Il difficile viene adesso.
Anzi, ci viene addosso, senza dilazione né sconti. L'Italia è vincolata
a scadenze obbligate, dettate da impegni accettati, sottoscritti,
ineludibili. Il calendario dell'Unione impone un bagno di realismo a un
Paese in parte preda di sogni farneticanti e tentato di allontanare da
sé l'amaro calice di mantenere gli impegni con la scappatoia infantile:
altre elezioni. Alcuni (come il Movimento di Grillo) svicolano,
pretendendo per sé soli tutto il potere; altri (è il caso del Partito
democratico) si arroccano indispettiti sul loro fallimento politico,
prima e più che elettorale. Troppi giocano ai quattro cantoni mentre la
casa rischia il crollo. Ma il bel gioco dura poco. Entro dieci giorni,
vecchio o nuovo che sia, il governo deve presentare i suoi conti
all'Unione Europea. Dovrà farlo il governo attuale, in parte allo
sbando e comunque in carica solo per l'ordinaria amministrazione: un
limite che Paolo Gentiloni farà bene a non dimenticare, guardandosi da
impegni travalicanti in politica estera e militare. Auspichiamo che il
presidente della Repubblica regali un “Bignami” di storia ai ministri
attuali e futuri e ai parlamentari, novizi e fattizi (compreso
Ferdinando Casini), per ricordare le troppe avventure nelle quali il
Paese è stato gettato nel corso del tempo con decisioni improvvide. I
“Bignami” più aggiornati ci dicono che, incalzante il volenteroso
Giorgio Napolitano, l'Italia andò a traino di Francia e Gran Bretagna
nella caotica “guerra di Libia”, lontanissima da soluzione, e qualcuno
scalpitò persino quando iniziò la catastrofe in Siria. Ora, mentre il
Vicino Oriente è daccapo una polveriera sull'orlo dell'esplosione,
occorre fermarsi a riflettere.
È metà
quaresima. Non è tempo di egoismi e vanità ma di riflessione. La
Legislatura appena eletta è la diciottesima. Il 18 è il numero dei
Rosa+Croce, l'Ordine sorto nell'Europa devastata dalla Guerra dei
Trent'anni (1618-1648, come quella dal 1914 al 1945). Rosa+Croce
significa Tradizione e Lumi, ricerca ed educazione di minoranze
consapevoli e responsabili. La Diciottesima Legislatura nasce sotto il
segno del Pellicano, il mistico alato dallo straziante grido asinino,
che si squarcia il petto per resuscitare i suoi piccoli col proprio
sangue. La precedente, 17^, poteva solo portare male. Il 18 è
tutt'altra cosa. Gli esperti di numerologia insegnano che il 18 sta per
1+8, ovvero nove, che vuol dire 3 per 3, numero perfetto moltiplicato 6
volte. Chi “dà i numeri” avverte che, però, se si esagera a sommare 3
più 3 si arriva a 666, la cifra del Diavolo. L'importante, dunque, è
fermarsi per tempo. Il 18, Principe Rosa+Croce, ultimo grado “rosso” o
capitolare, deve durare lo stretto necessario, appena il tempo per
compiere la sua missione e passare alla filosofia. Esattamente quanto
oggi occorre all'Italia. Il Paese ha un Parlamento (tutto da
“convalidare”), che deve farsi carico di problemi vitali: politica
estera coerente (con un ministro di alto profilo là dove ancora siede
Alfano), difesa (e quindi missioni militari all'estero e per la
sicurezza nel Paese, costose ma necessarie per farci stare “al mondo”)
e primato di ricerca e istruzione. L'economia - finanza pubblica,
produzione, i sindacati d'interessi (Confindustria inclusa) - vanno a
traino in un'Italia che da vent'anni ha abdicato alla sovranità
nazionale introducendo in costituzione l'obbligo della parità di
bilancio a beneficio di un'Unione Europea che se la ride perché prende
molto più di quanto dia.
