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In questa sezione segnaliamo editoriali, articoli, note, recensioni e saggi brevi di interesse.

L'OMAGGIO DI SERGIO MATTARELLA A LUIGI EINAUDI
 
   Sabato 12 maggio il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, renderà omaggio a Luigi Einaudi nel 70° della sua elezione a primo presidente effettivo dello Stato d'Italia (11 maggio 1948). Liberale, monarchico, senatore del Regno dal 6 ottobre 1919, Luigi Einaudi è uno dei giganti della nostra storia con Camillo Cavour e Giovanni Giolitti. Lo ricorda sinteticamente il nostro editorialista, Aldo A. Mola, direttore della Associazione di studi storici Giovanni Giolitti.

LUIGI EINAUDI (1874-1961)
LIBERALE, ECONOMISTA, EUROPEISTA
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 29 aprile 2018, pagg. 1 e 11.

Luigi Einaudi       Luigi Einaudi (Carrù, Cuneo, 24 marzo 1874 - Roma, 30 ottobre 1961) fu eletto primo presidente effettivo della repubblica italiana al quarto scrutinio l’11 maggio 1948, con 518 suffragi su 871 votanti. Liberale e monarchico piemontese prevalse sul siciliano Vittorio Emanuele Orlando, parimenti monarchico, liberale e “presidente della Vittoria”.
Einaudi non aveva studiato da capo dello Stato. Aveva studiato. Perso a dodici anni il padre (esattore delle imposte, recandole nottetempo in calesse dalle Langhe a Cuneo in certi tratti armava la rivoltella) crebbe in casa dello zio, Francesco Fracchia, notaio a Dogliani. Nel 1922 ne raccolse gli Appunti per la storia politica ed amministrativa di Dogliani. Allievo nel collegio dei Padri Scolopi a Savona, nel 1888 fu proclamato “Principe dell’Accademia” su indicazione del geografo Arcangelo Ghisleri, massone. Einaudi fu cattolico praticante, ma senza ostentazione e rispettoso di altre confessioni. Per capirne le radici bisogna visitarne le terre d’origine, le stesse di Giovanni Giolitti e di Marcello Soleri, come ha narrato suo nipote Roberto, architetto e già presidente della Fondazione Luigi Einaudi di Roma. Il suo mondo era ispirato dai principi all’epoca comuni non solo alla classe dirigente diffusa ma tra tutte le persone perbene, anche umili genere natae. I loro motti erano “aiuta te stesso”, “volere è potere”, come insegnò il grande naturalista Michele Lessona.
Laureato in giurisprudenza a Torino appena ventenne, dopo un breve impiego alla Cassa di Risparmio di Torino e nell'organizzazione dell'Esposizione Nazionale torinese per il cinquantenario dello Statuto (1898) iniziò a scrivere per “La Stampa” di Torino già nel 1896, fu professore all’Istituto Tecnico “Franco Andrea Bonelli” di Cuneo e al “Germano Sommeiller” di Torino. Divenne “il maggiore economista liberale del Novecento” a giudizio di Francesco Forte, docente nella sua stessa cattedra di Scienze delle Finanze. Aveva già alle spalle opere prestigiose, come Un principe mercante. Studi sull'espansione coloniale italiana, sulla finanza nello Stato sabaudo e sulle imposte. A lungo collaboratore della rivista “Critica sociale” di Filippo Turati e di Claudio Treves, crebbe nel laboratorio della “Riforma sociale” promossa dal pugliese Salvatore Cognetti de' Martiis e la cui direzione assunse nel 1908. Già collaboratore del quotidiano torinese “La Stampa” di Alfredo Frassati, dal 1903 del milanese “Corriere della Sera” e dal 1922 dell'“Economist”, Einaudi polemizzò aspramente contro i “trivellatori dello Stato” e rimproverò a Giolitti, massimo statista della Nuova Italia, di utilizzare il potere per mediare tra le parti sociali e garantire una costosa “stabilità di governo” a beneficio di troppi “clienti” e opportunisti. Docente straordinario di scienza delle finanze a Pisa nel 1902, lo stesso anno fu chiamato dall'Università di Torino, ove ebbe la cattedra ad vitam.
Credeva nella “bellezza della lotta”, cui intitolò un saggio nel 1923. Interventista nel 1914-15, il 6 ottobre 1919 venne nominato da Vittorio Emanuele III senatore su proposta di Francesco Saverio Nitti. Nel 1922 appoggiò il governo di coalizione nazionale presieduto da Benito Mussolini, che sino al 29 ottobre si propose di averlo ministro delle Finanze affinché potesse attuare i suoi insegnamenti: ridurre drasticamente la spesa pubblica “clientelare”, ripristinare il prestigio dello Stato, assicurare i servizi, azzerare mafie, camorre e tagliare le unghie agli opposti corporativismi: imprenditori “pescicani” e sindacati parassitari. Rimasto escluso dall'esecutivo ne vegliò la condotta dalle colonne dell'“Economist” e del “Corriere”. Al fervore scientifico unì la passione civile per le libertà. Già direttore dell'Istituto di Economia “Ettore Bocconi” di Milano, pubblicò una raccolta di saggi per il giovane editore torinese Piero Gobetti, strenuo oppositore e vittima del regime incipiente. 
All’indomani dell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (10 giugno 1924) per mano di una squadraccia fascista, Einaudi deplorò pubblicamente “il silenzio degli industriali”. L’anno seguente sottoscrisse il “Manifesto” degli intellettuali antifascisti scritto da Benedetto Croce. Le sue opere erano ormai ben note anche oltre Atlantico. Come Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati, nel 1918 aveva giustapposto al sogno della Società delle Nazioni la più realistica e urgente Federazione europea per scongiurare che dal collasso degli imperi nascessero devastanti nazionalismi. Tornò da altro versante a scriverne in Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, in controcanto con il “giolittiano” Benedetto Croce, autore della Storia d'Italia (1928). Sarebbe però errato ritenere che Einaudi fosse un “liberista assoluto”. Tra le sue massime spicca “l’uomo libero vuole che lo Stato intervenga”. Il suo era “liberalismo senza aggettivi”. Come ha ricordato Tito Lucrezio Rizzo nel suo profilo biografico, Einaudi ammonì: “la scienza economica è subordinata alla legge morale”.
Di vasto respiro e profondità documentaria e critica spiccano due sue opere degli Anni Trenta: La condotta economica e gli effetti sociali della guerra (1933), scritta appena quindici anni dopo la fine del primo conflitto mondiale, e Teoria della moneta immaginaria nel tempo da Carlomagno alla rivoluzione francese (1936).
Dopo l'arresto e la breve detenzione dei figli Giulio e Roberto (il terzo, Mario, era migrato negli Stati Uniti d'America) e la forzata chiusura della “Riforma sociale”, Einaudi fondò la dotta e prestigiosa “Rivista di storia economica”, pubblicata dalla casa editrice di suo figlio Giulio e protratta sino al 1943. Nel 1938 fu tra i dieci senatori che votarono contro la legge “per la difesa della stirpe” e si pronunciò contro l’antisemitismo e l’incipiente vassallaggio ideologico-diplomatico-militare del governo Mussolini nei confronti della Germania di Adolf Hitler. Tenuto, come tutti i pubblici dipendenti a dichiarare la propria “stirpe” rispose che la sua gente era da sempre “ligure” con apporti di altre genti nel corso del tempo.
Dopo molte edizioni dei fondamentali Principii di scienza della finanza condensò decenni di studi in Miti e paradossi della giustizia tributaria (1938). Come ha scritto Ruggiero Romano, Einaudi fu “il più grande demitizzatore” italiano del Novecento, non solo su teorie e pregiudizi economicistici, ma con riferimento alla vita sociale: abolizione delle “maiuscole”, dei “titoli” vanesii, dei formalismi pomposi ostentati per celare il vuoto.
Al crollo del regime mussoliniano (25 luglio 1943) Einaudi fu nominato rettore dell'Università di Torino, mentre Filippo Burzio assunse la direzione della “Stampa”. Con la proclamazione della resa senza condizioni (8 settembre 1943), quando l'Italia rimase “divisa in due” (formula poi usata da Croce) e le regioni centro-settentrionali vennero rapidamente occupate dai tedeschi, appreso di essere ricercato, Einaudi riparò in Svizzera. Vi pubblicò I problemi economici della Federazione europea.
Sulla fine dell’anno seguente fu chiamato a Roma dal governo presieduto da Ivanoe Bonomi e, d'intesa con il ministro del Tesoro Marcello Soleri, il 4 gennaio 1945 venne nominato governatore della Banca d’Italia in successione a Vincenzo Azzolini, arrestato per presunta collusione con gli occupanti germanici in danno della Banca stessa. Quale direttore generale volle a fianco Donato Menichella, che neppure conosceva di persona ma la cui formidabile competenza sulle relazioni tra banca e industria molto apprezzava. Lo attese un compito immane. Aveva pubblicato Lineamenti di una politica economica liberale. Il governo era sotto tutela della Commissione Alleata di Controllo. L’amministrazione era a sua vola subordinata ai governatori militari. L’Italia meridionale era inondata dalle Am-Lire. La moneta circolante era quasi venti volte superiore a quella d'anteguerra. L'inflazione galoppava. Il prodotto interno in molte regioni era dimezzato. In tante plaghe la popolazione era alla fame. I sei partiti rappresentanti nel Comitato Centrale di Liberazione Nazionale (in quello dell'Alta Italia erano cinque: vi mancava la Democrazia del lavoro) e al governo erano divisi, nell'immediato e nelle prospettive ultime. Il capo dell’esecutivo, Pietro Badoglio, aveva sciolto la Camera; l’alto commissario per l'epurazione aveva privato quasi tutti i senatori del rango e dei diritti politici e civili. Il governatore dovette quindi valersi di cariche e poteri ulteriori a sostegno dalla propria opera. Perciò venne nominato membro della Consulta Nazionale che preparò la Costituente. Fu eletto per il partito liberale all’Assemblea Costituente (2-3 giugno 1946) e nel 1947, dopo il viaggio negli Stati Uniti d'America, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi (della Democrazia Cristiana) lo volle vicepresidente e ministro del Bilancio. Con apposito decreto fu confermato governatore della Banca d'Italia e poté tessere la tela quotidiana della Ricostruzione.
Consapevole delle drammatiche difficoltà nelle quali versava il Paese, anziché vagheggiare progetti tanto vasti quanto inattuabili, puntò realisticamente su interventi “a pezzi e bocconi”, come narrato dal suo fido segretario particolare, Antonio d'Aroma. Doveva ristrutturare un edificio occupato da persone che non potevano esserne allontanate, la “romana burocrazia nostra sovrana”.
Per attuare il risanamento monetario a suo avviso non esistevano “mezzi taumaturgici”. Dopo il prestito nazionale promosso da Marcello Soleri, che gli dedicò gli ultimi febbricitanti mesi di vita con patriottismo esemplare, Einaudi lasciò che il tempo facesse tramontare propositi inattuabili, quali il “cambio della lira”, che avrebbe provocato la fuga dei pochi capitali disponibili e scoraggiato investimenti dall'estero. Come da lui previsto, in un paio d’anni le speculazioni si esaurirono e l’inflazione si ridusse a indici accettabili con la ripresa, favorita dai giganteschi prestiti senza oneri dagli USA nell'ambito del Piano Marshall.
Contrario a imposte straordinarie, contrarissimo a tasse patrimoniali che avrebbero colpito media e piccola proprietà (se n’era occupato nel magistrale saggio del 1920 su Il problema delle abitazioni), Einaudi mirò alla riesumazione della classe media, della scuola (pubblica o privata, purché seria, formativa, rigorosa), di quanti servivano lo Stato con dedizione alimentata dal ricordo delle tante sofferenze vissute nelle due guerre e a prezzo di tante vite. Monarchico libero da feticismi, poté presto salutare il plebiscito del “quarto partito”: i risparmiatori, spina dorsale della Nuova Italia. Nella sua immane opera ebbe collaboratori il biellese Giuseppe Pella, futuro presidente del Consiglio, e l'insigne economista Gustavo Del Vecchio.
 Alla Costituente pronunciò discorsi appassionati e taglienti. Componente della Commissione dei Settantacinque che redasse la bozza della Carta, ottenne l'approvazione dell’articolo 81, che recita: “Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”.
Nominato membro di diritto del Senato della Repubblica (22 aprile), all’indomani delle elezioni, prese parte all'inaugurazione della prima legislatura, chiamata a eleggere il Capo dello Stato. 
 Alle 6 del mattino dell’11 maggio 1948 Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio andò a informarlo che De Gasperi lo avrebbe fatto votare presidente della Repubblica per superare lo stallo sul nome di Carlo Sforza, per tre volte sostenuto senza successo. Il settantaduenne statista non gli ricordò di aver votato monarchia; lo aveva fatto anche Andreotti. Osservò invece che, claudicante e minuto qual era, avrebbe dovuto sfilare dinnanzi ai corazzieri. Fu eletto e nessuno trovò alcunché da obiettare. I corazzieri non avevano dimenticato Vittorio Emanuele III...
Capo dello Stato, Einaudi lasciò memoria del suo operoso settennato in Lo scrittoio del Presidente e Prediche inutili. Continuò a studiare, a pubblicare e a promuovere ricerche per unire gli italiani, come poi fece negli anni seguenti, restituito alla cattedra universitaria con speciale decreto. Improntò l'esercizio del suo ruolo alla discrezione, al rigore, alla continuità. Lo si vide con l'istituzione del Segretariato Generale, nel solco del Ministero della Real Casa. Nulla di enfatico, tutto volto al pratico, con la misura dell’austerità. All’inizio del 1945 aveva tracciato le linee del nuovo liberalismo: “quando siano soppressi i guadagni privilegianti derivanti da monopolio, e siano serbati e onorati i redditi ottenuti in libera concorrenza con la gente nuova, e la gente nuova sia tratta anche dalle file degli operai e dei contadini, oltre che dal medio ceto; quando il medio ceto comprenda la più parte degli uomini viventi, noi avremo una società di uguali, no, che sarebbe una società di morti, ma avremo una società di uomini liberi”.
 Qual è l’eredità di Einaudi? Quando sentiva (talora anche da persone vicine) vagheggiare di ideologie “sovietiche” neppure rispondeva: batteva il bastone per terra per dire che era impossibile dialogare. Anch’egli coltivò propositi mai attuati: a cominciare dall’abolizione del valore legale dei titoli di studio, il mito dello “stato sovrano”: pagine, queste, pubblicate nella Piccola antologia federalista, con scritti di Jean Monnet, Denis de Rougemont e altri.  
Cultore profondo del “senso dello stato” che, spiegò Benedetto Croce, ministro dell’Istruzione con Giolitti, non è solo “liberismo”, è “liberalismo”, Einaudi ne indicò i fondamenti nella tradizione civile sorta dalla cultura classica e dall’illuminismo, alla cui riscoperta critica si dedicarono egli stesso, bibliofilo appassionato, e Franco Venturi. Da presidente dell’associazione dei piemontesi a Roma, nel 1961 promosse i due ponderosi volumi Storia del Piemonte (ed. Casanova).
Quali pionieri e numi tutelari del federalismo europeo vengono solitamente citati Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman, autore del piano che dette vita alla Comunità europea del carbone dell'acciaio. Tra i profeti e artefici della Nuova Europa va però posto e ricordato in primo luogo proprio Luigi Einaudi capace di conciliare concretezza e profezia, sulla base irrinunciabile dello studio storico e della scienza della finanze e dell’economia politica, senza la quale la politica economica è vaniloquio.
Aldo A. Mola
 
MONARCHICI E MASSONI
PER LA SVOLTA DEL 18 APRILE 1948
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 22 aprile 2018, pagg. 1 e 11.

