta con papa Clemente VI, l'annientamento dei càtari (o albigesi)
e per decretare la vittoria del Dualismo manicheo: l'eterno conflitto
tra la Luce e le Tenebre, tra il Male e il Bene. Per dare credito alla
sua narrazione, Barruel affermò di essere stato egli stesso iniziato.
Parlava dunque con cognizione di causa. Trascurò di ricordare che
proprio i massoni furono le prime e principali vittime del Terrore (la
gran maestra principessa di Lamballe fu linciata e decapitata dal
“populace” ingordo di sangue) e che la Rivoluzione venne deplorata da
“fratelli” insigni, quali Vittorio Alfieri e Edmund Burke. Quel
marchio però rimase e, dopo il crollo dell'impero napoleonico
(1814-1815), fu ripetuto per un secolo. Massone fece rima con
rivoluzione. In realtà, sia nelle Americhe dei “fratelli” Washington e
Simon Bolivar sia in Europa, la Libera Muratoria promosse l'avvento di
libertà costituzionali, avversando così l'assolutismo, ma, per quanto
possibile, essa operò “dall'interno” dei regimi, diffondendo il
concetto e la pratica delle riforme civili: istruzione ed elettività
alle cariche. In Italia la manifestazione più efficace di tale
strategia furono i pacifici Congressi degli scienziati che tra il 1838
e il 1847 gettarono le basi di una possibile Lega italica capace di
conciliare corone e libertà dei popoli. Un reazionario come Clemente
Solaro della Margarita, ministro degli Esteri di Carlo Alberto di
Sardegna, però non ebbe dubbi: quei conciliaboli erano l'anticamera
della rivoluzione. Dal canto suo, appena eletto e quando era celebrato
come papa “liberale”, Pio IX non esitò a ribadire la scomunica dei
massoni nell'enciclica “Qui pluribus”. Poi li denunciò quali artefici
della distruzione dello Stato pontificio e li liquidò come “sinagoga di
Satana”. Scomunicò Vittorio Emanuele II, i suoi ministri (Cavour,
Rattazzi, La Marmora..., nessuno dei quali era massone) e i
parlamentari che ne approvarono l'azione. La lacerazione tra Chiesa e
“mondo moderno” divenne irrimediabile. Sempre in omaggio alla verità
dei fatti, va detto che, se non avevano fatto nulla per meritarsi le
scomuniche di Clemente XII e Benedetto XIV (1751) e dei loro
successori, parecchi massoni fecero di tutto per farsela ribadire,
assumendo toni duramente polemici non solo contro il papa-re ma contro
la chiesa di Roma e la religione stessa. Il 9 dicembre 1869 venne
aperto a Napoli il Concilio anticlericale contrapposto al Concilio
ecumenico vaticano inaugurato da Pio IX il giorno precedente, festa
dell'Immacolata Concezione. Il Grande Oriente d'Italia non aderì
affatto all'Anticoncilio (che durò appena un paio di giorni e fu
sciolto da un commissario di polizia quando assunse toni repubblicani);
esso, tuttavia, contò sul sostegno del “fratello” Giuseppe Garibaldi,
del romanziere Victor Hugo (figlio di massone, ma non iniziato) e di
molte logge, presenti con labari e dignitari. Nell'enciclica Humanum
genus (1884) papa Leone XIII ammise che tra i massoni vi erano anche
persone perbene, “moderate”, ma, in linea con Barruel, ritenne che esse
erano irretite dagli estremisti. Altri aggiunsero che a ordire la trama
massonica erano gli ebrei. In “Note storiche contemporanee d'un
italiano: massoneria, socialismo, ebraismo” (Chiasso, 1888) il gran
maestro del Grande Oriente d'Italia, Adriano Lemmi, venne marchiato
quale “spudorato giudeo e settario”. Se nel Syllabus (1864) l'origine
di tutti i mali (socialismo, comunismo, ecc.) era stata individuata nel
liberalismo, ora la cospirazione era addebitata all'internazionale
ebraica, che usava le logge come “utili idiote”. Ne scrissero
ripetutamente Léo Taxil (1854-1907), ex segretario della Lega
anticlericale e verosimilmente strumento dei “servizi” francesi, anche
a giudizio del dottissimo massonologo Massimo Introvigne, e Domenico
Margiotta, autore di “Ricordi di un 33.'.” e di “Il Palladismo: culto
di Satana Lucifero nei triangoli massonici” (1895). Ottenuto
straripante successo con “I fratelli tre puntini” (1885) e con le
sconce “Memorie di una ex palladista perfetta iniziata”, attribuite
all'inesistente Diana Vaughan, messo alle strette dai molti dubbi
sollevati sulle sue chiacchiere, nel 1897 Taxil dichiarò che per dieci
anni si era divertito alle spalle dei clericali e uscì dalla scena.
Ormai i veri nemici suoi (cioè della Francia) erano stati sconfitti:
Lemmi era stato costretto alle dimissioni su pressione dell'ala
repubblicana del Grande Oriente, Francesco Crispi era stato travolto
dalla sconfitta di Adua, Giosue Carducci, malato, era ormai isolato. La
maggior parte dei suoi lettori rimase però convinta che Taxil avesse
detto la verità. Del resto era stato ricevuto in udienza dal papa. L'identificazione
massoneria-rivoluzione assunse nuove forme, sino alle opere di Léon de
Poncins e di Emmanuel Malynski, che in “La guerra occulta” spiegò che
Lenin e i capi della rivoluzione bolscevica (1917 e seguenti) erano il
punto di arrivo della cospirazione ebraico-massonica, le “forze
occulte”, orchestrate da uomini come il Grande Parvus e soprattutto
Jacob Schiff, banchiere potentissimo e regista del fronte occulto della
sovversione mondiale. Dopo due secoli di identificazione della
massoneria universale con il Male assoluto la Libera Muratoria italiana
è ora bersaglio di una nuova accusa: aver tenuto a balia il regime
fascista sin dalla sua genesi, cioè l'intervento dell'Italia nella
Grande Guerra. Lo afferma Gerardo Padulo in “L'ingrata progenie. Grande
guerra, Massoneria e origini del fascismo, 1914-1923” (ed. Nuova
immagine). Dottore di ricerca dal 1987, già consulente di Commissioni
parlamentari e per le Procure di Roma, Brescia e Napoli, dopo ricerche
archivistiche iniziate nel 1980 e saggi brevi (tra i quali I
finanziatori del fascismo, 2010), sulla scorta di migliaia di “schede”
accumulate nel tempo, Padulo propone la sua interpretazione: proprio il
Grande Oriente d'Italia (a lui meglio noto rispetto alla Gran Loggia
d'Italia, nata nel 1908-1910) sarebbe il “filo nero” che unì
l'intervento dell'Italia in guerra (24 maggio 1915), la fondazione dei
Fasci di combattimento (Milano, 23 marzo 1919) e la “marcia su Roma”
