"Il Governo ha due doveri, quello di
mantenere l'ordine pubblico a qualunque costo ed in qualunque
occasione, e quello di garantire nel modo il piu' assoluto la liberta'
di lavoro."
Il Municipio di Cavour
"Le leggi devono tener conto anche
dei difetti e delle manchevolezze di un paese. Un sarto che deve
tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all'abito."
Tomba della Famiglia Giolitti
"Nessuno si puo' illudere di potere
impedire che le classi popolari conquistino la loro parte di influenza
economica e di influenza politica. Gli amici delle istituzioni hanno un
dovere soprattutto, quello di persuadere queste classi, e di
persuaderle con i fatti, che dalle istituzioni attuali esse possono
sperare assai piu' che dai sogni dell'avvenire."
Il busto di Giolitti
"Agli uomini politici che passano
dalla critica all'azione, assumendo le responsabilita' del governo, si
muove spesso l'accusa di mutare le loro idee; ma in verita' cio' che
accade, non e' che essi le mutino, ma le limitano adattandole alla
realta' e alle possibilità dell'azione nelle condizioni in cui si deve
svolgere necessariamente."
Cavour, la rocca e le Alpi
"Agli uomini politici che passano
dalla critica all'azione, assumendo le responsabilita' del governo, si
muove spesso l'accusa di mutare le loro idee; ma in verita' cio' che
accade, non e' che essi le mutino, ma le limitano adattandole alla
realta' e alle possibilità dell'azione nelle condizioni in cui si deve
svolgere necessariamente."
Proposte
In
questa sezione segnaliamo editoriali, articoli, note, recensioni
e saggi brevi di interesse.
L'OMAGGIO DI SERGIO MATTARELLA A
LUIGI EINAUDI
Sabato 12 maggio il presidente della Repubblica,
Sergio Mattarella, renderà omaggio a Luigi Einaudi nel 70° della sua
elezione a primo presidente effettivo dello Stato d'Italia (11 maggio
1948). Liberale, monarchico, senatore del Regno dal 6 ottobre 1919,
Luigi Einaudi è uno dei giganti della nostra storia con Camillo Cavour
e Giovanni Giolitti. Lo ricorda sinteticamente il nostro editorialista,
Aldo A. Mola, direttore della Associazione di studi storici Giovanni
Giolitti.
LUIGI EINAUDI (1874-1961) LIBERALE, ECONOMISTA, EUROPEISTA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 29 aprile
2018, pagg. 1 e 11.
Luigi Einaudi (Carrù, Cuneo, 24 marzo
1874 - Roma, 30 ottobre 1961) fu eletto primo presidente effettivo
della repubblica italiana al quarto scrutinio l’11 maggio 1948, con 518
suffragi su 871 votanti. Liberale e monarchico piemontese prevalse sul
siciliano Vittorio Emanuele Orlando, parimenti monarchico, liberale e
“presidente della Vittoria”.
Einaudi non aveva studiato da capo dello Stato. Aveva studiato. Perso a
dodici anni il padre (esattore delle imposte, recandole nottetempo in
calesse dalle Langhe a Cuneo in certi tratti armava la rivoltella)
crebbe in casa dello zio, Francesco Fracchia, notaio a Dogliani. Nel
1922 ne raccolse gliAppunti per la storia politica ed amministrativa di
Dogliani.Allievo
nel collegio dei Padri Scolopi a Savona, nel 1888 fu proclamato
“Principe dell’Accademia” su indicazione del geografo Arcangelo
Ghisleri, massone. Einaudi fu cattolico praticante, ma senza
ostentazione e rispettoso di altre confessioni. Per capirne le radici
bisogna visitarne le terre d’origine, le stesse di Giovanni Giolitti e
di Marcello Soleri, come ha narrato suo nipote Roberto, architetto e
già presidente della Fondazione Luigi Einaudi di Roma. Il suo mondo era
ispirato dai principi all’epoca comuni non solo alla classe dirigente
diffusa ma tra tutte le persone perbene, ancheumili genere natae.I
loro motti erano “aiuta te stesso”, “volere è potere”, come insegnò il
grande naturalista Michele Lessona.
Laureato in giurisprudenza a Torino appena ventenne, dopo un breve
impiego alla Cassa di Risparmio di Torino e nell'organizzazione
dell'Esposizione Nazionale torinese per il cinquantenario dello Statuto
(1898) iniziò a scrivere per “La Stampa” di Torino già nel 1896, fu
professore all’Istituto Tecnico “Franco Andrea Bonelli” di Cuneo e al
“Germano Sommeiller” di Torino. Divenne “il maggiore economista
liberale del Novecento” a giudizio di Francesco Forte, docente nella
sua stessa cattedra di Scienze delle Finanze. Aveva già alle spalle
opere prestigiose, comeUn principe mercante. Studi sull'espansione
coloniale italiana, sulla finanza nello Stato sabaudo e
sulle imposte. A lungo collaboratore della rivista “Critica sociale” di
Filippo Turati e di Claudio Treves, crebbe nel laboratorio della
“Riforma sociale” promossa dal pugliese Salvatore Cognetti de' Martiis
e la cui direzione assunse nel 1908. Già collaboratore del quotidiano
torinese “La Stampa” di Alfredo Frassati, dal 1903 del milanese
“Corriere della Sera” e dal 1922 dell'“Economist”, Einaudi polemizzò
aspramente contro i “trivellatori dello Stato” e rimproverò a Giolitti,
massimo statista della Nuova Italia, di utilizzare il potere per
mediare tra le parti sociali e garantire una costosa “stabilità di
governo” a beneficio di troppi “clienti” e opportunisti. Docente
straordinario di scienza delle finanze a Pisa nel 1902, lo stesso anno
fu chiamato dall'Università di Torino, ove ebbe la cattedraadvitam.
Credeva nella “bellezza della lotta”, cui intitolò un saggio nel 1923.
Interventista nel 1914-15, il 6 ottobre 1919 venne nominato da Vittorio
Emanuele III senatore su proposta di Francesco Saverio Nitti. Nel 1922
appoggiò il governo di coalizione nazionale presieduto da Benito
Mussolini, che sino al 29 ottobre si propose di averlo ministro delle
Finanze affinché potesse attuare i suoi insegnamenti: ridurre
drasticamente la spesa pubblica “clientelare”, ripristinare il
prestigio dello Stato, assicurare i servizi, azzerare mafie, camorre e
tagliare le unghie agli opposti corporativismi: imprenditori
“pescicani” e sindacati parassitari. Rimasto escluso dall'esecutivo ne
vegliò la condotta dalle colonne dell'“Economist” e del “Corriere”. Al
fervore scientifico unì la passione civile per le libertà. Già
direttore dell'Istituto di Economia “Ettore Bocconi” di Milano,
pubblicò una raccolta di saggi per il giovane editore torinese Piero
Gobetti, strenuo oppositore e vittima del regime incipiente.
All’indomani dell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti
(10 giugno 1924) per mano di una squadraccia fascista, Einaudi deplorò
pubblicamente “il silenzio degli industriali”. L’anno seguente
sottoscrisse il “Manifesto” degli intellettuali antifascisti scritto da
Benedetto Croce. Le sue opere erano ormai ben note anche oltre
Atlantico. Come Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati, nel 1918 aveva
giustapposto al sogno della Società delle Nazioni la più realistica e
urgente Federazione europea per scongiurare che dal collasso degli
imperi nascessero devastanti nazionalismi. Tornò da altro versante a
scriverne inDei diversi significati del concetto di liberismo
economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo,in
controcanto con il “giolittiano” Benedetto Croce, autore dellaStoriad'Italia(1928).
Sarebbe però errato ritenere che Einaudi fosse un “liberista assoluto”.
Tra le sue massime spicca “l’uomo libero vuole che lo Stato
intervenga”. Il suo era “liberalismo senza aggettivi”. Come ha
ricordato Tito Lucrezio Rizzo nel suo profilo biografico, Einaudi
ammonì: “la scienza economica è subordinata alla legge morale”.
Di vasto respiro e profondità documentaria e critica spiccano due sue
opere degli Anni Trenta:La condotta economica e gli effetti sociali della
guerra(1933),
scritta appena quindici anni dopo la fine del primo conflitto mondiale,
eTeoria della moneta immaginaria nel tempo da
Carlomagno alla rivoluzione francese(1936).
Dopo l'arresto e la breve detenzione dei figli Giulio e Roberto (il
terzo, Mario, era migrato negli Stati Uniti d'America) e la forzata
chiusura della “Riforma sociale”, Einaudi fondò la dotta e prestigiosa
“Rivista di storia economica”, pubblicata dalla casa editrice di suo
figlio Giulio e protratta sino al 1943. Nel 1938 fu tra i dieci
senatori che votarono contro la legge “per la difesa della stirpe” e si
pronunciò contro l’antisemitismo e l’incipiente vassallaggio
ideologico-diplomatico-militare del governo Mussolini nei confronti
della Germania di Adolf Hitler. Tenuto, come tutti i pubblici
dipendenti a dichiarare la propria “stirpe” rispose che la sua gente
era da sempre “ligure” con apporti di altre genti nel corso del tempo.
Dopo molte edizioni dei fondamentaliPrincipii di scienza della finanzacondensò
decenni di studi inMiti e paradossi della giustizia tributaria(1938).
Come ha scritto Ruggiero Romano, Einaudi fu “il più grande
demitizzatore” italiano del Novecento, non solo su teorie e pregiudizi
economicistici, ma con riferimento alla vita sociale: abolizione delle
“maiuscole”, dei “titoli” vanesii, dei formalismi pomposi ostentati per
celare il vuoto.
Al crollo del regime mussoliniano (25 luglio 1943) Einaudi fu nominato
rettore dell'Università di Torino, mentre Filippo Burzio assunse la
direzione della “Stampa”. Con la proclamazione della resa senza
condizioni (8 settembre 1943), quando l'Italia rimase “divisa in due”
(formula poi usata da Croce) e le regioni centro-settentrionali vennero
rapidamente occupate dai tedeschi, appreso di essere ricercato, Einaudi
riparò in Svizzera. Vi pubblicòI problemi economici della Federazione europea.
Sulla fine dell’anno seguente fu chiamato a Roma dal governo presieduto
da Ivanoe Bonomi e, d'intesa con il ministro del Tesoro Marcello
Soleri, il 4 gennaio 1945 venne nominato governatore della Banca
d’Italia in successione a Vincenzo Azzolini, arrestato per presunta
collusione con gli occupanti germanici in danno della Banca stessa.
Quale direttore generale volle a fianco Donato Menichella, che neppure
conosceva di persona ma la cui formidabile competenza sulle relazioni
tra banca e industria molto apprezzava. Lo attese un compito immane.
Aveva pubblicatoLineamenti di una politica economica liberale.Il
governo era sotto tutela della Commissione Alleata di Controllo.
L’amministrazione era a sua vola subordinata ai governatori militari.
L’Italia meridionale era inondata dalle Am-Lire. La moneta circolante
era quasi venti volte superiore a quella d'anteguerra. L'inflazione
galoppava. Il prodotto interno in molte regioni era dimezzato. In tante
plaghe la popolazione era alla fame. I sei partiti rappresentanti nel
Comitato Centrale di Liberazione Nazionale (in quello dell'Alta Italia
erano cinque: vi mancava la Democrazia del lavoro) e al governo erano
divisi, nell'immediato e nelle prospettive ultime. Il capo
dell’esecutivo, Pietro Badoglio, aveva sciolto la Camera; l’alto
commissario per l'epurazione aveva privato quasi tutti i senatori del
rango e dei diritti politici e civili. Il governatore dovette quindi
valersi di cariche e poteri ulteriori a sostegno dalla propria opera.
Perciò venne nominato membro della Consulta Nazionale che preparò la
Costituente. Fu eletto per il partito liberale all’Assemblea
Costituente (2-3 giugno 1946) e nel 1947, dopo il viaggio negli Stati
Uniti d'America, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi (della
Democrazia Cristiana) lo volle vicepresidente e ministro del Bilancio.
Con apposito decreto fu confermato governatore della Banca d'Italia e
poté tessere la tela quotidiana della Ricostruzione.
Consapevole delle drammatiche difficoltà nelle quali versava il Paese,
anziché vagheggiare progetti tanto vasti quanto inattuabili, puntò
realisticamente su interventi “a pezzi e bocconi”, come narrato dal suo
fido segretario particolare, Antonio d'Aroma. Doveva ristrutturare un
edificio occupato da persone che non potevano esserne allontanate, la
“romana burocrazia nostra sovrana”.
Per attuare il risanamento monetario a suo avviso non esistevano “mezzi
taumaturgici”. Dopo il prestito nazionale promosso da Marcello Soleri,
che gli dedicò gli ultimi febbricitanti mesi di vita con patriottismo
esemplare, Einaudi lasciò che il tempo facesse tramontare propositi
inattuabili, quali il “cambio della lira”, che avrebbe provocato la
fuga dei pochi capitali disponibili e scoraggiato investimenti
dall'estero. Come da lui previsto, in un paio d’anni le speculazioni si
esaurirono e l’inflazione si ridusse a indici accettabili con la
ripresa, favorita dai giganteschi prestiti senza oneri dagli USA
nell'ambito del Piano Marshall.
Contrario a imposte straordinarie, contrarissimo a tasse patrimoniali
che avrebbero colpito media e piccola proprietà (se n’era occupato nel
magistrale saggio del 1920 suIl problema delle abitazioni), Einaudi
mirò alla riesumazione della classe media, della scuola (pubblica o
privata, purché seria, formativa, rigorosa), di quanti servivano lo
Stato con dedizione alimentata dal ricordo delle tante sofferenze
vissute nelle due guerre e a prezzo di tante vite. Monarchico libero da
feticismi, poté presto salutare il plebiscito del “quarto partito”: i
risparmiatori, spina dorsale della Nuova Italia. Nella sua immane opera
ebbe collaboratori il biellese Giuseppe Pella, futuro presidente del
Consiglio, e l'insigne economista Gustavo Del Vecchio.
Alla Costituente pronunciò discorsi appassionati e taglienti.
Componente della Commissione dei Settantacinque che redasse la bozza
della Carta, ottenne l'approvazione dell’articolo 81, che recita: “Con
la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi
tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori
spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”.
Nominato membro di diritto del Senato della Repubblica (22 aprile),
all’indomani delle elezioni, prese parte all'inaugurazione della prima
legislatura, chiamata a eleggere il Capo dello Stato.
Alle 6 del mattino dell’11 maggio 1948 Giulio Andreotti,
sottosegretario alla presidenza del Consiglio andò a informarlo che De
Gasperi lo avrebbe fatto votare presidente della Repubblica per
superare lo stallo sul nome di Carlo Sforza, per tre volte sostenuto
senza successo. Il settantaduenne statista non gli ricordò di aver
votato monarchia; lo aveva fatto anche Andreotti. Osservò invece che,
claudicante e minuto qual era, avrebbe dovuto sfilare dinnanzi ai
corazzieri. Fu eletto e nessuno trovò alcunché da obiettare. I
corazzieri non avevano dimenticato Vittorio Emanuele III...
Capo dello Stato, Einaudi lasciò memoria del suo operoso settennato inLoscrittoio del PresidenteePredicheinutili.Continuò
a studiare, a pubblicare e a promuovere ricerche per unire gli
italiani, come poi fece negli anni seguenti, restituito alla cattedra
universitaria con speciale decreto. Improntò l'esercizio del suo ruolo
alla discrezione, al rigore, alla continuità. Lo si vide con
l'istituzione del Segretariato Generale, nel solco del Ministero della
Real Casa. Nulla di enfatico, tutto volto al pratico, con la misura
dell’austerità. All’inizio del 1945 aveva tracciato le linee del nuovo
liberalismo: “quando siano soppressi i guadagni privilegianti derivanti
da monopolio, e siano serbati e onorati i redditi ottenuti in libera
concorrenza con la gente nuova, e la gente nuova sia tratta anche dalle
file degli operai e dei contadini, oltre che dal medio ceto; quando il
medio ceto comprenda la più parte degli uomini viventi, noi avremo una
società di uguali, no, che sarebbe una società di morti, ma avremo una
società di uomini liberi”.