       Chi davvero determinò la vittoria della Democrazia cristiana (Dc) il 18-19 aprile del 1948? Molti pensano che Alcide De Gasperi vada proclamato, se non santo, almeno Beato, perché ne fu il condottiero. Secondo la narrazione compiacente, egli giunse in solitaria sulla vetta, ma volle condividere il trionfo con i partitini di centro. Lo storico diffida delle aureole. Mette in ordine la sequenza dei fatti e documenta. Chi fu il vero motore e il beneficiario di quelle elezioni, decisive per l'Italia di ieri, oggi e domani? Non il segretario della Dc, ma i monarchici e i massoni italo-americani che gl avevano fatto un corso accelerato di “Occidente”. De Gasperi apprese e si adeguò. Del resto era presidente del Consiglio di un Paese che aveva perso la guerra. L'Italia non aveva scelta. L'11 gennaio 1948 vennero massacrati a Mogadiscio 52 italiani e 11 somali filoitaliani. Roma tacque. Scese la saracinesca dell'oblio sulla nostra politica coloniale, rievocata nello splendido album “Viaggio nella Somalia italiana” di Alberto Alpozzi con prefazione di Maria Gabriella di Savoia. Il 12 gennaio il comunista Umberto Terracini, presidente della Costituente, impedì la rievocazione di Vittorio Emanuele III, che poteva e doveva essere occasione di dell'esame di coscienza tuttora tardante.  
   All'indomani delle elezioni De Gasperi varò il  “centrismo” con liberali, repubblicani e socialdemocratci, durato sino all'avvento del centro-sinistra precorso da Amintore Fanfani e attuato su impulso di Aldo Moro. Lo fece per una sorta di schivo buon cuore? No. Infatti alle elezioni la Dc ottenne il 48,5% dei voti per la Camera dei deputati e 305 seggi su 573. A Montecitorio aveva dunque una solida maggioranza. Al Senato ottenne invece il 48 % e spuntò appena 131 scranni sui 237 in palio. Ma la Camera Alta venne formata da 344 patres.  Il 24 aprile scattò infatti la III disposizione transitoria della Costituzione, che stabiliva la nomina di 107 senatori dalle speciali benemerenze: ex presidenti del Consiglio e di Assemblee legislative, membri del disciolto Senato del regno non epurati per connivenza col regime (fu il caso, per esempio, di Benedetto Croce e Luigi Einaudi), ex deputati con tre legislature alle spalle, inclusa la Costituente, quelli dichiarati decaduti il 9 novembre 1926 perché indebitamente assenti (gli “aventinisti”) o condannati a cinque anni dal Tribunale speciale fascista per la difesa dello Stato e, infine, i senatori regi che avessero fatto parte della Consulta Nazionale (1945-1946). Si disse che alcuni sarebbero diventati senatori “per meriti carcerari”. 
  Ironia a parte, il dato politico è fondamentale. Dei 107 “senatori di diritto” i democristiani furono appena 18. I comunisti ne contarono 31; i socialisti 11; i socialdemocratici 13. Sei scranni andarono ai repubblicani, 5 ai liberali, 4 ai democratici di sinistra (fiancheggiatori del Fronte popolare). Diciannove si iscrissero al “gruppo misto”. I più erano di  orientamento laico e poco teneri verso la Dc, bastione dei clericali organizzati dai Comitati civici allestiti da Luigi Gedda e pronti a schierarsi in piazza san Pietro con il basco verde. Nulla si sapeva di “Gladio” ma un settore dello Stato (fiacco nel giugno 1946) non sarebbe rimasto con le mani in mano in caso di disordini fomentati dall'estrema sinistra. A conti fatti, al Senato la DC di  De Gasperi poté contare appena su 151 dei 344 patres. Era in minoranza. Per legiferare aveva bisogno inderogabile di “responsabili”. Perciò formò il governo di coalizione: non per superiore intuito politico o generosità verso i partiti “centristi” ma perché non poteva fare diversamente. Lo ricorda Aldo G. Ricci in IL compromesso costituente (Ed. Bastogi), distillato dai tre volumoni di Verbali del Consiglio dei ministri (1948-1953). 
 Dalle urne il Paese uscì profondamente diviso. Il Fronte democratico popolare (Partito comunista, partito socialista e sinistra democratica, comprendente ex militanti del Partito d'azione e anche ex repubblicani, come il generale Arnaldo Azzi, e vaganti come Enrico Molè) fu identificato con i rossi che a metà febbraio imposero il regime comunista a Praga e “suicidarono” Jan Masaryk e la dirigenza democratica (di fatto, non di etichetta).  Sull'Europa spiravano i venti gelidi della guerra fredda. Da una parte gli USA di Harry Truman, grado 32° del Rito scozzese antico e accettato, e la Gran Bretagna (senza il fratello Winston Churchill al potere, ma comunque “occidentale”) e dall'altra l'ex seminarista georgiano Stalin, che faceva coincidere con i carri armati il sistema sociale russo-sovietico, previa eliminazione fisica degli oppositori.
  Un monocolore democristiano non sarebbe andato lontano. Due anni prima, all'elezione dell'Assemblea costituente, la DC si era fermata al 35 %. Il 18 aprile del 1948 calamitò il grosso dei voti che il 2-3 giugno 1946 erano andati alla monarchia e ai partiti di suo riferimento, nonché quelli delle province escluse dal voto e che ora poterono dire la loro. Votarono anche i prigionieri di guerra (in Russia ne rimanevano ancora molti, compresi tre generali, fra i quali Battisti) e quasi due milioni di cittadini cui nel 1946 tagliati fuori al referendum per motivi politici o perché non raggiunti dagli uffici elettorali. Quel 18 aprile 1848 essi fecero massa critica, non certo a favore dell'URSS e dei frontisti, che attendevano l'arrivo dell'Armata Rossa (tante volte sfortunato, Pietro Nenni ebbe persino il Premio Stalin, solitamente conferito ai complici del dittatore).
   De Gasperi capì al volo quello che era ed è sotto gli occhi di tutti: in Italia i voti sono volatili. Ieri, come oggi e domani. Si spostano come stormi di storni. Imbrattano e poi si spostano. Inoltre ebbe chiaro che alla massa dei suffragi non corrispondeva una dirigenza “democristiana” culturalmente e tecnicamente preparata a governare la Ricostruzione, che richiedeva competenza, dedizione, senso dello Stato. Le personalità qualificate abbondavano invece nei partiti viciniori. Ve ne erano a iosa tra i “senatori di diritto”: lo scaltro Salvatore Aldisio, il generale Roberto Bencivenga, Ivanoe Bonomi, Arturo Labriola, Vittorio Emanuele Orlando, Meuccio Ruini e Ferruccio Parri, che nel 1947 aveva dato vita alla Federazione italiana associazioni partigiane (Fiap), alternativa alla socialcomunista Associazione Nazionale Partigiani Italiani (Anpi) ed era stato eletto deputato alla Costituente con l'“occidentale” Ugo La  Malfa.
  Mentre in Italia ferveva la campagna elettorale, tra gli USA e Londra venne varato il Piano Marshall per la Ricostruzione economica europea (ERP), celebrata in francobolli che i ragazzini dell'epoca collezionavano come viatico verso un'Italia migliore. Questa aveva i piedi bene affondati del passato. In sintesi. I comunisti volevano da sempre  un Parlamento unicamerale, come in tutti i regimi rossi e neri. Perciò nel 1944-45 cercarono di cancellare il Senato del Regno, che però abbondava di galantuomini e sopravvisse. Esso fu sciolto solo nel novembre 1947, un anno e mezzo dopo l'avvento della repubblica. Del resto tanti senatori erano stati o erano ai vertici dello Stato, dal maresciallo Pietro Badoglio a Enrico De Nicola.
  La storia non consente improvvisazioni. Perciò, messi i voti in fienile, De Gasperi formò il primo governo della Prima Legislatura repubblicana incardinato su Carlo Sforza agli Esteri,  Ezio Vanoni alle Finanze, Antonio Segni all'Agricoltura, il socialdemocratico Giuseppe Saragat alla Marina mercantile e il repubblicano Randolfo Pacciardi alla Difesa. Con ben  due iniziazioni massoniche alle spalle fu lui a traghettare l'Italia nell'Alleanza Atlantica.
  Non vi erano alternative. Quanto avvenne nell'aprile 1948 deve far aprire gli occhi su ciò che attende. Un Paese economicamente debole deve darsi ordine e disciplina. Deve formulare un progetto che non sia solo obolo per esistenza in vita o per girovaghi di passo dall'uno all'altro continente. Il vero artefice della Ricostruzione non fu De Gasperi, suo percettore politico, ma Luigi Einaudi, monarchico, liberale, piemontese di cultura universale. Non è per caso se le Salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena riposano nel Santuario-Basilica di Vicoforte, due passi da Carrù e Dogliani, le terre della Civiltà del Piemonte, cardine del governo, con sottosegretari di valore, quali Giulio   Andreotti, Giuseppe Brusasca, Achille Marazza, Emilio Colombo, Giorgio La Pira e Bernardo Mattarella, padre dell'attuale presidente della Repubblica.
  Lo Stato è continuità. A garantirla non fu solo De Gasperi, ma i senatori di diritto e alcuni fratelli d'Italia che facevano la spola tra Roma e oltre Atlantico, come Frank Bellini e Charles Fama, la cui storia è ancora tutta da narrare. Quello del 18 aprile  1948, conclusivamente, fu un voto “per”, non contro, lo Stato, un sì alla pacificazione, non al prolungamento della guerra civile. Fu un voto per il ritorno dell'Italia all'avanguardia d'Europa. Ma sino al 1955 l'ONU la tenne sulla soglia del Palazzo di Vetro. Anche quella lunga quarantena va capita e raccontata, mentre il Paese declina e rischia di fermarsi nel drappello di coda della storia ventura.  
Aldo A Mola
 

VOTI (POCHI)  VETI (TROPPI)
LO STATO IN BILICO
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 8 aprile 2018, pagg. 1 e 11.