(fine ottobre 1922) dalla quale nacque il regime fascista. Secondo lui
sin da prima della conflagrazione europea “a Palazzo Giustiniani (sede
del Grande Oriente d'Italia, NdA) aveva sede l'apparato centrale di un
partito sui generis, radicato nella società civile e che, in larga
misura, occupava e controllava lo Stato”. Esso aveva l'“aspetto di un
tronco di cono”: immagine che richiama la “clessidra” insinuata
dall'on. Tina Anselmi nella Relazione (di maggioranza) della
Commissione parlamentare d'Inchiesta sulla loggia Propaganda massonica
n. 2 (1984). La massoneria, ripete Padulo riecheggiando l'intervento di
Antonio Gramsci alla Camera il 16 maggio 1925, era il “partito della
borghesia” e, in quanto tale, intrinsecamente conservatrice,
reazionaria, pronta ad affidarsi ai fasci di Benito Musoslini. Poco
conta se poi le due Comunità massoniche italiane (Grande Oriente e Gran
Loggia), pesantemente vessate e perseguitate, nel 1925 furono costrette
a sciogliersi proprio dalla prima “legge fascistissima” del governo
mussolinano. Esse avevano esaurito la loro funzione di battistrada
della dittatura antidemocratica e liberticida. La tesi, sorretta da
innumerevoli riscontri ai quali possono essere contrapposti molti altri
documenti, non meno convincenti, è alimentata da un pregiudizio che
Padulo stesso confida al lettore. Mentre, senza conforto di prove
documentarie o sulla base di indimostrate asserzioni di terzi, ascrive
alla massoneria vari politici eminenti (inclusi Paolo Boselli e
Vittorio Emanuele Orlando), con apprezzabile onestà, egli scrive che se
l'associazione massonica “tende a schiudere la via al regresso, a
fortiori la sua attività deve essere sottomessa in itinere all'opinione
pubblica” (p. 12). Il saggio costituisce un “atto di accusa” e al tempo
stesso una “sentenza” nei confronti della massoneria, genesi del
fascismo e di tutti i mali conseguenti. Mentre sottovaluta le profonde
divergenze tra le due Obbedienze e le tendenze all'interno di ciascuna
di esse (in specie il Grande Oriente) e su significativi massoni
dell'epoca (Arturo Rocco Armentano, Arturo Reghini, Edoardo Frosini,
Michele Chiarappa...) e sui legami internazionali delle massonerie
italiane, il libro è stato accolto con entusiasmo da quanti se ne
valgono per oscurare il peso esercitato sul governo Mussolini dai
nazionalisti e soprattutto dai cattolici, indispensabili al duce
non solo nel 1922-1923 ma proprio dopo la svolta autoritaria,
suggellata con il Concordato del 1929. D'altronde anche Michele Scurati
in “M. Il figlio del secolo” (Bompiani) zeppo di omissioni (che a
volte sono peggio degli errori) tace l'insanabile conflitto tra logge e
fasci culminata nella fiorentina “notte di San Bartolomeo” del 1925,
adombrata da Vasco Pratolini in “Cronache di poveri amanti”. Il
libro non poteva giungere in un momento più “caldo”: l'insediamento
della ennesima Commissione parlamentare d'inchiesta “sul fenomeno delle
mafie e sulle altre associazioni criminali anche straniere”. Ancor
prima di essere eletto alla sua presidenza, l'on. Nicola Morra,
deputato del Movimento 5 Stelle, ha rilasciato dichiarazioni poco
lusinghiere nei confronti della massoneria. Tutto lascia ritenere che
coglierà il testimone da Rosy Bindi, secondo la quale “la massoneria”
(invero un nome comune di cosa) è “sostanzialmente segreta”, e quindi
in conflitto con la Costituzione, ed esiste una “zona grigia” tra logge
e criminalità organizzata. La Relazione finale della Commissione Bindi,
incredibilmente approvata all'unanimità, rimpiange la legge
antimassonica del 1925 e auspica maggior rigore nei confronti dei
massoni. Lo farà anche la Commissione ora in carica? O qualcuno
finalmente denuncerà il conflitto tra l'antimassonismo dilagante e la
Costituzione vigente? Additare la massoneria quale responsabile del
regime di partito unico (il “fascismo”) ricalca lo specchio
deformante di Barruel e di Taxil e dell'innominabile spretato che nel
febbraio 1923 propugnò l'incompatibilità tra logge e Partito, decretata
dal Gran Consiglio del Fascismo per suggellare la confluenza dei
catto-nazionalisti nel PNF capitanato dall'antico autore del
romanzaccio “Laura Particella. L'amante del cardinale”. A
confutazione dei luoghi comuni ricorrenti basterebbe ricordare quanti e
quali massoni hanno invece concorso a rendere l'Italia un Paese meno
incivile di quanto era prima dell'Illuminismo, del Risorgimento,
dell'unificazione nazionale, dell'apogeo del liberalismo e della crisi
postbellica. Va anche detto che nell'ottobre 1922 in Italia non nacque
affatto “il regime” ma un governo comprendente tutti i partiti
costituzionali (cattolici inclusi), mentre il Partito comunista
d'Italia, sezione della Terza Internazionale di Mosca, voleva a gran
voce la rivoluzione bolscevica. Oggi però in Italia non interessa
solo o non soltanto la disputa storiografica sulle diverse e segmentate
Comunità massoniche locali, in varia misura collegate con la Massoneria
universale: più o meno otto milioni di “fratelli” che seguono con
sgomento quanto accade nella terra di Tommaso Crudeli, protomartire
della massonofobia. È in discussione, invero, la libertà di
associazione, garantita dalla Costituzione: un caposaldo della civiltà
“occidentale”, ora messa in discussione dal “Contratto di governo per
il cambiamento”, che stride con secoli di sofferte conquiste liberali,
e dalla legge della Assembla regionale siciliana che esige dai suoi
membri la pubblica dichiarazione di appartenenza a logge massoniche e
ad “associazioni similari” (Rotary, Lions, terz'ordini religiosi...,
tutti fondati su promesse vincolanti, gerarchie statutariamente
costituite, disciplina). Quando organi dello Stato passeranno la
misura, prima o poi anche il Colle dovrà dire la sua, come a suo tempo
seppe fare il sempre rimpianto Francesco Cossiga, cattolico adamantino,
sì, ma strenuo difensore della grande storia dell'“Italia europea”,
oggi rimessa in forse.
Aldo A. Mola
SCARICABARILE TRA “POLITICI” E “TECNICI” L'AFFONDAMENTO DELL'AMMIRAGLIO PERSANO (1866)
Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 18 novembre 2018, pagg. 1 e 11.