Qual è l’eredità di Einaudi? Quando sentiva (talora anche da
persone vicine) vagheggiare di ideologie “sovietiche” neppure
rispondeva: batteva il bastone per terra per dire che era impossibile
dialogare. Anch’egli coltivò propositi mai attuati: a cominciare
dall’abolizione del valore legale dei titoli di studio, il mito dello
“stato sovrano”: pagine, queste, pubblicate nellaPiccola antologia federalista,con
scritti di Jean Monnet, Denis de Rougemont e altri.
Cultore profondo del “senso dello stato” che, spiegò Benedetto Croce,
ministro dell’Istruzione con Giolitti, non è solo “liberismo”,
è “liberalismo”, Einaudi ne indicò
i fondamenti nella tradizione civile sorta dalla cultura classica e
dall’illuminismo, alla cui riscoperta critica si dedicarono egli
stesso, bibliofilo appassionato, e Franco Venturi. Da presidente
dell’associazione dei piemontesi a Roma, nel 1961 promosse i due
ponderosi volumiStoriadelPiemonte(ed.
Casanova).
Quali pionieri e numi tutelari del federalismo europeo vengono
solitamente citati Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman,
autore del piano che dette vita alla Comunità europea del carbone
dell'acciaio. Tra i profeti e artefici della Nuova Europa va però posto
e ricordato in primo luogo proprio Luigi Einaudi capace di conciliare
concretezza e profezia, sulla base irrinunciabile dello studio storico
e della scienza della finanze e dell’economia politica, senza la quale
la politica economica è vaniloquio.
Aldo A. Mola
MONARCHICI E MASSONI PER LA SVOLTA DEL 18 APRILE 1948
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 22 aprile 2018,
pagg. 1 e 11.
Chi davvero determinò la
vittoria della Democrazia cristiana (Dc) il 18-19 aprile del 1948?
Molti pensano che Alcide De Gasperi vada proclamato, se non santo,
almeno Beato, perché ne fu il condottiero. Secondo la narrazione
compiacente, egli giunse in solitaria sulla vetta, ma volle condividere
il trionfo con i partitini di centro. Lo storico diffida delle aureole.
Mette in ordine la sequenza dei fatti e documenta. Chi fu il vero
motore e il beneficiario di quelle elezioni, decisive per l'Italia di
ieri, oggi e domani? Non il segretario della Dc, ma i monarchici e i
massoni italo-americani che gl avevano fatto un corso accelerato di
“Occidente”. De Gasperi apprese e si adeguò. Del resto era presidente
del Consiglio di un Paese che aveva perso la guerra. L'Italia non aveva
scelta. L'11 gennaio 1948 vennero massacrati a Mogadiscio 52 italiani e
11 somali filoitaliani. Roma tacque. Scese la saracinesca dell'oblio
sulla nostra politica coloniale, rievocata nello splendido album
“Viaggio nella Somalia italiana” di Alberto Alpozzi con prefazione di
Maria Gabriella di Savoia. Il 12 gennaio il comunista Umberto
Terracini, presidente della Costituente, impedì la rievocazione di
Vittorio Emanuele III, che poteva e doveva essere occasione di
dell'esame di coscienza tuttora tardante.
All'indomani delle elezioni De Gasperi varò il
“centrismo” con liberali, repubblicani e socialdemocratci,
durato sino all'avvento del centro-sinistra precorso da Amintore
Fanfani e attuato su impulso di Aldo Moro. Lo fece per una sorta di
schivo buon cuore? No. Infatti alle elezioni la Dc ottenne il 48,5% dei
voti per la Camera dei deputati e 305 seggi su 573. A Montecitorio
aveva dunque una solida maggioranza. Al Senato ottenne invece il 48 % e
spuntò appena 131 scranni sui 237 in palio. Ma la Camera Alta venne
formata da 344 patres. Il 24 aprile scattò infatti la III
disposizione transitoria della Costituzione, che stabiliva la nomina di
107 senatori dalle speciali benemerenze: ex presidenti del Consiglio e
di Assemblee legislative, membri del disciolto Senato del regno non
epurati per connivenza col regime (fu il caso, per esempio, di
Benedetto Croce e Luigi Einaudi), ex deputati con tre legislature alle
spalle, inclusa la Costituente, quelli dichiarati decaduti il 9
novembre 1926 perché indebitamente assenti (gli “aventinisti”) o
condannati a cinque anni dal Tribunale speciale fascista per la difesa
dello Stato e, infine, i senatori regi che avessero fatto parte della
Consulta Nazionale (1945-1946). Si disse che alcuni sarebbero diventati
senatori “per meriti carcerari”.
Ironia a parte, il dato politico è fondamentale. Dei 107
“senatori di diritto” i democristiani furono appena 18. I comunisti ne
contarono 31; i socialisti 11; i socialdemocratici 13. Sei scranni
andarono ai repubblicani, 5 ai liberali, 4 ai democratici di sinistra
(fiancheggiatori del Fronte popolare). Diciannove si iscrissero al
“gruppo misto”. I più erano di orientamento laico e poco
teneri verso la Dc, bastione dei clericali organizzati dai Comitati
civici allestiti da Luigi Gedda e pronti a schierarsi in piazza san
Pietro con il basco verde. Nulla si sapeva di “Gladio” ma un settore
dello Stato (fiacco nel giugno 1946) non sarebbe rimasto con le mani in
mano in caso di disordini fomentati dall'estrema sinistra. A conti
fatti, al Senato la DC di De Gasperi poté contare appena su
151 dei 344 patres. Era in minoranza. Per legiferare aveva bisogno
inderogabile di “responsabili”. Perciò formò il governo di coalizione:
non per superiore intuito politico o generosità verso i partiti
“centristi” ma perché non poteva fare diversamente. Lo ricorda Aldo G.
Ricci in IL compromesso costituente (Ed. Bastogi), distillato dai tre
volumoni di Verbali del Consiglio dei ministri (1948-1953).
Dalle urne il Paese uscì profondamente diviso. Il Fronte
democratico popolare (Partito comunista, partito socialista e sinistra
democratica, comprendente ex militanti del Partito d'azione e anche ex
repubblicani, come il generale Arnaldo Azzi, e vaganti come Enrico
Molè) fu identificato con i rossi che a metà febbraio imposero il
regime comunista a Praga e “suicidarono” Jan Masaryk e la dirigenza
democratica (di fatto, non di etichetta). Sull'Europa
spiravano i venti gelidi della guerra fredda. Da una parte gli USA di
Harry Truman, grado 32° del Rito scozzese antico e accettato, e la Gran
Bretagna (senza il fratello Winston Churchill al potere, ma comunque
“occidentale”) e dall'altra l'ex seminarista georgiano Stalin, che
faceva coincidere con i carri armati il sistema sociale
russo-sovietico, previa eliminazione fisica degli oppositori.
Un monocolore democristiano non sarebbe andato lontano. Due
anni prima, all'elezione dell'Assemblea costituente, la DC si era
fermata al 35 %. Il 18 aprile del 1948 calamitò il grosso dei voti che
il 2-3 giugno 1946 erano andati alla monarchia e ai partiti di suo
riferimento, nonché quelli delle province escluse dal voto e che ora
poterono dire la loro. Votarono anche i prigionieri di guerra (in
Russia ne rimanevano ancora molti, compresi tre generali, fra i quali
Battisti) e quasi due milioni di cittadini cui nel 1946 tagliati fuori
al referendum per motivi politici o perché non raggiunti dagli uffici
elettorali. Quel 18 aprile 1848 essi fecero massa critica, non certo a
favore dell'URSS e dei frontisti, che attendevano l'arrivo dell'Armata
Rossa (tante volte sfortunato, Pietro Nenni ebbe persino il Premio
Stalin, solitamente conferito ai complici del dittatore).
De Gasperi capì al volo quello che era ed è sotto
gli occhi di tutti: in Italia i voti sono volatili. Ieri, come oggi e
domani. Si spostano come stormi di storni. Imbrattano e poi si
spostano. Inoltre ebbe chiaro che alla massa dei suffragi non
corrispondeva una dirigenza “democristiana” culturalmente e
tecnicamente preparata a governare la Ricostruzione, che richiedeva
competenza, dedizione, senso dello Stato. Le personalità qualificate
abbondavano invece nei partiti viciniori. Ve ne erano a iosa tra i
“senatori di diritto”: lo scaltro Salvatore Aldisio, il generale
Roberto Bencivenga, Ivanoe Bonomi, Arturo Labriola, Vittorio Emanuele
Orlando, Meuccio Ruini e Ferruccio Parri, che nel 1947 aveva dato vita
alla Federazione italiana associazioni partigiane (Fiap), alternativa
alla socialcomunista Associazione Nazionale Partigiani Italiani (Anpi)
ed era stato eletto deputato alla Costituente con l'“occidentale” Ugo
La Malfa.
Mentre in Italia ferveva la campagna elettorale, tra gli USA
e Londra venne varato il Piano Marshall per la Ricostruzione economica
europea (ERP), celebrata in francobolli che i ragazzini dell'epoca
collezionavano come viatico verso un'Italia migliore. Questa aveva i
piedi bene affondati del passato. In sintesi. I comunisti volevano da
sempre un Parlamento unicamerale, come in tutti i regimi
rossi e neri. Perciò nel 1944-45 cercarono di cancellare il Senato del
Regno, che però abbondava di galantuomini e sopravvisse. Esso fu
sciolto solo nel novembre 1947, un anno e mezzo dopo l'avvento della
repubblica. Del resto tanti senatori erano stati o erano ai vertici
dello Stato, dal maresciallo Pietro Badoglio a Enrico De Nicola.
La storia non consente improvvisazioni. Perciò, messi i voti
in fienile, De Gasperi formò il primo governo della Prima Legislatura
repubblicana incardinato su Carlo Sforza agli Esteri, Ezio
Vanoni alle Finanze, Antonio Segni all'Agricoltura, il
socialdemocratico Giuseppe Saragat alla Marina mercantile e il
repubblicano Randolfo Pacciardi alla Difesa. Con ben due
iniziazioni massoniche alle spalle fu lui a traghettare l'Italia
nell'Alleanza Atlantica.
Non vi erano alternative. Quanto avvenne nell'aprile 1948
deve far aprire gli occhi su ciò che attende. Un Paese economicamente
debole deve darsi ordine e disciplina. Deve formulare un progetto che
non sia solo obolo per esistenza in vita o per girovaghi di passo
dall'uno all'altro continente. Il vero artefice della Ricostruzione non
fu De Gasperi, suo percettore politico, ma Luigi Einaudi, monarchico,
liberale, piemontese di cultura universale. Non è per caso se le Salme
di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena riposano nel
Santuario-Basilica di Vicoforte, due passi da Carrù e Dogliani, le
terre della Civiltà del Piemonte, cardine del governo, con
sottosegretari di valore, quali Giulio Andreotti, Giuseppe
Brusasca, Achille Marazza, Emilio Colombo, Giorgio La Pira e Bernardo
Mattarella, padre dell'attuale presidente della Repubblica.
Lo Stato è continuità. A garantirla non fu solo De Gasperi,
ma i senatori di diritto e alcuni fratelli d'Italia che facevano la
spola tra Roma e oltre Atlantico, come Frank Bellini e Charles Fama, la
cui storia è ancora tutta da narrare. Quello del 18 aprile
1948, conclusivamente, fu un voto “per”, non contro, lo
Stato, un sì alla pacificazione, non al prolungamento della guerra
civile. Fu un voto per il ritorno dell'Italia all'avanguardia d'Europa.
Ma sino al 1955 l'ONU la tenne sulla soglia del Palazzo di Vetro. Anche
quella lunga quarantena va capita e raccontata, mentre il Paese declina
e rischia di fermarsi nel drappello di coda della storia ventura.
Aldo A Mola
VOTI (POCHI) VETI
(TROPPI) LO STATO IN BILICO
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 8 aprile
2018, pagg. 1 e 11.
Di veti “ad personam” la
democrazia in Italia è già morta una volta, nel 1921-1922. Tanti
“politici” non lo ricordano o non l'hanno mai appreso. Perciò è bene
ripassare quei fatti. Don Luigi Sturzo, segretario del Partito popolare
italiano (la Democrazia cristiana di allora, adesso cara a Grillo
Beppe), mise il “veto” a Giolitti quale presidente di un governo
formato da liberali, cattolici e socialisti. Anche per colpa sua, al
posto dell'ottantenne Statista liberale, l'unico in grado di fermare la
deriva verso l'abisso, al potere salì il trentanovenne Mussolini (ex
socialmassimalista e di molto altro), col benestare del democristiano
Alcide De Gasperi, che spianò la via al suo governo. Vi è motivo di
ricordarlo nella Domenica “in albis”, festa di transizione. Deposta la
veste infangata, oggi si indossa quella candida, battesimale. È giorno
di lavacri e purificazione. Ne ha bisogno l'Italia odierna, uscita da
cinque anni melmosi. La XVII^ legislatura ha lasciato un’eredità
pesante. Chi si illude che le votazioni abbiano spalancato chissà quale
radioso futuro non ha coscienza della realtà incombente, né, meno
ancora, di capisaldi della Costituzione che non ammettono né
aggiramenti né scorciatoie.
Il Presidente Sergio Mattarella ha ammonito di
essere interprete dei cittadini. E' il nocchiero di un'Italia in gran
tempesta. Al netto di astenuti, schede bianche e nulle, i Cinque Stelle
di Di Maio (dal sorriso tra teso e sardonico, come accade a chi è agli
sgoccioli) hanno ottenuto il 32% dei voti validi. Meno di un terzo. Non
bastano né mai basteranno a sorreggere un governo. Quando nel 1992 calò
su quella soglia, la fatiscente Democrazia cristiana gettò la spugna.
Le mancava il 68% degli italiani. Esattamente quanti non ne hanno oggi
i grillini per pretendere il controllo delle Camere, delle Commissioni,
il governo e… la Luna. Essi possono strepitare quanto vogliono, ma da
soli non hanno alcuna maggioranza. Perciò si “offrono” a destra e anche
a manca, all'insegna del “Franza o Spagna pur che se magna”: afferrare
il potere, spendere e spandere e fare i Frati Cipolla sperando di non
finire come Masaniello. Sanno che né per loro né per altri
“illusionisti” vi sarà un nuovo 4 marzo 2018. Quando si tornasse alle
urne (tra sei mesi, un anno o più) gli elettori staranno molto peggio
di oggi e avranno smesso di credere ai miracoli della Casaleggio
Associati, alla Piattaforma Rousseau e alle altre fanfaluche
strombazzate durante la peggior campagna elettorale dell'Italia
repubblicana. Alla prova dei fatti si vedrà anche se e quanto
reggeranno certi gruppi comprendenti anticaglie di partiti dalla storia
un tempo gloriosa, ma ridotti a raccattare un seggio purchessia.
La pausa di riflessione dettata dal Presidente
Mattarella è propizia per ricordare alcuni capisaldi del regime vigente
(il migliore possibile, sic stantibus rebus, come convenimmo più volte
in dialogo con Marco Pannella). In primo luogo “il Presidente della
Repubblica nomina il presidente del Consiglio” (art. 92 comma 2 Cost.).
La Carta non dice come e perché giunga o debba giungere alla decisione.
È suo riservato dominio. La prassi è mutevole, la pienezza del potere è
altra. Ricalca esattamente lo Statuto Albertino, che riservava al re la
nomina dei ministri, come fece Vittorio Emanuele III il 30 ottobre 1922
e il 25 luglio 1943, sentite le parti in gioco e assunte le sue
responsabilità dinnanzi alla storia, perché quello è il compito del
Capo dello Stato: “Un brut fardèl”, come disse il morente Vittorio
Emanuele II al figlio Umberto (assassinato a Monza il 29 luglio 1900, a
conferma di quanto sia sempre stato difficile governare l'Italia).