       Di veti “ad personam” la democrazia in Italia è già morta una volta, nel 1921-1922. Tanti “politici” non lo ricordano o non l'hanno mai appreso. Perciò è bene ripassare quei fatti. Don Luigi Sturzo, segretario del Partito popolare italiano (la Democrazia cristiana di allora, adesso cara a Grillo Beppe), mise il “veto” a Giolitti quale presidente di un governo formato da liberali, cattolici e socialisti. Anche per colpa sua, al posto dell'ottantenne Statista liberale, l'unico in grado di fermare la deriva verso l'abisso, al potere salì il trentanovenne Mussolini (ex socialmassimalista e di molto altro), col benestare del democristiano Alcide De Gasperi, che spianò la via al suo governo. Vi è motivo di ricordarlo nella Domenica “in albis”, festa di transizione. Deposta la veste infangata, oggi si indossa quella candida, battesimale. È giorno di lavacri e purificazione. Ne ha bisogno l'Italia odierna, uscita da cinque anni melmosi. La XVII^ legislatura ha lasciato un’eredità pesante. Chi si illude che le votazioni abbiano spalancato chissà quale radioso futuro non ha coscienza della realtà incombente, né, meno ancora, di capisaldi della Costituzione che non ammettono né aggiramenti né scorciatoie. 
   Il Presidente Sergio Mattarella ha ammonito di essere interprete dei cittadini. E' il nocchiero di un'Italia in gran tempesta. Al netto di astenuti, schede bianche e nulle, i Cinque Stelle di Di Maio (dal sorriso tra teso e sardonico, come accade a chi è agli sgoccioli) hanno ottenuto il 32% dei voti validi. Meno di un terzo. Non bastano né mai basteranno a sorreggere un governo. Quando nel 1992 calò su quella soglia, la fatiscente Democrazia cristiana gettò la spugna. Le mancava il 68% degli italiani. Esattamente quanti non ne hanno oggi i grillini per pretendere il controllo delle Camere, delle Commissioni, il governo e… la Luna. Essi possono strepitare quanto vogliono, ma da soli non hanno alcuna maggioranza. Perciò si “offrono” a destra e anche a manca, all'insegna del “Franza o Spagna pur che se magna”: afferrare il potere, spendere e spandere e fare i Frati Cipolla sperando di non finire come Masaniello. Sanno che né per loro né per altri “illusionisti” vi sarà un nuovo 4 marzo 2018. Quando si tornasse alle urne (tra sei mesi, un anno o più) gli elettori staranno molto peggio di oggi e avranno smesso di credere ai miracoli della Casaleggio Associati, alla Piattaforma Rousseau e alle altre fanfaluche strombazzate durante la peggior campagna elettorale dell'Italia repubblicana. Alla prova dei fatti si vedrà anche se e quanto reggeranno certi gruppi comprendenti anticaglie di partiti dalla storia un tempo gloriosa, ma ridotti a raccattare un seggio purchessia.    
    La pausa di riflessione dettata dal Presidente Mattarella è propizia per ricordare alcuni capisaldi del regime vigente (il migliore possibile, sic stantibus rebus, come convenimmo più volte in dialogo con Marco Pannella). In primo luogo “il Presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio” (art. 92 comma 2 Cost.). La Carta non dice come e perché giunga o debba giungere alla decisione. È suo riservato dominio. La prassi è mutevole, la pienezza del potere è altra. Ricalca esattamente lo Statuto Albertino, che riservava al re la nomina dei ministri, come fece Vittorio Emanuele III il 30 ottobre 1922 e il 25 luglio 1943, sentite le parti in gioco e assunte le sue responsabilità dinnanzi alla storia, perché quello è il compito del Capo dello Stato: “Un brut fardèl”, come disse il morente Vittorio Emanuele II al figlio Umberto (assassinato a Monza il 29 luglio 1900, a conferma di quanto sia sempre stato difficile governare l'Italia).
    Mentre infuria il fatuo strepito sull'abolizione dei “vitalizi” spettanti ai parlamentari va ricordato ai neofiti della politica che il riconoscimento economico della rappresentanza politica fu introdotta nel 1912-1913 in coincidenza con il suffragio universale, proprio per consentire ai non abbienti di svolgere decorosamente la funzione politica, altrimenti riservata a una casta. Abusi, sperperi e ruberie vanno certo aboliti, ma  salvaguardando le prerogative dei parlamentari, inclusa la remunerazione, uno dei perni della loro indipendenza (è abnorme, semmai, che gli “eletti” debbano versare una mensilità al “datore dell'elezione”, del quale si riconoscono succubi). Del tutto improprio è misurare l'efficacia dell'esercizio della carica con la presenza in aula, come qualcuno improvvidamente ha proposto. Anziché sedere accalcati e sudaticci negli scomodissimi scranni di Palazzo Madama e di Montecitorio, deputati e senatori hanno molti validi modi e tante altre sedi per professare la missione loro assegnata con l'elezione: visitando il Paese, ascoltandone i cittadini, studiando.... Basta si rileggano le opere di misericordia spirituale e corporale, che precedono la Carta del 1948. Meno sedute, ma più concludenti. Meno “riforme”, meno “leggi” (anzi, vanno sfoltite) e più concentrazione sugli impegni vitali del Paese: Esteri (Alfano è ancora sempre lì...), Difesa (evitando pessime figure e soprattutto il ridicolo mandando missioni militari a caso in giro per il mondo), Istruzione (quando avremo un ministro adeguato alla carica un tempo ricoperta da Benedetto Croce e da Giovanni Gentile?).
   L'ordinamento costituzionale oggi subisce una grave aggressione, che va denunciata e respinta con chiarezza. L'art. 67 della Carta recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione (maiuscolo) ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Così era nato il Parlamento del regno di Sardegna nel 1848 (unica monarchia rappresentativa in Italia, con buona pace di neoborbonici e altri nostalgici degli staterelli preunitari, incluso quello del papa-re) e così esso visse sino al 1939, quando la Camera elettiva fu sostituita con quella dei Fasci e delle Corporazioni, formata esclusivamente di tesserati del PNF, a differenza di quelle elette nel 1929 e 1934, che salvavano l'apparenza con la rappresentanza di istituti e sodalizi non formalmente “fascisti”, dalla Lega Navale al Touring Club Italiano...     
  La libertà dal “vincolo di mandato” è il sale della vita politica. Esso non trovò spazio nei partiti totalitari, usi a screditare i dissenzienti come traditori, radiati ed esposti al pubblico ludibrio. Fu la sorte riservata dal Partito comunista d'Italia, succubo di Stalin a Mosca, a chi non si allineava alle cangianti direttive del “Capo”(i più sfortunati vennero ammazzati o destinati a morire di fatica e di stenti nei gulag). Oggi la libertà dal vincolo di mandato è negata dal Movimento Cinque Stelle, i cui vertici pretendono di assegnare patenti di moralità politica non solo al proprio interno ma addirittura all'Italia intera. Questa arroganza va respinta con fermezza. Fa tutt'uno con quella della dottoressa Rosy Bindi, che vorrebbe subordinare la “presentabilità” alle urne a criteri privi di basi giuridiche (per esempio l'appartenenza o meno ad associazioni non proibite, quali le Comunità massoniche) e a suoi pregiudizi personali.
    La bizzarra pretesa di vincolare al “Capopartito” anziché alla Nazione l'esercizio della funzione parlamentare paradossalmente viene avanzata anche nelle file di partitelli nati da scissioni. Anche sotto questo profilo la XVII^ legislatura  lascia un'eredità avvilente. Essa si chiuse con la nascita di un cartello (i Liberi e Uguali) capitanato dai presidenti delle due Camere: un precedente destinato a pesare sulle istituzioni. La loro sortita è così screditante che si preferisce esorcizzarla, nel silenzio dei costituzionalisti. Però c'è, rimarrà e peserà.
     Come dunque si vestiranno certi partiti dopo questa domenica in albis? L'ipotesi di un governo di legislatura è la meno augurabile, perché comporterebbe altri cinque anni di litigiosissima campagna elettorale e di esaurimento delle magre risorse del paese. Usciamo da un lustro di lotte fratricide. Il Paese chiede aria di primavera. All'indomani del voto Dario Franceschini auspicò che la XVIII legislatura assuma un ruolo “costituente”. E' pensiero condivisibile. Il primo passo per risalire la china è però  il varo di una legge elettorale che concili rappresentanza e stabilità: non lo era l'“Italicum” vagheggiato da Matteo Renzi (arrogante come tutti i dilettanti, al pari della proterva Maria Elena Boschi) né lo è il  non rimpianto “Rosatellum”. Da lì bisogna partire. Non perché ce lo chieda l'Europa. Lo sollecita la memoria della storia d'Italia. Lo sfascio della democrazia liberale non nacque col governo Mussolini, coalizione di tutti i partiti statutari, ma, come detto sopra, per l'opposizione di Luigi Sturzo (“prete intrigante”) a un governo liberal-socialista capitanato dall'ottantenne Giolitti e col sostegno dei cattolici, chiamati al governo sin dal lontano 1917, quando Filippo Meda assunse le Finanze. La democrazia rappresentativa andò a rotoli per via di quel “veto”. Oggi siamo daccapo lì. Tocca al presidente Mattarella ricordare ai parlamentari i loro diritti e i loro doveri. Doni loro una copia della Costituzione e accerti che l'abbiano appresa e che la rispettino. Altro poi potrà venire, nei secoli; per ora è quanto di meglio si possa avere. La patente di guida richiede esami più severi di quelli dell'elezione a parlamentare. Oltre all'eccellente Consigliere per l'Informazione, forse al Presidente occorre un Consigliere per la Formazione dei neofiti della rappresentanza democratica: un “mestiere”, questo, molto più impegnativo delle normali “professioni”, come agli Ateniesi ripeteva Socrate. I quali, infastiditi dai suoi moniti, lo condannarono ad avvelenarsi bevendo la cicuta. L'Italia odierna offre alternative migliori? 
Aldo A. Mola
 
 
L'Editoriale
RISANARE PER RISORGERE SENZA AVVENTURE
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 1 aprile 2018, pagg. 1 e 11.

Il Presidente Sergio Mattarella       Il difficile viene adesso. Anzi, ci viene addosso, senza dilazione né sconti. L'Italia è vincolata a scadenze obbligate, dettate da impegni accettati, sottoscritti, ineludibili. Il calendario dell'Unione impone un bagno di realismo a un Paese in parte preda di sogni farneticanti e tentato di allontanare da sé l'amaro calice di mantenere gli impegni con la scappatoia infantile: altre elezioni. Alcuni (come il Movimento di Grillo) svicolano, pretendendo per sé soli tutto il potere; altri (è il caso del Partito democratico) si arroccano indispettiti sul loro fallimento politico, prima e più che elettorale. Troppi giocano ai quattro cantoni mentre la casa rischia il crollo. Ma il bel gioco dura poco. Entro dieci giorni, vecchio o nuovo che sia, il governo deve presentare i suoi conti all'Unione Europea. Dovrà farlo il governo attuale, in parte allo sbando e comunque in carica solo per l'ordinaria amministrazione: un limite che Paolo Gentiloni farà bene a non dimenticare, guardandosi da impegni travalicanti in politica estera e militare. Auspichiamo che il presidente della Repubblica regali un “Bignami” di storia ai ministri attuali e futuri e ai parlamentari, novizi e fattizi (compreso Ferdinando Casini), per ricordare le troppe avventure nelle quali il Paese è stato gettato nel corso del tempo con decisioni improvvide. I “Bignami” più aggiornati ci dicono che, incalzante il volenteroso Giorgio Napolitano, l'Italia andò a traino di Francia e Gran Bretagna nella caotica “guerra di Libia”, lontanissima da soluzione, e qualcuno scalpitò persino quando iniziò la catastrofe in Siria. Ora, mentre il Vicino Oriente è daccapo una polveriera sull'orlo dell'esplosione, occorre fermarsi a riflettere.
  Per alcuni paesi oggi è Pasqua di Resurrezione per altri è Guerra devastante. Dopo cinque anni di campagna elettorale estenuante, le votazioni delle alte cariche del Parlamento (in un clima talora goliardico e con alcune pugnalate nell'urna) hanno dato la sgradevole impressione che esse siano garanti di predominio anziché di equilibrio. I “cri-cri” dei grillini sull'abolizione dei vitalizi dei parlamentari sanno di giustizialismo a buon mercato. Ora, però, siamo alla resa dei conti. L'Italia è chiamata a mostrare di essere uno Stato credibile. Al netto della ridda di chiacchiere sull'esito delle votazioni e sulle arzigogolate coalizioni di governo, il punto è uno solo: presentare i “conti” all'“Europa”, cioè al Potere al quale l'Italia ha trasferito la sovranità sulla propria salute economica. 
   Per carpire consensi tanti partiti hanno promesso l'impossibile. Quasi tutti hanno detto che “questa Europa va cambiata”. Lo fece anche Matteo Renzi, passato in pochi mesi dalle pacche sulle spalle di Ventotene con Merkel e Hollande, alla deprecazione dell'Europa “matrigna” e ingrata. L'Italia, però, è arrivata quasi ultima nella geremiade contro l'Unione. Tanti altri suoi membri, maggiori e minori, da anni ne chiedono profonde riforme. Alcuni, anzi (dall'Austria-Ungheria alla Polonia), voltano le spalle a Bruxelles, niente affatto intimiditi dalla minaccia di sanzioni. Però nessuno è in grado di rimediare. La motivazione è sotto gli occhi, forse sgradevole ma chiara: l'Unione Europea odierna regge solo perché non sta eretta. Campa perché è sdraiata. E' una valetudinaria avvolta nelle coltre delle emissioni di moneta della BCE di Draghi: cura palliativa che non arriva alla radice del male. Per funzionare davvero, l'inflazione auspicata del 2% dovrebbe essere bilanciata da aumenti di salari e stipendi e dalla corresponsione di interessi sui depositi bancari, senza i quali i consumi  rimangono al palo e la povertà è destinata ad aumentare, come il malcontento popolare, l'esaurimento del ceto medio, indotto alla dissipazione anziché al risparmio. Le elucubrazioni di “banchieri” e di “economisti” cozzano col buon senso antico, oggi come nei secoli andati.
 Ora l'“Europa” è una somma di debolezze, rinunce, abdicazioni e di equivoci irrisolti, a cominciare dall'assenza di politica estera e militare unitaria. Basti a conferma l'evanescenza della signora Mogherini. Questa vacuità arriva da lontano, dalla guerra mondiale perduta dall'Europa occidentale, sul piano militare, politico e finanziario, a vantaggio degli USA e dell'URSS, e dall'incapacità dei “vincitori” (tra i quali figurarono Grecia, Bielorussia, Ucraina, Jugoslavia...) di pensare in europeo sin da quando, nel 1944, si prospettò la sconfitta della Germania di Hitler e, conseguentemente, dell'Impero giapponese (uscita di scena, l'Italia era ormai campo di battaglia e lo rimase due anni con 150.000 vittime di bombardamenti aerei, pari alle atomiche USA su Hiroshima e Nagasaki, e ferite morali mai risanate). Anche dopo il 1945 la Gran Bretagna continuò ad avvolgersi nel sogno di potenza imperiale planetaria. A svegliarla non bastarono l'India, il Kenya, Mandela e via continuando. Altrettanto fece la Francia, ammessa tra i “Grandi” malgrado gli ambigui trascorsi (la Repubblica di Vichy, il socialismo di Marcel Déat, l'estremismo dei suoi comunisti...) e la sua oggettiva fragilità. La sua illusione di impero coloniale (Unione dal 1958) si tradusse nella maggior lacerazione civile postbellica dell'Europa Occidentale: la guerra di Algeria e la lotta armata dell'OAS contro il governo nazionale, volàno della non risolta incomunicabilità odierna tra le due sponde del Mediterraneo. Ma già nel 1953 la bocciatura della Comunità europea di difesa, voluta proprio dalla Francia in odio alla Germania,  aveva decretato l'irrilevanza militare dell'Europa quale Soggetto di storia, con conseguenze epocali. Per comprenderne le proporzioni e la durata occorre rileggere le “Storie” di Erodoto e le “Peloponnesiache” di Tucidide. Anche l'Europa della Belle Epoque fu vittima della “invidia degli dèi” o, se si preferisce, della pochezza della sua dirigenza istituzionale, politica e militare. Quando raggiunse l'apice del benessere e dei “buoni sentimenti” essa scatenò guerre ingovernabili e non seppe costruire la pace.
  Questo lugubre passato incombe. Anzitutto sul Capo dello Stato, Sergio Mattarella, in presenza di un governo dimissionario e nella probabilmente lunga gestazione di un governo forse precario, chiamato a compiere un salto di qualità per varare una legge elettorale seria in vista dell'Assemblea Costituente di cui il Paese da decenni ha bisogno. Il fallimento del referendum voluto da Renzi sul garbuglio costituzionale di sua ideazione ha rinviato la soluzione della “grande riforma”, prospettata sin dai tempi di Bettino Craxi e Aldo Bozzi,  ma non l'ha risolta (anche per questo motivo il 4 marzo è stata severamente punita alle urne l'ala movimentistica del “no”, accorpata in Liberi e Uguali). 
   Nelle more, occorre tenere il Paese al riparo da decisioni improvvide, da passi incauti, dalla velleità di figurare comprimari in decisioni altrui, magari spacciate come decisioni dell'ONU (che cosa è oggi?) e della Nato (l'Italia non vi ha contratto voto di obbedienza: è uno dei membri, non un valletto) o di suoi componenti inclini all'azzardo. E' il caso della vicina Francia, non nuova a imboccare strade pericolose, salvo scaricarne su altri le conseguenze, come insegna la vicenda libica. Ora è la volta dei curdi, presi a pretesto da Parigi per un intervento massiccio in Siria. Erdogan è un liberticida, ma è lo specchio delle contraddizioni della NATO e della doppiezza della Germania. L'Italia ha un dovere solo: tenersi alla larga da avventure altrui, non per viltà ma perché ha sue immani urgenze in politica estera, militare e interna. Per l'estero deve ragionare e far ragionare gli alleati, spesso corrivi a picche e ripicche con motivazioni talora pretestuose, come oggi nei confronti della Russia; sul versante militare ha motivo di rafforzare il proprio apparato con investimenti adeguati alle sfide altrui; all'interno, infine, bisogna equilibrare le condizioni delle diverse aree del Paese, non con elemosine ai cittadini di diritto e a “passanti” ma nelle infrastrutture, nei servizi, nel richiamo ai doveri verso lo Stato. Il Paese si sfarina, dalle buche nelle vie cittadine ai ponti cadenti, allo squallore di lunghi tratti di coste oscurate da edifici vetero-industriali fatiscenti e da opere pubbliche mai terminate, anche per la farragine normativa che disincentiva l'iniziativa e incoraggia la baldanza dell'abusivismo. 
Nel Centenario della Grande Guerra l'Italia ha bisogno di tutto tranne che di un governo “di protesta”. Deve trattare con l'Europa. Ma può farlo solo da posizione credibile, senza ostentazioni di forza: e questa ha una sola premessa, la serietà, un “esame di coscienza”. All'estero sanno tutto di noi. A Bruxelles hanno calcolatrici raffinate e possono confutare eventuali trucchi contabili. E' vero che siamo il paese dove una professoressa viene legata e presa a calci da allievi che ottengono perdono a buon mercato perché “si sa come sono fatti i ragazzi”. Ma non è più tempo di ragazzate. La ricreazione è finita. Occorre tornare al senso dello Stato, alla dignità. Senza risanamento non vi è resurrezione. 
Aldo A. Mola
 
Il Gran Maestro Bisi a Sanremo
QUALE LIBERTA' DI ASSOCIAZIONE?
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 18 marzo 2018, pagg. 1 e 11.