L'attuale confusione dei poteri
Il regime vigente versa in grande confusione. Alla radice della sua
insolubile crisi vi è anzitutto il suo presunto punto di forza: il
famigerato “contratto di governo per il cambiamento”. Anziché (o molto
più che) sulla convergenza nella realizzazione di progetti, esso si
fonda sull'elusione dei motivi radicali di divergenza. In secondo luogo
vi è la contrapposizione originaria e via via più esasperata verso un
fantasma, l'“Europa”, additato quale oscura minaccia nei confronti del
Paese: “narrazione” che evidenzia scarsa consapevolezza dei veri
rapporti istituzionali (storici, politici, economici...) tra
l'Italia e l'Unione Europea, da tempo depositaria di poteri ceduti da
tutti gli Stati che ne fanno parte, anche perché al riparo del suo
unico effettivo punto di forza: l'ombrello della NATO, tutt'altra cosa
dal fantomatico “esercito europeo” ventilato da Emmanuel Macron, ora
sull'orlo della disperazione per il crollo verticale di credibilità e
di consensi nel suo Paese. Le parti contraenti dell'attuale
scricchiolante maggioranza di governo si confortano con gli esiti di
sondaggi invece di interrogarsi sulla veridicità degli stessi:
intenzioni di voto saggiate non sulla base degli aventi diritto ma di
quanti hanno votato e ancora sperano di ricevere corresponsione con
atti concreti (reddito di cittadinanza, riforma del sistema
pensionistico, indurimento della valenza punitiva del sistema
giudiziario, specie nei confronti della corruzione nella pubblica
amministrazione, molto vezzeggiato dai 5S ma assai meno da chi, come la
Lega, conta esponenti colpiti da imbarazzanti sentenze).
Vi è infine un quarto terreno di tensione tra i partner di governo: la
qualità dell'occupazione del potere, le nuove nomine al vertice della
“macchina” dello Stato e dell'amministrazione pubblica. I pentastellati
puntano su fedelissimi anche se privi di competenze certificate; i
leghisti, invece, mirano a coniugare allineamento (sul quale non si
discute) a carriere sperimentate. Entrambi tendono a escludere
l'indipendenza dello Stato dai partiti o, più concretamente
(anche se meno correttamente), dal governo, a cancellare la terzietà
dell'apparato amministrativo, che fu e tuttora rimane l'ancora di
salvezza del declinante “senso dello Stato”.
Due
guerre mondiali, la proclamazione della Dichiarazione universale dei
diritti dell'uomo (10 dicembre 1948) e la maggiore consapevolezza dei
limiti tra etica e diritto positivo informano i rapporti tra cittadino
e potere politico. Le “norme” non sono più accettate a occhi bendati.
Al tempo stesso lo Stato (o quel che ne resta, dopo la cessione
pattizia di fondamentali poteri) ha piena potestà di esigere il
rispetto delle leggi, che però, a differenza di quanto oggi accade,
debbono essere poche e chiare. Se pretende dall' “amministrazione”
prestazioni abnormi, il potere politico entra in conflitto con lo
Stato, cioè con sé stesso. È quanto sta accadendo oggi, con la
confusione crescente e dilagante tra Esecutivo e Legislativo. In un
regime bene ordinato i tre poteri (Capo dello Stato, governo e
parlamento) si bilanciano. Lo possono fare tanto più in un sistema
arricchito e potenziato da ordini come la Magistratura e da organi
quali la Corte costituzionale e le “Autorità” volute indipendenti
proprio perché, a differenza dei governi, sono garanti della continuità
degli interessi generali permanenti dei cittadini.
E i suoi precedenti storici
Dall'avvento del regime statutario la storia d'Italia è
punteggiata da prevaricazione del Potere Esecutivo nei confronti
dell'“amministrazione”, anche in campi vitali, quali la politica estera
e la difesa. In tempi ordinari tale divaricazione si concretò in revoca
e deplorazione dei titolari di funzioni apicali. In caso di guerra si
verificarono invece tensioni e conflitti che meritano attenzione
proprio meglio comprendere la condizione odierna del Paese e le sue
prevedibili prospettive. Il terreno sul quale la
frizione tra politici e tecnici divenne ripetutamente conflitto aperto
fu il rapporto tra Parlamento ed Esecutivo, da un lato, e Forze Armate,
dell’altro. Lo si vide dalla prima guerra per l'indipendenza
(1848-1849), quando a Torino la Camera dei deputati del Regno di
Sardegna si mostrò del tutto evanescente rispetto alle responsabilità
gravanti sull'Armata sarda condotta al campo da Re Carlo Alberto,
accompagnato dai figli, Vittorio Emanuele e Ferdinando, mentre il
principe Eugenio reggeva la somma dei poteri regi in veste di
Luogotenente. La partita fu chiusa quando il Re si appellò al buon
senso degli elettori con il Proclama di Moncalieri (scritto dal suo
primo ministro, Massimo d'Azeglio) e questi espressero una maggioranza
leale verso la Corona. Nella guerra dell'aprile-luglio 1859 la
contrapposizione fra politici e militari (il cui vertice era Vittorio
Emanuele II in persona) non deflagrò solo perché Napoleone III accettò
a Villafranca la proposta di armistizio avanzata dall'imperatore
d'Austria Francesco Giuseppe, suscitando l'ira del presidente del
Consiglio Camillo Cavour, che rassegnò tempestosamente le dimissioni e
fu sostituito dal generale Alfonso La Marmora, con Urbano Rattazzi
all'Interno e Gabrio Casati all'Istruzione. Benché di breve durata fu
quel governo, manifestamente transitorio, a gettare le basi del
nascente regno d'Italia, poiché chiamò a raccolta il meglio della
classe dirigente nazionale. Tornato a capo
dell'Esecutivo, Cavour ne proseguì l'azione in piena intesa con il
sovrano, adottando misure via via più spregiudicate perché era ormai
impossibile fermare il processo in corso. Con la primavera del 1860 il
Regno di Sardegna era ormai lo Stato più popoloso, ricco e promettente
d'Italia: non rimaneva che forzare i tempi, con l'annessione di Umbria
e Marche, sottratte al Papa-re, e l'irruzione nelle Due Sicilie, senza
dichiarazione di guerra, per imbrigliare il Mezzogiorno e liberarlo
dall’instabilità generata dal crollo della monarchia borbonica e dalla
ormai palese incapacità di Garibaldi di governare lo Stato.
Persano, agente segreto di Camillo Cavour
Molto prima che Garibaldi dalla Sicilia sbarcasse in Calabria e
iniziasse la corsa verso Napoli (ove poi entrò in carrozza ferroviaria
senza colpo ferire il 7 settembre 1860), da Torino Cavour dettò
quotidianamente istruzioni ai suoi emissari più fidati. Fu il caso
conte del contrammiraglio Carlo Pellion di Persano (Vercelli, 11 marzo
1806- Torino, 28 luglio 1883). Ne ha scritto ripetutamente lo storico
Nico Perrone in L'agente segreto di Cavour. Giuseppe Massari e il
mistero del diario mutilato (Palomar, 2011) e in Arrestate Garibaldi.