Mentre infuria il fatuo strepito sull'abolizione
dei “vitalizi” spettanti ai parlamentari va ricordato ai neofiti della
politica che il riconoscimento economico della rappresentanza politica
fu introdotta nel 1912-1913 in coincidenza con il suffragio universale,
proprio per consentire ai non abbienti di svolgere decorosamente la
funzione politica, altrimenti riservata a una casta. Abusi, sperperi e
ruberie vanno certo aboliti, ma salvaguardando le prerogative
dei parlamentari, inclusa la remunerazione, uno dei perni della loro
indipendenza (è abnorme, semmai, che gli “eletti” debbano versare una
mensilità al “datore dell'elezione”, del quale si riconoscono succubi).
Del tutto improprio è misurare l'efficacia dell'esercizio della carica
con la presenza in aula, come qualcuno improvvidamente ha proposto.
Anziché sedere accalcati e sudaticci negli scomodissimi scranni di
Palazzo Madama e di Montecitorio, deputati e senatori hanno molti
validi modi e tante altre sedi per professare la missione loro
assegnata con l'elezione: visitando il Paese, ascoltandone i cittadini,
studiando.... Basta si rileggano le opere di misericordia spirituale e
corporale, che precedono la Carta del 1948. Meno sedute, ma più
concludenti. Meno “riforme”, meno “leggi” (anzi, vanno sfoltite) e più
concentrazione sugli impegni vitali del Paese: Esteri (Alfano è ancora
sempre lì...), Difesa (evitando pessime figure e soprattutto il
ridicolo mandando missioni militari a caso in giro per il mondo),
Istruzione (quando avremo un ministro adeguato alla carica un tempo
ricoperta da Benedetto Croce e da Giovanni Gentile?).
L'ordinamento costituzionale oggi subisce una
grave aggressione, che va denunciata e respinta con chiarezza. L'art.
67 della Carta recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la
Nazione (maiuscolo) ed esercita le sue funzioni senza vincolo di
mandato”. Così era nato il Parlamento del regno di Sardegna nel 1848
(unica monarchia rappresentativa in Italia, con buona pace di
neoborbonici e altri nostalgici degli staterelli preunitari, incluso
quello del papa-re) e così esso visse sino al 1939, quando la Camera
elettiva fu sostituita con quella dei Fasci e delle Corporazioni,
formata esclusivamente di tesserati del PNF, a differenza di quelle
elette nel 1929 e 1934, che salvavano l'apparenza con la rappresentanza
di istituti e sodalizi non formalmente “fascisti”, dalla Lega Navale al
Touring Club Italiano...
La libertà dal “vincolo di mandato” è il sale della vita
politica. Esso non trovò spazio nei partiti totalitari, usi a
screditare i dissenzienti come traditori, radiati ed esposti al
pubblico ludibrio. Fu la sorte riservata dal Partito comunista
d'Italia, succubo di Stalin a Mosca, a chi non si allineava alle
cangianti direttive del “Capo”(i più sfortunati vennero ammazzati o
destinati a morire di fatica e di stenti nei gulag). Oggi la libertà
dal vincolo di mandato è negata dal Movimento Cinque Stelle, i cui
vertici pretendono di assegnare patenti di moralità politica non solo
al proprio interno ma addirittura all'Italia intera. Questa arroganza
va respinta con fermezza. Fa tutt'uno con quella della dottoressa Rosy
Bindi, che vorrebbe subordinare la “presentabilità” alle urne a criteri
privi di basi giuridiche (per esempio l'appartenenza o meno ad
associazioni non proibite, quali le Comunità massoniche) e a suoi
pregiudizi personali.
La bizzarra pretesa di vincolare al “Capopartito”
anziché alla Nazione l'esercizio della funzione parlamentare
paradossalmente viene avanzata anche nelle file di partitelli nati da
scissioni. Anche sotto questo profilo la XVII^ legislatura
lascia un'eredità avvilente. Essa si chiuse con la nascita di
un cartello (i Liberi e Uguali) capitanato dai presidenti delle due
Camere: un precedente destinato a pesare sulle istituzioni. La loro
sortita è così screditante che si preferisce esorcizzarla, nel silenzio
dei costituzionalisti. Però c'è, rimarrà e peserà.
Come dunque si vestiranno certi partiti
dopo questa domenica in albis? L'ipotesi di un governo di legislatura è
la meno augurabile, perché comporterebbe altri cinque anni di
litigiosissima campagna elettorale e di esaurimento delle magre risorse
del paese. Usciamo da un lustro di lotte fratricide. Il Paese chiede
aria di primavera. All'indomani del voto Dario Franceschini auspicò che
la XVIII legislatura assuma un ruolo “costituente”. E' pensiero
condivisibile. Il primo passo per risalire la china è però il
varo di una legge elettorale che concili rappresentanza e stabilità:
non lo era l'“Italicum” vagheggiato da Matteo Renzi (arrogante come
tutti i dilettanti, al pari della proterva Maria Elena Boschi) né lo è
il non rimpianto “Rosatellum”. Da lì bisogna partire. Non
perché ce lo chieda l'Europa. Lo sollecita la memoria della storia
d'Italia. Lo sfascio della democrazia liberale non nacque col governo
Mussolini, coalizione di tutti i partiti statutari, ma, come detto
sopra, per l'opposizione di Luigi Sturzo (“prete intrigante”) a un
governo liberal-socialista capitanato dall'ottantenne Giolitti e col
sostegno dei cattolici, chiamati al governo sin dal lontano 1917,
quando Filippo Meda assunse le Finanze. La democrazia rappresentativa
andò a rotoli per via di quel “veto”. Oggi siamo daccapo lì. Tocca al
presidente Mattarella ricordare ai parlamentari i loro diritti e i loro
doveri. Doni loro una copia della Costituzione e accerti che l'abbiano
appresa e che la rispettino. Altro poi potrà venire, nei secoli; per
ora è quanto di meglio si possa avere. La patente di guida richiede
esami più severi di quelli dell'elezione a parlamentare. Oltre
all'eccellente Consigliere per l'Informazione, forse al Presidente
occorre un Consigliere per la Formazione dei neofiti della
rappresentanza democratica: un “mestiere”, questo, molto più
impegnativo delle normali “professioni”, come agli Ateniesi ripeteva
Socrate. I quali, infastiditi dai suoi moniti, lo condannarono ad
avvelenarsi bevendo la cicuta. L'Italia odierna offre alternative
migliori?
Aldo A. Mola
L'Editoriale RISANARE PER RISORGERE SENZA
AVVENTURE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 1 aprile 2018, pagg.
1 e 11.
Il difficile viene adesso.
Anzi, ci viene addosso, senza dilazione né sconti. L'Italia è vincolata
a scadenze obbligate, dettate da impegni accettati, sottoscritti,
ineludibili. Il calendario dell'Unione impone un bagno di realismo a un
Paese in parte preda di sogni farneticanti e tentato di allontanare da
sé l'amaro calice di mantenere gli impegni con la scappatoia infantile:
altre elezioni. Alcuni (come il Movimento di Grillo) svicolano,
pretendendo per sé soli tutto il potere; altri (è il caso del Partito
democratico) si arroccano indispettiti sul loro fallimento politico,
prima e più che elettorale. Troppi giocano ai quattro cantoni mentre la
casa rischia il crollo. Ma il bel gioco dura poco. Entro dieci giorni,
vecchio o nuovo che sia, il governo deve presentare i suoi conti
all'Unione Europea. Dovrà farlo il governo attuale, in parte allo
sbando e comunque in carica solo per l'ordinaria amministrazione: un
limite che Paolo Gentiloni farà bene a non dimenticare, guardandosi da
impegni travalicanti in politica estera e militare. Auspichiamo che il
presidente della Repubblica regali un “Bignami” di storia ai ministri
attuali e futuri e ai parlamentari, novizi e fattizi (compreso
Ferdinando Casini), per ricordare le troppe avventure nelle quali il
Paese è stato gettato nel corso del tempo con decisioni improvvide. I
“Bignami” più aggiornati ci dicono che, incalzante il volenteroso
Giorgio Napolitano, l'Italia andò a traino di Francia e Gran Bretagna
nella caotica “guerra di Libia”, lontanissima da soluzione, e qualcuno
scalpitò persino quando iniziò la catastrofe in Siria. Ora, mentre il
Vicino Oriente è daccapo una polveriera sull'orlo dell'esplosione,
occorre fermarsi a riflettere.
Per alcuni paesi oggi è Pasqua di Resurrezione per altri è
Guerra devastante. Dopo cinque anni di campagna elettorale estenuante,
le votazioni delle alte cariche del Parlamento (in un clima talora
goliardico e con alcune pugnalate nell'urna) hanno dato la sgradevole
impressione che esse siano garanti di predominio anziché di equilibrio.
I “cri-cri” dei grillini sull'abolizione dei vitalizi dei parlamentari
sanno di giustizialismo a buon mercato. Ora, però, siamo alla resa dei
conti. L'Italia è chiamata a mostrare di essere uno Stato credibile. Al
netto della ridda di chiacchiere sull'esito delle votazioni e sulle
arzigogolate coalizioni di governo, il punto è uno solo: presentare i
“conti” all'“Europa”, cioè al Potere al quale l'Italia ha trasferito la
sovranità sulla propria salute economica.
Per carpire consensi tanti partiti hanno promesso
l'impossibile. Quasi tutti hanno detto che “questa Europa va cambiata”.
Lo fece anche Matteo Renzi, passato in pochi mesi dalle pacche sulle
spalle di Ventotene con Merkel e Hollande, alla deprecazione
dell'Europa “matrigna” e ingrata. L'Italia, però, è arrivata quasi
ultima nella geremiade contro l'Unione. Tanti altri suoi membri,
maggiori e minori, da anni ne chiedono profonde riforme. Alcuni, anzi
(dall'Austria-Ungheria alla Polonia), voltano le spalle a Bruxelles,
niente affatto intimiditi dalla minaccia di sanzioni. Però nessuno è in
grado di rimediare. La motivazione è sotto gli occhi, forse sgradevole
ma chiara: l'Unione Europea odierna regge solo perché non sta eretta.
Campa perché è sdraiata. E' una valetudinaria avvolta nelle coltre
delle emissioni di moneta della BCE di Draghi: cura palliativa che non
arriva alla radice del male. Per funzionare davvero, l'inflazione
auspicata del 2% dovrebbe essere bilanciata da aumenti di salari e
stipendi e dalla corresponsione di interessi sui depositi bancari,
senza i quali i consumi rimangono al palo e la povertà è
destinata ad aumentare, come il malcontento popolare, l'esaurimento del
ceto medio, indotto alla dissipazione anziché al risparmio. Le
elucubrazioni di “banchieri” e di “economisti” cozzano col buon senso
antico, oggi come nei secoli andati.
Ora l'“Europa” è una somma di debolezze, rinunce, abdicazioni
e di equivoci irrisolti, a cominciare dall'assenza di politica estera e
militare unitaria. Basti a conferma l'evanescenza della signora
Mogherini. Questa vacuità arriva da lontano, dalla guerra mondiale
perduta dall'Europa occidentale, sul piano militare, politico e
finanziario, a vantaggio degli USA e dell'URSS, e dall'incapacità dei
“vincitori” (tra i quali figurarono Grecia, Bielorussia, Ucraina,
Jugoslavia...) di pensare in europeo sin da quando, nel 1944, si
prospettò la sconfitta della Germania di Hitler e, conseguentemente,
dell'Impero giapponese (uscita di scena, l'Italia era ormai campo di
battaglia e lo rimase due anni con 150.000 vittime di bombardamenti
aerei, pari alle atomiche USA su Hiroshima e Nagasaki, e ferite morali
mai risanate). Anche dopo il 1945 la Gran Bretagna continuò ad
avvolgersi nel sogno di potenza imperiale planetaria. A svegliarla non
bastarono l'India, il Kenya, Mandela e via continuando. Altrettanto
fece la Francia, ammessa tra i “Grandi” malgrado gli ambigui trascorsi
(la Repubblica di Vichy, il socialismo di Marcel Déat, l'estremismo dei
suoi comunisti...) e la sua oggettiva fragilità. La sua illusione di
impero coloniale (Unione dal 1958) si tradusse nella maggior
lacerazione civile postbellica dell'Europa Occidentale: la guerra di
Algeria e la lotta armata dell'OAS contro il governo nazionale, volàno
della non risolta incomunicabilità odierna tra le due sponde del
Mediterraneo. Ma già nel 1953 la bocciatura della Comunità europea di
difesa, voluta proprio dalla Francia in odio alla Germania,
aveva decretato l'irrilevanza militare dell'Europa quale
Soggetto di storia, con conseguenze epocali. Per comprenderne le
proporzioni e la durata occorre rileggere le “Storie” di Erodoto e le
“Peloponnesiache” di Tucidide. Anche l'Europa della Belle Epoque fu
vittima della “invidia degli dèi” o, se si preferisce, della pochezza
della sua dirigenza istituzionale, politica e militare. Quando
raggiunse l'apice del benessere e dei “buoni sentimenti” essa scatenò
guerre ingovernabili e non seppe costruire la pace.
Questo lugubre passato incombe. Anzitutto sul Capo dello
Stato, Sergio Mattarella, in presenza di un governo dimissionario e
nella probabilmente lunga gestazione di un governo forse precario,
chiamato a compiere un salto di qualità per varare una legge elettorale
seria in vista dell'Assemblea Costituente di cui il Paese da decenni ha
bisogno. Il fallimento del referendum voluto da Renzi sul garbuglio
costituzionale di sua ideazione ha rinviato la soluzione della “grande
riforma”, prospettata sin dai tempi di Bettino Craxi e Aldo Bozzi,
ma non l'ha risolta (anche per questo motivo il 4 marzo è
stata severamente punita alle urne l'ala movimentistica del “no”,
accorpata in Liberi e Uguali).
Nelle more, occorre tenere il Paese al riparo da
decisioni improvvide, da passi incauti, dalla velleità di figurare
comprimari in decisioni altrui, magari spacciate come decisioni
dell'ONU (che cosa è oggi?) e della Nato (l'Italia non vi ha contratto
voto di obbedienza: è uno dei membri, non un valletto) o di suoi
componenti inclini all'azzardo. E' il caso della vicina Francia, non
nuova a imboccare strade pericolose, salvo scaricarne su altri le
conseguenze, come insegna la vicenda libica. Ora è la volta dei curdi,
presi a pretesto da Parigi per un intervento massiccio in Siria.
Erdogan è un liberticida, ma è lo specchio delle contraddizioni della
NATO e della doppiezza della Germania. L'Italia ha un dovere solo:
tenersi alla larga da avventure altrui, non per viltà ma perché ha sue
immani urgenze in politica estera, militare e interna. Per l'estero
deve ragionare e far ragionare gli alleati, spesso corrivi a picche e
ripicche con motivazioni talora pretestuose, come oggi nei confronti
della Russia; sul versante militare ha motivo di rafforzare il proprio
apparato con investimenti adeguati alle sfide altrui; all'interno,
infine, bisogna equilibrare le condizioni delle diverse aree del Paese,
non con elemosine ai cittadini di diritto e a “passanti” ma nelle
infrastrutture, nei servizi, nel richiamo ai doveri verso lo Stato. Il
Paese si sfarina, dalle buche nelle vie cittadine ai ponti cadenti,
allo squallore di lunghi tratti di coste oscurate da edifici
vetero-industriali fatiscenti e da opere pubbliche mai terminate, anche
per la farragine normativa che disincentiva l'iniziativa e incoraggia
la baldanza dell'abusivismo.