Malgrado l'apparenza e le narrazioni mediatiche, l'Italia è
il paese più stabile d'Europa. Numericamente irrilevanti e (per ora)
“dimostrativi” ma non “ultimativi”, i deplorevoli ma
circoscritti “crimini” a sfondo politico di questi
giorni provano che è fallito l'enorme sforzo eterodiretto di dividere
gli italiani in fazioni scatenate in zuffe continue. L'ormai noiosa
reinvenzione della contrapposizione fascismo-antifascismo (o
“resistenza”) mostra la povertà della subcultura estremistica, incapace
di vedere i problemi italiani del Terzo Millennio. Benché noto, va
ripetuto che non c'è mai stato “il” fascismo. Tra il 1922 e
il 1943 l'Italia fu governata da aggregazioni disparate, con progetti
per nulla univoci, nel caos dell'Europa uscita da cinque anni di guerra
devastante, squassata da rivoluzioni e movimenti armati. Evocare il
“fascismo” quale soggetto politico dell'Italia odierna è irreale e
infantile (semmai va ricordato che il suo vero unico argine fu la
monarchia con Vittorio Emanuele III). Lo stesso vale della “resistenza”
o “guerra partigiana”, che fu coacervo di pulsioni e progetti niente
affatto convergenti. L'unico suo elemento unificante fu infine il
tricolore indossato obbligatoriamente dal Corpo Volontari della
Libertà, comandato del generale Raffaele Cadorna, da ricordare tra i
“Sacerdoti di Marte” biografati dallo storico Oreste Bovio nell'ottimo
volume edito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.
Poche ma chiare parole come
antidoto alla fobia clerico-partitica dilagante contro la Massoneria.
L'articolo 18 della Costituzione recita: “i cittadini hanno diritto di
associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono
vietati dalla legge penale”. L'articolo 49 aggiunge: “tutti i cittadini
hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con
metodo democratico a determinare la politica nazionale”. La libertà di
associazione è tra i Diritti e doveri, quella dei partiti compare nei
Rapporti politici. Viene dopo. Se è ovvio, dunque, che le associazioni
criminali siano vietate, lo è altrettanto che per poter contribuire a
determinare la politica nazionale i partiti debbono superare un
controllo di “democraticità” a opera di Autorità superiori e
indipendenti, non asservite a governi transeunti né formate dai partiti
stessi (come è in parte la Corte Costituzionale, politicamente
rilevante a tempi alterni). “Metodo democratico” significa infatti che
i partiti aspiranti a svolgere il ruolo loro affidato dalla
Costituzione devono anzitutto condividerne e rispettarne i principi
fondamentali. Il controllo pubblico sui partiti, tuttavia, non è mai
stato effettuato in un Paese che aveva forze politiche sovversive
colluse con potenze straniere dichiaratamente nemiche dell'Italia, come
fu il Partito comunista italiano, succubo dell'URSS. Vari suoi
militanti vivevano all'estero e dall'estero tramavano contro la Patria.
In democrazia per contare
bisogna contarsi. Occorre fare numero. Che i voti non si contino ma si
pesano è la spocchia di un tempo che fu. L'esperienza insegna che le
elezioni si vincono o si perdono anche solo per pochi voti,
nei comuni (grandi o piccoli che siano) come nel Paese. Tutti ricordano
la sconfitta del centro-destra per appena 24.000 preferenze. Dunque,
ogni testa un voto. Ogni scheda può decidere le sorti del Paese. Perciò
il 4 marzo occorre votare.