L'ordine impossibile di Cavour (Ed. Salerno, 2016). In Il processo
all'agente segreto di Cavour. L'ammiraglio Persano e la disfatta di
Lissa (Rubbettino, 2018, vincitore del Premio Basilicata con una
motivazione lusinghiera), Perrone ricorda le istruzioni chiave inviate
dal Gran Conte sia a Persano (a capo di una squadra per vegliare sul
Tirreno meridionale e soprattutto su Napoli, col proposito di ottenere
il passaggio “spintaneo”, ovvero anche prezzolato, della flotta
borbonica a fianco di quella Sarda) sia ad altri confidenti e
fiduciari, quali Pes di Villamarina, incitato a promuovere un
“movimento” insurrezionale in Napoli tramite la rete orchestrata dal
ministro dell'Interno di Francesco II di Borbone, Liborio Romano, gli
“chasseurs” di Nunziante e gli ufficiali borbonici in relazione con
Persano. Cavour scrisse: “Occorrerà organizzare subito un governo
provvisorio, mettendo alla sua testa Romano, che mi sembra essere la
migliore testa del regno”. Chi davvero fosse Liborio Romano è stato
ampiamente documentato dallo stesso Perrone nel saggio
L'inventore del trasformismo. Liborio Romano. Strumento di Cavour per
la conquista di Napoli (Rubbettino, 2009, meritoriamente finalista del
Premio Acqui Storia). Massone, cospiratore, esule, richiamato dal
Borbone al vertice del regno, “don Liborio” aveva i contatti giusti
all'interno e all'estero per traghettare le Due Sicilie nell'alveo
dell'Italia unita. Fu anche tra i critici più equilibrati del
caleidoscopico “grande brigantaggio” che a lungo rischiò di affossare
il gracile Stato unitario sommandosi alle incaute imprese di Garibaldi,
come la spedizione del luglio-agosto 1862 con l'insegna “Roma o morte”:
una mina contro la credibilità del regno sabaudo, che proprio allora
stava ottenendo fondamentali riconoscimenti da parte di Stati europei,
dall'impero russo alla regno di Prussia. Cavour puntava a
ottenere la solidarietà della miglior classe dirigente meridionale a
sostegno del “nuovo ordine”. Altrettanto fece il primo governo
presieduto da Urbano Rattazzi (1862), che si proclamava né di destra né
di sinistra, ma “uomo dello Stato”. Mentre tenne per sé Esteri e
Interno, Rattazzi fece nominare alla Guerra il luogotenente generale
Agostino Petitti di Roreto, alla Giustizia il siciliano Filippo Cordova
(gran maestro del Grande Oriente d'Italia), alle Finanze Quintino
Sella, all'Istruzione Pasquale Stanislao Mancini (da tempo esule in
Piemonte, docente di Giovanni Giolitti all'Università di Torino), ai
Lavori Pubblici il “fratello” Agostino Depretis, all'Agricoltura
Gioacchino Napoleone Pepoli e alla Marina Persano. Come Petitti,
anche Persano era deputato alla Camera. I militari parlamentari (alla
Camera o in Senato) erano molte decine e tutti in posizioni eminenti.
Persano era stato eletto deputato alla VII Legislatura nel collegio di
La Spezia il 29 marzo 1860, in ballottaggio con il marchese Filippo
Ollandini, colonnello dei Reali carabinieri. Confermato al primo turno
il 27 gennaio 1861 per l'VIII Legislatura del Parlamento subalpino, che
fu anche la I del regno d'Italia), dopo la nomina a ministro il 23
marzo 1862 Persano fu trionfalmente rieletto (467 voti a favore contro
5 “dispersi”). Decadde il 1° dicembre 1862 per la promozione ad
ammiraglio: pochi giorni prima che le dimissioni del governo Rattazzi
ne comportassero l'uscita di scena. Per lui seguirono anni di grigi. Il
successore di Rattazzi, Alfonso La Marmora, tenne per sé la Marina. A
La Spezia si affermò il conte Angelo Benedetti. Dopo la cessione di
Nizza alla Francia e mentre fervevano i lavori del Canale di Suez, che
avrebbe trasformato il quadro europeo dei grandi commerci e modificato
la posizione dell'Italia nel Mediterraneo (se ne riparlerà l'anno
venturo, nel suo 150°), La Spezia era ascesa a porto militare
strategico. Non per caso vi si susseguirono come deputati il
viceammiraglio Simone Pacoret di Saint-Bon, il capitano di vascello
Augusto Albini e il contrammiraglio Costantino Morin, futuro ministro
degli Esteri con Giolitti.
Adriatico amaro: condanna di Persano
Persano ebbe un alto momento di gloria, presto mutato in catastrofe: il
comando della flotta durante la guerra italo-prussiana contro l'Austria
nella primavera-estate del 1866. La vicenda è notissima, ma Nico
Perrone scava sul suo punto nevralgico. Dopo la battaglia nel mare di
Lissa (20 luglio), la flotta asburgica comandata da Wilhelm von
Teghettoff si ritirò. Altrettanto fece l'italiana, che però perse in
battaglia la nave ammiraglia “Re d'Italia” e il “Palestro”, che nel
nome ricordava una vittoria del 1848. Nelle ore immediatamente seguenti
lo scontro, il ministro della Marina, Depretis diffuse la voce di un
successo italiano. Ancora il 26 luglio la governativa Gazzetta
Ufficiale asserì che “la polemica dei giornali sulla battaglia di Lissa
è in gran parte fondata sopra notizie inesatte, e non è informata a
quel principio di non condannare chi ancora non è giudicato”. A placare
le polemiche non bastò certo il conferimento di medaglie d'oro agli
ufficiali caduti (Faà di Bruno, Alfredo Cappellini) o di speciale
merito (Pacoret di Saint-Bon), né la celebrazione del deputato Carlo
Boggio (rappresentante del collegio di Cuneo), sparito nei flutti con
la “Re d'Italia”. Per rispetto della sua condizione di
senatore dall'8 ottobre 1865, Persano venne giudicato dal Senato che si
radunò in Alta Corte di Giustizia. Dopo giorni di udienze tempestose,
il 15 aprile 1867 fu “convinto” dei reati ascrittigli e condannato alle
dimissioni, alla perdita del grado di ammiraglio e alle spese di
giudizio. Rimase nondimeno senatore, anche se appartato. Scrisse due
opere sulla propria condotta, a futura memoria, ma non capovolse il
giudizio negativo nel quale a lungo rimase avvolto. La sua vera colpa
era consistita nel muovere contro la flotta avversaria senza adeguata
preparazione, su impulso del ministro Depretis che pretendeva una
vittoria smagliante per cancellare l'onta di Custoza, ove il 24 giugno
precedente nessuno aveva vinto davvero, ma le armi italiane furono
autolesionisticamente descritte come perdenti.