Nel Centenario della Grande Guerra l'Italia ha bisogno di tutto tranne
che di un governo “di protesta”. Deve trattare con l'Europa. Ma può
farlo solo da posizione credibile, senza ostentazioni di forza: e
questa ha una sola premessa, la serietà, un “esame di coscienza”.
All'estero sanno tutto di noi. A Bruxelles hanno calcolatrici raffinate
e possono confutare eventuali trucchi contabili. E' vero che siamo il
paese dove una professoressa viene legata e presa a calci da allievi
che ottengono perdono a buon mercato perché “si sa come sono fatti i
ragazzi”. Ma non è più tempo di ragazzate. La ricreazione è finita.
Occorre tornare al senso dello Stato, alla dignità. Senza risanamento
non vi è resurrezione.
Aldo A. Mola
Il Gran Maestro Bisi a Sanremo QUALE LIBERTA' DI ASSOCIAZIONE?
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 18 marzo
2018, pagg. 1 e 11.
E' severamente vietata la pesca con reti a strascico. L'ha
praticata, invece, la “Commissione parlamentare antimafia” per
estorcere a quattro Comunità massoniche i nomi dei loro affiliati. Dopo
anni di audizioni, sequestro di elenchi e loro confronto con dati in
suo possesso non è emerso nulla di sconvolgente, a parte qualche
disordine nell'anagrafe di alcune logge di Obbedienze minori. Malgrado
la fragilità degli elementi raccolti, la Commissione ha pubblicato una
Relazione sulle “infiltrazioni di Cosa Nostra e della 'Ndrangheta
nella Massoneria in Sicilia e Calabria”. Datata Solstizio
d'Inverno del malaugurato 2017, è un colpo di clava sui Figli della
Vedova e sul Parlamento neoeletto. Se la vicenda riguardasse solo l'ex
presidente dell'ex Commissione, Rosy Bindi, non varrebbe la pena
occuparsene. Però la posta in gioco è molto più alta. Sono in
discussione le libertà enunciate nella Carta costituzionale,
a cominciare dall'articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i
diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei
doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Indiscutibile è anche “il diritto di associarsi, senza autorizzazione,
per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale” (art
18).
I diritti “non negoziabili” precedono l'ordinamento dello
Stato. Sono “della persona” prima ancora che “del cittadino”. Lo Stato
d'Italia ha condiviso la loro priorità riconoscendo solennemente la
Dichiarazione universale dei diritti “dell'uomo” (10 dicembre 1948) e
tutte le Convenzioni che ne sono derivate, anche in sede europea.
Malgrado ciò e senza addurre prove documentali, la Relazione afferma
che “l'organizzazione delle obbedienze massoniche si presenta al
proprio interno sostanzialmente segreta”. A suo dire le logge
“rappresentano un fattore di attrattività per le organizzazioni
criminali che vogliano avervi ingresso...”. La massoneria è dipinta
come una baiadera, allettante criminali di cerca di nascondiglio per
oscure trame. Eppure le sedi, gli organigrammi e le attività interne ed
esterne delle Comunità massoniche sono notissimi.
Deplorato che non esista ancora una legge sugli
obblighi delle associazioni (ma se manca è colpa dei “politici”, non
dei massoni, che anzi la chiedono da decenni) la Relazione evoca
positivamente la legge (fascistissima) che nel 1925 costrinse il Grande
Oriente e la Gran Loggia d'Italia a sciogliersi per non esporre i
propri adepti a sanguinose rappresaglie, umiliazioni, licenziamento...
Non bastasse, essa ritiene poco efficace persino la legge Spadolini 25
gennaio 1982, n. 17 vietante le società segrete, rinfaccia alla
massoneria “la miope ostinazione a mantenere caratteristiche
strutturali e organizzative del tutto similari a quelle delle mafie”
(sic!) e chiede al Parlamento testé eletto di gettare reti a
strascico nelle “restanti regioni d'Italia”, per individuare i “reati
spia” e i “fattori di rischio” derivanti dall'appartenenza “alla
massoneria o ad altre associazioni similari” di politici, funzionari
pubblici, appartenenti alle forze di polizia, militari e categoria
simili.
L'art.82 della Costituzione conferisce alle
commissioni d'inchiesta “gli stessi poteri e le stesse limitazioni
della Autorità giudiziaria”. Ma “la giurisdizione si attua mediante il
giusto processo regolato dalla legge (…) nel contraddittorio tra le
parti, in condizione di parità, davanti a un giudice terzo e
imparziale” con quel che segue (art. 111). Ognuno vede la lontananza
tra le norme costituzionali, la condotta della Commissione e la
Relazione. Quest'ultima non è una “sentenza” ma una “narrazione”, con
conclusioni apodittiche e di carattere politico.
A Rosy Bindi, dalle opinabili cognizioni storiografiche ma
sempre decisa a schiacciare la testa del massonico Serpente Verde,
suggeriamo di dare una scorsa al bel saggio “Palabras asesinas” di Juan
José Morales Ruiz sull'uso dell'antimassoneria nella guerra civile
spagnola. Nel suo corso si sommarono le fobie di Francisco Franco con
quelle degli stalinisti. Il risultato fu l'ecatombe massoni. Ci vollero
decenni prima che la Spagna tornasse a vedere la Luce. Nella stessa età
la massoneria fu annientata in Italia, Germania, Austria ed Europa
orientale, come già era avvenuto nell'URSS di Lenin e di Stalin.
“Socialismo reale” e carri armati sovietici fecero il deserto sino alla
fine del secolo scorso.
Il vero problema dell'Italia odierna non è la
compatibilità delle logge con l'ordinamento pubblico (nessuna persona
seria la pone in discussione) ma quella di movimenti e partiti che
proibiscono ai loro adepti la libertà di iscriversi ad associazioni non
vietate dalla legge, quali appunto sono le Comunità massoniche. Lì è il
vero vulnus della democrazia in Italia. Quei partiti o movimenti sono
in conflitto sia con l'ordinamento democratico sia con la storia che
nel Settecento vantò massoni come Vittorio Alfieri e Carlo Goldoni e di
Sangro di San Severo (ma Luigi di Maio è mai stato a visitarne la
Cappella nel cuore di Napoli?). Ispirati da ideali massonici furono
Risorgimento, unificazione nazionale, lotta per le libertà, lentissimo
avvicinamento all' Occidente dopo anni di nazionalmassimalismo
predicato da balconi da un gesticolante avvolto in paramenti bizzarri
(ricordiamo, per inciso, che il fascismo scippò alla massoneria
simbologia, terminologia e calendario civile: perciò volle
annientarla).
Mentre il corpo dello Stato è sommerso da vegetazione
selvaggia, arbusti, sterpaglie e da fogliame di dubbia liceità, occorre
riportare alla luce i massi ben levigati sui quali esso è sorto e può
durare, al di là dei cambi di forme istituzionali e di maggioranze
partitiche: quelle pietre cubiche sono i diritti non negoziabili, che
valgono molto più di un punto dell'Iva e di ogni moneta, perché la
libertà non si baratta con trenta denari. Lo ha detto a San Remo il
gran maestro della Gran Loggia d'Italia, Antonio Binni, il 24 febbraio
parlando di “Massoneria in pace e per la pace”. Lo ribadirà con forza
il gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Stefano Bisi, alle 16 di
sabato 24 marzo nel ciclo “I grandi maestri della Massoneria italiana
al Casinò di San Remo” diretto da Marzia Taruffi. E lo ha scritto in
“Massonofobia. L'Antimafia dell'Inquisizione” (ed. Bonanno) e nella
Introduzione al corposo saggio di Guglielmo Adilardi su
“Massoneria,società politica. Profilo storico dalla
fondazione ad oggi” (ed. Pontecorboli)
In Europa e da oltre Atlantico ci guardano
attoniti: possibile che l'Italia di tre massoni premi Nobel per la
letteratura (Carducci, Pascoli e Quasimodo) e di una quantità di
scienziati, artisti, militari, giuristi, persone senza speciali blasoni
ma sicuramente perbene passati in loggia la massoneria sia ancora una
volta perseguitata? Già. Ma l'Italia confina con una Entità che alterna
“misericordine” e scomuniche... Nella Dichiarazione “Placuit Deo” la
Congregazione per la dottrina della fede (autorità canonica, non
statuale) ha nuovamente condannato neognostici e neopelagiani,
identificati con i massoni sin dai tempi di Agostino Barruel. A sua
volta la Commissione Antimafia a sostegno delle proprie traballanti
tesi ha addotto una decisione “politica” della Santa Sede, che in
quanto tale è uno Stato, altra cosa dalla Chiesa cattolica.
In tempi procellosi occorre tenere saldo il
timone. La libertà di associazione non riguarda solo i massoni ma tutti
i cittadini. All'opposto di quanto asserito dalla Relazione Bindi sulla
loro “sostanziale segretezza”, le Comunità massoniche agiscono alla
luce del sole. Lo si è veduto anche il 1° marzo, quando il Grande
Oriente ha aperto i suoi Templi ai visitatori. Forse i massoni italiani
debbono allora fare un passo in più: procurarsi un “seggio” tra le
Organizzazioni non Governative riconosciute dall'ONU, per ottenere la
tutela delle libertà elementari, oggi minacciate dai massonofagi
proprio nella patria del “Fratello Garibaldi”.
Aldo A. Mola
SOTTO IL SEGNO DEL PELLICANO UNA LEGISLATURA A TEMPO
DETERMINATO
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 11 marzo 2018, pagg.
1 e 11.
È metà
quaresima. Non è tempo di egoismi e vanità ma di riflessione. La
Legislatura appena eletta è la diciottesima. Il 18 è il numero dei
Rosa+Croce, l'Ordine sorto nell'Europa devastata dalla Guerra dei
Trent'anni (1618-1648, come quella dal 1914 al 1945). Rosa+Croce
significa Tradizione e Lumi, ricerca ed educazione di minoranze
consapevoli e responsabili. La Diciottesima Legislatura nasce sotto il
segno del Pellicano, il mistico alato dallo straziante grido asinino,
che si squarcia il petto per resuscitare i suoi piccoli col proprio
sangue. La precedente, 17^, poteva solo portare male. Il 18 è
tutt'altra cosa. Gli esperti di numerologia insegnano che il 18 sta per
1+8, ovvero nove, che vuol dire 3 per 3, numero perfetto moltiplicato 6
volte. Chi “dà i numeri” avverte che, però, se si esagera a sommare 3
più 3 si arriva a 666, la cifra del Diavolo. L'importante, dunque, è
fermarsi per tempo. Il 18, Principe Rosa+Croce, ultimo grado “rosso” o
capitolare, deve durare lo stretto necessario, appena il tempo per
compiere la sua missione e passare alla filosofia. Esattamente quanto
oggi occorre all'Italia. Il Paese ha un Parlamento (tutto da
“convalidare”), che deve farsi carico di problemi vitali: politica
estera coerente (con un ministro di alto profilo là dove ancora siede
Alfano), difesa (e quindi missioni militari all'estero e per la
sicurezza nel Paese, costose ma necessarie per farci stare “al mondo”)
e primato di ricerca e istruzione. L'economia - finanza pubblica,
produzione, i sindacati d'interessi (Confindustria inclusa) - vanno a
traino in un'Italia che da vent'anni ha abdicato alla sovranità
nazionale introducendo in costituzione l'obbligo della parità di
bilancio a beneficio di un'Unione Europea che se la ride perché prende
molto più di quanto dia.
L'“Europa” ha bisogno di serio aggiornamento. Non è stata
sconfessata da “populismi”. Si è sconfitta da sé, con la propria
inerzia. Si è gonfiata a dismisura, ma senza irrobustire scheletro,
nervi e muscoli. È una vescica che sta per esplodere. Continuare a
stampare moneta è l'opposto di quanto le occorra per rimettersi in
linea. Meno euroburocrati fuori controllo, più sostanza: progetto
politico e difesa comune (effettiva, non l'apparenza odierna, ferma a
livelli di terza fila).
In questa cornice, come il Pellicano l'Italia deve
nutrirsi da sé: l'opposto di quanto promesso dal Movimento 5 Stelle che
oggi ha il sostegno del 30% dei voti validi, cioè meno del 20% degli
elettori, una percentuale modesta e labile. Ha raccattato seguito
promettendo la luna. Chi davvero gli volesse male gli darebbe subito
presidenza del consiglio e delle camere e lascerebbe che se la
sbrigasse da sé. Ma i Cinque Stelle non hanno il “quid” fondamentale,
il “senso dello Stato”. Perciò cedere loro il Potere comporterebbe il
disastro. Responsabilità (parola chiave dell'appello del presidente
della repubblica, Sergio Mattarella) vuol dire competenza, lasciare da
parte presunzione, arroganza, improvvisazione e fronteggiare gli
interessi generali permanenti degli italiani.
La 18^ Legislatura deve farsi carico di chi l'ha
eletta, degli astenuti (molto meno del previsto) e dei quasi sei
milioni che hanno votato dall'estero e che oggi assistono a occhi
sbarrati allo scempio delle loro schede: una vergognosa presa in giro,
una menzogna da quinto mondo. Questa Legislatura è palesemente a tempo
determinato. Ha un unico compito: nel 70° della Costituzione varare
alla svelta una legge elettorale decente prima che il regime attuale
schianti. Dal 1848 al 1913 l'Italia ebbe la miglior legge elettorale
d'Europa: i collegi uninominali a doppio turno. Lì bisogna tornare.
Essi furono il volano del più grande ricambio di classe dirigente del
Vecchio Continente. Gli aristocratici capaci e meritevoli rimasero
tutti in prima linea, da Camillo Cavour e Bettino Ricasoli ad Antonino
di San Giuliano. Emersero borghesi di levatura eccelsa, come Giovanni
Lanza, Quintino Sella, Francesco Crispi e Giovanni Giolitti.
Il filtro erano gli elettori, che potevano sbagliarsi una volta ma non
la seconda. La tragedia non fu certo l'introduzione del suffragio
universale nel 1913. Questa fu una scommessa meditata che dette vita
alla maggioranza potenzialmente più stabile della storia italiana,
l'alleanza tra liberali e cattolici conciliati con lo Stato. Contro il
famoso “patto Gentiloni” si schierarono solo il socialmassimalista
Benito Mussolini, anarco-sindacalisti (corrispondenti ai centri sociali
odierni), nazionalisti, clericali estremi e pasticcioni vari. Gabriele
d'Annunzio pasturava felice in Francia. La Grande Guerra spezzò
l'incantesimo. La catastrofe avvenne invece nel 1919, allorché venne
introdotta, per volere di socialisti e don Luigi Sturzo, la “maledetta
proporzionale”, che rese impossibile un governo stabile a causa
dell'odio ideologico dei rivoluzionari e dei clericali contro lo Stato
sorto dal Risorgimento. Le regioni che meno avevano sofferto in guerra
passarono all'opposizione e si intrupparono nel governo di unità
nazionale dell'ottobre 1922, capitanato da Mussolini.
Nata sotto il segno del Pellicano, la diciottesima
Legislatura attende che i capipartito (troppi, ondivaghi, una vera
babele: “tot capita tot sententiae...”) spieghino ai loro adepti per
quale ragione sono stati eletti: servire l'Italia, non un movimento o
interessi personali. Esercitare il mandato parlamentare non significa
affastellare scontrini a giustificazione della vita quotidiana, ma
esercitare la sovranità nazionale su mandato degli elettori: “fare
politica”. La classe dirigente di valore fu sempre composta di
abbienti, che non avevano bisogno di emolumenti ma si votarono allo
Stato, e di persone humili genere natae, che si dedicarono alla vita
pubblica non per quattro spiccioli ma per ideali supremi e seppero
campare di nulla, con alta dignità. Il deputato socialista torinese
Oddino Morgari (eletto quando i parlamentari non ricevevano alcuna
indennità) non aveva di che pagarsi neppure una modesta pensione a
Roma. Dormiva in un treno parcheggiato a Termini e mangiava alla mensa
ferroviaria. Non sognava la “rivoluzione”, il “bagno di sangue della
borghesia”, la “rottamazione”. Voleva il progresso effettivo della
povera gente. Ebbe alleati i liberali capitanati da Giolitti, che, come
scrisse Claudio Treves, “dall'altra riva” aveva capito la necessità di
cambiare. È quanto oggi esprime la maggioranza di centro-destra, che
non è populista ma popolare, non è anti-europeista ma custode dei
valori fondamentali dell'Europa greco-latina, umanistica, razionale,
contro ogni fanatismo interno o di importazione, di una Europa che va
dalla Federazione Russa di Putin agli USA di Donald Trump, tutti
intrinseci al pensiero Occidentale.