             E' severamente vietata la pesca con reti a strascico. L'ha praticata, invece, la “Commissione parlamentare antimafia” per estorcere a quattro Comunità massoniche i nomi dei loro affiliati. Dopo anni di audizioni, sequestro di elenchi e loro confronto con dati in suo possesso non è emerso nulla di sconvolgente, a parte qualche disordine nell'anagrafe di alcune logge di Obbedienze minori. Malgrado la fragilità degli elementi raccolti, la Commissione ha pubblicato una Relazione sulle “infiltrazioni di Cosa Nostra e della 'Ndrangheta  nella Massoneria in Sicilia e Calabria”. Datata Solstizio d'Inverno del malaugurato 2017, è un colpo di clava sui Figli della Vedova e sul Parlamento neoeletto. Se la vicenda riguardasse solo l'ex presidente dell'ex Commissione, Rosy Bindi, non varrebbe la pena occuparsene. Però la posta in gioco è molto più alta. Sono in discussione le libertà enunciate  nella Carta costituzionale, a cominciare dall'articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Indiscutibile è anche “il diritto di associarsi, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale” (art 18). 
  I diritti “non negoziabili” precedono l'ordinamento dello Stato. Sono “della persona” prima ancora che “del cittadino”. Lo Stato d'Italia ha condiviso la loro priorità riconoscendo solennemente la Dichiarazione universale dei diritti “dell'uomo” (10 dicembre 1948) e tutte le Convenzioni che ne sono derivate, anche in sede europea. Malgrado ciò e senza addurre prove documentali, la Relazione afferma che “l'organizzazione delle obbedienze massoniche si presenta al proprio interno sostanzialmente segreta”. A suo dire le logge “rappresentano un fattore di attrattività per le organizzazioni criminali che vogliano avervi ingresso...”. La massoneria è dipinta come una baiadera, allettante criminali di cerca di nascondiglio per oscure trame. Eppure le sedi, gli organigrammi e le attività interne ed esterne delle Comunità massoniche sono notissimi.  
   Deplorato che non esista ancora una legge sugli obblighi delle associazioni (ma se manca è colpa dei “politici”, non dei massoni, che anzi la chiedono da decenni) la Relazione evoca positivamente la legge (fascistissima) che nel 1925 costrinse il Grande Oriente e la Gran Loggia d'Italia a sciogliersi per non esporre i propri adepti a sanguinose rappresaglie, umiliazioni, licenziamento... Non bastasse, essa ritiene poco efficace persino la legge Spadolini 25 gennaio 1982, n. 17 vietante le società segrete, rinfaccia alla massoneria  “la miope ostinazione a mantenere caratteristiche strutturali e organizzative del tutto similari a quelle delle mafie”  (sic!) e chiede al Parlamento testé eletto di gettare reti a strascico nelle “restanti regioni d'Italia”, per individuare i “reati spia” e i “fattori di rischio” derivanti dall'appartenenza “alla massoneria o ad altre associazioni similari” di politici, funzionari pubblici, appartenenti alle forze di polizia, militari e categoria simili. 
   L'art.82 della Costituzione conferisce alle commissioni d'inchiesta “gli stessi poteri e le stesse limitazioni della Autorità giudiziaria”. Ma “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge (…) nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale” con quel che segue (art. 111). Ognuno vede la lontananza tra le norme costituzionali, la condotta della Commissione e la Relazione. Quest'ultima non è una “sentenza” ma una “narrazione”, con conclusioni apodittiche e di carattere politico.  
  A Rosy Bindi, dalle opinabili cognizioni storiografiche ma sempre decisa a schiacciare la testa del massonico Serpente Verde, suggeriamo di dare una scorsa al bel saggio “Palabras asesinas” di Juan José Morales Ruiz sull'uso dell'antimassoneria nella guerra civile spagnola. Nel suo corso si sommarono le fobie di Francisco Franco con quelle degli stalinisti. Il risultato fu l'ecatombe massoni. Ci vollero decenni prima che la Spagna tornasse a vedere la Luce. Nella stessa età la massoneria fu annientata in Italia, Germania, Austria ed Europa orientale, come già era avvenuto nell'URSS di Lenin e di Stalin. “Socialismo reale” e carri armati sovietici fecero il deserto sino alla fine del secolo scorso.
   Il vero problema dell'Italia odierna non è la compatibilità delle logge con l'ordinamento pubblico (nessuna persona seria la pone in discussione) ma quella di movimenti e partiti che proibiscono ai loro adepti la libertà di iscriversi ad associazioni non vietate dalla legge, quali appunto sono le Comunità massoniche. Lì è il vero vulnus della democrazia in Italia. Quei partiti o movimenti sono in conflitto sia con l'ordinamento democratico sia con la storia che nel Settecento vantò massoni come Vittorio Alfieri e Carlo Goldoni e di Sangro di San Severo (ma Luigi di Maio è mai stato a visitarne la Cappella nel cuore di Napoli?). Ispirati da ideali massonici furono Risorgimento, unificazione nazionale, lotta per le libertà, lentissimo avvicinamento all' Occidente dopo anni di nazionalmassimalismo predicato da balconi da un gesticolante avvolto in paramenti bizzarri (ricordiamo, per inciso, che il fascismo scippò alla massoneria simbologia, terminologia e calendario civile: perciò volle annientarla).      
  Mentre il corpo dello Stato è sommerso da vegetazione selvaggia, arbusti, sterpaglie e da fogliame di dubbia liceità, occorre riportare alla luce i massi ben levigati sui quali esso è sorto e può durare, al di là dei cambi di forme istituzionali e di maggioranze partitiche: quelle pietre cubiche sono i diritti non negoziabili, che valgono molto più di un punto dell'Iva e di ogni moneta, perché la libertà non si baratta con trenta denari. Lo ha detto a San Remo il gran maestro della Gran Loggia d'Italia, Antonio Binni, il 24 febbraio parlando di “Massoneria in pace e per la pace”. Lo ribadirà con forza il gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Stefano Bisi, alle 16 di sabato 24 marzo nel ciclo “I grandi maestri della Massoneria italiana al Casinò di San Remo” diretto da Marzia Taruffi. E lo ha scritto in “Massonofobia. L'Antimafia dell'Inquisizione” (ed. Bonanno) e nella Introduzione al corposo saggio di Guglielmo Adilardi su “Massoneria,società  politica. Profilo storico dalla fondazione ad oggi” (ed. Pontecorboli)
   In Europa e da oltre Atlantico ci guardano attoniti: possibile che l'Italia di tre massoni premi Nobel per la letteratura (Carducci, Pascoli e Quasimodo) e di una quantità di scienziati, artisti, militari, giuristi, persone senza speciali blasoni ma sicuramente perbene passati in loggia la massoneria sia ancora una volta perseguitata? Già. Ma l'Italia confina con una Entità che alterna “misericordine” e scomuniche... Nella Dichiarazione “Placuit Deo” la Congregazione per la dottrina della fede (autorità canonica, non statuale) ha nuovamente condannato neognostici e neopelagiani, identificati con i massoni sin dai tempi di Agostino Barruel. A sua volta la Commissione Antimafia a sostegno delle proprie traballanti tesi ha addotto una decisione “politica” della Santa Sede, che in quanto tale è uno Stato, altra cosa dalla Chiesa cattolica. 
   In tempi procellosi occorre tenere saldo il timone. La libertà di associazione non riguarda solo i massoni ma tutti i cittadini. All'opposto di quanto asserito dalla Relazione Bindi sulla loro “sostanziale segretezza”, le Comunità massoniche agiscono alla luce del sole. Lo si è veduto anche il 1° marzo, quando il Grande Oriente ha aperto i suoi Templi ai visitatori. Forse i massoni italiani debbono allora fare un passo in più: procurarsi un “seggio” tra le Organizzazioni non Governative riconosciute dall'ONU, per ottenere la tutela delle libertà elementari, oggi minacciate dai massonofagi proprio nella patria del “Fratello Garibaldi”.                                                                          
Aldo A. Mola
 
SOTTO IL SEGNO DEL PELLICANO
UNA LEGISLATURA A TEMPO DETERMINATO
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 11 marzo 2018, pagg. 1 e 11.

foto da http://www.affaritaliani.it/             È metà quaresima. Non è tempo di egoismi e vanità ma di riflessione. La Legislatura appena eletta è la diciottesima. Il 18 è il numero dei Rosa+Croce, l'Ordine sorto nell'Europa devastata dalla Guerra dei Trent'anni (1618-1648, come quella dal 1914 al 1945). Rosa+Croce significa Tradizione e Lumi, ricerca ed educazione di minoranze consapevoli e responsabili. La Diciottesima Legislatura nasce sotto il segno del Pellicano, il mistico alato dallo straziante grido asinino, che si squarcia il petto per resuscitare i suoi piccoli col proprio sangue. La precedente, 17^, poteva solo portare male. Il 18 è tutt'altra cosa. Gli esperti di numerologia insegnano che il 18 sta per 1+8, ovvero nove, che vuol dire 3 per 3, numero perfetto moltiplicato 6 volte. Chi “dà i numeri” avverte che, però, se si esagera a sommare 3 più 3 si arriva a 666, la cifra del Diavolo. L'importante, dunque, è fermarsi per tempo. Il 18, Principe Rosa+Croce, ultimo grado “rosso” o capitolare, deve durare lo stretto necessario, appena il tempo per compiere la sua missione e passare alla filosofia. Esattamente quanto oggi occorre all'Italia. Il Paese ha un Parlamento (tutto da “convalidare”), che deve farsi carico di problemi vitali: politica estera coerente (con un ministro di alto profilo là dove ancora siede Alfano), difesa (e quindi missioni militari all'estero e per la sicurezza nel Paese, costose ma necessarie per farci stare “al mondo”) e primato di ricerca e istruzione. L'economia - finanza pubblica, produzione, i sindacati d'interessi (Confindustria inclusa) - vanno a traino in un'Italia che da vent'anni ha abdicato alla sovranità nazionale introducendo in costituzione l'obbligo della parità di bilancio a beneficio di un'Unione Europea che se la ride perché prende molto più di quanto dia.
  L'“Europa” ha bisogno di serio aggiornamento. Non è stata sconfessata da “populismi”. Si è sconfitta da sé, con la propria inerzia. Si è gonfiata a dismisura, ma senza irrobustire scheletro, nervi e muscoli. È una vescica che sta per esplodere. Continuare a stampare moneta è l'opposto di quanto le occorra per rimettersi in linea. Meno euroburocrati fuori controllo, più sostanza: progetto politico e difesa comune (effettiva, non l'apparenza odierna, ferma a livelli di terza fila).
   In questa cornice, come il Pellicano l'Italia deve nutrirsi da sé: l'opposto di quanto promesso dal Movimento 5 Stelle che oggi ha il sostegno del 30% dei voti validi, cioè meno del 20% degli elettori, una percentuale modesta e labile. Ha raccattato seguito promettendo la luna. Chi davvero gli volesse male gli darebbe subito presidenza del consiglio e delle camere e lascerebbe che se la sbrigasse da sé. Ma i Cinque Stelle non hanno il “quid” fondamentale, il “senso dello Stato”. Perciò cedere loro il Potere comporterebbe il disastro. Responsabilità (parola chiave dell'appello del presidente della repubblica, Sergio Mattarella) vuol dire competenza, lasciare da parte presunzione, arroganza, improvvisazione e fronteggiare gli interessi generali permanenti degli italiani. 
   La 18^ Legislatura deve farsi carico di chi l'ha eletta, degli astenuti (molto meno del previsto) e dei quasi sei milioni che hanno votato dall'estero e che oggi assistono a occhi sbarrati allo scempio delle loro schede: una vergognosa presa in giro, una menzogna da quinto mondo. Questa Legislatura è palesemente a tempo determinato. Ha un unico compito: nel 70° della Costituzione varare alla svelta una legge elettorale decente prima che il regime attuale schianti. Dal 1848 al 1913 l'Italia ebbe la miglior legge elettorale d'Europa: i collegi uninominali a doppio turno. Lì bisogna tornare. Essi furono il volano del più grande ricambio di classe dirigente del Vecchio Continente. Gli aristocratici capaci e meritevoli rimasero tutti in prima linea, da Camillo Cavour e Bettino Ricasoli ad Antonino di San Giuliano. Emersero borghesi di levatura eccelsa, come Giovanni Lanza, Quintino Sella, Francesco Crispi e Giovanni  Giolitti. Il filtro erano gli elettori, che potevano sbagliarsi una volta ma non la seconda. La tragedia non fu certo l'introduzione del suffragio universale nel 1913. Questa fu una scommessa meditata che dette vita alla maggioranza potenzialmente più stabile della storia italiana, l'alleanza tra liberali e cattolici conciliati con lo Stato. Contro il famoso “patto Gentiloni” si schierarono solo il socialmassimalista Benito Mussolini, anarco-sindacalisti (corrispondenti ai centri sociali odierni), nazionalisti, clericali estremi e pasticcioni vari. Gabriele d'Annunzio pasturava felice in Francia. La Grande Guerra spezzò l'incantesimo. La catastrofe avvenne invece nel 1919, allorché venne introdotta, per volere di socialisti e don Luigi Sturzo, la “maledetta proporzionale”, che rese impossibile un governo stabile a causa dell'odio ideologico dei rivoluzionari e dei clericali contro lo Stato sorto dal Risorgimento. Le regioni che meno avevano sofferto in guerra passarono all'opposizione e si intrupparono nel governo di unità nazionale dell'ottobre 1922, capitanato da Mussolini. 
   Nata sotto il segno del Pellicano, la diciottesima Legislatura attende che i capipartito (troppi, ondivaghi, una vera babele: “tot capita tot sententiae...”) spieghino ai loro adepti per quale ragione sono stati eletti: servire l'Italia, non un movimento o interessi personali. Esercitare il mandato parlamentare non significa affastellare scontrini a giustificazione della vita quotidiana, ma esercitare la sovranità nazionale su mandato degli elettori: “fare politica”. La classe dirigente di valore fu sempre composta di abbienti, che non avevano bisogno di emolumenti ma si votarono allo Stato, e di persone humili genere natae, che si dedicarono alla vita pubblica non per quattro spiccioli ma per ideali supremi e seppero campare di nulla, con alta dignità. Il deputato socialista torinese Oddino Morgari (eletto quando i parlamentari non ricevevano alcuna indennità) non aveva di che pagarsi neppure una modesta pensione a Roma. Dormiva in un treno parcheggiato a Termini e mangiava alla mensa ferroviaria. Non sognava la “rivoluzione”, il “bagno di sangue della borghesia”, la “rottamazione”. Voleva il progresso effettivo della povera gente. Ebbe alleati i liberali capitanati da Giolitti, che, come scrisse Claudio Treves, “dall'altra riva” aveva capito la necessità di cambiare. È quanto oggi esprime la maggioranza di centro-destra, che non è populista ma popolare, non è anti-europeista ma custode dei valori fondamentali dell'Europa greco-latina, umanistica, razionale, contro ogni fanatismo interno o di importazione, di una Europa che va dalla Federazione Russa di Putin agli USA di Donald Trump, tutti intrinseci al pensiero Occidentale.    
   Perciò il centro-destra ha pieno diritto di rivendicare il governo del Paese: è l'unica compagine dotata di un programma commisurato alle condizioni dell’Italia odierna, gravata da un debito pubblico spaventoso, sotto osservazione e destinata al collasso se al potere andasse chi in breve la ridurrebbe come il Venezuela di Maduro: un Paese ricchissimo e civile precipitato nella catastrofe da un criminale ammirato da molti Cinque Stelle.
 Nel Centenario della Vittoria nella Grande Guerra (una data gloriosa, che troppi oggi vorrebbero oscurare) l'Italia si merita un esecutivo all'altezza della sua sofferta storia e della sua collocazione nella comunità internazionale. È dunque l'ora dei Principi Rosa+Croce. È il tempo del Pellicano, tutt'uno con l'Eucaristia, come insegna la più profonda simbologia cristiana. È il momento della responsabilità. Il Parlamento è convocato il 23 marzo: lo stesso giorno della fondazione dei fasci mussoliniani in piazza San Sepolcro a Milano nel 1919... Mera coincidenza. La data venne decisa dal Presidente Mattarella per concedere tutto il tempo possibile al Pellicano, ma non un giorno di più, perché “la prima riunione (del Parlamento) ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni” (art. 61 Cost.). Però certi partiti insaziabili (sinistre e M5S) “dopo il pasto han più fame che pria”. E a qualcuno di costoro bisognerà chiedere conto della propria democrazia interna (art. 49 Cost.) e del suo concetto di libertà dei cittadini.
Aldo A. Mola