Pubblici impiegati parafulmini?
La storia dei decenni seguenti è fitta di situazioni analoghe.
Nel 1896 il presidente del consiglio Francesco Crispi incalzò il
generale Oreste Baratieri, già segretamente sostituito con Antonio
Baldissera, a muovere contro le orde di Menelik, negus d'Etiopia:
“Codesta è tisi militare” gli telegrafò sferzante. Baratieri si
avventurò e incappò nel disastro ad Abba Garima (o Adua, 1° marzo).
Nell'estate 1918 il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando,
siciliano come Crispi, si spinse ad ammonire il Comandante Supremo
Armando Diaz: a suo avviso era meglio una seconda Caporetto che la
stasi. Per fortuna d'Italia, Diaz non abboccò. Sapeva che una nuova
sconfitta avrebbe determinato il crollo dello Stato. Tenne fermo
e poi vinse a Vittorio Veneto. Nella drammatica seduta del Gran
Consiglio del Fascismo del 24/-25 luglio 1943 anche Mussolini cercò di
scaricare sulle spalle dei militari la responsabilità delle sconfitte
via via subite su vari fronti in tre anni di guerra. Ma era stato egli
stesso a concentrare nelle proprie mani tutti i poteri, convinto che il
conferimento del grado di Primo maresciallo dell'Impero gli avesse
anche infuso superiori qualità di stratega. Il punto è
proprio questo: il grado effettivo di competenza dei politici che
s'impancano a dettare la condotta alla “amministrazione”, senza
conoscere la realtà dei fatti. La lezione della storia sembra non
scalfire la supponenza di quanti si avvolgono nel sudario di formule
mistiche, quali “tanti nemici, tanto onore” e facezie del genere,
dimenticando la regola aurea del ministro degli Esteri della Destra
storica, l'ex mazziniano Visconti Venosta: “Indipendenti sempre,
isolati mai”. L'opposto di quanto oggi accade. Sic stantibus rebus
potrebbe diffondersi la latitanza dell' “amministrazione”, i cui
responsabili rifiuteranno di farsi parafulmini dell'arbitrio dei
“politici”, con conseguenze devastanti per lo Stato.
Aldo A. Mola
IL GENERALE PIETRO GAZZERA UN PATRIOTA MINISTRO DELLA GUERRA (1929-1933)
Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 18 novembre 2018, pagg. 1 e 11.
Solo nei regimi totalitari e fatalmente destinati alla rovina
propria e dei “sudditi” i dittatori cambiano a capriccio i dirigenti
dei comparti apicali di pubblico rilievo. La competenza, infatti, non è
figlia di improvvisazione, di “convinzioni politiche”, ma di studio e
di esperienza. Il “governo”, quali ne siano il “colore” e le ambizioni,
non può prescindere dallo Stato: una piramide gerarchica costruita non
a difesa di privilegi ma a tutela dei diritti e degli interessi
generali permanenti dei cittadini. Si può certo obiettare che da tempo
al vertice delle responsabilità si trovano talora persone inadeguate.
Se però se ne cerca la cagione, si scopre che gli inetti si trovano
dove sono “per nomina ad nutum principis” anziché per concorso
pubblico non manipolato, proprio perché sono frutto della degenerazione
che lentamente ha corroso lo Stato liberale, fondato sulla uguaglianza
dei diritti dinnanzi alle leggi e sulla certificazione delle carriere. In
“La macchina imperfetta: immagine e realtà dello Stato fascista “ (ed.
il Mulino, meritatissimo Premio Acqui Storia 2018) Guido Melis dedica
un capitolo importante alle Forze Armate nel ventennio mussoliniano,
dal titolo suggestivo: “Fascio e stellette”. Le sue non sono
“rivelazioni” sensazionali, ma ricapitolazione di fatti con spirito
obiettivo e sereno, quale deve essere lo storico. Ricorda che tra il
1925 e il 1943 i Capi di stato maggiore generale furono tre in tutto e
tutti e tre piemontesi: l'astigiano Pietro Badoglio (1925-1940), il
casalese Ugo Cavallero (1940-1943) e il torinese Vittorio Ambrosio
(1943). Nessuno dei tre può essere etichettato come “fascista”.
Affiliato sia al Grande Oriente sia alla Gran Loggia, Cavallero, da
molti studiosi settari definito filogermanico, venne “suicidato” il 14
settembre 1943 da Albert Kesselring, sia perché accusato di aver ordito
con il senatore monarchico Luigi Burgo il rovesciamento di Mussolini
(sospetto alimentato dal fascicolo distrattamente “dimenticato” sulla
scrivania da Badoglio alla sua partenza dal ministero della Guerra alla
volta di Pescara-Brindisi), sia perché rifiutò di assumere la guida di
un esercito italiano vassallo dei tedeschi: compito poi assunto da
Rodolfo Graziani, che però tenne a rivendicare la separatezza tra Forze
Armate dello Stato repubblicano e Partito fascista repubblicano. Già
Renzo De Felice aveva ricordato che nel 1930 appena 1.211 ufficiali su
21.522 risultavano iscritti al Partito nazionale fascista: il 5%, una
minoranza esigua. Esercito e Marina rimasero insomma nicchie al riparo
dal regime. Mussolini ne fu consapevole, tanto che il 18 marzo 1930 il
Gran Consiglio del fascismo escluse successivi tesseramenti di
ufficiali sia individuali, sia collettivi e chiese che la
partecipazione alla vita politica degli ufficiali già iscritti fosse
“aperta e nota”: non da “quinta colonna” o come una sorta di società
segreta militare all'interno del regime. A distanza di decenni, in
un bilancio storico complessivo, si può aggiungere che l'istituzione
della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (regio decreto 14
gennaio 1923, n. 31), con i suoi gerarchi, statuti, regolamenti e
rituali finì per essere un fattore di debolezza estrema del fascismo,
proprio perché tenne nettamente divise le Camicie Nere dalle Sciarpe
Azzurre, con tutte le conseguenze del caso. A conferma basti ricordare
la sequenza dei suoi comandanti generali: Emilio De Bono, Italo Balbo,
Cesare Maria De Vecchi, Asclepia Gandolfo e Maurizio Gonzaga - tutti
“uomini del Re” - e, viceversa, dei suoi capi di stato maggiore:
Francesco Sacco, Enrico Bazan, Attilio Teruzzi, Luigi Russo, Achille
Starace ed Enzo Galbiati. Quest'ultimo il 25 luglio 1943 votò contro
l'ordine del giorno Grandi-Federzoni-Bottai, aderì alla RSI e divenne
generale della Guardia nazionale repubblicana, mentre De Bono venne
fucilato a Verona per “alto tradimento”. Il
complesso rapporto tra Forze Armate e regime è bene evidenziato dalla
figura di Pietro Gazzera (Bene Vagienna, 1879-Ciriè, 1953), il
generale che da ministro della Guerra si oppose a Mussolini sventandone
alcuni clamorosi colpi di testa che avrebbero potuto causare la
catastrofe del Paese. Ne ha scritto una scrupolosa biografia Giuseppe
Novero (Mussolini e il Generale: Pietro Gazzera ministro della Guerra
lungo le tragedie del Novecento, ed. Rubbettino): opera documentata ed
equilibrata, come prefazione di Antonio Spinosa, storico e giornalista.