Perciò il centro-destra ha pieno diritto di
rivendicare il governo del Paese: è l'unica compagine dotata di un
programma commisurato alle condizioni dell’Italia odierna, gravata da
un debito pubblico spaventoso, sotto osservazione e destinata al
collasso se al potere andasse chi in breve la ridurrebbe come il
Venezuela di Maduro: un Paese ricchissimo e civile precipitato nella
catastrofe da un criminale ammirato da molti Cinque Stelle.
Nel Centenario della Vittoria nella Grande Guerra (una data
gloriosa, che troppi oggi vorrebbero oscurare) l'Italia si merita un
esecutivo all'altezza della sua sofferta storia e della sua
collocazione nella comunità internazionale. È dunque l'ora dei Principi
Rosa+Croce. È il tempo del Pellicano, tutt'uno con l'Eucaristia, come
insegna la più profonda simbologia cristiana. È il momento della
responsabilità. Il Parlamento è convocato il 23 marzo: lo stesso giorno
della fondazione dei fasci mussoliniani in piazza San Sepolcro a Milano
nel 1919... Mera coincidenza. La data venne decisa dal Presidente
Mattarella per concedere tutto il tempo possibile al Pellicano, ma non
un giorno di più, perché “la prima riunione (del Parlamento) ha luogo
non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni” (art. 61 Cost.). Però
certi partiti insaziabili (sinistre e M5S) “dopo il pasto han più fame
che pria”. E a qualcuno di costoro bisognerà chiedere conto della
propria democrazia interna (art. 49 Cost.) e del suo concetto di
libertà dei cittadini.
Aldo A. Mola
L'EDITORIALE UN VOTO CONTRO IL CAOS
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 25 febbraio 2018,
pagg. 1 e 11.
Malgrado l'apparenza e le narrazioni mediatiche, l'Italia è
il paese più stabile d'Europa. Numericamente irrilevanti e (per ora)
“dimostrativi” ma non “ultimativi”, i deplorevoli ma
circoscritti “crimini” a sfondo politico di questi
giorni provano che è fallito l'enorme sforzo eterodiretto di dividere
gli italiani in fazioni scatenate in zuffe continue. L'ormai noiosa
reinvenzione della contrapposizione fascismo-antifascismo (o
“resistenza”) mostra la povertà della subcultura estremistica, incapace
di vedere i problemi italiani del Terzo Millennio. Benché noto, va
ripetuto che non c'è mai stato “il” fascismo. Tra il 1922 e
il 1943 l'Italia fu governata da aggregazioni disparate, con progetti
per nulla univoci, nel caos dell'Europa uscita da cinque anni di guerra
devastante, squassata da rivoluzioni e movimenti armati. Evocare il
“fascismo” quale soggetto politico dell'Italia odierna è irreale e
infantile (semmai va ricordato che il suo vero unico argine fu la
monarchia con Vittorio Emanuele III). Lo stesso vale della “resistenza”
o “guerra partigiana”, che fu coacervo di pulsioni e progetti niente
affatto convergenti. L'unico suo elemento unificante fu infine il
tricolore indossato obbligatoriamente dal Corpo Volontari della
Libertà, comandato del generale Raffaele Cadorna, da ricordare tra i
“Sacerdoti di Marte” biografati dallo storico Oreste Bovio nell'ottimo
volume edito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.
Con gesti delittuosi, ripresi ad arte ed
enfatizzati dai “media”, qualcuno tenta ora di esibire
all'interno e all'estero il ritratto di un'Italia in preda a
convulsioni. Tra una settimana i cittadini diranno quale essa in
effetti è. Lo faranno col voto; e anche col probabile 35% di non
votanti. Anche questo fa parte della dialettica democratica e dà il
polso del paese. Infatti, a parte qualche desolato e isolato
“predicatore” dell'astensione (per deluse ambizioni
personali), molti italiani non andranno alle urne nella pacata certezza
che il treno-Italia continuerà comunque a correre nei binari della
ordinaria normalità. L'astensione “all'italiana” non è un squillo di
tromba contro le istituzioni ma frutto della pigra fiducia che esse
reggono anche sul silenzioso consenso di chi non va ai seggi ma fa la
sua parte nella vita quotidiana.
Passato in rassegna il panorama dei partiti e dei movimenti in lizza,
una constatazione s'impone: a parte frange ideologiche estreme, tutti
dichiarano di voler governare e di cercare adesioni e suffragi “in
Aula”, cioè nella sede deputata ad approvare o negare la fiducia al
governo. Questa è la realtà di un paese dopotutto tranquillo, di
cittadini che chiedono solo di essere amministrati meglio. Pesantemente
tartassati da imposte e balzelli, gli italiani si attendono una
politica estera decorosa (a proposito: dov'è Alfano?), sicurezza
pubblica, servizi all'altezza dei tempi e a costi ragionevoli,
l'attuazione del titolo II della Costituzione (rapporti etico-sociali)
e dell'articolo 47: lo Stato “incoraggia e tutela il risparmio in tutte
le sue forme, disciplina, coordina e controlla l'esercizio del
credito”, impegno solenne, questo, che oggi suona beffardo, come la
tutela della proprietà privata, della libertà di insegnamento e di
tanti altri diritti enunciati della Carta.
L'Italia non ha le esasperate divisioni linguistico-religiose del
Belgio, né una mina vagante come la pretesa di una parte dei catalani
di ergersi a repubblica indipendente. A differenza di Berlino, non
sconta il passivo storico dei quarant'anni di regime
dispotico-terroristico imposto alla Germania Orientale, a suo tempo
detta “Democratica”. L'Italia è un Paese con tante difficoltà ma un
retaggio millenario di fondo, grazie al quale in dieci anni realizzò il
“miracolo” dell'unificazione (1859-1870) e in altri dieci (1948-1960)
quello della ricostruzione.
Lasciati nella polvere i fatui libretti esaltanti il brigantaggio come
eroica lotta contro i “carnefici” del Mezzogiorno, per intendere il
lento positivo progresso conseguito basta un'occhiata all'Italia del
1948. Appena uscita da una guerra civile che si trascinò molto oltre il
maggio 1945 e dopo il cambio della forma dello Stato, essa rimase
annichilita dal sanguinoso colpo di stato filo-sovietico a Praga (20-25
febbraio), culminato con l'assassinio di Jan Masaryk. Il 3 aprile venne
definitivamente varato il Piano Marshall per la ricostruzione europea
(ERP). L'Italia ne trasse enormi benefici nel periodo medio-lungo. Le
elezioni del 18-19 aprile 1948 decretarono la clamorosa sconfitta del
Fronte popolare (partito comunista di Togliatti, partito socialista di
Nenni e frange dell'ex partito d'azione in netto conflitto con Ugo La
Malfa e Ferruccio Parri che all'ANPI ormai succuba dei social-comunisti
contrappose la FIAP) e la vittoria della Democrazia Cristiana. In
Parlamento, però, entrò un centinaio di senatori di diritto
(Bencivenga, Croce, Einaudi, Arturo Labriola, Emilio Lussu, Nitti,
Orlando, Ruini...), che fecero la differenza. Impedirono a De Gasperi
di governare con la sola DC e lo obbligarono a varare l'alleanza
“centrista”, a “occidentalizzarsi”. All'inizio dell'anno una vignetta
del “Travaso” rappresentò l'Italia con un fantaccino di spalle, armato
di un fuciletto a tappo innalzante un tricolore ormai senza scudo
sabaudo, minuscolo dinnanzi a due enormi militari ritti su carri
armati, con in mano l'atomica e la controatomica. Benché sconfitta,
l'Italia già aveva avviato la ripresa. Il 22 marzo il marchese Antonio
Meli Lupi di Soragna presentò a Pio XII le credenziali di ambasciatore
straordinario e plenipotenziario. Era iniziato un nuovo corso.
Ora il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker,
rappresentante di un artificioso frammento della storia qual è il
Granducato di Lussemburgo, vede fosco il futuro di Italia, Germania e
Spagna, paesi a suo avviso politicamente in stallo. Che cosa gli rimane
dell'“Europa” del dopo Brexit? Il Benelux? La Francia? Da sola, con un
presidente votato dal 20% degli aventi diritto e lacerazioni di gran
lunga più profonde ed esplosive di quelle nostrane, Parigi non è un
volano ma un problema. Non le basterà la fusione normativa con la
Germania in questioni bancarie e fiscali. La Storia è politica estera e
armi.
L'Italia ce la fece e ce la farà con tenacia e senso pratico. Sul Paese
incombono fantasmi fanatici. Ne è documento la relazione finale della
“Commissione antimafia” che qualcuno vorrebbe elevare a Superpotere,
col diritto di epurare le liste dei candidati alle urne e di stabilire
quali associazioni siano lecite e quali no (per esempio quelle
massoniche e “similari”) sulla base di chissà quali criteri, come
avvenne nella Francia giacobina, della “legge sui sospetti” e delle
esecuzioni capitali senza processo. Questo è il vero rischio politico
incombente. Per fermarlo, comunque, gli italiani hanno a portata di
mano la scheda elettorale: risposta pacata ma ferma all'estremismo
ideologico dei catto-comunisti che vorrebbero precipitare in una sorta
di guerra di religione un Paese che non conobbe eresie perché
congenitamente politeista o, se si preferisce, “liberale”. Il voto è
l'argine contro il caos e il fanatismo.
Aldo A. Mola
LIBERA MASSONERIA IN LIBERO STATO
FERMARE I BARBARI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 18 febbraio 2018,
pagg. 1 e 11.
Poche ma chiare parole come
antidoto alla fobia clerico-partitica dilagante contro la Massoneria.
L'articolo 18 della Costituzione recita: “i cittadini hanno diritto di
associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono
vietati dalla legge penale”. L'articolo 49 aggiunge: “tutti i cittadini
hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con
metodo democratico a determinare la politica nazionale”. La libertà di
associazione è tra i Diritti e doveri, quella dei partiti compare nei
Rapporti politici. Viene dopo. Se è ovvio, dunque, che le associazioni
criminali siano vietate, lo è altrettanto che per poter contribuire a
determinare la politica nazionale i partiti debbono superare un
controllo di “democraticità” a opera di Autorità superiori e
indipendenti, non asservite a governi transeunti né formate dai partiti
stessi (come è in parte la Corte Costituzionale, politicamente
rilevante a tempi alterni). “Metodo democratico” significa infatti che
i partiti aspiranti a svolgere il ruolo loro affidato dalla
Costituzione devono anzitutto condividerne e rispettarne i principi
fondamentali. Il controllo pubblico sui partiti, tuttavia, non è mai
stato effettuato in un Paese che aveva forze politiche sovversive
colluse con potenze straniere dichiaratamente nemiche dell'Italia, come
fu il Partito comunista italiano, succubo dell'URSS. Vari suoi
militanti vivevano all'estero e dall'estero tramavano contro la Patria.
Anche oggi sono in campo movimenti politici che calpestano le libertà
fondamentali dei cittadini e discriminano i loro iscritti e candidati
in ragione dell’esercizio di un diritto civile costituzionalmente
riconosciuto. È il caso del Movimento 5 Stelle che ulula contro i suoi
militanti iniziati in logge massoniche. E allora? Delle due l’una: o il
Movimento 5 stelle prova, documenti alla mano, che quei militanti hanno
commesso illeciti in ragione della loro appartenenza alle
logge oppure esso non ha titolo per concorrere a determinare la
politica nazionale, giacché conculca l’esercizio della libertà
d’associazione garantita a tutti i cittadini: quindi anche ai
propri iscritti. Tertium non datur, giacché – il dilagante isterismo da
campagna elettorale impone di ricordarlo – essere massoni non è reato
(e non lo sarà fintantoché certi movimenti politici la cui
democraticità è tutta da verificare resteranno lontani dal potere e
dall'imporsi come nuova oclocrazia: dittatura della piazza o della
“piattaforma Rousseau”: simile a un patibolo, come ognuno ormai vede).
Non è qui il caso di mettere in campo la
fatuità delle amministrazioni pentastellate di Torino e di Roma né la
storia di questa o quella Comunità liberomuratòria o di suoi esponenti
apicali. I diversi Ordini massonici ne hanno avuti di ottimi e di meno
buoni. Il Grande Oriente d'Italia, per esempio, contò su Giordano
Gamberini (il vescovo gnostico che promosse la Bibbia Concordata) ma
ebbe anche il transfuga Giuliano Di Bernardo, unto non solo dal Grande
Architetto ma anche da Londra.
Il tema è altro e più alto. Sono in discussione i diritti civili. Lo
Stato d'Italia è nato all'insegna delle libertà e deve andare
orgoglioso dei suoi padri fondatori: Carlo Alberto, Vittorio Emanuele
II, Cavour, Garibaldi, “primo massone d'Italia”, Crispi e Zanardelli (i
due massoni che in Italia abolirono la pena di morte con un
secolo di anticipo rispetto a Francia, Gran Bretagna, Santa Sede...)
Il nazional-fascismo nel 1924-1929 saldò due anelli di una stessa
catena: l'annientamento della massoneria e i patti lateranensi col
Vaticano. Quella catena è corta e tira ancora, come si dirà nel
convegno al Casinò di San Remo (ore 17 del 24 febbraio p.v.), con la
partecipazione del gran maestro della Gran Loggia d'Italia, Antonio
Binni, del saggista Dario Fertilio e di Marzia Taruffi. Mussolini andò
a rimorchio della Terza Internazionale di Lenin. Con il crollo del
regime (opera di Vittorio Emanuele III, non degli allora pressoché
inesistenti partiti antifascisti) tornarono a galla i vari De Gasperi,
Togliatti, Nenni, Croce, ecc., con tutti i loro pregiudizi
antimassonici. Conoscevano o no l'opera della Libera Muratoria in
Europa, nelle Americhe, nell'Europa orientale (Russia compresa) prima
della devastante rivoluzione bolscevica? Sapevano della Turchia del
Fratello Ataturk?
Resta che la Costituzione della Repubblica non proibisce affatto la
massoneria. Vieta invece i partiti antidemocratici. Tali sono quelli
che mettono alla gogna i massoni. È il caso di tanti che si dicono
Liberi e Uguali ma corrono dietro ai fantasmi antimassonici della
vetero clericale Rosi Bindi, digiuna di storia, come si evince dalla
pochezza scientifica dell’inchiesta su mafia e massoneria, da lei
orchestrata quale presidente della Commissione parlamentare antimafia.
Ma, dirà qualcuno, i massoni sono “scomunicati”. Da chi? Nello Stato
d'Italia ogni associazione è libera di accordare o interdire l'uso di
riti e costumanze secondo quel che meglio crede. La chiesa cattolica è
liberissima di ammettere o meno divorziati astinenti, eretici e
miscredenti al banchetto eucaristico e di escluderne quelli che meglio
crede. È un affare suo che nulla ha da che vedere con la libertà dei
cittadini: conquista costata secoli di martiri (Arnaldo da Brescia, Fra
Dolcino, Giordano Bruno, Tommaso Campanella...) nonché
reciproci massacri tra volonterosi cristianicidi di varie
tendenze e confessioni (dagli ariani, agli evangelici, ai
riformati...), cessati solo quando lo Stato si erse a garante della
libertà di vivere in pace.