L'EDITORIALE
UN VOTO CONTRO IL CAOS
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 25 febbraio 2018, pagg. 1 e 11.

foto Ministero dell'Interno             Malgrado l'apparenza e le narrazioni mediatiche, l'Italia è il paese più stabile d'Europa. Numericamente irrilevanti e (per ora) “dimostrativi” ma non “ultimativi”, i  deplorevoli ma  circoscritti “crimini” a sfondo  politico di questi giorni provano che è fallito l'enorme sforzo eterodiretto di dividere gli italiani in fazioni scatenate in zuffe continue. L'ormai noiosa reinvenzione della contrapposizione fascismo-antifascismo (o “resistenza”) mostra la povertà della subcultura estremistica, incapace di vedere i problemi italiani del Terzo Millennio. Benché noto, va ripetuto che  non c'è mai stato “il” fascismo. Tra il 1922 e il 1943 l'Italia fu governata da aggregazioni disparate, con progetti per nulla univoci, nel caos dell'Europa uscita da cinque anni di guerra devastante, squassata da rivoluzioni e movimenti armati. Evocare il “fascismo” quale soggetto politico dell'Italia odierna è irreale e infantile (semmai va ricordato che il suo vero unico argine fu la monarchia con Vittorio Emanuele III). Lo stesso vale della “resistenza” o “guerra partigiana”, che fu coacervo di pulsioni e progetti niente affatto convergenti. L'unico suo elemento unificante fu infine il tricolore indossato obbligatoriamente dal Corpo Volontari della Libertà, comandato del generale Raffaele Cadorna, da ricordare tra i “Sacerdoti di Marte” biografati dallo storico Oreste Bovio nell'ottimo volume edito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.  
   Con gesti delittuosi, ripresi ad arte ed enfatizzati dai “media”, qualcuno tenta ora di esibire  all'interno e all'estero il ritratto di un'Italia in preda a convulsioni. Tra una settimana i cittadini diranno quale essa in effetti è. Lo faranno col voto; e anche col probabile 35% di non votanti. Anche questo fa parte della dialettica democratica e dà il polso del paese. Infatti, a parte qualche desolato e isolato “predicatore” dell'astensione (per deluse ambizioni
personali), molti italiani non andranno alle urne nella pacata certezza che il treno-Italia continuerà comunque a correre nei binari della ordinaria normalità. L'astensione “all'italiana” non è un squillo di tromba contro le istituzioni ma frutto della pigra fiducia che esse reggono anche sul silenzioso consenso di chi non va ai seggi ma fa la sua parte nella vita quotidiana. 
Passato in rassegna il panorama dei partiti e dei movimenti in lizza, una constatazione s'impone: a parte frange ideologiche estreme, tutti dichiarano di voler governare e di cercare adesioni e suffragi “in Aula”, cioè nella sede deputata ad approvare o negare la fiducia al governo. Questa è la realtà di un paese dopotutto tranquillo, di cittadini che chiedono solo di essere amministrati meglio. Pesantemente tartassati da imposte e balzelli, gli italiani si attendono una politica estera decorosa (a proposito: dov'è Alfano?), sicurezza pubblica, servizi all'altezza dei tempi e a costi ragionevoli, l'attuazione del titolo II della Costituzione (rapporti etico-sociali) e dell'articolo 47: lo Stato “incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme, disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito”, impegno solenne, questo, che oggi suona beffardo, come la tutela della proprietà privata, della libertà di insegnamento e di tanti altri diritti enunciati della Carta.
L'Italia non ha le esasperate divisioni linguistico-religiose del Belgio, né una mina vagante come la pretesa di una parte dei catalani di ergersi a repubblica indipendente. A differenza di Berlino, non sconta il passivo storico dei quarant'anni di regime dispotico-terroristico imposto alla Germania Orientale, a suo tempo detta “Democratica”. L'Italia è un Paese con tante difficoltà ma un retaggio millenario di fondo, grazie al quale in dieci anni realizzò il “miracolo” dell'unificazione (1859-1870) e in altri dieci (1948-1960) quello della ricostruzione. 
Lasciati nella polvere i fatui libretti esaltanti il brigantaggio come eroica lotta contro i “carnefici” del Mezzogiorno, per intendere il lento positivo progresso conseguito basta un'occhiata all'Italia del 1948. Appena uscita da una guerra civile che si trascinò molto oltre il maggio 1945 e dopo il cambio della forma dello Stato, essa rimase annichilita dal sanguinoso colpo di stato filo-sovietico a Praga (20-25 febbraio), culminato con l'assassinio di Jan Masaryk. Il 3 aprile venne definitivamente varato il Piano Marshall per la ricostruzione europea (ERP). L'Italia ne trasse enormi benefici nel periodo medio-lungo. Le elezioni del 18-19 aprile 1948 decretarono la clamorosa sconfitta del Fronte popolare (partito comunista di Togliatti, partito socialista di Nenni e frange dell'ex partito d'azione in netto conflitto con Ugo La Malfa e Ferruccio Parri che all'ANPI ormai succuba dei social-comunisti contrappose la FIAP) e la vittoria della Democrazia Cristiana. In Parlamento, però, entrò un centinaio di senatori di diritto (Bencivenga, Croce, Einaudi, Arturo Labriola, Emilio Lussu, Nitti, Orlando, Ruini...), che fecero la differenza. Impedirono a De Gasperi di governare con la sola DC e lo obbligarono a varare l'alleanza “centrista”, a “occidentalizzarsi”. All'inizio dell'anno una vignetta del “Travaso” rappresentò l'Italia con un fantaccino di spalle, armato di un fuciletto a tappo innalzante un tricolore ormai senza scudo sabaudo, minuscolo dinnanzi a due enormi militari ritti su carri armati, con in mano l'atomica e la controatomica. Benché sconfitta, l'Italia già aveva avviato la ripresa. Il 22 marzo il marchese Antonio Meli Lupi di Soragna presentò a Pio XII le credenziali di ambasciatore straordinario e plenipotenziario. Era iniziato un nuovo corso.
Ora il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, rappresentante di un artificioso frammento della storia qual è il Granducato di Lussemburgo, vede fosco il futuro di Italia, Germania e Spagna, paesi a suo avviso politicamente in stallo. Che cosa gli rimane dell'“Europa” del dopo Brexit? Il Benelux? La Francia? Da sola, con un presidente votato dal 20% degli aventi diritto e lacerazioni di gran lunga più profonde ed esplosive di quelle nostrane, Parigi non è un volano ma un problema. Non le basterà la fusione normativa con la Germania in questioni bancarie e fiscali. La Storia è politica estera e armi.  
L'Italia ce la fece e ce la farà con tenacia e senso pratico. Sul Paese incombono fantasmi fanatici. Ne è documento la relazione finale della “Commissione antimafia” che qualcuno vorrebbe elevare a Superpotere, col diritto di epurare le liste dei candidati alle urne e di stabilire quali associazioni siano lecite e quali no (per esempio quelle massoniche e “similari”) sulla base di chissà quali criteri, come avvenne nella Francia giacobina, della “legge sui sospetti” e delle esecuzioni capitali senza processo. Questo è il vero rischio politico incombente. Per fermarlo, comunque, gli italiani hanno a portata di mano la scheda elettorale: risposta pacata ma ferma all'estremismo ideologico dei catto-comunisti che vorrebbero precipitare in una sorta di guerra di religione un Paese che non conobbe eresie perché congenitamente politeista o, se si preferisce, “liberale”. Il voto è l'argine contro il caos e il fanatismo.
Aldo A. Mola

LIBERA MASSONERIA IN LIBERO STATO
FERMARE I BARBARI

 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 18 febbraio 2018, pagg. 1 e 11.

immagine da Twitter         Poche ma chiare parole come antidoto alla fobia clerico-partitica dilagante contro la Massoneria. L'articolo 18 della Costituzione recita: “i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati dalla legge penale”. L'articolo 49 aggiunge: “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. La libertà di associazione è tra i Diritti e doveri, quella dei partiti compare nei Rapporti politici. Viene dopo. Se è ovvio, dunque, che le associazioni criminali siano vietate, lo è altrettanto che per poter contribuire a determinare la politica nazionale i partiti debbono superare un controllo di “democraticità” a opera di Autorità superiori e indipendenti, non asservite a governi transeunti né formate dai partiti stessi (come è in parte la Corte Costituzionale, politicamente rilevante a tempi alterni). “Metodo democratico” significa infatti che i partiti aspiranti a svolgere il ruolo loro affidato dalla Costituzione devono anzitutto condividerne e rispettarne i principi fondamentali. Il controllo pubblico sui partiti, tuttavia, non è mai stato effettuato in un Paese che aveva forze politiche sovversive colluse con potenze straniere dichiaratamente nemiche dell'Italia, come fu il Partito comunista italiano, succubo dell'URSS. Vari suoi militanti vivevano all'estero e dall'estero tramavano contro la Patria.
Anche oggi sono in campo movimenti politici che calpestano le libertà fondamentali dei cittadini e discriminano i loro iscritti e candidati in ragione dell’esercizio di un diritto civile costituzionalmente riconosciuto. È il caso del Movimento 5 Stelle che ulula contro i suoi militanti iniziati in logge massoniche. E allora? Delle due l’una: o il Movimento 5 stelle prova, documenti alla mano, che quei militanti hanno commesso illeciti  in ragione della loro appartenenza alle logge oppure esso non ha titolo per concorrere a determinare la politica nazionale, giacché conculca l’esercizio della libertà d’associazione  garantita a tutti i cittadini: quindi anche ai propri iscritti. Tertium non datur, giacché – il dilagante isterismo da campagna elettorale impone di ricordarlo – essere massoni non è reato (e non lo sarà fintantoché certi movimenti politici la cui democraticità è tutta da verificare resteranno lontani dal potere e dall'imporsi come nuova oclocrazia: dittatura della piazza o della “piattaforma Rousseau”: simile a un patibolo, come ognuno ormai vede).
Non è     qui il caso di mettere in campo la fatuità delle amministrazioni pentastellate di Torino e di Roma né la storia di questa o quella Comunità liberomuratòria o di suoi esponenti apicali. I diversi Ordini massonici ne hanno avuti di ottimi e di meno buoni. Il Grande Oriente d'Italia, per esempio, contò su Giordano Gamberini (il vescovo gnostico che promosse la Bibbia Concordata) ma ebbe anche il transfuga Giuliano Di Bernardo, unto non solo dal Grande Architetto ma anche da Londra.
Il tema è altro e più alto. Sono in discussione i diritti civili. Lo Stato d'Italia è nato all'insegna delle libertà e deve andare orgoglioso dei suoi padri fondatori: Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi, “primo massone d'Italia”, Crispi e Zanardelli (i due massoni che in Italia  abolirono la pena di morte con un secolo di anticipo rispetto a Francia, Gran Bretagna, Santa Sede...)
Il nazional-fascismo nel 1924-1929 saldò due anelli di una stessa catena: l'annientamento della massoneria e i patti lateranensi col Vaticano. Quella catena è corta e tira ancora, come si dirà nel convegno al Casinò di San Remo (ore 17 del 24 febbraio p.v.), con la partecipazione del gran maestro della Gran Loggia d'Italia, Antonio Binni, del saggista Dario Fertilio e di Marzia Taruffi. Mussolini andò a rimorchio della Terza Internazionale di Lenin. Con il crollo del regime (opera di Vittorio Emanuele III, non degli allora pressoché inesistenti partiti antifascisti) tornarono a galla i vari De Gasperi, Togliatti, Nenni, Croce, ecc., con tutti i loro pregiudizi antimassonici. Conoscevano o no l'opera della Libera Muratoria in Europa, nelle Americhe, nell'Europa orientale (Russia compresa) prima della devastante rivoluzione bolscevica? Sapevano della Turchia del Fratello Ataturk? 
Resta che la Costituzione della Repubblica non proibisce affatto la massoneria. Vieta invece i partiti antidemocratici. Tali sono quelli che mettono alla gogna i massoni. È il caso di tanti che si dicono Liberi e Uguali ma corrono dietro ai fantasmi antimassonici della vetero clericale Rosi Bindi, digiuna di storia, come si evince dalla pochezza scientifica dell’inchiesta su mafia e massoneria, da lei orchestrata quale presidente della Commissione parlamentare antimafia.   
Ma, dirà qualcuno, i massoni sono “scomunicati”. Da chi? Nello Stato d'Italia ogni associazione è libera di accordare o interdire l'uso di riti e costumanze secondo quel che meglio crede. La chiesa cattolica è liberissima di ammettere o meno divorziati astinenti, eretici e miscredenti al banchetto eucaristico e di escluderne quelli che meglio crede. È un affare suo che nulla ha da che vedere con la libertà dei cittadini: conquista costata secoli di martiri (Arnaldo da Brescia, Fra Dolcino, Giordano Bruno, Tommaso Campanella...) nonché  reciproci massacri tra volonterosi cristianicidi di varie tendenze e confessioni (dagli ariani, agli evangelici, ai riformati...), cessati solo quando lo Stato si erse a garante della libertà di vivere in pace.  
Il nodo da sciogliere oggi è solo ed esclusivamente costituzionale e politico. Non hanno titolo a rappresentare i cittadini movimenti e partiti che vietano ai loro iscritti e o candidati l'appartenenza ad associazioni non vietate dalla legge penale. Diversamente sono quei partiti e movimenti a costituire minaccia per la democrazia. I comici vanno bene a teatro e i loro discepoli faranno bene a studiare e a cercarsi un mestiere.
Gli elettori sono avvertiti. I regimi totalitari, di vario colore, dopo aver calato le unghie sui massoni misero alla gogna gli ebrei, i rotariani e via continuando sino alla forma dello Stato,  ora vacillante perché il vicario del Presidente della Repubblica, fa il gra(da)sso a capo di una fazione anti-governativa, seguito a ruota dalla presidente della Camera: un precedente allarmante per l'equilibrio dei poteri. Ora l'Italia non può permettersi il lusso di buttare via le libertà costate secoli. Le libertà dei cittadini oggi garantite dalla Costituzione, sulla scia dello Statuto Albertino,  non sono “nate dalla resistenza”.  Arrivano da Umanesimo e sette ereticali del Tre-Cinquecento, da Illuminismo e Risorgimento, dal “gran partito liberale” dell'Otto-Novecento che saldò l'Italia con i Paesi più civili del pianeta. Il voto è lo strumento a disposizione dei cittadini per difendersi dagli aspiranti tiranni. Qui non è in causa la massoneria: è in discussione la libertà. Gli elettori decideranno se l'Italia è ancora un Paese dell'Occidente o uno stato teocratico, fondamentalista, liberticida. Dopodiché non saranno solo i giovani ad andarsene. Il precedente è lo stoicismo, prima che arrivassero i barbari, le loro superstizioni e il regresso. L'alternativa alla tirannide sono l'emigrazione e, a ultimo, il suicidio per dignità (“Non duole...!” disse la matrona Arria Maggiore porgendo il ferro al marito affinché si trafiggesse a sua volta). Ma prima v'è spazio ancora per dire la propria. Col voto, il 4 marzo.  
Aldo A. Mola
 