Novero non fa sconti a veri e presunti responsabili di pagine buie
della storia militare italiana. Va però ricordato che nel 1861
l’Esercito era tutto da fare con pezzi e bocconi degli antichi Stati e
che l’organizzazione del Paese (ferrovie, strade, porti, scuole,
ospedali...) ebbe priorità rispetto alla macchina bellica, pur
necessaria per la sopravvivenza dello Stato. Lo Stato Nuovo ebbe la
saggezza di valorizzare il patrimonio di quelli pre-unitari, dalla
“Nunziatella” di Napoli all'Accademia di Modena. E ne fu largamente
ripagato. Dalle pagine di Novero emerge uno spaccato significativo
della storia d'Italia. Pietro Gazze è un paradigma della Nuova Italia.
Suo padre, modesto lattoniere di Bene Vagienna, nel Cuneese, e la
madre, casalinga, ebbero undici figli. Uno di loro, Costanzo, divenne
prefetto; l’altro, Pietro, percorse la carriera militare con impegno e
onore. Il successo della “Terza Italia” fu assicurato anche dall'ottimo
funzionamento dell'“ascensore sociale”, grazie al quale cittadini di
modeste condizioni originarie salirono a posizioni eminenti: un
processo propiziato dallo Stato sabaudo con i convitti militari
(celebre, tra altri, quello di Asti, dal quale uscì Giuseppe Galliano,
originario di Vicoforte, futuro eroe di Macallé e caduto ad Abba Garima
il 1° marzo 1896) e con il torinese Collegio delle antiche province,
che assicurò gli studi universitari ai “capaci e meritevoli”. Al
riguardo la Costituzione del 1948 non ha inventato nulla. Di
grado in grado Gazzera raggiunse posizioni eminenti. Presa in moglie
Bianca Maria Gerardi, di affermata famiglia borghese, ne ebbe Giovanni
(Nino), Romano (futuro celebre pittore), Luisa e Linda. Ufficiale di
artiglieria (come Badoglio), volontario in Libia (ove meritò la
Medaglia d'Argento al Valor Militare), durante la Grande Guerra
esercitò comandi via via più impegnativi, sino alla segreteria di capo
di stato maggiore, meritandosi sempre stima, tanto che nell'ottobre
1918 fu designato tra i plenipotenziari italiani nella trattativa
armistiziale con l'Austria-Ungheria. Novero documenta bene il suo ruolo
a Villa Giusti ove gli austriaci firmarono l’armistizio il 3 novembre
1918 con efficacia dalle 15 dell'indomani. Per i suoi meriti nella
delicatissima missione venne promosso generale di brigata. Dieci
anni dopo Gazzera fu nominato sottosegretario alla Guerra, il cui
titolare era Mussolini stesso. Il generale Sergio Pelagalli, acuto
studioso di Gazzera, ricorda che il “duce” negava al suo
sottosegretario quanto questi chiedeva nell’interesse del ministro,
cioè del presidente stesso: una delle tante contraddizioni del capo del
fascismo. Ma all’epoca vi fu in Italia un “regime assoluto”? In realtà,
come detto sopra, le Forze Armate rimasero fedeli alla Corona. Il 31
ottobre 1922 Mussolini in persona aveva scritto di suo pugno che i
militari non dovevano osannare pubblicamente la sua ascesa al governo.
Se, come alcuni ritengono, in realtà voleva sollecitarle a farlo
davvero, ottenne il risultato opposto. Il 12 settembre 1929
Gazzera venne nominato ministro della Guerra. Lo stesso anno il
fossanese Balbino Giuliano divenne ministro della Educazione Nazionale.
Il Vecchio Piemonte “pesava”, perché sapeva tenere a freno le
intemperanze del “duce”. Come appunto fece Gazzera ripetutamente.
Novero ricorda che talvolta Mussolini abbozzò precipitosi propositi
aggressivi contro la Jugoslavia e contro la Francia. Accadde, per
esempio, in coincidenza con le Grandi Manovre in un’area del Piemonte
che ne era teatro da decenni. Gazzera non esitò a mettere il duce
dinnanzi alla realtà. Deplorò la sproporzione tra le fantasie e i
fatti. L'Italia rischiava una sconfitta pesantissima, dalle conseguenze
catastrofiche e durevoli. Consapevole che la storia non si fa
con le parole, fu proprio lui a portare l’Esercito al massimo di
efficienza, come ha evidenziato Oreste Bovio nell’insuperata “Storia
dell'esercito italiano” (ed.US-SME): 34 divisioni di fanteria ternarie
(non binarie, come poi divennero per aumentarne nominalmente il numero
ma non la forza), oltre a due divisioni celeri, alpini, bersaglieri,
camicie nere. Negò fucili alla Milizia volontaria per la sicurezza
nazionale, cioè al “para-esercito” di partito. I suoi comandanti se ne
lamentarono con Mussolini. Gazzera rifilava loro solo vecchi arnesi
indecorosi per le loro parate: “tanto varrebbe dare dei bastoni da
passeggio o dei ceri da chiesa”. Gazzera replicò che altrimenti
l’Esercito non sarebbe stato pronto in caso di mobilitazione. Sospinto
da molti venti di tempesta e dalla propria ambizione egocentrica, il 21
luglio 1933 Mussolini gli comunicò che entro 24 ore lo avrebbe
sostituito assumendo di persona il ministero della Guerra. Creato
senatore del regno (il 30 ottobre di quello stesso anno), dopo un lungo
periodo di emarginazione nell'estate 1938 Gazzera venne nominato
governatore e comandante delle truppe del Galla e Sidama, nell'Africa
Orientale Italiana: 50.000 uomini, 10.000 dei quali “nazionali”, poco e
male armati. In un saggio esemplare pubblicato dall'Ufficio Storico
dello SME, Federica Saini Fasanotti ha brillantemente ripercorso le
vicende successive. Comandante superiore e reggente il governo
dell'Africa Orientale Italiana dopo la resa del viceré Amedeo di
Savoia, duca di Aosta, Gazzera continuò a combattere sino a quando,
accerchiato e con forze ridotte a soli 4.000 uomini, ottenne gli onori
delle armi. Prigioniero in Kenya, India e infine in un campo nel
Tennessee (USA), il generale venne liberato su richiesta del governo
italiano, tornò in patria il 20 dicembre 1943 e concorse alla
riorganizzazione del Regio Esercito a fianco di Giovanni Messe,
massone. Il 13 aprile 1944 fu nominato alto commissario per i
prigionieri di guerra. Monarchico, nel giugno 1945 fu dichiarato
decaduto dal Senato e collocato a riposo. Il 1° marzo il fascio di Roma
gli aveva mandato una tessera “ad honorem”, d’ufficio, ma Gazzera,
patriota e ministro nel lungo governo Mussolini, come tanti a-fascisti
ascesi al governo del Paese, non fu mai “fascista”, se per tale
s'intenda uno squadrista o una persona indulgente al “movimentismo”.