Tra i molti e seri problemi incombenti,
l'Italia ne ha uno davvero grave e assillante, anche se generalmente
eluso: l'“evanescenza” del titolare del ministero degli Esteri,
Angelino Alfano. Ogni Stato si fonda sul suo Capo (monarca o presidente
che sia) e su due pilastri portanti: la politica estera e le forze
armate, che ne costituiscono la proiezione, difensiva o, quando
necessario, offensiva. La condizione attuale dell'Italia è nuova e
paradossale. Il 6 dicembre 2017, ormai due mesi orsono, Alfano annunciò
che non si sarebbe candidato alle prossime elezioni. Aggiunse che “si
può fare politica anche fuori dal palazzo”. Verissimo. A (o dal)
Palazzo si possono fare molte cose. Alcune strane, come il “sequestro”
di Alma Shalabayeva. Questione ancora aperta, avvenne quando Alfano era
ministro dell'Interno. A (o dal) Palazzo si può non sapere che parenti
stretti assumono impieghi e cariche ben remunerate. E talora a (o dal)
Palazzo accade di trascurare, per stanchezza, delusione o distrazione,
gli obblighi elementari del Ministero.
“La
verità è che quando il fascismo arrivò al governo, delle antiche
istituzioni parlamentari non rimaneva più che l'apparenza esteriore.
Nella sostanza esse erano state distrutte, e vi si era sostituito una
specie di direttorio, composto dai delegati dei gruppi (parlamentari),
cioè la più anarchica tra tutte le forme di governo. In quanto dunque
il fascismo riconsacrò l'idea di Patria e restaurò l'autorità dello
Stato, i fini da esso raggiunti coincidono con quelli a cui
dedicai tutta la mia esistenza politica”. Lo scrisse Vittorio Emanuele
Orlando, il “presidente della Vittoria”, monarchico, liberale, “pater”
della rinascita post-fascista e punto di riferimento di ambienti
mafiosi secondo Tommaso Buscetta e altri (lo ricorda Riccardo
Mandelli in “I fantastici 4 vs Lenin”, Ed. Odoya). Era il 2
aprile 1924, quattro giorni prima della straripante vittoria del
Partito Nazionale Fascista alle elezioni, in cui ottenne il 66% dei
voti. “Il fascismo sorse come protesta contro un eccesso di violenza
sovvertitrice della vita nazionale. Il senno e l'intuito del Capo dello
Stato (Re Vittorio Emanuele III) risparmiarono una guerra civile, le
cui conseguenze sarebbero state gravissime. Mussolini (il 31 ottobre
1922) costituì un ministero che raccoglieva i rappresentanti di tutti i
partiti costituzionali e nulla rinnovò negli ordinamenti costituzionali
dello Stato. Mussolini, pur facendo al partito (fascista) larghe
concessioni, voleva ottenere dal Parlamento la legalizzazione del fatto
compiuto”. Lo dichiarò il 3 aprile 1924 Enrico De Nicola, futuro primo
presidente della Repubblica. Sono frasi da rileggere e meditare quando
si parla, talora a sproposito, di fascismo e di regime fascista come un
“continuum” nato, cresciuto e concluso secondo un percorso
logico-cronologico uscito dalla mente del duce come Minerva da quella
di Giove. La realtà storica è del tutto diversa. Il fascismo fu prima
movimento, poi partito. La sala a piazza San Sepolcro in Milano per la
prima sortita di Mussolini, il 23 marzo 1919, venne procacciata da
Cesare Goldmann, ebreo e massone. Orlando, De Nicola e una lunga serie
di liberali, democratici ed ex esponenti del partito popolare (cioè dei
cattolici) nel 1924 affollarono la Lista Nazionale e giudicavano il
fascismo non su quanto sarebbe avvenuto in un futuro ancora del tutto
imprevedibile, ma sulla base di quanto avevano sotto gli occhi: la
restaurazione dello Stato dopo anni di guerra civile strisciante,
intrapresa da chi voleva “fare come in Russia”, cioè annientare le
istituzioni uscite vittoriose dalla Grande Guerra (corona, forze
armate, “borghesia”...).
Essere Capitale italiana della cultura
almeno per un anno vale molto più del sussidio di un milione di euro
erogato una tantum a sostegno del bencapitato. Comporta di avere alle
spalle un Passato alto e sofferto, di esserne consci e farlo valere.
Significa ergersi a simbolo di un'Italia che fu ed è emblema non solo
dell'Europa odierna, via via arroccata sui crinali alpini e sempre più
arretrata a nord, ma, qual era, Signora del Mediterraneo.