VOTARE: UN DOVERE CIVICO 
CONTARSI PER CONTARE
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 11 febbraio 2018, pagg. 1 e 11.

immagine da http://molisetabloid.altervista.org/          In democrazia per contare bisogna contarsi. Occorre fare numero. Che i voti non si contino ma si pesano è la spocchia di un tempo che fu. L'esperienza insegna che le elezioni si vincono o si perdono anche solo per  pochi voti, nei comuni (grandi o piccoli che siano) come nel Paese. Tutti ricordano la sconfitta del centro-destra per appena 24.000 preferenze. Dunque, ogni testa un voto. Ogni scheda può decidere le sorti del Paese. Perciò il 4 marzo occorre votare. 
   La legge elettorale vigente non è la migliore possibile. Però c'è e non impedisce a nessuno di dire la sua e di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, come prevede l’art. 49 della Costituzione. Questa legge è stata approvata per rimediare a due anni di errori di Matteo Renzi. Ricordiamo in estrema sintesi il recente passato. Asceso a capo del Partito democratico col dichiarato proposito di “rottamare” l'esistente, quasi egli fosse il Veggente, affiancato dalla supponente Maria Elena Boschi e illuso dall'episodico successo nell’elezione dei rappresentanti italiani al Parlamento europeo, il dottor Renzi gettò sulla bilancia una legge elettorale ultramaggioritaria, la sostituzione del Senato a elezione diretta con una “Camera” dal profilo confuso, l'abolizione del CNEL e troppe altre cose. Il 4 dicembre 2016 rimase sonoramente sconfitto. Su pressante sollecitazione del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, il Parlamento rabberciò la legge vigente, tagliata su misura per l'antico bipartitismo imperfetto descritto da Giorgio Galli mezzo secolo fa. Sennonché l'Italia attuale è un tripartito per ora incapace di sintesi, cioè di accordo in nome dei superiori interessi nazionali. 
Adesso si vota. Chi ha lamentato per anni che i governi erano “del presidente” (Giorgio Napolitano, ben inteso, dal novembre 2011) ora ha modo di dire la sua. Astenersi (come propone qualcuno, forse deluso per non aver ottenuto un collegio sicuro) significa privarsi della sovranità assicurata dalla Costituzione in linea con la gloriosa storia d'Italia, dallo Statuto Albertino al suffragio universale maschile varato da Giovanni Giolitti nel 1913 e a quello anche femminile voluto da Umberto di Savoia, Luogotenente del Regno nel 1945. Votare significa esserci, partecipare alle decisioni supreme. È la democrazia.  
Sappiamo tutti che la legge elettorale presenta varie smagliature. Molti sono contrariati dai profili dei candidati nel loro collegio. Però “hic Rodhus, hic salta” dicevano gli antichi. Bisogna fare fuoco con la legna che c'è. 
Verranno tempi migliori. Ma non verranno da soli. Saranno frutto del 4 marzo. Potranno nascere solo dalla netta vittoria del centro-destra, dalla sconfitta delle due sinistre (i “renziani” e i grassoboldriniani) e dall'emarginazione dei Cinque Stelle, che strillano ma sono meno del 30% dei votanti, ovvero molto meno del 20% degli aventi diritto al voto: una esigua minoranza dell'elettorato.  
Ora, dunque, bisogna vincere. Con l'unico strumento possibile: la scheda elettorale. Occorre quindi andare alle urne. Chi non lo fa deve avere ben chiaro che gli altri voteranno per lui e non potrà lamentarsi delle conseguenze. Dovrà addebitarle alla diserzione nell'ora delle scelte. In palio vi sono la sovranità nazionale, il rapporto tra l'Italia e l'Unione Europea, una linea nuova verso gli alleati storici (gli USA, la Nato, Israele, unica democrazia dal Mediterraneo orientale al Pacifico) e la Federazione Russa: tutte partite complesse che il cittadino vive sulla propria pelle e non può quindi lasciar decidere dagli altri.
Il 4 marzo è il giorno nel quale gli italiani debbono dire “Presente!”, riecheggiando Redipuglia. Se l'esito del voto fosse incerto e non propiziasse l'avvento immediato di una maggioranza netta e sufficiente per governare potranno essere necessari una lunga stagione di riflessione e il varo di una nuova legge elettorale che assicuri una maggioranza solida e stabile. Anche questo obiettivo però ha una premessa: il massimo consenso al centrodestra.
La  storia è sotto gli occhi. Nel tempo si sono susseguite varie leggi elettorali. Nel 1923 il Parlamento decise che per avere il 66% dei seggi bastava ottenere il 25% dei voti. Oggi sarebbe improponibile. Toccherà al Parlamento venturo fissare l'asticella per assicurare stabilità e credibilità a un sistema che oggi scricchiola. Di sicuro nessuna persona seria vuole il caos e nessun cittadino di buon senso si attende di vincere sulle macerie del Paese. Tra pochi giorni canzoni e carnevale saranno alle spalle. Saremo in quaresima: tempo di riflessione e di scelte ponderate in vista della Pasqua di Resurrezione dell'Italia nel Centenario della Vittoria. Con un monito preciso: l'esercizio del voto, conquista dell'Italia liberale, non è solo un diritto, ma anche un “dovere civico”, come recita l’art. 48 della Costituzione.
Aldo A. Mola
 
Un problema di Stato, non di partiti
LA SOSTITUZIONE AGLI ESTERI DEL DIAFANO ALFANO
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 4 febbraio 2018, pagg. 1 e 11.

Alfano foto di espresso.repubblica.it        Tra i molti e seri problemi incombenti, l'Italia ne ha uno davvero grave e assillante, anche se generalmente eluso: l'“evanescenza” del titolare del ministero degli Esteri, Angelino Alfano. Ogni Stato si fonda sul suo Capo (monarca o presidente che sia) e su due pilastri portanti: la politica estera e le forze armate, che ne costituiscono la proiezione, difensiva o, quando necessario, offensiva. La condizione attuale dell'Italia è nuova e paradossale. Il 6 dicembre 2017, ormai due mesi orsono, Alfano annunciò che non si sarebbe candidato alle prossime elezioni. Aggiunse che “si può fare politica anche fuori dal palazzo”. Verissimo. A (o dal) Palazzo si possono fare molte cose. Alcune strane, come il “sequestro” di Alma Shalabayeva. Questione ancora aperta, avvenne quando Alfano era ministro dell'Interno. A (o dal) Palazzo si può non sapere che parenti stretti assumono impieghi e cariche ben remunerate. E talora a (o dal) Palazzo accade di trascurare, per stanchezza, delusione o distrazione, gli obblighi elementari del Ministero.
In Italia gli Esteri hanno avuto un profilo oggettivamente minore dalla Guerra Fredda alla dissoluzione dell'Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche (Urss), quasi trent'anni addietro. Inserita nella Nato (per iniziativa di Randolfo Pacciardi, apprezzato anche da Vittorio Emanuele III, ancor più che di Alcide De Gasperi, sensibile all'antiamericanismo di ambienti della Curia romana) e col problema interno non indifferente di un partito comunista che agognava l'arrivo dell'Armata Rossa (e votò a favore dei carri armati a Budapest nel 1956: lo fece anche Giorgio Napolitano), l'Italia recuperò quanto possibile la missione storica assegnatagli dalla geopolitica. Per esempio Enrico Mattei (studiato a fondo da Nico Perrone) aveva alle spalle Vittorio Emanuele II, che conferì il Collare della Santissima Annunziata a Mirza Hussein, ministro degli Affari Esteri dello scià di Persia, a Mehemed-Tewfik, poi Kedivè d'Egitto, e a Youssouf Izzedin, principe di Turchia. Altrettanto fecero Umberto I e Vittorio Emanuele III. La politica di Roma verso l'Oriente (dal Vicino all'Estremo) non è una scoperta recente. Nel 1900 l'Italia partecipò alla spedizione delle Sette Potenze per annientare la rivolta dei boxer in Cina e ne trasse la concessione di Tien-Tsin: poco, ma meglio di niente. Non era “Italietta”, bensì un Paese vigile sullo scenario di lì a poco segnato dalla guerra russo-giapponese (1905), che ebbe epicentro nell'assedio di Port-Arthur, in Corea, terra  da secoli teatro di conflitti nippo-cinesi. La politica estera di Gaetano Martino (verso l'Europa carolingia), di Aldo Moro, Giulio Andreotti e di Bettino Craxi (dai Luoghi Santi alla Cina) sono segmenti di una linea che arriva dalle origini stesse della Nuova Italia: un Paese unificato da una dirigenza che aveva chiara la marginalità e il fallimento storico degli staterelli (Ducati padani, Granducato di Toscana, Legazioni pontificie), dello Stato della Chiesa e del regno delle Due Sicilie. Con buona pace dei professionisti del neoborbonismo e dei loro fatui caudatari, quest'ultimo non aveva colto la portata epocale dell'apertura del Canale di Suez, delle ferrovie e del passaggio dalle navi a vela (in cui primeggiava) a quelle a vapore. Il Regno di Sardegna stravinse e guidò l'unificazione non per protervia dei generali sabaudi (inclusi quelli non piemontesi: è il caso di Enrico Cialdini, il Generale di ferro, ottimamente biografato da Roberto Vaccari (ed. Elis Colombini) ma per la lungimiranza di Carlo Alberto di Savoia (che aprì sedi diplomatiche nei luoghi più remoti) e del Padre della Patria, che ne continuò e rafforzò la visione extraeuropea della Terza Italia.
In età monarchica la politica estera italiana ebbe interpreti in statisti della levatura di Camillo Cavour, Emilio Visconti-Venosta (da mazziniano divenuto fervido assertore di Casa Savoia), Francesco Crispi, Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano (normanno di Sicilia), Raffaele Guariglia (prestigioso diplomatico di lungo corso, il 25 luglio 1943 chiamato a Roma dalla Turchia, ove era ambasciatore, per riportare l'Italia a Occidente),  Alcide De Gasperi (agli Esteri dal 12 dicembre 1944 al 18 ottobre 1946, come documentano i Verbali del Consiglio dei ministri pubblicati da Aldo G. Ricci). Nell'età repubblicana l'Italia ebbe alla Farnesina De Gasperi stesso, Giuseppe Pella, Antonio Segni, Giuseppe Saragat, Aldo Moro e, per breve stagione, Pietro Nenni.  Furono decenni di riposizionamento dell'Italia nel passaggio dl bipolarismo al tripolarismo, propiziato da Arthur Kissinger, a suo modo auspicato da Antonio Giolitti e di quanti guardavano ai “neutrali” per uscire dalla moltiplicazione delle potenze nucleari (dalla Gran Bretagna alla Francia di De Gaulle, propugnatore della “force de frappe”, perché solo la deterrenza dissuade il nemico da aggressioni sconsiderate).  
Come in Un'Italia così ricca di talenti  Angelino Alfano sia asceso a ministro degli Esteri si spiega solo con le “ricette del venerdì di quaresima” invalse nella formazione di governi composti di vassalli, valvassori e valvassini dal seguito raccogliticcio, pronti a trasferire le proprie sbarrate insegne dall'uno all'altro campo. 
Il punto è che dall'ormai remoto 6 dicembre 2017 l'Italia ha un ministro degli Esteri diafano. Nei fatti a gestire la politica estera sono il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni Sivieri, già titolare della Farnesina, e, per alcune partite nevralgiche (come quella “libica”) il ministro dell'Interno, Minniti, e, in second'ordine, quello della Difesa, Pinotti, in specie per quanto concerne le missioni militari all'estero, dai profili sempre più intricati (è il caso del Niger), e comunque potenzialmente esplosivi (come in Libano).
La Carta costituzionale è molto sobria sulla figura dei ministri, nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del presidente del Consiglio, a sua volta investito dal Capo dello Stato (art. 92). In linea con il Regio Decreto di Vittorio Emanuele III (14 novembre 1901, Governo Zanardelli-Giolitti), il presidente del Consiglio “dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene la unità di indirizzo politico ed amministrativo promuovendo e coordinando l'attività dei ministri” che sono “responsabili collegialmente degli atti del Consiglio e individualmente degli atti dei loro dicasteri” (art. 95). 
Due mesi dopo l'uscita di Alfano dalla scena politica (ma non dal governo) alcune domande attendono risposta urgente. Prima di dichiarare che non si sarebbe ricandidato e che non avrebbe assunto ministeri in un successivo governo (bontà sua, quasi la nomina a ministro dipenda da chi “s'offre” o addirittura “pretende”: è il caso patetico di Luigi Di Maio, un Carles Puigdemont all'italiana, che non ha mai letto la Costituzione), Alfano fece il diavolo a quattro per garantire al suo micropartito un numero di seggi sufficiente a condizionare qualunque governo venturo. Vistasi chiusa in faccia la porta da Renzi e scelta (non per vocazione) la strada dell' astinenza, per coerenza avrebbe dovuto dimettersi illico et immediate dalla carica poi di fatto disertata, quasi gli Esteri siano una sinecura, mentre l'Europa è alle prese con partite vitali, dalla attuazione della Brexit al superamento della tensione tra Usa e Russia, con le note complesse ricadute militari ed economiche.
Lo storico futuro avrà da dipanare una matassa intricata quando affronterà questo caso, che mette a nudo la gracilità del regime costituzionale vigente, propizio a rinviare decisioni importanti per non infrangere equilibri instabili. La sostituzione di Enrico Costa da ministro per gli Affari regionali non fu un dramma perché, dopo tutto, le competenze del suo dicastero non erano di primaria grandezza. Altrettanto avvenne per viceministri e sottosegretari nei recenti governi. Ma gli Esteri? Sono caposaldo nevralgico dello Stato. La sostituzione di Alfano avrebbe certo comportato un regolamento di conti politici che né Gentiloni né Renzi erano in grado di affrontare. Così rimase dov'era. A fare che cosa? Una ferita troppo a lungo aperta può degenerare in cancrena. Nessuno dice (o sa dire) quando questa verrà sanata. Infatti, salvo eventi straordinari, Alfano potrebbe restare in carica non solo sino alle elezioni del 4 marzo, ma fino alla formazione di un nuovo governo: un appuntamento dalla data imprevedibile. E se, per tanti e comprensibili motivi che lasciamo tra parentesi, Gentiloni dovesse durare sino all'autunno, se non oltre, quando effettivamente Alfano decadrebbe da titolare degli Esteri? Sotto il profilo strettamente istituzionale non si intravvede né il momento né il “motivo” della sua decadenza, perché per sedere al governo non è affatto necessario essere parlamentare. La storia d'Italia è punteggiata dal rinvio di decisioni, per le ragioni più disparate. A volte è saggio, a volte no. Di sicuro gli Esteri non possono rimanere come sono. Non è un problema di coalizioni, di partiti. E' una questione di Stato, cioè di serietà.
Perciò è lecito attendersi che, di sua scelta o... “spintaneamente” Alfano sciolga il nodo e lasci la Farnesina, affinché il governo torni nella pienezza della sua configurazione e dell'esercizio dei poteri da parte dei titolari dei ministeri chiave. Ad Alfano, del resto, non  mancheranno altre occupazioni (e preoccupazioni). “I ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria” (art. 96).
Aldo A. Mola
 