Ricorse contro il provvedimento. L'ordinanza a suo carico fu revocata,
ma rimase emarginato. Nel 1952 pubblicò Guerra senza speranza: Galla e
Sidama. La sua vicenda è esemplare per capire la complessità della nostra storia. Quasi
dieci anni dopo averne scritto la pregevole biografia, Giuseppe Novero
ne riscatta definitivamente la memoria con una Mostra documentaria su
“La Grande Guerra. Immagini e memorie” in programma da metà dicembre a
Palazzo Lucerna di Rorà in Bene Vagienna, su impulso della Fondazione
Romano Gazzera. E' un implicito monito a chi pensa che la
dirigenza dello Stato può essere “inventata”, improvvisata, per fedeltà
di tessera anziché per lealtà verso la Patria. La sua figura insegna
che “uno non vale uno”. L'uguaglianza dei diritti comporta anche quella
nei doveri: studio, altruismo, senso civico e dello Stato.
Aldo A. Mola
1918-1919 QUANDO IL GOVERNO NON VALORIZZO' LA VITTORIA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 11 novembre 2018, pagg. 1 e 11.
Oggi l'Italia rischia
il disastro perché il governo va in rotta di collisione con l'Unione
Europea. Cioè contro se stessa, perché al di fuori dell'Europa e della
Nato l'Italia sprofonda. I risparmi dei cittadini e i loro vulnerabili
beni ambientali, monumentali e artistici valgono solo se tutelati da
politica estera e, conseguentemente, militare. Diversamente sono
aleatori, come quelli di tutti i paesi del pianeta. Per capirlo non è
necessario ricordare le bombe degli Alleati su Roma nel luglio 1943 e
la tragica sorte dell'Abbazia di Montecassino. Basta constatare la
enorme distanza tra i “fondamentali” dell'economia, complessivamente
ancora robusti come ricordato dal presidente della Repubblica Sergio
Mattarella, e la sempre più declinante credibilità internazionale del
governo, destinata a ripercuotersi su quella dello Stato. Il mondo è
zeppo di Paesi dalle enormi ricchezze naturali precipitati nel disastro
per irresponsabile prolungata miopia dei loro dominatori: dal Venezuela
all'Iran... Nulla è nuovo sotto il sole. L'Italia attuale rispecchia
quanto avvenne giusto un secolo addietro: l'incapacità dell'Esecutivo
di ottenere al Congresso di pace di Parigi (19 gennaio-28 giugno 1919)
il meritato riconoscimento dei sacrifici dei suoi cittadini nella
Grande Guerra. Oggi la Francia “celebra” la “sua” vittoria.
“Celebrare” non significa “esaltare” per ripetere gli errori del tempo
che fu: vuol dire ricordare con solennità. Meditare sul passato,
capirlo, spiegarlo. Esattamente quanto, purtroppo, non è accaduto in
Italia se solo il 4 ottobre 2018 la Camera ha approvato una “mozione”
che ha proposto di studiare e a far conoscere la partecipazione
dell'Italia alla prima guerra mondiale. Una “mozione” (approvata da 367
deputati contro 107, accampanti argomenti penosi) non è né una legge né
un disegno di legge. È una speranza... o auspicio che dir si voglia.
Nulla a che vedere con quanto oggi avviene a Londra e a Parigi, ove la
Vittoria del 1918 è ricordata come parte del patrimonio storico
plurisecolare, irrinunciabile e condiviso nei suoi aspetti principali.
Il pur discusso presidente Emmanuel Macron non ha esitato a tributare
il doveroso omaggio alla memoria del generale e poi maresciallo
Philippe Pétain, come l'Italia dovrebbe fare, in forma altrettanto
solenne, nei confronti dei comandanti che nella Grande Guerra ebbero
responsabilità apicali: Luigi Cadorna, Luigi Capello (massone, poi
condannato a trent'anni di carcere senza alcuna prova convincente),
Emanuele Filiberto di Savoia, Duca di Aosta… sino ad Armando Diaz e ai
suoi due vice-comandanti, Pietro Badoglio e Gaetano Giardino, sui quali
gravò la somma della responsabilità. E dovrebbe ricordare specialmente
Vittorio Emanuele III, Capo dello Stato, comandante delle Forze Armate
e unico interlocutore supremo e attendibile degli Alleati, come bene si
vide nel convegno di Peschiera l'8 novembre 1917, quando per gli
osservatori esteri (e non solo) tutto sembrava perduto ma il Re ribadì
che, invece, l'Italia avrebbe retto. Il 3-4 novembre 1918
l'Italia sconfisse l'Impero austro-ungarico. Vinse per sé e per gli
alleati, sospettosi e ingenerosi, a cominciare dalla Francia che teneva
a balia il nascente stato serbo-croato-sloveno, al quale il “santo”
Carlo I d'Asburgo cedette la corazzata “Viribus Unitis”, mandata a
picco dal massone Luigi Rizzo prima che divenisse una minaccia contro
l'Italia. Quando l'aeronautica era ancora albeggiante, le navi erano la
Politica Estera, la proiezione dello Stato. Lo si constatò quando le
corazzate tedesche vennero autoaffondate a Scapa Flow per impedire che
esse venissero spartite tra i vincitori e potessero divenire strumento
contro la Germania. In guerra anche il suicidio è un'arma
gloriosa. L'Italia vinse l'impero austro-ungarico. Il
comandante supremo Armando Diaz, degno continuatore di Luigi Cadorna,
impose che l'Austria, ormai in piena crisi per le pur tardive
insorgenze nazionali a Praga, Budapest, Zagabria, accettasse di
essere attraversata dall'Esercito italiano ancora in guerra contro la
Germania. Tra quanti curarono i dettagli dello strumento armistiziale
va ricordato il rupestre generale Pietro Gazzera, nativo di Bene
Vagienna, futuro ministro della Guerra (come ricordano i suoi biografi,
Oreste Bovio e Giuseppe Novero), apprezzato dal gigantesco Ilarione
Petitti di Roreto, che il 3 novembre mise piede a Trieste per
proclamarla parte del regno d'Italia. Con quella minaccia da sud,
due giorni dopo la proclamazione della repubblica e il “passaggio” di
Guglielmo II in Olanda (nessuno parlò di “fuga”: era condizione
preliminare imposta per le trattative) al governo tedesco non rimase
che chiedere la resa, sottoscritta l'11 novembre in un vagone
ferroviario a Compiègne: lo stesso usato dai tedeschi quando imposero
alla Francia la resa nel giugno 1940. Sconfitta a confini inviolati, la
Germania venne dilaniata da sospetti di tradimenti, di mene occulte,
l'invenzione di un nemico interno (la finanza straniera, gli ebrei, i