Il nodo da sciogliere oggi è solo ed esclusivamente costituzionale e
politico. Non hanno titolo a rappresentare i cittadini movimenti e
partiti che vietano ai loro iscritti e o candidati l'appartenenza ad
associazioni non vietate dalla legge penale. Diversamente sono quei
partiti e movimenti a costituire minaccia per la democrazia. I comici
vanno bene a teatro e i loro discepoli faranno bene a studiare e a
cercarsi un mestiere.
Gli elettori sono avvertiti. I regimi totalitari, di vario colore, dopo
aver calato le unghie sui massoni misero alla gogna gli ebrei, i
rotariani e via continuando sino alla forma dello Stato, ora
vacillante perché il vicario del Presidente della Repubblica, fa il
gra(da)sso a capo di una fazione anti-governativa, seguito a ruota
dalla presidente della Camera: un precedente allarmante per
l'equilibrio dei poteri. Ora l'Italia non può permettersi il lusso di
buttare via le libertà costate secoli. Le libertà dei cittadini oggi
garantite dalla Costituzione, sulla scia dello Statuto Albertino,
non sono “nate dalla resistenza”. Arrivano da
Umanesimo e sette ereticali del Tre-Cinquecento, da Illuminismo e
Risorgimento, dal “gran partito liberale” dell'Otto-Novecento che saldò
l'Italia con i Paesi più civili del pianeta. Il voto è lo strumento a
disposizione dei cittadini per difendersi dagli aspiranti tiranni. Qui
non è in causa la massoneria: è in discussione la libertà. Gli elettori
decideranno se l'Italia è ancora un Paese dell'Occidente o uno stato
teocratico, fondamentalista, liberticida. Dopodiché non saranno solo i
giovani ad andarsene. Il precedente è lo stoicismo, prima che
arrivassero i barbari, le loro superstizioni e il regresso.
L'alternativa alla tirannide sono l'emigrazione e, a ultimo, il
suicidio per dignità (“Non duole...!” disse la matrona Arria Maggiore
porgendo il ferro al marito affinché si trafiggesse a sua volta). Ma
prima v'è spazio ancora per dire la propria. Col voto, il 4 marzo.
Aldo A. Mola
VOTARE: UN DOVERE CIVICO CONTARSI PER CONTARE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 11 febbraio 2018,
pagg. 1 e 11.
In democrazia per contare
bisogna contarsi. Occorre fare numero. Che i voti non si contino ma si
pesano è la spocchia di un tempo che fu. L'esperienza insegna che le
elezioni si vincono o si perdono anche solo per pochi voti,
nei comuni (grandi o piccoli che siano) come nel Paese. Tutti ricordano
la sconfitta del centro-destra per appena 24.000 preferenze. Dunque,
ogni testa un voto. Ogni scheda può decidere le sorti del Paese. Perciò
il 4 marzo occorre votare.
La legge elettorale vigente non è la migliore
possibile. Però c'è e non impedisce a nessuno di dire la sua e di
“concorrere con metodo democratico a determinare la politica
nazionale”, come prevede l’art. 49 della Costituzione. Questa legge è
stata approvata per rimediare a due anni di errori di Matteo Renzi.
Ricordiamo in estrema sintesi il recente passato. Asceso a capo del
Partito democratico col dichiarato proposito di “rottamare”
l'esistente, quasi egli fosse il Veggente, affiancato dalla supponente
Maria Elena Boschi e illuso dall'episodico successo nell’elezione dei
rappresentanti italiani al Parlamento europeo, il dottor Renzi gettò
sulla bilancia una legge elettorale ultramaggioritaria, la sostituzione
del Senato a elezione diretta con una “Camera” dal profilo confuso,
l'abolizione del CNEL e troppe altre cose. Il 4 dicembre 2016 rimase
sonoramente sconfitto. Su pressante sollecitazione del Capo dello
Stato, Sergio Mattarella, il Parlamento rabberciò la legge vigente,
tagliata su misura per l'antico bipartitismo imperfetto descritto da
Giorgio Galli mezzo secolo fa. Sennonché l'Italia attuale è un
tripartito per ora incapace di sintesi, cioè di accordo in nome dei
superiori interessi nazionali.
Adesso si vota. Chi ha lamentato per anni che i governi erano “del
presidente” (Giorgio Napolitano, ben inteso, dal novembre 2011) ora ha
modo di dire la sua. Astenersi (come propone qualcuno, forse deluso per
non aver ottenuto un collegio sicuro) significa privarsi della
sovranità assicurata dalla Costituzione in linea con la gloriosa storia
d'Italia, dallo Statuto Albertino al suffragio universale maschile
varato da Giovanni Giolitti nel 1913 e a quello anche femminile voluto
da Umberto di Savoia, Luogotenente del Regno nel 1945. Votare significa
esserci, partecipare alle decisioni supreme. È la democrazia.
Sappiamo tutti che la legge elettorale presenta varie smagliature.
Molti sono contrariati dai profili dei candidati nel loro collegio.
Però “hic Rodhus, hic salta” dicevano gli antichi. Bisogna fare fuoco
con la legna che c'è.
Verranno tempi migliori. Ma non verranno da soli. Saranno frutto del 4
marzo. Potranno nascere solo dalla netta vittoria del centro-destra,
dalla sconfitta delle due sinistre (i “renziani” e i grassoboldriniani)
e dall'emarginazione dei Cinque Stelle, che strillano ma sono meno del
30% dei votanti, ovvero molto meno del 20% degli aventi diritto al
voto: una esigua minoranza dell'elettorato.
Ora, dunque, bisogna vincere. Con l'unico strumento possibile: la
scheda elettorale. Occorre quindi andare alle urne. Chi non lo fa deve
avere ben chiaro che gli altri voteranno per lui e non potrà lamentarsi
delle conseguenze. Dovrà addebitarle alla diserzione nell'ora delle
scelte. In palio vi sono la sovranità nazionale, il rapporto tra
l'Italia e l'Unione Europea, una linea nuova verso gli alleati storici
(gli USA, la Nato, Israele, unica democrazia dal Mediterraneo orientale
al Pacifico) e la Federazione Russa: tutte partite complesse che il
cittadino vive sulla propria pelle e non può quindi lasciar decidere
dagli altri.
Il 4 marzo è il giorno nel quale gli italiani debbono dire “Presente!”,
riecheggiando Redipuglia. Se l'esito del voto fosse incerto e non
propiziasse l'avvento immediato di una maggioranza netta e sufficiente
per governare potranno essere necessari una lunga stagione di
riflessione e il varo di una nuova legge elettorale che assicuri una
maggioranza solida e stabile. Anche questo obiettivo però ha una
premessa: il massimo consenso al centrodestra.
La storia è sotto gli occhi. Nel tempo si sono susseguite
varie leggi elettorali. Nel 1923 il Parlamento decise che per avere il
66% dei seggi bastava ottenere il 25% dei voti. Oggi sarebbe
improponibile. Toccherà al Parlamento venturo fissare l'asticella per
assicurare stabilità e credibilità a un sistema che oggi scricchiola.
Di sicuro nessuna persona seria vuole il caos e nessun cittadino di
buon senso si attende di vincere sulle macerie del Paese. Tra pochi
giorni canzoni e carnevale saranno alle spalle. Saremo in quaresima:
tempo di riflessione e di scelte ponderate in vista della Pasqua di
Resurrezione dell'Italia nel Centenario della Vittoria. Con un monito
preciso: l'esercizio del voto, conquista dell'Italia liberale, non è
solo un diritto, ma anche un “dovere civico”, come recita l’art. 48
della Costituzione.
Aldo A. Mola
Un problema di Stato, non di
partiti LA SOSTITUZIONE AGLI ESTERI DEL
DIAFANO ALFANO
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 4 febbraio 2018,
pagg. 1 e 11.
Tra i molti e seri problemi incombenti,
l'Italia ne ha uno davvero grave e assillante, anche se generalmente
eluso: l'“evanescenza” del titolare del ministero degli Esteri,
Angelino Alfano. Ogni Stato si fonda sul suo Capo (monarca o presidente
che sia) e su due pilastri portanti: la politica estera e le forze
armate, che ne costituiscono la proiezione, difensiva o, quando
necessario, offensiva. La condizione attuale dell'Italia è nuova e
paradossale. Il 6 dicembre 2017, ormai due mesi orsono, Alfano annunciò
che non si sarebbe candidato alle prossime elezioni. Aggiunse che “si
può fare politica anche fuori dal palazzo”. Verissimo. A (o dal)
Palazzo si possono fare molte cose. Alcune strane, come il “sequestro”
di Alma Shalabayeva. Questione ancora aperta, avvenne quando Alfano era
ministro dell'Interno. A (o dal) Palazzo si può non sapere che parenti
stretti assumono impieghi e cariche ben remunerate. E talora a (o dal)
Palazzo accade di trascurare, per stanchezza, delusione o distrazione,
gli obblighi elementari del Ministero.
In Italia gli Esteri hanno avuto un profilo oggettivamente minore dalla
Guerra Fredda alla dissoluzione dell'Unione delle Repubbliche
socialiste sovietiche (Urss), quasi trent'anni addietro. Inserita nella
Nato (per iniziativa di Randolfo Pacciardi, apprezzato anche da
Vittorio Emanuele III, ancor più che di Alcide De Gasperi, sensibile
all'antiamericanismo di ambienti della Curia romana) e col problema
interno non indifferente di un partito comunista che agognava l'arrivo
dell'Armata Rossa (e votò a favore dei carri armati a Budapest nel
1956: lo fece anche Giorgio Napolitano), l'Italia recuperò quanto
possibile la missione storica assegnatagli dalla geopolitica. Per
esempio Enrico Mattei (studiato a fondo da Nico Perrone) aveva alle
spalle Vittorio Emanuele II, che conferì il Collare della Santissima
Annunziata a Mirza Hussein, ministro degli Affari Esteri dello scià di
Persia, a Mehemed-Tewfik, poi Kedivè d'Egitto, e a Youssouf Izzedin,
principe di Turchia. Altrettanto fecero Umberto I e Vittorio Emanuele
III. La politica di Roma verso l'Oriente (dal Vicino all'Estremo) non è
una scoperta recente. Nel 1900 l'Italia partecipò alla spedizione delle
Sette Potenze per annientare la rivolta dei boxer in Cina e ne trasse
la concessione di Tien-Tsin: poco, ma meglio di niente. Non era
“Italietta”, bensì un Paese vigile sullo scenario di lì a poco segnato
dalla guerra russo-giapponese (1905), che ebbe epicentro nell'assedio
di Port-Arthur, in Corea, terra da secoli teatro di conflitti
nippo-cinesi. La politica estera di Gaetano Martino (verso l'Europa
carolingia), di Aldo Moro, Giulio Andreotti e di Bettino Craxi (dai
Luoghi Santi alla Cina) sono segmenti di una linea che arriva dalle
origini stesse della Nuova Italia: un Paese unificato da una dirigenza
che aveva chiara la marginalità e il fallimento storico degli
staterelli (Ducati padani, Granducato di Toscana, Legazioni
pontificie), dello Stato della Chiesa e del regno delle Due Sicilie.
Con buona pace dei professionisti del neoborbonismo e dei loro fatui
caudatari, quest'ultimo non aveva colto la portata epocale
dell'apertura del Canale di Suez, delle ferrovie e del passaggio dalle
navi a vela (in cui primeggiava) a quelle a vapore. Il Regno di
Sardegna stravinse e guidò l'unificazione non per protervia dei
generali sabaudi (inclusi quelli non piemontesi: è il caso di Enrico
Cialdini, il Generale di ferro, ottimamente biografato da Roberto
Vaccari (ed. Elis Colombini) ma per la lungimiranza di Carlo Alberto di
Savoia (che aprì sedi diplomatiche nei luoghi più remoti) e del Padre
della Patria, che ne continuò e rafforzò la visione extraeuropea della
Terza Italia.
In età monarchica la politica estera italiana ebbe interpreti in
statisti della levatura di Camillo Cavour, Emilio Visconti-Venosta (da
mazziniano divenuto fervido assertore di Casa Savoia), Francesco
Crispi, Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano (normanno
di Sicilia), Raffaele Guariglia (prestigioso diplomatico di lungo
corso, il 25 luglio 1943 chiamato a Roma dalla Turchia, ove era
ambasciatore, per riportare l'Italia a Occidente), Alcide De
Gasperi (agli Esteri dal 12 dicembre 1944 al 18 ottobre 1946, come
documentano i Verbali del Consiglio dei ministri pubblicati da Aldo G.
Ricci). Nell'età repubblicana l'Italia ebbe alla Farnesina De Gasperi
stesso, Giuseppe Pella, Antonio Segni, Giuseppe Saragat, Aldo Moro e,
per breve stagione, Pietro Nenni. Furono decenni di
riposizionamento dell'Italia nel passaggio dl bipolarismo al
tripolarismo, propiziato da Arthur Kissinger, a suo modo auspicato da
Antonio Giolitti e di quanti guardavano ai “neutrali” per uscire dalla
moltiplicazione delle potenze nucleari (dalla Gran Bretagna alla
Francia di De Gaulle, propugnatore della “force de frappe”, perché solo
la deterrenza dissuade il nemico da aggressioni sconsiderate).
Come in Un'Italia così ricca di talenti Angelino Alfano sia
asceso a ministro degli Esteri si spiega solo con le “ricette del
venerdì di quaresima” invalse nella formazione di governi composti di
vassalli, valvassori e valvassini dal seguito raccogliticcio, pronti a
trasferire le proprie sbarrate insegne dall'uno all'altro
campo.
Il punto è che dall'ormai remoto 6 dicembre 2017 l'Italia ha un
ministro degli Esteri diafano. Nei fatti a gestire la politica estera
sono il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni Sivieri, già titolare
della Farnesina, e, per alcune partite nevralgiche (come quella
“libica”) il ministro dell'Interno, Minniti, e, in second'ordine,
quello della Difesa, Pinotti, in specie per quanto concerne le missioni
militari all'estero, dai profili sempre più intricati (è il caso del
Niger), e comunque potenzialmente esplosivi (come in Libano).
La Carta costituzionale è molto sobria sulla figura dei ministri,
nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del presidente del
Consiglio, a sua volta investito dal Capo dello Stato (art. 92). In
linea con il Regio Decreto di Vittorio Emanuele III (14 novembre 1901,
Governo Zanardelli-Giolitti), il presidente del Consiglio “dirige la
politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene la unità di
indirizzo politico ed amministrativo promuovendo e coordinando
l'attività dei ministri” che sono “responsabili collegialmente degli
atti del Consiglio e individualmente degli atti dei loro dicasteri”
(art. 95).
Due mesi dopo l'uscita di Alfano dalla scena politica (ma non dal
governo) alcune domande attendono risposta urgente. Prima di dichiarare
che non si sarebbe ricandidato e che non avrebbe assunto ministeri in
un successivo governo (bontà sua, quasi la nomina a ministro dipenda da
chi “s'offre” o addirittura “pretende”: è il caso patetico di Luigi Di
Maio, un Carles Puigdemont all'italiana, che non ha mai letto la
Costituzione), Alfano fece il diavolo a quattro per garantire al suo
micropartito un numero di seggi sufficiente a condizionare qualunque
governo venturo. Vistasi chiusa in faccia la porta da Renzi e scelta
(non per vocazione) la strada dell' astinenza, per coerenza avrebbe
dovuto dimettersi illico et immediate dalla carica poi di fatto
disertata, quasi gli Esteri siano una sinecura, mentre l'Europa è alle
prese con partite vitali, dalla attuazione della Brexit al superamento
della tensione tra Usa e Russia, con le note complesse ricadute
militari ed economiche.