LO SCRICCHIOLIO DELLE ISTITUZIONI
L'Associazione di studi storici intitolata a Giovanni Giolitti, massimo statista della Nuova Italia, dedica la propria attenzione al passato non per feticismo agiografico ma per trarne motivo di riflessione sul presente, in linea con la più alta tradizione della storiografia italiana. Gli interrogativi sollevati, nella Nota allegata, da Aldo G. Ricci, sovrintendente emerito dell'Archivio Centrale dello Stato, investono il cuore dello Stato d'Italia. Il Paese che agli Esteri contò Emilio Visconti Venosta, Francesco Crispi, Antonino Paternò Castello marchese di San Giuliano, Alcide De Gasperi, Gaetano Martino non può essere rappresentato da mesi e per chissà quanto ancora da un fantasma, qual oggi è l'on. Angelino Alfano, se non con gravi e irreversibili danni. Lo si vede dalla vicenda dell'Agenzia Europea del Farmaco, che vede impegnato direttamente Palazzo Chigi, nel silenzio della Farnesina. Parimenti, è deplorevole che il dottor Pietro Grasso, presidente del Senato e quindi seconda carica dello Stato, chiamata ad assumere il potere supremo in caso di impedimento, morte o dimissioni del Presidente della Repubblica, si erga da mesi a capo-fazione, per di più di un partito schierato all'opposizione nei confronti del governo in carica.
Questa anomalia non è superata dal silenzio, dalla scaramantica speranza che un evento non irrompa mettendo a nudo i rischi ai quali è esposto il regime costituzionale. Esso si rivela vulnerabile per i modi nei quali esso viene interpretato e vissuto: per la sua storia in fieri. Ed è di questa che si occupa la ASSGG, aprendo il dibattito sul Comunicato della Consulta dei senatori del regno e sulla Nota di Aldo G. Ricci. Cogliere per tempo lo scricchiolio delle istituzioni non significa affatto augurarsene lo schianto: vuol dire, invece, non voltarsi dall'altra parte dinnanzi al pericolo incombente.

 31-1-2018 
Aldo A. Mola

POLITICA ESTERA CON O SENZA MINISTRO TITOLARE?
di Aldo G. Ricci
Il Parlamento ha appena votato una missione militare in Niger regolarmente trattata con il governo di quel Paese e dalla radio pubblica francese una fonte ufficiale non meglio precisata del governo nigerino afferma che il suo governo non è stato consultato in proposito e che sono più che sufficienti gli aiuti americani e francesi. Una dichiarazione imboccata, perché i francesi non ci volevano in quel Paese sotto la loro influenza, ma ci volevano, pare, in Mali. 
    A questa invasione di campo, chi risponde? Fonti della Farnesina. E già, perché non si sa più se l’Italia abbia ancora un ministro degli Esteri. Diverse settimane fa, infatti, il ministro Alfano, di fronte alla disintegrazione del suo partito (metà a destra e metà a sinistra), nato più da esigenze ministeriali che da ideali politici, ha annunciato la sua intenzione di ritirarsi dalla politica e di tornare alla professione forense. 
    Saggia decisione. Peccato che non sia stata seguita dall’annuncio delle sue dimissioni da un ministero cruciale per la vita nazionale, con la conseguente nomina di un sostituto o, visti i tempi delle prossime elezioni, l’assunzione dell’interim da parte del Presidente Gentiloni. 
    Niente di tutto questo, per cui la poltrona della Farnesina è vuota senza che nessuno, da Gentiloni a Mattarella (stampa compresa) se ne sia accorto o abbia sollevato il problema. A dimostrazione che nel nostro Paese la politica estera è così importante che si può tranquillamente prescindere dalla nomina di un titolare della stessa. 
    Ma questa è solo una delle tante anomalie di queste settimane che ci separano da un voto tanto importante quanto desolatamente privo di prospettive di stabilità e progresso.
    Si dà il caso infatti che la seconda carica dello Stato, il Presidente del Senato Pietro Grasso, che tale resterà fino alla nomina del suo successore, che già aveva abbandonato il partito che lo aveva eletto a quella carica (il PD) senza, pare, saldare i conti dei contributi dovuti al partito dagli eletti in quelle liste, ha scoperto improvvisamente la vocazione a leader politico di  una nuova formazione (Liberi e uguali) di sinistra-sinistra, di cui si sentiva disperatamente la mancanza. 
    E’ difficile rientrare tra i ranghi dopo anni di protagonismo istituzionale. Peccato che questa improvvisa vocazione iperpolitica, dopo anni di magistratura impegnata e di notabilato, avvenga conservando la carica di Presidente del Senato (ancorché sciolto, sempre in essere) e cioè della persona che, nel caso di impossibilità del Presidente della Repubblica, Mattarella, si troverebbe a svolgerne le funzioni nel delicatissimo passaggio elettorale. 
    C’è di più. Nel caso di impossibilità dello stesso Grasso, la funzione verrebbe attribuita alla Presidente della Camera, Laura Boldrini, anch’essa, a scadenza di mandato, richiamata irresistibilmente alla lotta politica nella stessa formazione estrema (Liberi e uguali) che ora porta nel suo simbolo il nome di Grasso, a cui la stessa Boldrini contende in qualche modo (con scarso successo finora) il ruolo di leader della formazione. Due prime ‘donne’ in una neonata formazione dove i fili sono tirati da vecchi reduci della politica, ma che offre a Liberi e uguali i lustrini della seconda e della terza carica dello Stato.
    E’ una situazione davvero paradossale, più da pochade che da vita politica di un paese democratico. Una situazione in cui una anomalia di questa portata viene tollerata nel silenzio assordante sia della politica che della stampa che, pur sollecitata a sollevare il problema, se ne è ben guardata o per compiacenza o per aver ormai perso la bussola delle compatibilità istituzionali. 
    Il politico è quello che dà la precedenza agli interessi del partito su quelli dello Stato. Lo statista è quello che, al contrario, dà la precedenza agli interessi dello Stato su quelli del partito. Qui non abbiamo più né l’uno né l’altro. Solo interessi, ambizioni, gelosie e beghe personali in una prospettiva di nebbia fitta per il Paese. 
    Chi dovrebbe parlare tace, nella speranza che la bufera passi senza troppi danni. Ma la ferita è profonda e non bastano i discorsi accorati di richiamo al voto e alla solidarietà nazionale per rimediare a questi guasti.
Aldo G. Ricci
 
L'EDITORIALE
LA RUOTA DELLO STATO MACINA OLTRE I REGIMI
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 28 gennaio 2018, pagg. 1 e 11.

        foto da http://digilander.libero.it/78mangu/“La verità è che quando il fascismo arrivò al governo, delle antiche istituzioni parlamentari non rimaneva più che l'apparenza esteriore. Nella sostanza esse erano state distrutte, e vi si era sostituito una specie di direttorio, composto dai delegati dei gruppi (parlamentari), cioè la più anarchica tra tutte le forme di governo. In quanto dunque il fascismo riconsacrò l'idea di Patria e restaurò l'autorità dello Stato, i fini da esso raggiunti coincidono con quelli  a cui dedicai tutta la mia esistenza politica”. Lo scrisse Vittorio Emanuele Orlando, il “presidente della Vittoria”, monarchico, liberale, “pater” della rinascita post-fascista e punto di riferimento di ambienti mafiosi secondo Tommaso Buscetta e altri (lo ricorda Riccardo  Mandelli in “I fantastici 4 vs Lenin”, Ed. Odoya). Era il 2 aprile 1924, quattro giorni prima della straripante vittoria del Partito Nazionale Fascista alle elezioni, in cui ottenne il 66% dei voti. “Il fascismo sorse come protesta contro un eccesso di violenza sovvertitrice della vita nazionale. Il senno e l'intuito del Capo dello Stato (Re Vittorio Emanuele III) risparmiarono una guerra civile, le cui conseguenze sarebbero state gravissime. Mussolini (il 31 ottobre 1922) costituì un ministero che raccoglieva i rappresentanti di tutti i partiti costituzionali e nulla rinnovò negli ordinamenti costituzionali dello Stato. Mussolini, pur facendo al partito (fascista) larghe concessioni, voleva ottenere dal Parlamento la legalizzazione del fatto compiuto”. Lo dichiarò il 3 aprile 1924 Enrico De Nicola, futuro primo presidente della Repubblica. Sono frasi da rileggere e meditare quando si parla, talora a sproposito, di fascismo e di regime fascista come un “continuum” nato, cresciuto e concluso secondo un percorso logico-cronologico uscito dalla mente del duce come Minerva da quella di Giove. La realtà storica è del tutto diversa. Il fascismo fu prima movimento, poi partito. La sala a piazza San Sepolcro in Milano per la prima sortita di Mussolini, il 23 marzo 1919, venne procacciata da Cesare Goldmann, ebreo e massone. Orlando, De Nicola e una lunga serie di liberali, democratici ed ex esponenti del partito popolare (cioè dei cattolici) nel 1924 affollarono la Lista Nazionale e giudicavano il fascismo non su quanto sarebbe avvenuto in un futuro ancora del tutto imprevedibile, ma sulla base di quanto avevano sotto gli occhi: la restaurazione dello Stato dopo anni di guerra civile strisciante, intrapresa da chi voleva “fare come in Russia”, cioè annientare le istituzioni uscite vittoriose dalla Grande Guerra (corona, forze armate, “borghesia”...).
La vera storia del regime fascista non è quella raccontata in discorsi di circostanza. Il 1922-1924 non contiene né le leggi speciali  (iniziate con la caccia ai massoni nel 1924-1925), né il 1938, le leggi razziali, il patto d'acciaio e quel che ne seguì. La storia procede a segmenti discontinui e va capita seguendola passo passo, non partendo dalla sua fine. Fluisce come immenso fiume gonfio di acque limpide e detriti, di carogne e sabbie aurifere. Non chiede né sentenze, né giustificazioni, ma cognizioni e comprensione, in una visione di lunga durata e con la comparazione degli eventi di un paese con quelli coevi degli altri Stati, almeno i propinqui.
E' il caso dell'Italia tra il 1919 e il 1946. Ne scrive Guido Melis, autorevole studioso delle istituzioni politiche e della storia dell'amministrazione pubblica, nell'importante volume “La macchina imperfetta”, sintetizzato dal sofferto sottotitolo: “Immagine e realtà dello Stato fascista” (ed. il Mulino). 
Sulla scorta di decenni di studi severi studi l'autore chiarisce tre “fatti” fondamentali. In primo luogo, contrariamente a quanto solitamente si ritiene, quando venne nominato presidente del Consiglio Mussolini utilizzò largamente la dirigenza esistente (monarchica, liberale, democratica, riformista...) in tutti i settori fondamentali: dalla diplomazia alle forze armate, dalla giustizia all'istruzione e all'economia. A quanto egli scrive potremmo aggiungere un elenco lunghissimo di antifascisti notori chiamati dal duce al governo e al vertice dei gangli vitali dello Stato. Altrettanto avvenne ai vertici  dell' “impresa Italia” (banche, grande industria, commercio...) e dell'Istituto per la Ricostruzione Industriale affidato al massone Alberto Beneduce. Inoltre Mussolini ridusse il partito a succedaneo dello Stato e la Milizia a “dopolavoro” del partito, libera di celebrare i suoi riti chiassosi (come il giuramento di fedeltà “a Dio e alla Patria”, ignorando il Re), ma senza effettivo potere politico e militare, come si vide nell'ora decisiva, il 25-26 luglio 1943, quando essa risultò evanescente. Infine Melis affronta la “vexata quaestio”: il rapporto tra la monarchia e il fascismo, concretamente tra Vittorio Emanuele III e Mussolini. Al riguardo non aggiunge molto a quanto noto e conclude che durante il regime l'Italia fu una diarchia “piuttosto di fatto che di diritto”, giacché, tratte le somme, il potere apicale rimase nelle mani del sovrano. A chiarimento ulteriore, occorre spazzare via uno degli equivoci perduranti su un nodo centrale del “ventennio” (che poi fu un quindicennio:1928-1943).  Il Gran Consiglio del Fascismo, istituito con la legge 9 dicembre 1928, n. 2693, non ebbe e non esercitò alcun potere effettivo sulla Corona né, meno ancora, sulla successione al trono. Esso era tenuto a “esprimere il parere su tutte le questioni aventi carattere costituzionale”, tra le quali le “proposte di legge concernenti la successione al Trono, le attribuzioni e le prerogative della Corona, i rapporti tra lo Stato e la Santa  Sede” e doveva anche tenere “aggiornata la lista dei nomi da presentare alla Corona in caso di vacanza per la nomina a Capo del Governo”. Il Gran Consiglio, dunque, non ebbe alcun vero controllo sulla successione, ma solo il “dovere” di formulare un “parere” (la legge non precisò se vincolante) su disegni di legge: la differenza è enorme, anche se troppi storici (inclusi parecchi “monarchici” ) non l'hanno né compreso né spiegato nei loro libri e/o dalle cattedre.
Melis dedica un robusto capitolo a “lo Stato totalitario e lo Stato razzista”, cioè alla crisi profonda aperta in Italia dal 1938, pesantemente condizionata dall'annessione dell'Austria da parte della Germania di Hitler, confermata da entusiastico plebiscito nell'inerzia afona di Francia e Gran Bretagna. In quel drammatico contesto, Mussolini intraprese l'offensiva contro la monarchia utilizzando anche le leggi razziali, che avevano innumerevoli e fervidi sostenitori nel mondo cattolico e nelle sinistre (Lenin, Stalin, il Partito comunista d'Italia...) che da mezzo secolo marchiavano a fuoco il complotto “giudaico-massonico”. 
Tra i fautori di quelle leggi vi fu Giuseppe Bottai, il “fascista critico”, una cui frase Melis ricorda quale lapide tombale sul “regime”: “Guardo questo irresponsabile (un ufficialetto sedentario al ministero della Guerra) fatto responsabile da questo meccanismo d'irresponsabilità in cui ci siamo cacciati”. Era il 17 novembre 1940. L'Italia stava perdendo l'offensiva contro la Grecia (una tra le decisioni militari più stolte di Mussolini). Ma, oltre che volatile in loggia, dov'era stato Bottai dal 1922? Non erano suoi la Carta della Scuola e la retorica del corporativismo e “Primato”?
Melis ha il merito di documentare che il governo Mussolini fece fuoco con la legna che si trovò a disposizione: i funzionari forgiati nei decenni precedenti, non solo con la regia di Giovanni Giolitti ma sin da Francesco Crispi e prima ancora. La dirigenza di un Paese non si improvvisa. I prefetti dell'età mussoliniana (1922-1943) erano a servizio dello Stato da fine Ottocento. Lo stesso vale per élites militari (Melis ne scrive in “fascio e stellette”), diplomatici, docenti universitari, scienziati, come Guglielmo Marconi e per tanti componenti dell'Accademia d'Italia.
Lo stesso del resto avvenne dopo il 1946, cessato il “tempo del furore” alimentato da partiti vendicativi e in gran parte intrinsecamente antinazionali, acremente critici nei confronti dell'unità nazionale, dell' “idea di Italia” (neoborbonici, neopapisti e neoasburgici ora dilaganti sono solo paleogramsciani in confusione). Il miracolo economico fu opera di una dirigenza che arrivava dagli Anni Trenta, animata da un alto senso dell'interesse pubblico. 
   Dall'opera meritoria di Melis emerge anche la differenza profonda tra l'Italia monarchica e l'attuale. Piaccia o meno, fu Vittorio Emanuele III a imporre a Mussolini le dimissioni da capo del governo e a incaricare il nuovo capo dell'esecutivo. Fu il Re a prendere sulle spalle il peso della richiesta di resa incondizionata per sottrarre l'Italia a sciagure peggiori. Il sovrano decise in solitudine, e sin dal 1941 come poi scrisse nella “memoria” a difesa del ministro della Real Casa, duca Pietro d'Acquarone. Fu il punto di arrivo di un lungo processo, fondato, tra altro, su un caposaldo della monarchia costituzionale sabauda: l'esclusione del Principe ereditario da qualsiasi responsabilità nelle decisioni del sovrano in carica perché “si regna uno per volta”, così come la Repubblica ha un Capo dello Stato per volta. Sui motivi dell'esclusione del principe Umberto dalle scelte politiche del padre sono state scritte insinuazioni di sapore anche scandalistico. Al netto delle chiacchiere, resta che David è David ed esclude che da qualche parte s'infratti un  Assalonne (Antico Testamento, Secondo libro di Samuele,16-18). La monarchia sabauda non ha mai derogato alle regole della Casa. In Repubblica, invece, il potenziale “principe ereditario”, cioè il presidente del Senato, chiamato ad assumere le funzioni di Capo dello Stato in caso di impedimento permanente o di morte o di dimissioni del Presidente, si erge ad Assalonne e assume la guida di un partito politico, addirittura di opposizione al governo in carica. E lo sbando delle istituzioni. Se per sciagura dovesse affrontare una crisi vera, come ne uscirebbe questa Italia? La Spagna lo sta facendo perché, a fronte della pochezza antistorica degli indipendentisti catalani, fa perno su Filippo VI di Borbone, cioè sulla monarchia, tutt'uno con l'unità di quel Paese. Qual è invece lo Stato d'Italia mentre Pietro Grasso e la presidente della Camera, Laura Boldrini, fanno campagna elettorale? Qualcuno osserverà che anche in passato i presidenti delle Camere si concessero qualche discorso elettorale: ma non strizzavano l'occhio a forze anti-sistema né erano “all'opposizione”. L'Italia odierna ha due paradossi clamorosi: un ministro degli Esteri non dimissionario ma da mesi scomparso dalle scene (a quando una spiegazione, presidente Gentiloni?) e la solitudine del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, un David che si prodiga in quotidiane presenze sulle trincee più disparate. Porta sulle spalle il “brut fardel” dello Stato, come Vittorio Emanuele II definì il peso della Corona in un Paese giovane, che solo in questo 2018 ricorderà il centenario della sofferta Vittoria del 4 novembre 1918. Non fu “inutile strage” ma coronamento del Risorgimento, la grande prova dell'unità nazionale in un'Europa al collasso. Perciò è l'ora di “stringersi a coorte” e di andare alle urne per difendere il patrimonio comune degli italiani, l'Unità nazionale, uno Stato che macina storia al di là dei regimi che vi si sono susseguiti nel tempo.   
Aldo A. Mola