massoni...), da anni intento a corrodere il tronco sano della pura
razza tedesca. Mentre la Germania, completa di “spartachisti”
insufflati dalla Russia di Lenin e di milizie reazionarie, galoppava
verso la guerra civile, Hitler cominciò a scrivere Mein Kampf. Non
bastasse, vennero pubblicati i Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Gli
armistizi, le occupazioni, la miriade di microconflitti dilaganti
dall'Asia al Medio e Vicino Oriente e nei Balcani si sommarono alla
guerra civile in corso in Russia accelerando la catastrofe suicida
dell'Europa, il caos sociale, il crollo dei più elementari valori
civili che avevano sorretto un secolo di pace affannosa
(1815-1914). Malgrado l'apparente unità d'intenti in breve
emerse la contrapposizione tra gli Stati Uniti d'America e quel poco
che rimaneva dell'Intesa, tra la Società delle Nazioni proposta a
Parigi sin dal giugno 1917 e la Lega delle Nazioni prospettata dal
presidente degli USA, Woodrow Wilson, in linea con i Quattordici punti
enunciati l'8 gennaio 1918 quale palafitta della pace futura: libertà
dei mari (ovvero dei commerci), autodeterminazione dei popoli (cioè
plebisciti nelle zone mistilingue) e disarmo. Quando entrarono in
guerra contro gli Imperi Centrali gli USA lo fecero “in proprio”, senza
condividere i trattati stipulati dall'Intesa anglo-franco-russa (lo
zar, del resto, era ormai stato deposto) né l'engagement con il quale
il 26 aprile 1915 l'Italia aveva aderito all'Intesa senza per divenirne
componente : alleanza asimmetrica nei contenuti e negli obiettivi. Alla
conferenza per la pace, aperta a Parigi il 12 gennaio 1919, il governo
italiano (il presidente del Consiglio,Vittorio Emanuele Orlando, e il
ministro degli Esteri, Sidney Sonnino) andò convinto di rappresentare
una grande potenza e di ottenervi non solo quanto previsto dall'accordo
di Londra ma anche Fiume, che però era strategica per l'accesso al mare
non solo dell'Austria ma anche dell'Ungheria e delle terre retrostanti.
La grande guerra non aveva insegnato molto a chi, come il ministro
degli Esteri dell'Italia, Sidney Sonnino, aveva una visione arcaica
degli scenari aperti dal crollo di quattro Imperi (Russia, Germania,
Austria-Ungheria e Turco-ottomano) e ancora si affannava sulla carta
geografica come quando puntava il dito su Argirocastro. Il presidente
del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, non era da meno. Il loro
“accompagnatore”, Salvatore Barzilai, ebreo, massone, patriota
integerrimo e spirito universale, scoprì presto che avrebbe fatto
meglio a rimanere a Roma. Al tavolo della pace la delegazione italiana
si presentò e si condusse ignorando la propria rete di sicurezza, la
diplomazia, che non è esibizione di muscoli ma un'arte dai riti
antichi. Pretese di imporsi, accampando i propri caduti. Sennonché
francesi e inglesi ne contavano molti ma molti di più. E gli Stati
Uniti per la vittoria sugli Imperi Centrali non solo avevano speso di
proprio ma avevano concesso giganteschi prestiti, anche all'Italia. Le
scarne comunicazioni alla stampa nascosero il vero andamento dei
lavori, fatto di trame sottili, accordi sottobanco e influenze
inconfessabili esercitate anche vellicando tanti delegati inclini ai
sette peccati capitali. Il governo di Roma compì l'errore
politico di oscurare il ruolo svolto dai militari. Sin dal gennaio
1918, quando l'Esercito aveva appena vinto la battaglia di arresto
contro l'offensiva austro-germanica, fu istituita la Commissione
d'Inchiesta sugli avvenimenti dal 24 ottobre all'8 novembre 1917, cioè
su “Caporetto”. Essa si risolse nel discredito generalizzato degli alti
comandi. Mentre la Francia elesse una Camera “bleu horizont”, con la
nascita del Partito popolare italiano, orchestrato da don Luigi Sturzo,
e l'estremismo rivoluzionario dei socialisti che volevano “fare come in
Russia”, in Italia si prospettò il crollo della dirigenza che aveva
voluto l'intervento e ancora era al governo. Alla base della
debolezza del confronto tra Roma e gli Alleati non vi fu la supposta
protervia di Wilson, Clemenceau e Lloyd George ma la divisione tra gli
italiani. Orlando e Sonnino rimasero succubi dell'oltranzismo
nazional-imperialistico. Il 23 aprile il presidente degli USA si
rivolse direttamente agli italiani, chiedendo che condividessero il
“suo” progetto di pace. Per protesta i rappresentanti dell'Italia
abbandonarono la Conferenza: una “captatio benevolentiae” per partiti e
movimenti di esagitati all'interno del Paese, un fiasco clamoroso nei
rapporti internazionali. Il 29 aprile, infatti, venne approvato lo
Statuto della Società delle Nazioni, la cui importanza, proprio per gli
interessi dei Paesi meno forti, qual era l'Italia, non venne compresa
da Roma, come bene ha documentato Italo Garzia in “L'Italia e le
origini della Società delle Nazioni”. A Orlando non rimase che tornare
a Parigi e sottoscrivere quanto ormai deciso in sua assenza. La
politica estera non è una variabile indipendente dal peso effettivo
politico, militare ed economico degli Stati. Non si regge su “annunci”,
pretese unilaterali, ventilate minacce e vanterie (“otto milioni di
baionette”), ma sui “fatti”, sulla machiavelliana “realtà effettuale”,
a cominciare dalla solidità del bilancio dello Stato. È quanto
avvenne nel 1919. E ancora vale nel 2018. Certo anche la memoria della
propria storia è fondamentale, perché corrobora l'unità nazionale e la
consapevolezza del passato. È fondamentale, anzi, in un Paese quale
l'Italia: regno unitario dal 1861, ma unificato davvero solo nel 1918:
una ricorrenza, quest’ultima, scivolata via sommessamente, come
scrivono Pierluigi Romeo di Colloredo-Mels e Marco Cimmino nel numero
di “Storia in Rete” ora in edicola: “1918: l'anno della Vittoria”.
Quest'ultima fu un traguardo dal costo drammatico, da valorizzare
sull'esempio di quanto all'estero fanno alleati ed ex nemici di un
tempo, ora uniti nella concorde discorde anima euro-occidentale.