Lo storico futuro avrà da dipanare una matassa intricata quando
affronterà questo caso, che mette a nudo la gracilità del regime
costituzionale vigente, propizio a rinviare decisioni importanti per
non infrangere equilibri instabili. La sostituzione di Enrico Costa da
ministro per gli Affari regionali non fu un dramma perché, dopo tutto,
le competenze del suo dicastero non erano di primaria grandezza.
Altrettanto avvenne per viceministri e sottosegretari nei recenti
governi. Ma gli Esteri? Sono caposaldo nevralgico dello Stato. La
sostituzione di Alfano avrebbe certo comportato un regolamento di conti
politici che né Gentiloni né Renzi erano in grado di affrontare. Così
rimase dov'era. A fare che cosa? Una ferita troppo a lungo aperta può
degenerare in cancrena. Nessuno dice (o sa dire) quando questa verrà
sanata. Infatti, salvo eventi straordinari, Alfano potrebbe restare in
carica non solo sino alle elezioni del 4 marzo, ma fino alla formazione
di un nuovo governo: un appuntamento dalla data imprevedibile. E se,
per tanti e comprensibili motivi che lasciamo tra parentesi, Gentiloni
dovesse durare sino all'autunno, se non oltre, quando effettivamente
Alfano decadrebbe da titolare degli Esteri? Sotto il profilo
strettamente istituzionale non si intravvede né il momento né il
“motivo” della sua decadenza, perché per sedere al governo non è
affatto necessario essere parlamentare. La storia d'Italia è
punteggiata dal rinvio di decisioni, per le ragioni più disparate. A
volte è saggio, a volte no. Di sicuro gli Esteri non possono rimanere
come sono. Non è un problema di coalizioni, di partiti. E' una
questione di Stato, cioè di serietà.
Perciò è lecito attendersi che, di sua scelta o... “spintaneamente”
Alfano sciolga il nodo e lasci la Farnesina, affinché il governo torni
nella pienezza della sua configurazione e dell'esercizio dei poteri da
parte dei titolari dei ministeri chiave. Ad Alfano, del resto, non
mancheranno altre occupazioni (e preoccupazioni). “I
ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti per i reati
commessi nell'esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione
ordinaria” (art. 96).
Aldo A. Mola
LO SCRICCHIOLIO DELLE ISTITUZIONI
L'Associazione di studi storici intitolata a Giovanni Giolitti, massimo
statista della Nuova Italia, dedica la propria attenzione al passato
non per feticismo agiografico ma per trarne motivo di riflessione sul
presente, in linea con la più alta tradizione della storiografia
italiana. Gli interrogativi sollevati, nella Nota allegata, da Aldo G.
Ricci, sovrintendente emerito dell'Archivio Centrale dello Stato,
investono il cuore dello Stato d'Italia. Il Paese che agli Esteri contò
Emilio Visconti Venosta, Francesco Crispi, Antonino Paternò Castello
marchese di San Giuliano, Alcide De Gasperi, Gaetano Martino non può
essere rappresentato da mesi e per chissà quanto ancora da un fantasma,
qual oggi è l'on. Angelino Alfano, se non con gravi e irreversibili
danni. Lo si vede dalla vicenda dell'Agenzia Europea del Farmaco, che
vede impegnato direttamente Palazzo Chigi, nel silenzio della
Farnesina. Parimenti, è deplorevole che il dottor Pietro Grasso,
presidente del Senato e quindi seconda carica dello Stato, chiamata ad
assumere il potere supremo in caso di impedimento, morte o dimissioni
del Presidente della Repubblica, si erga da mesi a capo-fazione, per di
più di un partito schierato all'opposizione nei confronti del governo
in carica.
Questa anomalia non è superata dal silenzio, dalla scaramantica
speranza che un evento non irrompa mettendo a nudo i rischi ai quali è
esposto il regime costituzionale. Esso si rivela vulnerabile per i modi
nei quali esso viene interpretato e vissuto: per la sua storia in
fieri. Ed è di questa che si occupa la ASSGG, aprendo il dibattito sul
Comunicato della Consulta dei senatori del regno e sulla Nota di Aldo
G. Ricci. Cogliere per tempo lo scricchiolio delle istituzioni non
significa affatto augurarsene lo schianto: vuol dire, invece, non
voltarsi dall'altra parte dinnanzi al pericolo incombente.
31-1-2018
Aldo A. Mola
POLITICA ESTERA CON O SENZA
MINISTRO TITOLARE?
di Aldo G. Ricci
Il Parlamento ha appena votato una
missione militare in Niger regolarmente trattata con il governo di quel
Paese e dalla radio pubblica francese una fonte ufficiale non meglio
precisata del governo nigerino afferma che il suo governo non è stato
consultato in proposito e che sono più che sufficienti gli aiuti
americani e francesi. Una dichiarazione imboccata, perché i francesi
non ci volevano in quel Paese sotto la loro influenza, ma ci volevano,
pare, in Mali.
A questa invasione di campo, chi
risponde? Fonti della Farnesina. E già, perché non si sa più se
l’Italia abbia ancora un ministro degli Esteri. Diverse settimane fa,
infatti, il ministro Alfano, di fronte alla disintegrazione del suo
partito (metà a destra e metà a sinistra), nato più da esigenze
ministeriali che da ideali politici, ha annunciato la sua intenzione di
ritirarsi dalla politica e di tornare alla professione
forense.
Saggia decisione. Peccato che non sia
stata seguita dall’annuncio delle sue dimissioni da un ministero
cruciale per la vita nazionale, con la conseguente nomina di un
sostituto o, visti i tempi delle prossime elezioni, l’assunzione
dell’interim da parte del Presidente Gentiloni.
Niente di tutto questo, per cui la
poltrona della Farnesina è vuota senza che nessuno, da Gentiloni a
Mattarella (stampa compresa) se ne sia accorto o abbia sollevato il
problema. A dimostrazione che nel nostro Paese la politica estera è
così importante che si può tranquillamente prescindere dalla nomina di
un titolare della stessa.
Ma questa è solo una delle tante
anomalie di queste settimane che ci separano da un voto tanto
importante quanto desolatamente privo di prospettive di stabilità e
progresso.
Si dà il caso infatti che la seconda
carica dello Stato, il Presidente del Senato Pietro Grasso, che tale
resterà fino alla nomina del suo successore, che già aveva abbandonato
il partito che lo aveva eletto a quella carica (il PD) senza, pare,
saldare i conti dei contributi dovuti al partito dagli eletti in quelle
liste, ha scoperto improvvisamente la vocazione a leader politico di
una nuova formazione (Liberi e uguali) di sinistra-sinistra,
di cui si sentiva disperatamente la mancanza.
E’ difficile rientrare tra i ranghi dopo
anni di protagonismo istituzionale. Peccato che questa improvvisa
vocazione iperpolitica, dopo anni di magistratura impegnata e di
notabilato, avvenga conservando la carica di Presidente del Senato
(ancorché sciolto, sempre in essere) e cioè della persona che, nel caso
di impossibilità del Presidente della Repubblica, Mattarella, si
troverebbe a svolgerne le funzioni nel delicatissimo passaggio
elettorale.
C’è di più. Nel caso di impossibilità
dello stesso Grasso, la funzione verrebbe attribuita alla Presidente
della Camera, Laura Boldrini, anch’essa, a scadenza di mandato,
richiamata irresistibilmente alla lotta politica nella stessa
formazione estrema (Liberi e uguali) che ora porta nel suo simbolo il
nome di Grasso, a cui la stessa Boldrini contende in qualche modo (con
scarso successo finora) il ruolo di leader della formazione. Due prime
‘donne’ in una neonata formazione dove i fili sono tirati da vecchi
reduci della politica, ma che offre a Liberi e uguali i lustrini della
seconda e della terza carica dello Stato.
E’ una situazione davvero paradossale,
più da pochade che da vita politica di un paese democratico. Una
situazione in cui una anomalia di questa portata viene tollerata nel
silenzio assordante sia della politica che della stampa che, pur
sollecitata a sollevare il problema, se ne è ben guardata o per
compiacenza o per aver ormai perso la bussola delle compatibilità
istituzionali.
Il politico è quello che dà la
precedenza agli interessi del partito su quelli dello Stato. Lo
statista è quello che, al contrario, dà la precedenza agli interessi
dello Stato su quelli del partito. Qui non abbiamo più né l’uno né
l’altro. Solo interessi, ambizioni, gelosie e beghe personali in una
prospettiva di nebbia fitta per il Paese.
Chi dovrebbe parlare tace, nella
speranza che la bufera passi senza troppi danni. Ma la ferita è
profonda e non bastano i discorsi accorati di richiamo al voto e alla
solidarietà nazionale per rimediare a questi guasti.
Aldo G. Ricci
L'EDITORIALE LA RUOTA DELLO STATO MACINA OLTRE
I REGIMI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 28 gennaio
2018, pagg. 1 e 11.
“La
verità è che quando il fascismo arrivò al governo, delle antiche
istituzioni parlamentari non rimaneva più che l'apparenza esteriore.
Nella sostanza esse erano state distrutte, e vi si era sostituito una
specie di direttorio, composto dai delegati dei gruppi (parlamentari),
cioè la più anarchica tra tutte le forme di governo. In quanto dunque
il fascismo riconsacrò l'idea di Patria e restaurò l'autorità dello
Stato, i fini da esso raggiunti coincidono con quelli a cui
dedicai tutta la mia esistenza politica”. Lo scrisse Vittorio Emanuele
Orlando, il “presidente della Vittoria”, monarchico, liberale, “pater”
della rinascita post-fascista e punto di riferimento di ambienti
mafiosi secondo Tommaso Buscetta e altri (lo ricorda Riccardo
Mandelli in “I fantastici 4 vs Lenin”, Ed. Odoya). Era il 2
aprile 1924, quattro giorni prima della straripante vittoria del
Partito Nazionale Fascista alle elezioni, in cui ottenne il 66% dei
voti. “Il fascismo sorse come protesta contro un eccesso di violenza
sovvertitrice della vita nazionale. Il senno e l'intuito del Capo dello
Stato (Re Vittorio Emanuele III) risparmiarono una guerra civile, le
cui conseguenze sarebbero state gravissime. Mussolini (il 31 ottobre
1922) costituì un ministero che raccoglieva i rappresentanti di tutti i
partiti costituzionali e nulla rinnovò negli ordinamenti costituzionali
dello Stato. Mussolini, pur facendo al partito (fascista) larghe
concessioni, voleva ottenere dal Parlamento la legalizzazione del fatto
compiuto”. Lo dichiarò il 3 aprile 1924 Enrico De Nicola, futuro primo
presidente della Repubblica. Sono frasi da rileggere e meditare quando
si parla, talora a sproposito, di fascismo e di regime fascista come un
“continuum” nato, cresciuto e concluso secondo un percorso
logico-cronologico uscito dalla mente del duce come Minerva da quella
di Giove. La realtà storica è del tutto diversa. Il fascismo fu prima
movimento, poi partito. La sala a piazza San Sepolcro in Milano per la
prima sortita di Mussolini, il 23 marzo 1919, venne procacciata da
Cesare Goldmann, ebreo e massone. Orlando, De Nicola e una lunga serie
di liberali, democratici ed ex esponenti del partito popolare (cioè dei
cattolici) nel 1924 affollarono la Lista Nazionale e giudicavano il
fascismo non su quanto sarebbe avvenuto in un futuro ancora del tutto
imprevedibile, ma sulla base di quanto avevano sotto gli occhi: la
restaurazione dello Stato dopo anni di guerra civile strisciante,
intrapresa da chi voleva “fare come in Russia”, cioè annientare le
istituzioni uscite vittoriose dalla Grande Guerra (corona, forze
armate, “borghesia”...).
La vera storia del regime fascista non è quella raccontata in discorsi
di circostanza. Il 1922-1924 non contiene né le leggi speciali
(iniziate con la caccia ai massoni nel 1924-1925), né il
1938, le leggi razziali, il patto d'acciaio e quel che ne seguì. La
storia procede a segmenti discontinui e va capita seguendola passo
passo, non partendo dalla sua fine. Fluisce come immenso fiume gonfio
di acque limpide e detriti, di carogne e sabbie aurifere. Non chiede né
sentenze, né giustificazioni, ma cognizioni e comprensione, in una
visione di lunga durata e con la comparazione degli eventi di un paese
con quelli coevi degli altri Stati, almeno i propinqui.
E' il caso dell'Italia tra il 1919 e il 1946. Ne scrive Guido Melis,
autorevole studioso delle istituzioni politiche e della storia
dell'amministrazione pubblica, nell'importante volume “La macchina
imperfetta”, sintetizzato dal sofferto sottotitolo: “Immagine e realtà
dello Stato fascista” (ed. il Mulino).
Sulla scorta di decenni di studi severi studi l'autore chiarisce tre
“fatti” fondamentali. In primo luogo, contrariamente a quanto
solitamente si ritiene, quando venne nominato presidente del Consiglio
Mussolini utilizzò largamente la dirigenza esistente (monarchica,
liberale, democratica, riformista...) in tutti i settori fondamentali:
dalla diplomazia alle forze armate, dalla giustizia all'istruzione e
all'economia. A quanto egli scrive potremmo aggiungere un elenco
lunghissimo di antifascisti notori chiamati dal duce al governo e al
vertice dei gangli vitali dello Stato. Altrettanto avvenne ai vertici
dell' “impresa Italia” (banche, grande industria,
commercio...) e dell'Istituto per la Ricostruzione Industriale affidato
al massone Alberto Beneduce. Inoltre Mussolini ridusse il partito a
succedaneo dello Stato e la Milizia a “dopolavoro” del partito, libera
di celebrare i suoi riti chiassosi (come il giuramento di fedeltà “a
Dio e alla Patria”, ignorando il Re), ma senza effettivo potere
politico e militare, come si vide nell'ora decisiva, il 25-26 luglio
1943, quando essa risultò evanescente. Infine Melis affronta la “vexata
quaestio”: il rapporto tra la monarchia e il fascismo, concretamente
tra Vittorio Emanuele III e Mussolini. Al riguardo non aggiunge molto a
quanto noto e conclude che durante il regime l'Italia fu una diarchia
“piuttosto di fatto che di diritto”, giacché, tratte le somme, il
potere apicale rimase nelle mani del sovrano. A chiarimento ulteriore,
occorre spazzare via uno degli equivoci perduranti su un nodo centrale
del “ventennio” (che poi fu un quindicennio:1928-1943). Il
Gran Consiglio del Fascismo, istituito con la legge 9 dicembre 1928, n.
2693, non ebbe e non esercitò alcun potere effettivo sulla Corona né,
meno ancora, sulla successione al trono. Esso era tenuto a “esprimere
il parere su tutte le questioni aventi carattere costituzionale”, tra
le quali le “proposte di legge concernenti la successione al Trono, le
attribuzioni e le prerogative della Corona, i rapporti tra lo Stato e
la Santa Sede” e doveva anche tenere “aggiornata la lista dei
nomi da presentare alla Corona in caso di vacanza per la nomina a Capo
del Governo”. Il Gran Consiglio, dunque, non ebbe alcun vero controllo
sulla successione, ma solo il “dovere” di formulare un “parere” (la
legge non precisò se vincolante) su disegni di legge: la differenza è
enorme, anche se troppi storici (inclusi parecchi “monarchici” ) non
l'hanno né compreso né spiegato nei loro libri e/o dalle cattedre.
Melis dedica un robusto capitolo a “lo Stato totalitario e lo Stato
razzista”, cioè alla crisi profonda aperta in Italia dal 1938,
pesantemente condizionata dall'annessione dell'Austria da parte della
Germania di Hitler, confermata da entusiastico plebiscito nell'inerzia
afona di Francia e Gran Bretagna. In quel drammatico contesto,
Mussolini intraprese l'offensiva contro la monarchia utilizzando anche
le leggi razziali, che avevano innumerevoli e fervidi sostenitori nel
mondo cattolico e nelle sinistre (Lenin, Stalin, il Partito comunista
d'Italia...) che da mezzo secolo marchiavano a fuoco il complotto
“giudaico-massonico”.