CASALE MONFERRATO
CAPITALE DELL'ITALIA MEDITERRANEA
 
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 21 gennaio 2018, pagg. 1 e 11.

 cASALE mONFERRATO, FOTO DI http://fidelityservice.it/       Essere Capitale italiana della cultura almeno per un anno vale molto più del sussidio di un milione di euro erogato una tantum a sostegno del bencapitato. Comporta di avere alle spalle un Passato alto e sofferto, di esserne consci e farlo valere. Significa ergersi a simbolo di un'Italia che fu ed è emblema non solo dell'Europa odierna, via via arroccata sui crinali alpini e sempre più arretrata a nord, ma, qual era, Signora del Mediterraneo. 
Della grande storia è esempio fulgido Casale Monferrato, che, alla stretta finale, è rimasta con Merano e Treviso l'unico comune aspirante a capitale italiana della cultura 2019 dell'immensa area comprendente le regioni augustee Liguria, Transpadania e Venezia-Istria. Casale Monferrato ha dunque una grossa responsabilità, anche perché deve vedersela con tre “portaerei” quali Piacenza, Parma e Reggio nell'Emilia, antiche e gloriose, forti di un patrimonio artistico di fama europea e di risorse economiche possenti. Lo stesso varrebbe per Agrigento, la cui nomea, però, non è legata solo alla Valle dei Templi e a Luigi Pirandello ma anche a misere pastette che ne offuscano il nome e la fama. Nuoro e Macerata  avranno i loro legittimi fautori. La candidatura di Casale ha valore del tutto diverso rispetto a quelle di Bitonto, che è una variante minore della storia di Bari, come Treviso lo è di Venezia. 
Casale evoca la complessità della storia d'Italia, oggi meno ricordata. La sua candidatura fa passare in sottordine le precarietà del Monferrato odierno, l'intrico di linee ferrate in parte declassate e quasi in disuso, di strade colleganti a fatica borghi minori, di castelli e torri che si ergono come altrettanti punti interrogativi e ci domandano se siamo alla loro altezza. La designazione di Casale rinverdisce la memoria del marchesato aleramico, poi dei Paleologhi (da Teodoro I a Giangiorgio, morto nel 1533) per via delle nozze tra Iolanda e l'imperatore di Bisanzio Andronico Paleologo. Nel Monferrato (sia il Basso, che è nord, mentre l'Alto è a sud: lo ricordiamo per chi non abbia dimestichezza con il Vecchio Piemonte) continua a esalare il sentore del mare, quasi l'Adriatico ancora lo lambisca. Lo attestano i fossili affioranti rasoterra. Sarà per quel richiamo al Mediterraneo che Guglielmo di Monferrato andò in Terra Santa con Federico Barbarossa (morto per via), Riccardo Cuor di Leone e altri Capitani cristiani di prim'ordine, Vi venne ucciso da Altair, della setta degli assassini (consumatori di hasish, eccitante per le imprese suicide). Suo figlio, Corrado, fu incoronato re di Gerusalemme: confidava nei Templari, quale volano della cristianizzazione e baluardo contro la riscossa degli islamici. 
Di quei secoli rimaneva memoria quando nel 1435 la capitale del marchesato fu trasferita a Casale da Chivasso, troppo esposta alle incursioni dei nemici, i Savoia da un canto, Milano dall'altra (i Visconti prima, gli Sforza poi). I suoi Signori però non riuscirono mai a dare continuità territoriale al loro Stato, conglomerato di acquisti (Acqui nel 1345), Alba (1369) e una intricata serie di possedimenti nominalmente inglobati e impegnati in un logorante tiro alla fune per rivendicare privilegi ed esenzioni (da tributi, dal fornire contingenti militari...). 
Nel 1533 il Monferrato venne conteso tra Federico II Gonzaga, duca di Mantova, e il pari grado Carlo II di Savoia, che a proprio favore vantava il rango di Vicario imperiale, unico in Italia. A deciderne la sorte fu l'imperatore Carlo V d'Asburgo, che lo assegnò al Gonzaga, i cui successori, però, da Federico III a Vincenzo II, non mostrarono alcun attaccamento alle sue sorti. Il Monferrato fu al centro della lunga guerra tra Carlo Emanuele I di Savoia e i suoi alleati da un canto (gli Asburgo di Spagna e d'Austria) e la Francia di Luigi XIII (meglio, del cardinale Richelieu) dall'altro. Il conflitto, col seguito di scorrerie e di epidemie di peste, non venne chiuso con la pace di Cherasco (1631), che tuttavia al duca di Savoia fruttò Alba, Trino e un'ottantina di “terre”. I Gonzaga-Nevers, succeduti in Mantova nei diritti sul Monferrato, governarono pessimamente i possedimenti residui, sino all'opaco Ferdinando Carlo, che si spinse a vendere a Luigi XIV di Francia la cittadella di Casale (1681), fortificazione chiave sulla linea Vercelli-Mortara-Alessandria da una parte, Torino-Alessandria-Genova dall'altra. Carlo Ferdinando Gonzaga-Nevers fece di peggio: nel 1701, all'inizio della guerra europea di successione sul trono di Spagna, cedette alla Francia tutti i suoi domini. Dichiarato fellone dal Sacro romano imperatore, fu spogliato di ogni diritto. Mantova divenne dominio degli Asburgo d'Austria, che la tennero sino al 1866, quando dovettero cederla a Napoleone III che la consegnò a Vittorio Emanuele II, re d'Italia. Sconfitti i francesi che assediavano Torino (1706), il duca Vittorio Amedeo II di Savoia acquisì il Monferrato (1707), che gli venne riconosciuto con la pace di Raastadt nel 1714, come Alessandria, elevata a piazza militare orientale strategica del neonato Regno di Sicilia (1713-1719, poi di Sardegna), come ricorda il generale Oreste Bovio in “Dal Piemonte all'Italia. Tre secoli di storia militare” (Bastogi). La Cittadella lo attesta ancora.
Al centro di piana fertile e circondata da terre di vigneti, Casale beneficiò della propinquità con distretti economicamente rilevanti. Era il caso di Passerano-Cocconato-Primeglio, i cui signori battevano moneta e nel Settecento dettero il primo illuminista italiano di rango europeo, costretto all'esilio.
La città conobbe una possente fioritura di edifici ecclesiastici e civili che si aggiunsero a monumenti famosi, come la Cattedrale, attribuita a Liutprando, re dei Longobardi (742) consacrata da papa Pasquale II (1106), eretta a cattedrale da papa Sisto IV, scempiamente ammodernata a inizio Settecento ma successivamente restituita al decoro originario, quando ne fu vescovo Nazari di Calabiana, elevato a Collare dell'Annunziata, “cugino del Re”.
Proprio durante l'età di monsignor Calabiana ,Casale ebbe ruolo di spicco nella storia d'Italia. Il 31 agosto 1847 vi venne celebrato il V Congresso Agrario con la presenza di delegati da Genova, Torino, Piacenza, Milano, Parma.... Era la variante “agricola” dei Congressi degli Scienziati Italiani promossi da Luciano Bonaparte, principe di Canino, svolti nel decennio precedente: una cospirazione liberale alla luce del sole. Aperto con la messa alle 7 del mattino, il Congresso culminò con la lettura del messaggio inviato da Carlo Alberto al conte Cesare Trabucco di Castagneto, che ne dette lettura: “Se mai Dio ci farà la grazia di poter intraprendere una guerra d'indipendenza, io solo comanderò l'Armata e allora farò per la causa guelfa quel che Shamil fece contro l'immenso impero russo”, la guerra di liberazione. Contro l'Austria. Contro tutti gli stranieri. Era la guerra che Carlo Alberto intraprese col Tricolore italiano e con il Canto Nazionale, scritto da padre scolopio Atanasio Canata. I congressisti accolsero l'annuncio con applausi scroscianti. I moderati (Filiberto Avogadro di Colobiano,  Lorenzo Valerio, Pier Dionigi Pinelli...) anticiparono i democratici come Giovanni Lanza e Filippo Mellana. Tutti si ritrovarono poi fianco a fianco nella guerra per l'indipendenza dal marzo 1848 al tragico  24-25 marzo 1849 quando, dopo la “brumal Novara”,  Casale si batté contro il maresciallo austriaco Wimpffen  per non essere messa sacco con i brutali metodi usati dalla soldataglia nemica. Riscattare il regno dalle pesanti clausole armistiziali imposte dal maresciallo Radetzky a Vittorio Emanuele II divenne subito l'obiettivo prioritario, come ricorda  Antonella Grimaldi nel documentata “Storia di Casale Monferrato dal V Congresso Agrario del 1847 al 1849” pubblicata dal Centro Studi Piemontesi.
Anima della riscossa del Piemonte fu il pragmatico Urbano Rattazzi, che in lunghi confidenziali colloqui raccolse il pensiero di Carlo Alberto in Oporto nel luglio 1849. Casale ricorda quei giganti della storia con altrettanti monumenti, tra i quali il più curioso è forse proprio quello di Carlo Alberto, vestito come antico romano, come fosse Marco Aurelio in Campidoglio, mentre austeri e pensosi sono Filippo Mellana. Giovanni Lanza, Luigi Canina (archeologo insigne, sepolto in  Santa Croce a Firenze),Urbano Rattazzi (opera di Leonardo Bistolfi) e G. A. Ottavi, principe degli agronomi italiani.
Antica, maestosa, aristocratica capitale del Monferrato e sintesi della travagliata storia d'Italia, Casale dette i natali a personalità memorabili, specialmente a scienziati (come Ascanio Sobrero, inventore della nitroglicerina, moralmente superiore a Nobel che dalla dinamite trasse lauti profitti ) e a militari, come il colonnello De Cristoforis, caduto a Dogali (Eritrea). Tra le figure  di casalaschi sulle quali la storiografia italiana (sempre in ritardo e sempre con lunga coda di paglia...) è chiamata a riflettere bastino due personalità  dalle vicende drammatiche: Ugo Cavallero, massone, maresciallo d'Italia, “suicidato” da Kesselring a Frascati nel settembre 1943 perché rifiutò di assumere il comando di un esercito subordinato ai tedeschi, e Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon (1884-1959), quadrumviro della cosiddetta “marcia su Roma”, monarchico, artefice del rovesciamento di Mussolini. Ne ha scritto il figlio, Giorgio, in “Diari, 1947-1949” (ed. Dedalo, Roma).
Casale ha dunque tutti i numeri per ergersi a capitale italiana della cultura, in specie dell'Italia settentrionale di Augusto. Chi è rimasto tagliato fuori dalla gara deve domandarsi quale storia voglia rappresentare: pochi anni in pochi chilometri quadrati o l'ambizione di chi dal Piemonte visse la storia dell'Italia Mediterranea?
Aldo A. Mola