Tra i fautori di quelle leggi vi fu Giuseppe Bottai, il “fascista
critico”, una cui frase Melis ricorda quale lapide tombale sul
“regime”: “Guardo questo irresponsabile (un ufficialetto sedentario al
ministero della Guerra) fatto responsabile da questo meccanismo
d'irresponsabilità in cui ci siamo cacciati”. Era il 17 novembre 1940.
L'Italia stava perdendo l'offensiva contro la Grecia (una tra le
decisioni militari più stolte di Mussolini). Ma, oltre che volatile in
loggia, dov'era stato Bottai dal 1922? Non erano suoi la Carta della
Scuola e la retorica del corporativismo e “Primato”?
Melis ha il merito di documentare che il governo Mussolini fece fuoco
con la legna che si trovò a disposizione: i funzionari forgiati nei
decenni precedenti, non solo con la regia di Giovanni Giolitti ma sin
da Francesco Crispi e prima ancora. La dirigenza di un Paese non si
improvvisa. I prefetti dell'età mussoliniana (1922-1943) erano a
servizio dello Stato da fine Ottocento. Lo stesso vale per élites
militari (Melis ne scrive in “fascio e stellette”), diplomatici,
docenti universitari, scienziati, come Guglielmo Marconi e per tanti
componenti dell'Accademia d'Italia.
Lo stesso del resto avvenne dopo il 1946, cessato il “tempo del furore”
alimentato da partiti vendicativi e in gran parte intrinsecamente
antinazionali, acremente critici nei confronti dell'unità nazionale,
dell' “idea di Italia” (neoborbonici, neopapisti e neoasburgici ora
dilaganti sono solo paleogramsciani in confusione). Il miracolo
economico fu opera di una dirigenza che arrivava dagli Anni Trenta,
animata da un alto senso dell'interesse pubblico.
Dall'opera meritoria di Melis emerge anche la
differenza profonda tra l'Italia monarchica e l'attuale. Piaccia o
meno, fu Vittorio Emanuele III a imporre a Mussolini le dimissioni da
capo del governo e a incaricare il nuovo capo dell'esecutivo. Fu il Re
a prendere sulle spalle il peso della richiesta di resa incondizionata
per sottrarre l'Italia a sciagure peggiori. Il sovrano decise in
solitudine, e sin dal 1941 come poi scrisse nella “memoria” a difesa
del ministro della Real Casa, duca Pietro d'Acquarone. Fu il punto di
arrivo di un lungo processo, fondato, tra altro, su un caposaldo della
monarchia costituzionale sabauda: l'esclusione del Principe ereditario
da qualsiasi responsabilità nelle decisioni del sovrano in carica
perché “si regna uno per volta”, così come la Repubblica ha un Capo
dello Stato per volta. Sui motivi dell'esclusione del principe Umberto
dalle scelte politiche del padre sono state scritte insinuazioni di
sapore anche scandalistico. Al netto delle chiacchiere, resta che David
è David ed esclude che da qualche parte s'infratti un
Assalonne (Antico Testamento, Secondo libro di
Samuele,16-18). La monarchia sabauda non ha mai derogato alle regole
della Casa. In Repubblica, invece, il potenziale “principe ereditario”,
cioè il presidente del Senato, chiamato ad assumere le funzioni di Capo
dello Stato in caso di impedimento permanente o di morte o di
dimissioni del Presidente, si erge ad Assalonne e assume la guida di un
partito politico, addirittura di opposizione al governo in carica. E lo
sbando delle istituzioni. Se per sciagura dovesse affrontare una crisi
vera, come ne uscirebbe questa Italia? La Spagna lo sta facendo perché,
a fronte della pochezza antistorica degli indipendentisti catalani, fa
perno su Filippo VI di Borbone, cioè sulla monarchia, tutt'uno con
l'unità di quel Paese. Qual è invece lo Stato d'Italia mentre Pietro
Grasso e la presidente della Camera, Laura Boldrini, fanno campagna
elettorale? Qualcuno osserverà che anche in passato i presidenti delle
Camere si concessero qualche discorso elettorale: ma non strizzavano
l'occhio a forze anti-sistema né erano “all'opposizione”. L'Italia
odierna ha due paradossi clamorosi: un ministro degli Esteri non
dimissionario ma da mesi scomparso dalle scene (a quando una
spiegazione, presidente Gentiloni?) e la solitudine del Presidente
della Repubblica, Sergio Mattarella, un David che si prodiga in
quotidiane presenze sulle trincee più disparate. Porta sulle spalle il
“brut fardel” dello Stato, come Vittorio Emanuele II definì il peso
della Corona in un Paese giovane, che solo in questo 2018 ricorderà il
centenario della sofferta Vittoria del 4 novembre 1918. Non fu “inutile
strage” ma coronamento del Risorgimento, la grande prova dell'unità
nazionale in un'Europa al collasso. Perciò è l'ora di “stringersi a
coorte” e di andare alle urne per difendere il patrimonio comune degli
italiani, l'Unità nazionale, uno Stato che macina storia al di là dei
regimi che vi si sono susseguiti nel tempo.
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 21 gennaio 2018,
pagg. 1 e 11.
Essere Capitale italiana della cultura
almeno per un anno vale molto più del sussidio di un milione di euro
erogato una tantum a sostegno del bencapitato. Comporta di avere alle
spalle un Passato alto e sofferto, di esserne consci e farlo valere.
Significa ergersi a simbolo di un'Italia che fu ed è emblema non solo
dell'Europa odierna, via via arroccata sui crinali alpini e sempre più
arretrata a nord, ma, qual era, Signora del Mediterraneo.
Della grande storia è esempio fulgido Casale Monferrato, che, alla
stretta finale, è rimasta con Merano e Treviso l'unico comune aspirante
a capitale italiana della cultura 2019 dell'immensa area comprendente
le regioni augustee Liguria, Transpadania e Venezia-Istria. Casale
Monferrato ha dunque una grossa responsabilità, anche perché deve
vedersela con tre “portaerei” quali Piacenza, Parma e Reggio
nell'Emilia, antiche e gloriose, forti di un patrimonio artistico di
fama europea e di risorse economiche possenti. Lo stesso varrebbe per
Agrigento, la cui nomea, però, non è legata solo alla Valle dei Templi
e a Luigi Pirandello ma anche a misere pastette che ne offuscano il
nome e la fama. Nuoro e Macerata avranno i loro legittimi
fautori. La candidatura di Casale ha valore del tutto diverso rispetto
a quelle di Bitonto, che è una variante minore della storia di Bari,
come Treviso lo è di Venezia.
Casale evoca la complessità della storia d'Italia, oggi meno ricordata.
La sua candidatura fa passare in sottordine le precarietà del
Monferrato odierno, l'intrico di linee ferrate in parte declassate e
quasi in disuso, di strade colleganti a fatica borghi minori, di
castelli e torri che si ergono come altrettanti punti interrogativi e
ci domandano se siamo alla loro altezza. La designazione di Casale
rinverdisce la memoria del marchesato aleramico, poi dei Paleologhi (da
Teodoro I a Giangiorgio, morto nel 1533) per via delle nozze tra
Iolanda e l'imperatore di Bisanzio Andronico Paleologo. Nel Monferrato
(sia il Basso, che è nord, mentre l'Alto è a sud: lo ricordiamo per chi
non abbia dimestichezza con il Vecchio Piemonte) continua a esalare il
sentore del mare, quasi l'Adriatico ancora lo lambisca. Lo attestano i
fossili affioranti rasoterra. Sarà per quel richiamo al Mediterraneo
che Guglielmo di Monferrato andò in Terra Santa con Federico Barbarossa
(morto per via), Riccardo Cuor di Leone e altri Capitani cristiani di
prim'ordine, Vi venne ucciso da Altair, della setta degli assassini
(consumatori di hasish, eccitante per le imprese suicide). Suo figlio,
Corrado, fu incoronato re di Gerusalemme: confidava nei Templari, quale
volano della cristianizzazione e baluardo contro la riscossa degli
islamici.
Di quei secoli rimaneva memoria quando nel 1435 la capitale del
marchesato fu trasferita a Casale da Chivasso, troppo esposta alle
incursioni dei nemici, i Savoia da un canto, Milano dall'altra (i
Visconti prima, gli Sforza poi). I suoi Signori però non riuscirono mai
a dare continuità territoriale al loro Stato, conglomerato di acquisti
(Acqui nel 1345), Alba (1369) e una intricata serie di possedimenti
nominalmente inglobati e impegnati in un logorante tiro alla fune per
rivendicare privilegi ed esenzioni (da tributi, dal fornire contingenti
militari...).
Nel 1533 il Monferrato venne conteso tra Federico II Gonzaga, duca di
Mantova, e il pari grado Carlo II di Savoia, che a proprio favore
vantava il rango di Vicario imperiale, unico in Italia. A deciderne la
sorte fu l'imperatore Carlo V d'Asburgo, che lo assegnò al Gonzaga, i
cui successori, però, da Federico III a Vincenzo II, non mostrarono
alcun attaccamento alle sue sorti. Il Monferrato fu al centro della
lunga guerra tra Carlo Emanuele I di Savoia e i suoi alleati da un
canto (gli Asburgo di Spagna e d'Austria) e la Francia di Luigi XIII
(meglio, del cardinale Richelieu) dall'altro. Il conflitto, col seguito
di scorrerie e di epidemie di peste, non venne chiuso con la pace di
Cherasco (1631), che tuttavia al duca di Savoia fruttò Alba, Trino e
un'ottantina di “terre”. I Gonzaga-Nevers, succeduti in Mantova nei
diritti sul Monferrato, governarono pessimamente i possedimenti
residui, sino all'opaco Ferdinando Carlo, che si spinse a vendere a
Luigi XIV di Francia la cittadella di Casale (1681), fortificazione
chiave sulla linea Vercelli-Mortara-Alessandria da una parte,
Torino-Alessandria-Genova dall'altra. Carlo Ferdinando Gonzaga-Nevers
fece di peggio: nel 1701, all'inizio della guerra europea di
successione sul trono di Spagna, cedette alla Francia tutti i suoi
domini. Dichiarato fellone dal Sacro romano imperatore, fu spogliato di
ogni diritto. Mantova divenne dominio degli Asburgo d'Austria, che la
tennero sino al 1866, quando dovettero cederla a Napoleone III che la
consegnò a Vittorio Emanuele II, re d'Italia. Sconfitti i francesi che
assediavano Torino (1706), il duca Vittorio Amedeo II di Savoia acquisì
il Monferrato (1707), che gli venne riconosciuto con la pace di
Raastadt nel 1714, come Alessandria, elevata a piazza militare
orientale strategica del neonato Regno di Sicilia (1713-1719, poi di
Sardegna), come ricorda il generale Oreste Bovio in “Dal Piemonte
all'Italia. Tre secoli di storia militare” (Bastogi). La Cittadella lo
attesta ancora.
Al centro di piana fertile e circondata da terre di vigneti, Casale
beneficiò della propinquità con distretti economicamente rilevanti. Era
il caso di Passerano-Cocconato-Primeglio, i cui signori battevano
moneta e nel Settecento dettero il primo illuminista italiano di rango
europeo, costretto all'esilio.
La città conobbe una possente fioritura di edifici ecclesiastici e
civili che si aggiunsero a monumenti famosi, come la Cattedrale,
attribuita a Liutprando, re dei Longobardi (742) consacrata da papa
Pasquale II (1106), eretta a cattedrale da papa Sisto IV, scempiamente
ammodernata a inizio Settecento ma successivamente restituita al decoro
originario, quando ne fu vescovo Nazari di Calabiana, elevato a Collare
dell'Annunziata, “cugino del Re”.
Proprio durante l'età di monsignor Calabiana ,Casale ebbe ruolo di
spicco nella storia d'Italia. Il 31 agosto 1847 vi venne celebrato il V
Congresso Agrario con la presenza di delegati da Genova, Torino,
Piacenza, Milano, Parma.... Era la variante “agricola” dei Congressi
degli Scienziati Italiani promossi da Luciano Bonaparte, principe di
Canino, svolti nel decennio precedente: una cospirazione liberale alla
luce del sole. Aperto con la messa alle 7 del mattino, il Congresso
culminò con la lettura del messaggio inviato da Carlo Alberto al conte
Cesare Trabucco di Castagneto, che ne dette lettura: “Se mai Dio ci
farà la grazia di poter intraprendere una guerra d'indipendenza, io
solo comanderò l'Armata e allora farò per la causa guelfa quel che
Shamil fece contro l'immenso impero russo”, la guerra di liberazione.
Contro l'Austria. Contro tutti gli stranieri. Era la guerra che Carlo
Alberto intraprese col Tricolore italiano e con il Canto Nazionale,
scritto da padre scolopio Atanasio Canata. I congressisti accolsero
l'annuncio con applausi scroscianti. I moderati (Filiberto Avogadro di
Colobiano, Lorenzo Valerio, Pier Dionigi Pinelli...)
anticiparono i democratici come Giovanni Lanza e Filippo Mellana. Tutti
si ritrovarono poi fianco a fianco nella guerra per l'indipendenza dal
marzo 1848 al tragico 24-25 marzo 1849 quando, dopo la
“brumal Novara”, Casale si batté contro il maresciallo
austriaco Wimpffen per non essere messa sacco con i brutali
metodi usati dalla soldataglia nemica. Riscattare il regno dalle
pesanti clausole armistiziali imposte dal maresciallo Radetzky a
Vittorio Emanuele II divenne subito l'obiettivo prioritario, come
ricorda Antonella Grimaldi nel documentata “Storia di Casale
Monferrato dal V Congresso Agrario del 1847 al 1849” pubblicata dal
Centro Studi Piemontesi.
Anima della riscossa del Piemonte fu il pragmatico Urbano Rattazzi, che
in lunghi confidenziali colloqui raccolse il pensiero di Carlo Alberto
in Oporto nel luglio 1849. Casale ricorda quei giganti della storia con
altrettanti monumenti, tra i quali il più curioso è forse proprio
quello di Carlo Alberto, vestito come antico romano, come fosse Marco
Aurelio in Campidoglio, mentre austeri e pensosi sono Filippo Mellana.
Giovanni Lanza, Luigi Canina (archeologo insigne, sepolto in
Santa Croce a Firenze),Urbano Rattazzi (opera di Leonardo
Bistolfi) e G. A. Ottavi, principe degli agronomi italiani.
Antica, maestosa, aristocratica capitale del Monferrato e sintesi della
travagliata storia d'Italia, Casale dette i natali a personalità
memorabili, specialmente a scienziati (come Ascanio Sobrero, inventore
della nitroglicerina, moralmente superiore a Nobel che dalla dinamite
trasse lauti profitti ) e a militari, come il colonnello De
Cristoforis, caduto a Dogali (Eritrea). Tra le figure di
casalaschi sulle quali la storiografia italiana (sempre in ritardo e
sempre con lunga coda di paglia...) è chiamata a riflettere bastino due
personalità dalle vicende drammatiche: Ugo Cavallero,
massone, maresciallo d'Italia, “suicidato” da Kesselring a Frascati nel
settembre 1943 perché rifiutò di assumere il comando di un esercito
subordinato ai tedeschi, e Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon
(1884-1959), quadrumviro della cosiddetta “marcia su Roma”, monarchico,
artefice del rovesciamento di Mussolini. Ne ha scritto il figlio,
Giorgio, in “Diari, 1947-1949” (ed. Dedalo, Roma).
Casale ha dunque tutti i numeri per ergersi a capitale italiana della
cultura, in specie dell'Italia settentrionale di Augusto. Chi è rimasto
tagliato fuori dalla gara deve domandarsi quale storia voglia
rappresentare: pochi anni in pochi chilometri quadrati o l'ambizione di
chi dal Piemonte visse la storia dell'Italia Mediterranea?